CANTO PRIMO

α
Oltre che già Rinaldo e Orlando ucciso
molti in più volte havean de’ lor malvagi,
ben che l’ingiurie fur con saggio aviso
dal re acchetate e li comun disagi,
e che in quei giorni havea lor tolto il riso
l’ucciso Pinabello e Bertolagi,
nova invidia e nov’odio ancho successe,
che Francia e Carlo in gran periglio messe.
β
Ma prima che di questo altro vi dica,
siate, signor, contento ch’io vi mene
(che ben vi menerò senza fatica)
là dove il Gange ha le dorate arene
e veder faccia una montagna aprica
che quasi il ciel sopra le spalle tiene,
col gran tempio nel qual ogni quint’anno
l’immortal fate a far consiglio vanno.
1
Sorge tra il duro Scitha e l’Indo molle
un monte che col ciel quasi confina
e tanto sopra gli altri il giogo estolle
ch’a la sua nulla altezza s’avicina:
quivi, sul più solingo e fiero colle,
cinto d’horrende balze e di ruina,
siede un tempio, il più bello et meglio adorno
che vegga il Sol, fra quanto gira intorno.
2
Cento braccia è d’altezza, da la prima
cornice misurando insin in terra;
altre cento di là verso la cima
de la cupola d’or ch’in alto il serra:
di giro è dieci tanto, se l’estima
di chi a grand’agio il misurò non erra:
e un bel cristallo intiero, chiaro e puro,
tutto lo cinge, e li fa sponda e muro.
3
Ha cento faccie, ha cento canti e quelli
hanno tra l’uno e l’altro ugual’ampiezza;
due colonne ogni spigolo, puntelli
de l’alta fronte, e tutt’una grossezza,
di cui sono le basi e i capitelli
di quel ricco metal che più s’apprezza;
et esse di smeraldo e di zaphiro,
di diamante e rubin splendono in giro.
4
Gli altri ornamenti chi m’ascolta o legge
può imaginar, senza ch’io ’l canti o scriva.
Quivi Demogorgon, che frena e regge
le fate e dà lor forza e le ne priva,
per osservata usanza e antica legge,
sempre ch’al lustro ogni quint’anno arriva,
tutte chiama a consiglio e da l’estreme
parti del mondo le raguna insieme.
5
Quivi s’intende, si ragiona e tratta
di ciò che ben o mal sia lor occorso:
a cui sia danno od altra ingiuria fatta,
non vien consiglio manco né soccorso:
se contesa è tra lor, tosto s’adatta
e tornar fassi a dietro ogni trascorso,
sì che si truovan sempre tutte unite
contra ogn’altro di fuor, con c’habbian lite.
6
Venuto l’anno e ’l giorno che raccorre
si denno insieme al quinquennal consiglio,
chi da l’Ibero e chi da l’Indo corre,
chi da l’Ircano e chi dal Mar Vermiglio;
senza frenar cavallo e senza porre
giovenchi al giogo e senza oprar naviglio,
dispregiando venian per l’aria oscura
ogn’uso human, ogn’opra di natura.
7
Portate alcune in gran navi di vietro,
da li demoni cento volte e cento
con mantici soffiar si facean dietro,
che mai non fu per l’aria il maggior vento.
Altre, come al contrasto di san Pietro
tentò in suo danno il Mago fraudolento,
venian in collo agli angeli infernali:
alcune, come Dedalo, havean l’ali.
8
Chi d’oro, e chi d’argento, e chi si fece
di varie gemme una letica adorna;
portàvane alcuna otto, alcuna diece
de lo stuol che sparir suol quando aggiorna,
ch’erano tutti più neri che pece,
con piedi strani e longhe code e corna;
pegasi, griffi et altri uccei bizarri
molte trahean sopra volanti carri.
9
Queste, c’hor fate e da gli antichi fòro
già dette nimphe et dee con più bel nome,
di precïose gemme et di molt’oro
ornate per le vesti et per le chiome,
s’appresentar a l’alto concistoro,
con bella compagnia, con ricche some,
studiando ogn’una ch’altra non l’avanzi
di più ornamenti o d’esser giunta inanzi.
10
Sola Morgana, come l’altre volte,
né ben ornata v’arrivò né in fretta;
ma quando tutte l’altre eran raccolte
e già più d’una cosa haveano detta,
mesta, con chiome rabuffate et sciolte,
al fin comparve squalida e negletta,
nel medesmo vestir ch’ella havea quando
le diè la caccia e poi la prese Orlando.
11
Con atti mesti il gran colegio inchina
e se ripon ne ’l luogo più di sotto;
et, come fissa in pensier alto, china
la fronte e gli occhi a terra, e non fa motto.
Tacendo l’altre di stupor, fu Alcina
prima a parlar, ma non così di botto
ch’una o due volte gli occhi intorno volse
e poi la lingua a tai parole sciolse:
12
— Poi che da forza temeraria astretta,
non può senza pergiur costei dolerse,
né dimandar né procacciar vendetta
de l’onta ria che già più dì sofferse,
quel ch’ella non può far, far a noi spetta,
ché l’occorrenze prospere e l’adverse
convien c’habbiam comuni; et si proveggia
di vendicarla, anchor ch’ella nol chieggia.
13
Non accade ch’io narri e come et quando
(perché la cosa a tutto il mondo è piana)
et quante volte e in quanti modi Orlando,
con comun’onta, offeso habbia Morgana;
da la prima fïata incominciando
che ’l drago e ’ tori uccise alla fontana,
fin che le tolse Zilïante il biondo,
ch’amava più di ciò ch’ella havea al mondo.
14
Dico di quel che non sapete forse
et s’alcuna lo sa, tutte nol sanno:
più che l’altre soll’io, perché m’occorse
gir al suo lago quel medesimo anno:
alcune sue (ma ben non se n’accorse
Morgana) raccontato il tutto m’hanno.
A me ch’a punto il so, sta ben ch’io ’l dica,
tanto più che le son sorella e amica.
15
A me convien meglio chiarirvi quella
parte che dianzi io vi dicea confusa.
Poi ch’Orlando hebbe preso mia sorella,
rubbata, afflitta e in ogni via delusa,
di tormentarla non cessò, fin ch’ella
non gli fe’ il giuramento il qual non s’usa
tra noi mai violar; né ci soccorre
il dir che forza altrui cel faccia tòrre.
16
Non è particolare e non è sola
di lei l’ingiuria, anzi apartien a tutte;
e quando fosse anchora di lei sola,
debbiam unirsi a vendicarla tutte
e non lasciarla ingiurïata sola,
ché siam compagne e siam sorelle tutte;
et quando ancho ella il nieghi con la bocca,
quel che ’l cor vuol considerar ci tocca.
17
Se toleriam l’ingiuria, oltra che segno
mostriam di debolezza o di viltade,
et oltra che si tronca al nostro regno
il nervo principal, la maiestade,
facciam ch’osin di nuovo e che disegno
di farci peggio in altri animo cade:
ma chi fa sua vendetta, oltra ch’offende
chi offeso l’ha, da molti si difende. —
18
E seguitò parlando, et disponendo
le fate a vendicar il comun scorno:
che s’io volessi il tutto ir ridicendo,
non havrei da far altro tutto un giorno.
Che non facesse questo, non contendo,
per Morgana e per l’altre ch’havea intorno;
ma ben dirò che più il proprio interesse
che di Morgana o d’altre, la movesse.
19
Non potea Alcina levarsi dal core
che le fusse Ruggier così fuggito:
né so se da più sdegno o da più amore
le fusse il cor la notte e ’l dì assalito;
e tanto era più grave il suo dolore,
quanto men lo potea dir espedito,
perché del danno che patito havea
era la fata Logistilla rea.
20
Nem potuto ella havria, senza accusarla,
del ricevuto oltraggio far doglianza;
ma perch’ivi di liti non si parla
che sia tra lor, né se n’ha ricordanza,
parlò de l’onta di Morgana e farla
vendicar procacciò con ogni instanza,
che senza dir di sé, ben vede ch’ella
fa per sé anchor, se fa per la sorella.
21
Ella dicea che, come universale
biasmo di lor son di Morgana l’onte,
far se ne debbe anchor vendetta tale
che sol non habbia da patirne il Conte,
ma che n’abbassi ognun che sotto l’ale
de l’aquila superba alzi la fronte:
propone ella così, così dissegna,
perché Ruggier di nuovo in sua man vegna.
22
Sapeva ben che fatto era christiano,
fatto baron e paladin di Carlo,
ché se fusse, qual dianzi era, pagano,
miglior speranza havria di ricovrarlo;
ma poi ch’armato era di fede, invano
senza l’aiuto altrui potria tentarlo,
ché, se sola da sé vuol farli offesa,
gli vede appresso troppo gran difesa.
23
Per questo havea fier odio, acerbo isdegno,
inimicitia dura e rabbia ardente
contra re Carlo e ogni baron del regno,
contra i popoli tutti di Ponente,
parendo a lei che troppo al suo dissegno
lor bontà fusse avversa e renitente;
né sperar può che mai Ruggier s’opprima,
se non distrugge Carlo a un tempo o in prima.
24
Odia l’imperator, odia il nipote,
ch’era l’altra colonna a tener ritto,
sì che tra lor Ruggier cader non puote,
né da forza d’incanto essere afflitto.
Parlato c’hebbe Alcina, né anchor vuote
restar d’udir l’orecchie altro delitto,
che Fallerina pianse il drago morto
et la destruttion del suo bell’horto.
25
Poi c’hebbe acconciamente Fallerina
detto il suo danno e chiestone vendetta,
entrò l’aringo e tenel Dragontina,
fin che tutt’hebbe la sua causa detta
e quivi raccontò l’alta rapina
ch’Astolpho et alcun altro di sua setta
fatto le havea dentro alle proprie case
de’ suoi prigion, sì ch’un non v’en rimase.
26
Poi l’Aquilina e poi la Silvanella,
poi la Montana e poi quella dal Corso,
la fata Bianca e la Bruna sorella
et una a cui tese le reti Borso;
poi Grifonetta e poi questa e poi quella
(ché far di tutte io non potrei discorso)
dolendo si venian, chi d’Uliviero,
chi del figliuol d’Amon e chi d’Ugiero,
27
chi di Dudone e chi di Brandimarte,
quand’era vivo, e chi di Carlo istesso.
Tutti chi in una e chi in un’altra parte
havean lor fatto danno e oltraggio espresso,
rotti gli incanti e disprezzata l’arte
a cui natura e il ciel talhora ha cesso:
a pena d’ogni cento trovavi una
che non havesse hauto ingiuria alcuna.
28
Quelle che da dolersi per se stesse
non hanno, sì de l’altre il mal lor pesa
che non men che sia suo proprio interesse
si duol ciascuna e se ne chiama offesa:
non eron per patir che si dicesse
che l’arte lor non possa far difesa
contra le forze e gli animi arroganti
di paladini e cavallier erranti.
29
Tutte per questo (eccettüando solo
Morgana, c’havea fatto il giuramento
che mai né a viso aperto né con dolo
procacciaria ad Orlando nocumento),
quante ne son fra l’uno e l’altro polo,
fra quanto il sol riscalda e affredda il vento,
tutte approvàr quel c’havea Alcina detto
e tutte instàr che se gli desse effetto.
30
Poi che Demogorgon, principe saggio,
del gran Consiglio udì tutt’il lamento,
disse: «Se dunque, è general l’oltraggio,
alla vendetta general consento:
che sia Carlo, sia Orlando, sia il lignaggio
di Francia, sia tutto l’Imperio spento;
e non rimanga segno né vestigi,
né pur si sappia dir: “Qui fu Parigi”».
31
Come ne i casi perigliosi spesso
Roma e l’altre republiche fatt’hanno,
c’hanno il poter di molti a un solo cesso
che faccia sì che non patiscan danno;
così quivi ad Alcina fu commesso
che pensasse qual forza o qual inganno
s’havesse a usar, ch’ognuna d’esse presta
havria in aiuto ad ogni sua richiesta.
32
Come chi tardi il suo denar dispensa,
né d’ogni compra tosto si compiace,
cerca due volte e più tutta la Sensa
e va mirando in ogni lato, e tace;
si ferma al fin dove ritrova immensa
copia di quel ch’al suo bisogno face
e quivi hor questa, hor quella cosa volve,
cento ne piglia, e anchor non si risolve:
33
questa mette da parte e quella lassa
et quella che lasciò di novo piglia;
poi la rifiuta et ad un’altra passa;
muta e rimuta, e ad una al fin s’appiglia:
così d’alti pensieri una gran massa
rivolge Alcina e lenta si consiglia;
per cento strade col pensier discorre,
né sa veder anchor dove si porre.
34
Dopo molto girar, si ferma al fine
e le par che l’Invidia esser dea quella
che l’alto Impero occidental ruine,
faccia ch’apunto sia come s’appella;
ma di chi dar più tosto l’intestine
a roder debbia a questa peste fella,
non sa veder, né che più piaccia al gusto
creda di lei, che ’l cor di Gano ingiusto.
35
Stato era grande appresso Carlo Gano
un tempo sì, che alcun non gl’iva al paro;
poi con Astolpho quel di Mont’Albano,
Orlando e gli altri che virtù mostraro
contra Marsiglio e contra il re africano,
fèr sì che tanta altezza li levaro,
onde il meschin, che di fumo e di vento
tutto era gonfio, vivea mal contento.
36
Gano superbo, livido e maligno
tutti i grandi appo Carlo odiava a morte;
non potea alcun veder, che senza ordigno,
senza opra sua si fusse acconcio in corte:
se ben con humil voce et falso ghigno
sapea finger bontade, e d’ogni sorte
usar d’hipocrisia, che chi i costumi
suoi non sapea, li porria a’ piedi i lumi.
37
Poi, quando si trovava appresso a Carlo
(ché tempo fu ch’era ogni giorno seco),
rodea nascosamente come tarlo,
dava mazzate a questo e a quel da cieco:
sì raro dicea il vero e sì offuscarlo
sapea che da lui vinto era ogni greco.
Giudicò Alcina, com’io dissi, degno
cibo a l’Invidia il cor de vitii pregno.
38
Fra i monti inaccessibili d’Imavo,
che ’l ciel sembran tener sopra le spalle,
fra le perpetue nevi e ’l giaccio ignavo
discende una profonda e oscura valle
donde da un antro horribilmente cavo
a l’Inferno si va per dritto calle:
et questa è l’una de le sette porte
che conducono al regno de la Morte.
39
Le vie, l’entrate principal son sette,
per cui l’anime van dritto a l’Inferno;
altre ne son, ma tòrte, longhe e strette,
come quella di Tenaro e d’Averno:
questa de le più usate una si mette,
di che l’infame Invidia have il governo:
a questo fondo horribile si cala
sùbito Alcina e non v’adopra scala.
40
S’accosta alla spelonca spaventosa
e percuote a gran colpo con un’asta
quella ferrata porta, mezzo rósa
da’ tarli et da la rugine più guasta.
L’Invidia, che di carne venenosa
alhora si pascea d’una cerasta,
levò la bocca alla percossa grande
da le amare e pestifere vivande.
41
E di cento ministri c’havea intorno
mandò senza tardar uno alla porta,
che, conosciuta Alcina, fa ritorno
et di lei nova indietro le raporta.
Quella pigra si lieva e contra il giorno
le vien incontra e lascia l’aria morta,
ché ’l nome de le fate sin al fondo
si fa temer del tenebroso mondo.
42
Tosto che vide Alcina così ornata
d’oro, di seta e di ricami gai
(ché riccamente era vestir usata,
né si lasciò non culta veder mai),
con guardatura oscura e avenenata
gli lividi occhi alzò, piena di guai;
e féro il cor dolente manifesto
i sospiri ch’uscian del petto mesto.
43
Pallido più che bosso e magro e afflitto,
arido e secco ha il dispiacevol viso;
l’occhio, che mirar mai non può diritto;
la bocca, dove mai non entra riso,
se non quando alcun sente esser proscritto,
del stato espulso, tormentato e ucciso
(altrimenti non par ch’unqua s’allegri);
ha longhi i denti, ruginosi e negri.
44
— O de li imperatori imperatrice, —
cominciò Alcina — o de li re regina,
o di principi invitti domitrice,
o de Persi e Macedoni ruina,
o del romano e greco orgoglio ultrice,
o gloria a cui null’altra s’avicina,
né serà mai per appressarsi, s’ancho
il fasto lievi a l’alto Impero franco;
45
una vil gente che fuggì da Troia
sin all’alte paludi de la Tana,
dove a i vicini così venne a noia
che la spinser da sé tosto lontana;
e quindi anchora in ripa alla Danoia
cacciata fu da l’aquila romana;
et indi al Rheno, ove in discorso d’anni
entrò con arte in Francia e con inganni,
46
dove aiutando hor questo hor quel vicino
incontra a gli altri e poi, con altro aiuto,
questi c’hora gli havea dato il domino
scacciando, a parte a parte ha il tutto havuto,
fin che il nome regal levò Pipino
al suo signor, poco a l’incontro astuto.
Hor Carlo, suo figliuol, l’impero regge
e dà all’Europa e a tutto il mondo legge.
47
Puoi tu patir che la già tante volte
di terra in terra discacciata gente,
a cui le sedie hor questi hor quelli han tolte,
né lasciato in riposo lungamente,
puoi tu patir c’hor signoreggi molte
provincie e freni homai tutto Ponente
et che da l’Indo a l’onde maure estreme
la terra e il mar al suo gran nome treme?
48
Alle mortal grandezze un certo fine
ha Dio prescritto, a cui si può salire,
che, passandol, serian come divine;
il che natura e il ciel non può patire,
ma vuol che gionto a quel, poi si decline.
A quello è gionto Carlo, se tu mire.
Hor questa ogni tua gloria antiqua passa,
se tanta altezza per tua man s’abbassa. —
49
E seguitò mostrando altra cagione
c’havea di farlo, e mostrò insieme il modo;
però c’havria un gran mezo Ganelone,
d’ogni inganno capace e d’ogni frodo:
poi le soggiunse che d’obligatione,
facendol, le porrebbe al cor un nodo
in suoi servigi sì tenace e forte
che non lo potria sciòrre altro che morte.
50
Al detto de la fata, brevemente
diè l’Invidia risposta, che farebbe.
Gli suoi ministri ha separatamente,
che ciascun sa per sé quel che far debbe:
tutti hanno impresa di tentar la gente;
ogn’un guadagnar anime vorrebbe:
stimula altri i signori, altri i plebei;
chi fa gli vecchi e chi i fanciulli rei;
51
et chi li cortigiani et chi gli amanti,
et chi li monachetti e i loro abbati:
quei che le donne tentano son tanti,
che seriano a fatica noverati.
Ella venir se li fe’ tutti innanti
e poi ch’ad un ad un gli hebbe mirati,
stimò sé sola a sì importante effetto
sufficïente, e ciascun altro inetto.
52
E de suoi brutti serpi venenosi
fatt’una scielta, in Francia corre in fretta
e giunger mira in tempo ch’a i focosi
destrieri il fren la bionda Aurora metta,
alhor ch’i sogni men son fabulosi
e nascer veritade se n’espetta:
con nuovo habito quivi e nuove larve
al conte di Maganza in sogno apparve.
53
Le fantastiche forme seco tolto
l’Invidia havendo, apparve in sogno a Gano;
e gli fece veder tutto raccolto
in larga piazza il gran popul christiano,
che gli occhi lieti havea fissi nel volto
d’Orlando e del signor di Mont’Albano,
ch’in veste triomphal, cinti d’alloro,
sopra un carro venian di gemme e d’oro.
54
Tutta la nobiltà di Chiaramonte
sopra bianchi destrier lor venìa intorno:
ognun di lauro coronar la fronte,
ognun vedea di spoglie hostili adorno;
e la turba con voci a lodar pronte
gli parea udir, che benediva il giorno
che, per far Carlo a null’altro secondo,
la valorosa stirpe venne al mondo.
55
Poi di veder il popolo gli è aviso,
che si rivolga a lui con grand’oltraggio,
e dir si senta molta ingiuria in viso
et codardo nomar, senza coraggio,
et con batter di man, sibilo e riso,
s’oda beffar con tutto il suo lignaggio;
né quei di Chiaramonte haver più loda,
che li suoi biasmo, par che vegga et oda.
56
In questa visïon l’Invidia il core
con man gli tocca più fredda che neve;
e tanto spira in lui del suo furore
che ’l petto più capir non può, né deve.
Al cor pon de le serpi la peggiore,
un’altra onde l’udita si riceve,
la terza a gli occhi: onde di ciò che pensa,
di ciò che vede et ode ha doglia immensa.
57
De l’aureo albergo essendo il Sol già uscito,
lasciò la visïone e il sonno Gano,
tutto pien di dolor dove sentito
toccar s’havea con la gelata mano.
Ciò che vide dormendo gli è scolpito
già ne la mente e non l’estima vano;
non false illusïon, ma cose vere
gli par che gli habbia Dio fatto vedere.
58
Da quell’hora il meschin mai più riposo
non ritrovò, non ritrovò più pace:
da l’occulto venen il cor gli è roso,
che notte e giorno sospirar lo face:
gli par che liberal e gratïoso
sia a tutti gli altri et a nessun tenace,
se non a’ Maganzesi, il re di Francia;
fuor che la lor premiato habbia ogni lancia.
59
Già fuor di tende e fuor de padiglioni
in Parigi tornata era la corte,
havendo Carlo i principi e baroni
e tutti i forestier di miglior sorte
fatto, con gran proferte e ricchi doni,
contenti accompagnar fuor de le porte;
e tra più arditi cavalier del mondo
stava a goder il suo stato giocondo.
60
Et come saggio padre di famiglia
la sera dopo le fatiche a mensa
tra gli operarii con ridenti ciglia
le giuste parti a questo e a quel dispensa;
così, poi che di Libia e di Castiglia
spentasi intorno havea la face accensa,
rendea a signori e cavalieri merto
di quanto in armi havean per lui sofferto.
61
A chi collane d’oro, a chi vasella
dava d’argento, a chi gemme di pregio;
cittadi haveano alcuni, altri castella:
ordine alcun non fu, non fu collegio,
borgo, villa né tempio né capella,
che non sentisse il beneficio regio:
e per dieci anni fe’ tutte le genti
c’havean patito da i tributi esenti.
62
A Rinaldo il governo di Guascogna
diede, e pension di molti mila franchi;
tre castella a Olivier donò in Borgogna,
che de ’l suo antico stato erano a i fianchi;
donò ad Astolpho in Picardia Bologna;
non vi dirò ch’al suo nipote manchi:
diede al nipote principe d’Anglante
Fiandra in governo e donò Bruggia e Guante;
63
et promesse lo scettro e la corona,
poi che n’havesse il re Marsiglio spinto,
del regno di Navara e d’Aragona,
la qual impresa alhor era in procinto.
Hebbe la figlia d’Amon di Dordona
da quello del fratel dono distinto:
le diè Carlo in dominio quel che darle
in governo solea: Marsiglia et Arle.
64
In somma, ogni guerrier d’alta virtute,
chi città, chi castella hebbe, e chi ville.
A Marfisa e a Ruggier fur provedute
larghe provisïoni a mille a mille.
Se da lo imperator le gratie haute
tutte ho a notar, farò troppe postille:
nissun, vi dico, o in comune o in privato,
partì da lui che non fusse premiato.
65
Né feudi nominando né livelli,
fur senza obligo alcun liberi i doni,
acciò il non sciorre i canoni di quelli
o non ne tòrre a’ tempi investigioni,
potesse li lor figli o li fratelli,
gli heredi far cader di sue ragioni:
liberi furo e veri doni, e degni
d’un re che degno era d’imperio e regni.
66
Hor, sopra gli altri, quei di Chiaramonte
ne i real doni havean tanto vantaggio
che sospirar facean dì e notte il conte
Gan di Maganza, et tutto il suo lignaggio:
come gli honori d’un fossero l’onte
de l’altra parte, lor pungea il coraggio;
et questa invidia a l’odio, et l’odio a l’ira,
et l’ira alfine al tradimento il tira.
67
Et perché, d’astio et di veneno pregno,
potea nasconder mal il suo dispetto
et non potea non dimostrar lo sdegno
che contra il re per questo havea concetto;
et non men per fornir alcun disegno
ch’in parte ordito, in parte havea nel petto,
finse haver voto, et ne sparse la voce,
d’ire al Sepolcro e al monte de la Croce:
68
et era il suo pensiero ire in Levante
a ritrovar il calife d’Egitto,
col re de la Soria poco distante;
e più sicuro a bocca che per scritto
trattar con essi, che le terre sante
dove Dio visse in carne e fu traffitto,
o per fraude o per forza da le mani
fusser tolte e dal scettro de’ christiani.
69
Indi andar in Arabia havea disposto,
e far scender quei populi a l’acquisto
d’Africa, mentre Carlo era discosto
et di gente il paese mal provisto.
Già inanzi la partita havea composto
che Desiderio al vicario di Christo,
Tassillo a Francia, e a Scotia e ad Inghelterra
havesse il re di Datia a romper guerra;
70
et che Marsiglio armasse in Catalogna
e scendesse in Provenza e in Acquamorta
et con un altr’esercito in Guascogna
corresse a Mont’Alban fin su la porta;
egli Maganza, Basilea, Cologna,
Costanza et Aquisgrana, che più importa,
promettea far ribelli a Carlo, e in meno
d’un mese tòrli ogni città del Rheno.
71
Hor fattasi fornir una galea
di vettovaglia, d’armi et de compagni,
poi che licenza dal re tolt’havea,
uscì del porto et de i sicuri stagni.
Restar a dietro, anzi fuggir parea
il lito, et occultar tutti i vivagni:
indi l’Alpe a sinistra parea lunge,
ch’Italia invan da barbari disgiunge;
72
indi i monti Ligustici, e riviera
che con aranzi e sempre verdi mirti
quasi havendo perpetua primavera,
sparge per l’aria i ben olenti spirti.
Volendo il legno in porto ir una sera
(in qual apunto io non saprei ben dirti),
hebbe un vento da terra in modo all’orza
ch’in mezo il mar lo fe’ tornar per forza.
73
Il vento tra maestro e tramontana,
con timor grande e con maggior periglio,
tra l’oriente e mezodì allontana
sei dì senza allentarsi unqua il naviglio.
Fermossi al fine ad una spiaggia istrana,
tratto da forza più che da consiglio,
dove un miglio discosto da l’arena
d’antique palme era una selva amena:
74
che per mezo da un’acqua era partita
di chiaro fiumicel, fresco et giocondo,
che l’una et l’altra proda havea fiorita
de i più soavi odor che siano al mondo.
Era di là dal bosco una salita
d’un picciol monticel quasi rotondo,
sì facil a montar, che prima il piede
d’haver salito, che salir si vede.
75
D’odoriferi cedri era il bel colle
con maestrevol ordine distinto;
la cui bell’ombra al sol sì i raggi tolle
ch’al mezodì dal rezzo è il calor vinto.
Ricco d’intaglio e di soave e molle
getto di bronzo e in parti assai dipinto,
un longo muro in cima lo circonda,
d’un alto e signoril palazzo sponda.
76
Gano, che di natura era bramoso
di cose nuove e dal bisogno astretto
(che già tutto il biscotto haveano roso),
de’ suoi compagni havendo alcuno eletto,
si mise a caminar pel bosco ombroso,
tra via prendendo d’ascoltar diletto
da’ rugiadosi rami d’arbuscelli
il piacevol cantar de’ vaghi augelli.
77
Tosto ch’egli dal mar si pose in via
et fu scoperto dal luogo eminente,
di trombe torte et pifare armonia
da l’alta casa insino al lito sente:
non molto va che bella compagnia
truova di donne, et dietro alcun sergente
che palafreni vuoti havean con loro,
altri di seta, altri guarniti d’oro;
78
che con cortesi et belli inviti fenno
Gano salir, et chi venìa con lui.
Con pochi passi fine alla via denno
le donne e i cavalier, a dui a dui.
L’oro di Creso, l’artificio e ’l senno
d’Alberto, di Bramanti, di Vitrui,
non potrebbono far, con tutto l’agio
di ducento anni, un così bel palagio.
79
Et da i demoni tutto in una notte
lo fece far Gloricia incantatrice,
c’havea l’esempio ne l’idee incorrotte
d’un che Vulcano haver fatto si dice;
del qual restaro poi le mura rotte
quel dì che Lenno fu da la radice
svelta et gettata con Cipro e con Delo
da i figli de la Terra contra il cielo.
80
Tenea Gloricia splendida e gran corte,
non men ricca d’Alcina et di Morgana;
non men d’esse era dotta in ogni sorte
d’incantamenti inusitata e strana;
ma non, com’esse, pertinace e forte
ne l’altrui ingiurie, anzi cortese e humana,
né potea al mondo haver maggior diletto
che honorar questo et quel nel suo bel tetto.
81
Sempre ella tenea gente a la veletta,
a’ porti et all’uscita de le strade,
che con inviti i pellegrini alletta
venir a lei da tutte le contrade.
Con gran splendor il suo palazzo accetta
poveri e ricchi et d’ogni qualitade;
e il cor de’ viandanti con tai modi
nel suo amor lega d’insolubil nodi.
82
Et come havea di accarezzar usanza
e di dar a ciascun debito honore,
fece accoglienza al conte di Maganza
Gloricia, quanto far potea maggiore;
et tanto più, che ben sapea ad instanza
d’Alcina esser qui giunto il traditore:
ben sapev’ella c’havea Alcina ordito
che capitasse Gano a questo lito.
83
Ell’era stata in India al gran Consiglio
dove l’alto esterminio fu concluso
d’ogni guerriero ubidïente al figlio
del re Pipino; e nissun era escluso,
eccetto il Maganzese, il cui consiglio,
il cui favor stimàr atto a quell’uso:
dunque, a lui le accoglienze e’ modi grati
che quivi gli altri havean, fur radoppiati.
84
Gloricia Gano, com’era commesso
da chi fatto l’havea cacciar da i venti,
acciò quindi ad Alcina sia rimesso
tra’ Scithi e l’India a i suoi regni opulenti,
fa la notte pigliar nel sonno oppresso,
et li compagni insieme e li sergenti.
Così far quivi a gli altri non si suole,
ma dar questo vantaggio a Gano vuole.
85
Et ben che, più che honor, biasmo si tegna
pigliar in casa sua ch’in lei si fida,
et a Gloricia tanto men convegna,
che fa del suo splendor sparger le grida,
pur non le par che questo il suo honor spegna:
ché tòrre al ladro e occider l’homicida,
tradir il traditor, ha degni esempi,
ch’ancho si pon lodar, secondo i tempi.
86
Quando dormia la notte più soave,
Gano e i compagni suoi tutti fur presi
et serrati in un ceppo duro et grave,
l’un presso a l’altro, trenta Maganzesi.
Gloricia in terra dissegnò una nave
capace et grande con tutti suo’ arnesi,
et fece li prigion legar in quella,
sotto la guardia d’una sua donzella.
87
Sparge le chiome e qua e là si volve
tre volte e più, fin che mirabilmente
la nave ivi dipinta ne la polve
da terra si levò tutta ugualmente.
La vela al vento la donzella sciolve,
per incanto alhor nata parimente,
et verso il ciel ne va, come per l’onda
suol ir nocchier che l’aura habbia seconda.
88
Gano e i compagni, che per l’aria tratti
da terra si vedean tanto lontani,
com’assassini istranamente attratti
nel lungo ceppo per piedi e per mani,
tremando di paura, e stupefatti
di maraviglia de’ lor casi strani,
volavan per Levante in sì gran fretta
che non gli havrebbe giunti una saetta.
89
Lasciando Ptolomaide e Berenice
e tutt’Africa drieto e poi l’Egitto
e la Deserta Arabia e la Felice,
sopra il mar Eritreo fecion traghitto.
Tra Persi e Medi, e là dove si dice
Batra, passan, tenendo il corso dritto
tuttavia fra orïente e tramontana,
e lascian Casia a dietro e Sericana.
90
Et sì come veduti eran da molti,
di sé davano a molti maraviglia:
facean tener levati al ciel i volti
con occhi immoti et con arcate ciglia.
Vedendoli passar alcuni stolti
da terra alti lo spatio di duo miglia
et non potendo ben scorgere i visi,
hebbon di lor diversi et strani avisi.
91
Alcuni imaginar che di Charone,
lo nocchiero infernal, fusse la barca,
che d’anime dannate a perditione
a la via di Cocito andasse carca.
Altri diceano, d’altra opinïone:
— Questa è la santa nave ch’al ciel varca,
che Pietro tol da Roma, acciò ne l’onde
di stupri et simonie non si profonde. —
92
Et altra cosa altri dicean dal vero
molto diversa et senza fin rimota.
Passava intanto il navilio leggiero
per la contrada a’ nostri poco nota,
fra l’India havendo e Tartaria il sentiero,
quella di città piena et questa vota,
fin che fu sopra la bella marina
ch’ondeggia intorno a l’isola d’Alcina.
93
Ne la città d’Alcina, nel palagio,
dentro alle loggie la donzella pose
la nave, e tutti li prigion ad agio,
e l’imbasciata di Gloricia espose.
Ne i ceppi, come stavano, a disagio
Alcina in una torre al sole ascose
i Maganzesi, havendo riferite
del dono a chi ’l donò gratie infinite.
94
La sera fuor di carcere poi Gano
fe’ a sé condurre e a ragionar il messe
de lo stato di Francia e del romano,
di quel ch’Orlando et che Ruggier facesse.
L’astuto Maganzese, c’hebbe piano
quanto la donna Carlo in odio havesse,
Ruggiero, Orlando e gli altri, tosto prese
l’util partito, et a salvar s’attese.
95
— S’haver, donna, volete ognun nimico, —
disse — che de la corte sia di Carlo,
me in odio havrete anchora, ché ’l mio antico
seggio è tra’ Franchi, e non potrei negarlo;
ma se più tosto odiate chi gli è amico
et di sua volontà vuol seguitarlo,
me non havrete in odio, ch’io non l’amo,
ma il danno e biasmo suo più di voi bramo.
96
Et s’hebbe alcun mai da bramar vendetta
di tiranno che gli habbia fatto oltraggio,
bramar di Carlo et di tutta sua setta
vendetta inanzi a tutti i sudditi haggio;
come di re da cui sempre negletta
la gloria fu di tutto il mio lignaggio
et che, per sempre al cor tenermi un telo,
con favor alza i miei nimici al cielo.
97
Il mio figliastro Orlando, che mia morte
procurò sempre e ad altro non aspira,
contra me mille volte ha fatto forte;
per lui m’ha mille volte hauto in ira:
Rinaldo, Astolpho et ogni suo consorte
di giorno in giorno a maggior grado tira:
tal che sicuro, per lor gran possanza,
non che in corte non son, ma né in Maganza.
98
Hor, per maggior mio scorno, un fuggitivo
del sfortunato figlio di Troiano,
Ruggier, che m’ha un fratel di vita privo
et un nipote con la propria mano,
tiene in più honor che mai non fu Gradivo
Marte tenuto dal popul romano:
tal che levato indi mi son, con tutto
il sangue mio, per non restar distrutto.
99
Se me e questi altri c’havete qui meco,
che sono il fior di casa da Pontiero,
uccidete o dannate a carcer cieco,
di perpetuo timor sciolt’è l’Impero:
ch’ogni nimico suo, c’habbia noi seco,
per noi può entrar in Francia di leggiero,
ché ci havemo la parte in ogni terra,
fortezze e porti e luoghi atti a far guerra. —
100
Et seguitò il parlar astuto e pieno
di gran malitia, sempre mai toccando
quel che vedea di gaudio empirle il seno,
che le vuol dar Ruggier preso et Orlando.
Alcina ascolta et ben nota il veleno,
che l’Invidia in lui sparse, ir lavorando:
commanda allhora allhora che sia sciolto
et sia con tutti i suoi di prigion tolto.
101
Volse che poi le promettesse Gano,
con giuramenti stretti et d’horror pieni,
di non cessar, fin che legato in mano
Ruggier col suo figliastro non le meni:
ma, per poter non darli assunto in vano,
oltr’oro e gemme e aiuti, altri terreni
promise ella a l’incontro, di far quanto
potea sopra natura oprar l’incanto.
102
Et gli diè ne la gemma d’uno anello
un di quei spirti che chiamiam folletti,
che gli ubedisca, et così possa havello
com’un suo servitor de’ più soggetti:
Vertunno è il nome, che in fiera, in ucello,
in huomo, in donna e in tutti gli altri aspetti,
in un sasso, in un’herba, in una fonte
mutar vedrete in un chinar di fronte.
103
Hor perché Malagigi non aiuti,
com’altre volte ha fatto, i paladini,
gli spiriti infernal tutti fe’ muti,
gli terrestri, gli aérii e gli marini;
eccetto alcuni pochi c’ha tenuti
per uso suo, non franchi né latini,
ma di lingua da gli altri sì rimota
ch’a nigromante alcun non era nota.
104
Quel ch’alla fata il traditor promise,
promiser gli altri anchor ch’eran con lui.
Fermato il patto, Gano si rimise
nel fantastico legno con li sui.
Il vento, come Alcina li commise,
fra i lucidi Indi e li Cimerii bui
soffiando, ferì in guisa ne l’antenna
ch’in aria alzò la nave come penna.
105
Né, men che rato, lo portò quïeto
per la medesma via che venut’era;
sì che, fra spatio di sett’hore, lieto
si ritrovò ne la sua barca vera,
di pan, di vin, di carne e infin d’aceto
fornita et d’insalata per la sera:
fe’ dar le vele al vento e venne a filo
ad imboccar sott’Alessandria il Nilo.
106
Et già da l’armiraglio havendo hauto
salvo condotto, al Cairo andò diritto,
con duo compagni, in un legno minuto,
segretamente, e in habito d’Egitto.
Dal calife per Gano conosciuto,
ché molte volte inanzi s’havean scritto,
fu di carezze sì pieno e d’honore
che ne scoppiò quasi il ventoso core.
107
In questo mezo che l’Invidia ascosa
il traditor rodea di ch’io vi parlo,
come l’altrui bontà fu da lui rosa,
ché poco dianzi il simigliavo a un tarlo;
ira, odio, sdegno, amor facea angosciosa
Alcina, e un fier disio di strugger Carlo;
et quanto più credea di farlo in breve
tant’ogn’indugia le parea più greve.
108
Il conte di Pontier le havea narrato
che, prima che di Francia si partisse,
da lui fu Desiderio confortato,
per ambasciate e lettere che scrisse,
che con Tedeschi et Ungheri da un lato,
che facil fòra ch’a sue genti unisse,
saltasse in Francia; et che Marsiglio hispano
saltar faria da l’altro, e l’Aquitano.
109
Et che quel glie n’havea dato speranza;
poi venia lento a metterla in effetto,
o che tema di Carlo la possanza,
o sia mal di sua lega il nodo astretto.
Alcina che si mor di disïanza
di por Francia e l’Imperio in mal assetto,
adopra ogni saper, ogni suo ingegno,
per dar colore a così bel dissegno.
110
Et è bisogno al fin ch’ella ritruovi,
per far mover di passo il Longobardo,
sproni che siano aguzzi più che chiovi:
tanto le pare a questa impresa tardo!
Et come fece far dissegni nuovi
dianzi l’Invidia a quel cochin pagliardo,
così spera trovar un’altra peste
che ’l pigro re da la sua inertia deste.
111
Conchiuse che nissuna era meglio atta
a stimularlo e far più risentire,
d’una che nacque quando ancho la matta
Crudeltà nacque, e le Rapine e l’Ire.
Che nome havesse et come fusse fatta,
ne l’altro canto mi riserbo a dire,
dove farò, per quanto è mio potere,
cose sentir maravigliose e vere.