Il Poeta di Marmo: Ariosto metafisico, magista, modernista, mussoliniano

Il 24 giugno del 2024, in occasione del convegno Cantiere Ariosto 2 organizzato da Martina Dal Cengio, Chiara De Cesare, Nicole Volta ed Emilio Russo, ho avuto l’opportunità di presentare a colleghe e colleghi le mie ricerche sulla vita postuma di Ariosto nel primo Novecento italiano. Si trattava di ricerche appena pubblicate in inglese, nella monografia Ariosto in the Machine Age (Toronto 2024), ma di cui non avevo ancora mai parlato pubblicamente in italiano. Il testo che segue è, con minimi aggiustamenti, quello che ho pronunciato alla Sapienza quel pomeriggio. Rimando alla monografia e a un paio di altri miei studi [1] per ulteriori approfondimenti, e ringrazio le organizzatrici e l’organizzatore del convegno per la straordinaria esperienza di homecoming.

Alessandro Giammei
Eugene (Oregon), settembre 2024

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Non sto qui a dirvi cosa significhi per me parlare per la prima volta della mia ricerca nell’ateneo in cui mi sono formato dai diciotto ai ventitré anni, e in cui ho letto per la prima volta Ariosto — credendomi però, allora, quel che chiamavo ‘un novecentista puro’. Non dirò che sono emozionato perché, a quanto mi risulta dal mitico portale amministrativo ‘Infostud’, tra queste mura ho sostenuto addirittura cinquantadue esami e dunque mi pare che sarebbe inelegante drammatizzare. Dirò però che è dolce parlare in italiano di un progetto che sì, è nato come tesi di perfezionamento in Italia e in italiano sulla ‘fortuna’ di Ariosto nel Novecento, ma che quasi dieci anni fa mi ha portato negli Stati Uniti dove, mentre cercavo di spiegarne il senso a colleghi, studenti ed editori, si è trasformato (con molta fatica) in una monografia in inglese che, se dovessi candidarmi all’abilitazione scientifica nazionale, mi metterebbe in difficoltà rispetto alla nostrana mitologia dei ‘settori scientifico disciplinari’.

In inglese la parola ‘fortuna’, nell’accezione che ha assunto negli studi umanistici nella nostra lingua e che dà il titolo a questa sessione d’interventi, non esiste. Nell’ateneo dove sono finito a insegnare si è calcificato semmai il concetto di ‘influenza’, che tuttavia, sebbene sia in fondo assai petrarchesco e solo superficialmente psicanalitico, non significa proprio la stessa cosa. Il mio primo imperativo d’ariostista-novecentista trasmigrato negli Stati Uniti è stato dunque quello di tradurre quel che intendevo con ‘fortuna di Ariosto nel Novecento’ in un sistema di valori scientifici, didattici e culturali completamente diverso — e, come mi hanno insegnato i miei studi di filologia moderna qui al terzo piano della Sapienza, ogni atto di traduzione è in realtà una radicale trasformazione, anche e soprattutto di chi si azzarda a compierlo. In questa avventura ho avuto il vantaggio di aver studiato alla Sapienza con Biancamaria Frabotta, che mi ha addestrato a diffidare da quel che Foucault chiamava «il consolante gioco dei riconoscimenti» (a non accontentarmi, per così dire, delle evidenze strette dell’intertestualità), e con Giulio Ferroni, che aveva da poco firmato un sestante su Ariosto in cui, nella sezione dedicata appunto alla ‘fortuna’, intimava di «evita[re] comunque di spigolare tra le molteplici citazioni dell’Ariosto riscontrabili nella letteratura del Novecento». D’altro canto di studi sugli infiniti moderni riferimenti ad Ariosto, da Carducci a Camilleri, sono piene le riviste, e una monografia che ne organizza i principali snodi è uscita, per le cure di Sonia Trovato, poco dopo il mio perfezionamento. A me, da giovane studioso alle prime armi, colpiva di più l’erudita spregiudicatezza di Stefano Jossa, che già all’epoca mostrava che capire Ariosto dalla specola del contemporaneo poteva significare anche inseguire il fantasma di Elvis Presley in Tennessee, con Nicoletta Braschi e l’edizione del Furioso Garzanti sotto il braccio, guardando non alla lettera del testo filmico ma alla struttura e alla poetica postmoderna di Mystery Train di Jim Jarmusch.

Su consiglio della mia assai ariostesca relatrice, Lina Bolzoni, decisi risolutamente che non avrei nemmeno nominato Italo Calvino nella mia tesi, che non avrei studiato i già studiatissimi travestimenti del Furioso ad opera di Edoardo Sanguineti e Luca Ronconi, che non mi sarei occupato di Lampedusa, Pirandello, Svevo, e tutti gli altri protagonisti del Novecento che hanno famosamente letto e citato Ariosto. Mi misi invece sulle tracce di Ariosto medesimo, trattandolo come una rovina, un monumento o addirittura un fantasma, uno spettro, ispirato un po’ dal concetto ferroniano di «condizione postuma» e un po’ dalla hauntology di Jacques Derrida — ma senza rinunciare a un approccio filologico e iconologico al passato che andavo esplorando, un passato che guardava a un più remoto passato per immaginare il proprio futuro. Capii presto che non importa se l’uomo dalle soffici maniche azzurre dipinto da Tiziano nel suo celeberrimo ritratto non è, in effetti, Ludovico Ariosto: importa che, lungo molti secoli, molta gente abbia creduto che lo fosse, e che dunque Massimo Bontempelli lo abbia messo sull’antiporta della sua dimenticata edizione dell’Ariosto minore nel 1916, e che Giorgio de Chirico si sia specchiato in lui nel pietrificarsi, ispirato da una Nietzscheana lettura delle Satire ariostesche, nel monumento vivente del suo autoritratto del 1924.

Non c’è bisogno che dica in questa stanza che il poeta barbuto che ci guarda dal Parnaso di Raffaello non può essere Ariosto, il quale all’epoca della pittura dell’affresco era ancora un drammaturgo e diplomatico di provincia, non ancora degno della compagnia di Saffo e Omero, Petrarca e Dante. Ma non importa se a guardarci dalla parete della stanza raffaelliana, come se sapesse di essere al contempo sul Parnaso (per l’eternità) con gli altri poeti e a San Pietro (in questo preciso momento) con noi, sia Jacopo Sadoleto, o un altro umanista il cui nome non significa più nulla quasi per nessuno fuori dal cerchio della repubblica delle lettere. Quel che conta è che contemplandolo, convinti di guardare l’autore del Furioso, autori e artisti dei secoli successivi si siano sentiti contemporanei di un poeta rinascimentale, scavalcando i paradigmi che la critica moderna ha adottato per leggere Ariosto e raggiungendo, invece dell’armonia, la chiave modernista di un dissonante accordo stravinskiano: la simultaneità.

Partirei dunque dal proporvi un breve resoconto di quel che ho scoperto lavorando alla mia tesi e raffinandola poi, attraverso diversi anni di ulteriori ricerche, nella monografia che ho pubblicato quest’anno. Si tratta di questioni che spero offrano un’interpretazione nuova dell’epoca che, nel titolo del libro, ho chiamato età delle macchine, tradizionalmente raccontata come uno scontro tra avanguardie e ritorno all’ordine, tra le sirene cosmopolite della Parigi modernista e gli imperativi irradiatisi dalla Roma mussoliniana. Simultaneamente, Ariosto in the Machine Age intende offrire anche un’interpretazione di Ariosto e della sua opera come vitali spettri trans-storici, attivi e agenti anche di là dal Cinquecento. In questi anni ho scoperto che l’arte e la letteratura della Scuola Metafisica di Ferrara, e in particolare l’opera dei fratelli de Chirico e di Filippo de Pisis, sono nate a colloquio con l’anomalia architettonica del monumento ad Ariosto in piazza Ariostea; che quell’incontro con la statua ariostesca durante la prima guerra mondiale ha ispirato nei Metafisici una lettura delle Satire e del Furioso nella chiave di un proto-surrealismo italiano che Alberto Savinio definì «fantasia intelligente», e che è alla base della poetica dell’Italie magique indovinata da Contini come alternativa mediterranea all’irrazionalismo del surrealismo francese.

Ho capito inoltre che chi in Italia ha attraversato il Futurismo per assestarsi poi su posizioni più impensierite dal classico, nell’età in cui il classico si deformava in una provincia dell’estetica fascista, era spesso ricorso esplicitamente ad Ariosto per giustificare la propria passione modernista per il passato, come hanno fatto Carlo Carrà, Ferdinando Agnoletti o Corrado Govoni. Analogamente, uno dei più influenti autori del nostro Novecento, Massimo Bontempelli, ha costruito la sua intera opera su un ininterrotto dialogo con Ariosto. Sin dal suo esordio nei primi anni del secolo, Bontempelli ha chiesto direttamente a «Lodovico» «il dono» di raccontare il Novecento come lui aveva indirettamente raccontato il Cinquecento, interpretando poi il proprio ambiguo rapporto col potere fascista sulla base dell’ingrata relazione di Ariosto col potere degli Estensi. Non c’è un’opera di Bontempelli che non si spieghi attraverso Ariosto, di cui è stato anche editore e continuatore, e la sua invenzione più cruciale e fortunata, il Realismo Magico, è direttamente ispirata da una partecipata e lunga lettura dell’Orlando Furioso.

Un’altra cosa che ho scoperto è che, prima di Ronconi, il cinema e il teatro dell’Italia novecentesca hanno provato ripetutamente ad adattare il Furioso per lo schermo e per il palcoscenico, fallendo ma lasciando un ricco e inesplorato archivio di rivelatori tentativi. Sono particolarmente interessanti quelli di Luchino Visconti, che per il Maggio Fiorentino del 1949 ha quasi messo in scena, nel giardino di Boboli, uno spettacolo simile a quello ronconiano in anticipo di due decenni, e quello di Alessandro Blasetti, che nel 1942 coinvolse Alberto Moravia, Giacomo Debenedetti, Sergio Amidei e una dozzina d’altri intellettuali legati al mondo del cinema in uno straordinario laboratorio di sceneggiatura che mostra chiaramente come il Furioso, semplicemente, resista all’esercizio stesso dell’adattamento, rimanendo straordinariamente anti-novecentesco proprio per le ragioni per cui è stato tanto presente nell’arte e nella letteratura del Novecento italiano.

Già nella tesi, infine, un capitolo era dedicato al più grande centenario ariostesco mai celebrato: quello del 1933, nella Ferrara fascista. Dopo il perfezionamento ho avuto modo di tornare a Ferrara diverse volte per scandagliare il ricchissimo archivio di quell’evento, e il capitolo si è espanso fornendo l’essenziale contraltare agli altri casi di ricezione creativa dissotterrati nel libro. Inizialmente mi pareva di dover difendere Ariosto, come critico e storico, dall’abuso delle sue opere, della sua immagine, della sua casa, dei suoi manoscritti ed edizioni (persino del suo sangue e delle sue ossa) da parte dei fascisti. Poi ho scoperto che Ariosto medesimo, a ben vedere, si era già difeso benissimo dalla goffa miopia di un tale episodio della sua fortuna novecentesca, ridicolizzando i fascisti dall’iconografia stessa dei loro affreschi, dall’esito delle loro iniziative e dalla retorica della loro propaganda. Vorrei tornare, alla fine del mio intervento, su questo punto. Ma prima vorrei raccontarvi il caso da cui tutta la ricerca è partita, il caso che raccontai già in questa lingua durante il seminario di letteratura italiana di Lina Bolzoni mentre scrivevo la mia tesi a Pisa.

Cominciamo dunque da piazza Ariostea a Ferrara, dal monumento di Ariosto che già di per sé, nella sua natura totemica di spolia e di palinsesto, è figura delle complicazioni di un approccio diacronico alla vita postuma dei classici. Come molti di voi sapranno, al centro della piazza simbolo dell’addizione erculea si staglia una colonna che Ercole I comprò nel tardo Quattrocento, ma che fu eretta solo un secolo più tardi dagli amministratori dell’età barocca. Dopo aver ospitato la statua di un papa, un’allegoria della libertà, e Napoleone, dal 1833 sulla colonna rinascimentale è stata montata una statua ottocentesca d’Ariosto che ancora sta in piedi lì. Così la trovarono nel 1915, circondata dai fili elettrici del tram, Giorgio e Andrea de Chirico, giovani apolidi nati in Grecia da genitori italiani che, dopo essersi formati in Germania, si erano affermati a Parigi: Giorgio come pittore fondamentale per lo sviluppo del Surrealismo e Andrea, col nome di Alberto Savinio, come musicista preferito di Apollinaire e scrittore pronto a passare dal francese all’italiano. I due si erano arruolati nel regio esercito sostanzialmente per ottenere la cittadinanza italiana, e a Ferrara fecero rapporto in una caserma lungo la stessa strada, in Contrada Mirasole, in cui si ergeva la casa di Ludovico Ariosto, visitata in quegli anni da numerosi Futuristi accompagnati lì dal primo ospite dei de Chirico, Govoni. Ma è il monumento, crocevia di epoche ed estetiche, a sconvolgere i due, come dimostrano le scritture coeve del loro autoctono compagno, Filippo de Pisis, che, nei suoi scritti dell’epoca, racconta continuamente delle loro visionarie visite notturne in piazza Ariostea negli anni ferraresi.

Quel che stupisce è che, nell’economia della pittura di de Chirico, quella piazza è assolutamente sbagliata. Le sue ‘piazze d’Italia’, motivo celeberrimo dell’estetica metafisica, rispondono a un comando orizzontale dettato nientemeno che da Schopenhauer, che in un saggio sulla metafisica del bello aveva invitato i suoi compatrioti a imitare gli italiani che, a differenza dei tedeschi, mettono i loro uomini di marmo su piedistalli bassi, così che sembrino camminare con la folla dei passanti. La verticalità del monumento ad Ariosto in piazza Ariostea sarebbe dovuta dispiacere a Giorgio, che per tutta la sua vita artistica ha ripetuto la citazione da Schopenhauer in numerosi scritti. Al contrario, la sua più celebre passeggiata metafisica per la città di Ferrara, descritta nel seminale saggio-manifesto Arte Metafisica e Scienze Occulte del 1918, culmina in una visione verticale di Ariosto in cima alla sua colonna.

«Ieri, nel pomeriggio passando per una via che s’allunga stretta e fiancheggiata da case alte e scure vidi apparire in fondo una colonna sormontata da una statua che seppi poi essere quella dell’Ariosto. Visto così, tra quelle due pareti di pietra annerata – che parevano muri d’un santuario antico – il monumento assumeva un ché di misterioso e di solenne, e il passante tampoco metaficisizzante si sarebbe aspettato di udire la voce d’un nume vaticinare».

Il saggio è un complesso tentativo di spiegare cosa sia un «fatto metafisico», e propone una teoria della visione secondo cui l’occhio dell’artista è capace di distinguere gli oggetti metafisici da quelli comuni, e di «graduarli», stabilendo una gerarchia di valori intellettuali tra le cose che appaiono quotidianamente all’occhio. La visione di Ariosto è preceduta da una serie di evocazioni di paesaggi ferraresi che Maurizio Fagiolo e altri storici dell’arte hanno associato da tempo ognuna a uno specifico quadro o serie di quadri di quegli anni. Nessuno però ha notato che la destinazione di quella progressione gerarchica di ‘oggetti metafisici’ è il monumento ad Ariosto, né si è domandato se anche quel paesaggio architettonico Ferrarese non sia da associare a un quadro coevo di de Chirico. La mia idea è che lo sia, e che il quadro da sovrapporgli sia proprio il più importante della metafisica italiana dechirichiana: un quadro che già de Pisis (sbagliandone però il titolo) aveva descritto, in una dispersa conferenza viareggina, come una «visione onirica» di piazza Ariostea.

Prima di quel quadro, su cui si è scritta un’infinità di saggi senza mai menzionare Ariosto o il suo monumento, de Chirico non aveva mai organizzato le sue piazze intorno a un elemento verticale. Dopo di esso, oltre a ritrarsi secondo l’iconografia pseudo-ariostesca da Tiziano vista sull’edizione bontempelliana del 1916, cambiò stile, avventurandosi in quella che la critica ha chiamato la sua ‘fase Romantica’ e che io ribattezzerei ‘fase Ariostesca’. Il quadro in questione si chiama d’altronde addirittura Il Grande Metafisico: un appellativo che non esito ad attribuire al poeta in cima alla colonna di marmo. Quel poeta solo un anno prima aveva congedato da Ferrara Savinio, che nel 1917 doveva raggiungere Brindisi in treno e, da lì, imbarcarsi per Salonicco, dove avrebbe servito come traduttore per la marina italiana. In uno dei capitoli del suo primo libro, Hermaphrodito, Savinio racconta l’episodio come un «fenomeno consueto»: «su quella piazza tagliata nell’ordine del quadrante solare, vidi nel mezzo la colonna altissima di marmo; in cima al gambo il poeta avventuroso, vissuto e morto in odor di borghesia». All’improvviso, senza rumore e senza sorpresa, la colonna inizia a flettersi al vento, spezzandosi infine in frammenti che si sciolgono sul prato come fossero di neve. «Il poeta di marmo» ci racconta Savinio «era balzato dallo zoccolo ove troppa la noia dei secoli lo ratteneva, con la leggiadra pirouette d’un fattorino telegrafico che schizza da un tram tutto in corsa». Questo leggero e marmoreo signore poi si sgranchisce, si copre gli occhi dal sole, e si mescola ai passanti perdendosi nella città che Savinio sta salutando. È così che il poeta di marmo è diventato il grande metafisico in barba alle prescrizioni di Schopenhauer: spezzando la verticalità che lo separa dalla modernità e scendendo dal suo vertiginoso piedistallo. Secondo Savinio d’altronde, la missione dell’arte moderna — come ho sentito spiegare per la prima volta qui nelle aule della Sapienza — è proprio quella di far «scendere le statue dagli zoccoli per aggregarle alla nostra compagnia».

Non ho il tempo di mostrarvi come queste epifanie ecfrastiche d’inizio secolo in piazza Ariostea abbiano poi cambiato profondamente la letteratura e la pittura di de Chirico e Savinio tra le due guerre, infestandoli di entrelacement e inchieste, fantasie geografiche direttamente ispirate dalle Satire, e sovrimpressioni di motivi delle Metamorfosi ovidiane su riecheggianti motivi dal Furioso declinati in contesti modernisti. È attraverso gli scoperti segreti ariosteschi dei due Dioscuri della metafisica che Bontempelli, devoto del Furioso sin dalla giovinezza, ha capito come coniugare le avventure cavalleresche a quella che chiamerà L’avventura novecentista — e de Chirico, non a caso, sarà l’illustratore del suo tardo spin-off, amaramente antifascista, del canto VII, in cui Ruggiero, prima di raggiungere l’isola di Alcina, si attarda in un’altra terra transatlantica che funziona come una distopia novecentesca.

Ma per concludere, come promesso, vorrei soffermarmi un momento sul centenario fascista del 1933. Per un lustro Ferrara si è preparata a quel che la propaganda raccontava come «il ritorno di Ariosto» nella sua città, facendo del Rinascimento estense un’alternativa localista al revival imperiale e augusteo degli stessi anni — in uno dei cui titanici prodotti architettonici stiamo tenendo questa conferenza. Lungo quegli anni sono stati restaurati i luoghi simbolo del Quattro- e Cinquecento ferrarese, per la prima volta dotati di elettricità, telefoni e biglietterie. Notabili e scrittori fascisti, celebrità, attori e professionisti sono stati invitati a tenere lezioni su Ariosto di anno in anno, collezionando sparate allucinanti su Ariosto futurista a propria insaputa e Ariosto simpatizzante delle armi da fuoco, sulla diagnostica della follia di Orlando e, naturalmente, su Ariosto precursore di Mussolini. Gli facevano da controcanto gli interventi di studiosi e intellettuali (tra cui, per esempio, Arnaldo Momigliano, che di lì a poco sarebbe dovuto fuggire a causa delle leggi razziali) i quali, esaminando la lettera dei testi, finivano per contraddire la propaganda di regime senza che gli organizzatori se ne accorgessero.

Un caso particolarmente gustoso è quello di Achille Campanile, che la notte di Natale del 1932 prese piuttosto apertamente per i fondelli l’intera iniziativa del centenario imminente, acclamato dagli stessi giornalisti e membri della giunta che stava mettendo alla berlina. Ci sarebbe molto da dire sulla cosiddetta mostra iconografica allestita nella casa d’Ariosto, che si proponeva di determinare scientificamente le reali fattezze del poeta, e sulla cosiddetta ‘mostra bibliografica’ in Palazzo Paradiso, che esibiva i frammenti autografi di fronte alla tomba di Ariosto invitando i visitatori non a leggere (come i professori «teste d’uovo», che non capiscono la poesia) ma a «sentire» la presenza viva del poeta per mezzo di quei talismani biologici e cartacei. Invece di raccontarvi come i fascisti ferraresi invitarono una discendente di Ariosto per presentarla al re senza rendersi conto che quella donna era un’antifascista e che disprezzava, come Ariosto medesimo, Ferrara; invece di mostrarvi lo spettacolo di varietà in cui un panzone locale si travestiva letteralmente da Ariosto per dire a tutti che era ancora vivo e loro contemporaneo, vorrei tornare in piazza Ariostea, restaurata e trasformata in un circuito per ospitare la più costosa iniziativa di tutto il centenario: il palio di San Giorgio.

Come emerge chiaramente dagli archivi cittadini, nel ’33 il comitato delle celebrazioni ariostesche decise di inventarsi di sana pianta una tradizione fingendo che risalisse all’età di Ariosto, e che se ne fosse persa la pratica nei decenni d’inedia e incuria precedenti all’avvento del regime. Lo sforzo della propaganda fu titanico: si inventarono rioni storici, muniti ognuno di simbologia e cancelleria, e si disegnarono coreografie, parate, festività e, soprattutto, una quantità astronomica di ruoli e costumi. Lo storico locale sosteneva di trarre le informazioni per la presunta ricostruzione da fonti archivistiche, ma in realtà l’intera manifestazione era ispirata dagli affreschi di Schifanoia — in cui in effetti compare, nel mese di aprile, una corsa tradizionale di cavalli, muli, putti e prostitute. I costumi, le bandiere, le finiture e gli accessori comportarono una spesa straordinaria e impegnarono artigiani e sarte locali nella confezione di calzari, cappelli e armi finte. L’intera città doveva travestirsi da Rinascimento, e la propaganda insisteva su un solo tasto: quello della «autenticità», del ritorno pedissequo di un passato di nuovo vivo. Non a caso il comitato disprezzò i video prodotti dall’Istituto Luce romano, troppo statici e moderni con le inquadrature che lasciavano intravedere tram, automobili e fili della luce, e investirono nella produzione di un loro filmato, quello che sta scorrendo sullo schermo ora, che sembra più un film in costume che non un documentario locale.

Ora, ci sono due fatti che mi inquietano particolarmente, e che non ho avuto modo di includere nel mio libro perché li ho scoperti troppo tardi. Entrambi sono legati ai costumi di questo grottesco cosplay novecentesco di un’intera città nei panni della propria presunta età d’oro — un’età che Ariosto, come Bontempelli ad esempio capì benissimo, aveva descritto come sanguinosa, infida, ingrata e terrificante. Il primo fatto è che, a guerra conclusa e a fascismo caduto, la prima giunta di sinistra della Ferrara del dopoguerra si trovò a dover fare i conti con l’eredità di quel centenario ariostesco. Che farsene di tutti i broccati e velluti, dei cappelli, delle sete, dei farsetti e delle bandiere del palio, una volta determinato che si trattava di una carnevalata fascista e che non era il caso di ripeterla più? Vi risparmio i dettagli delle minute dei consigli comunali del ’46 e del ’47 e vi dico subito che i costumi furono messi all’asta, e che l’offerta migliore arrivò da un legato del governo portoghese. Dovendo celebrare di lì a poco gli ottocento anni della riconquista di Lisbona, Salazar intendeva organizzare una cosiddetta «sfilata storica», e i costumi ferraresi facevano al caso suo. Così, come si fa coi vestiti dismessi dei cugini più grandi, il regime totalitario più longevo d’Europa ereditò i costumi fascisti del centenario ariostesco, nati per rappresentare lo specifico orgoglio Estense quattrocentesco ma perfetti anche per quello lusitano del dodicesimo secolo.

Proprio mentre studiavo questa vicenda, che mi inquieta rispetto al modo in cui ancora oggi tendiamo a celebrare gli anniversari centenari dei nostri poeti di marmo, mi sono imbattuto a Ferrara, uscito dall’archivio, in un gruppo di ragazzini che si cimentavano in acrobazie di sbandieratori. La sera, davanti al palazzo comunale, ho trovato un altro gruppo di ragazzi vestiti da Renaissance Fair, o magari da fan di Tolkien o di Game of Thrones, che mi ricordavano tanto quelli che avevo appena visti fotografati nell’archivio degli anni Trenta. Quando, presentandomi come uno studioso di Ariosto in visita, ho chiesto loro perché fossero travestiti così, mi hanno preso in giro. Ma come? Proprio io che dicevo di studiare il loro poeta non sapevo che sin dall’età di Ariosto a Ferrara si è tenuta ogni estate una sfilata in costume prima dell’annuale corsa del Palio di San Giorgio? Non ho avuto cuore di dir loro che quella tradizione risaliva a meno di un secolo prima, che l’avevano inventata i fascisti e che evidentemente, negli ultimi decenni, deve essere riemersa — probabilmente, temo, per via di ottime, seppur malinformate, intenzioni culturali. I miei modernisti, i miei magisti e metafisici, e persino Ariosto stesso sapevano benissimo, direi, che ogni tradizione è un’invenzione. La differenza tra un filologo e un fascista è forse proprio in quella consapevolezza lì.


  • [1] In particolare i saggi Prime note su una genealogia: Ariosto & Galileo in Pirandello, Bontempelli, Calvino in «il verri» 57 (2015): 57-77; Ariosto, the Great Metaphysician in «Modern Language Notes», 132.1 (2017): 135-162; Stratigraphy of Andromeda: Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Origins, and Originality in «Modernism/modernity» 25.1 (2018): 21-43; e La cultura in costume, in Gioventù degli antenati. Il Rinascimento è uno zombie (Torino: Einaudi, 2024): 59-81.