CANTO PRIMO

α
Oltre che già Rinaldo e Orlando ucciso
molti in più volte havean de’ lor malvagi,
ben che l’ingiurie fur con saggio aviso
dal re acchetate e li comun disagi,
e che in quei giorni havea lor tolto il riso
l’ucciso Pinabello e Bertolagi,
nova invidia e nov’odio ancho successe,
che Francia e Carlo in gran periglio messe.
β
Ma prima che di questo altro vi dica,
siate, signor, contento ch’io vi mene
(che ben vi menerò senza fatica)
là dove il Gange ha le dorate arene
e veder faccia una montagna aprica
che quasi il ciel sopra le spalle tiene,
col gran tempio nel qual ogni quint’anno
l’immortal fate a far consiglio vanno.
1
Sorge tra il duro Scitha e l’Indo molle
un monte che col ciel quasi confina
e tanto sopra gli altri il giogo estolle
ch’a la sua nulla altezza s’avicina:
quivi, sul più solingo e fiero colle,
cinto d’horrende balze e di ruina,
siede un tempio, il più bello et meglio adorno
che vegga il Sol, fra quanto gira intorno.
2
Cento braccia è d’altezza, da la prima
cornice misurando insin in terra;
altre cento di là verso la cima
de la cupola d’or ch’in alto il serra:
di giro è dieci tanto, se l’estima
di chi a grand’agio il misurò non erra:
e un bel cristallo intiero, chiaro e puro,
tutto lo cinge, e li fa sponda e muro.
3
Ha cento faccie, ha cento canti e quelli
hanno tra l’uno e l’altro ugual’ampiezza;
due colonne ogni spigolo, puntelli
de l’alta fronte, e tutt’una grossezza,
di cui sono le basi e i capitelli
di quel ricco metal che più s’apprezza;
et esse di smeraldo e di zaphiro,
di diamante e rubin splendono in giro.
4
Gli altri ornamenti chi m’ascolta o legge
può imaginar, senza ch’io ’l canti o scriva.
Quivi Demogorgon, che frena e regge
le fate e dà lor forza e le ne priva,
per osservata usanza e antica legge,
sempre ch’al lustro ogni quint’anno arriva,
tutte chiama a consiglio e da l’estreme
parti del mondo le raguna insieme.
5
Quivi s’intende, si ragiona e tratta
di ciò che ben o mal sia lor occorso:
a cui sia danno od altra ingiuria fatta,
non vien consiglio manco né soccorso:
se contesa è tra lor, tosto s’adatta
e tornar fassi a dietro ogni trascorso,
sì che si truovan sempre tutte unite
contra ogn’altro di fuor, con c’habbian lite.
6
Venuto l’anno e ’l giorno che raccorre
si denno insieme al quinquennal consiglio,
chi da l’Ibero e chi da l’Indo corre,
chi da l’Ircano e chi dal Mar Vermiglio;
senza frenar cavallo e senza porre
giovenchi al giogo e senza oprar naviglio,
dispregiando venian per l’aria oscura
ogn’uso human, ogn’opra di natura.
7
Portate alcune in gran navi di vietro,
da li demoni cento volte e cento
con mantici soffiar si facean dietro,
che mai non fu per l’aria il maggior vento.
Altre, come al contrasto di san Pietro
tentò in suo danno il Mago fraudolento,
venian in collo agli angeli infernali:
alcune, come Dedalo, havean l’ali.
8
Chi d’oro, e chi d’argento, e chi si fece
di varie gemme una letica adorna;
portàvane alcuna otto, alcuna diece
de lo stuol che sparir suol quando aggiorna,
ch’erano tutti più neri che pece,
con piedi strani e longhe code e corna;
pegasi, griffi et altri uccei bizarri
molte trahean sopra volanti carri.
9
Queste, c’hor fate e da gli antichi fòro
già dette nimphe et dee con più bel nome,
di precïose gemme et di molt’oro
ornate per le vesti et per le chiome,
s’appresentar a l’alto concistoro,
con bella compagnia, con ricche some,
studiando ogn’una ch’altra non l’avanzi
di più ornamenti o d’esser giunta inanzi.
10
Sola Morgana, come l’altre volte,
né ben ornata v’arrivò né in fretta;
ma quando tutte l’altre eran raccolte
e già più d’una cosa haveano detta,
mesta, con chiome rabuffate et sciolte,
al fin comparve squalida e negletta,
nel medesmo vestir ch’ella havea quando
le diè la caccia e poi la prese Orlando.
11
Con atti mesti il gran colegio inchina
e se ripon ne ’l luogo più di sotto;
et, come fissa in pensier alto, china
la fronte e gli occhi a terra, e non fa motto.
Tacendo l’altre di stupor, fu Alcina
prima a parlar, ma non così di botto
ch’una o due volte gli occhi intorno volse
e poi la lingua a tai parole sciolse:
12
— Poi che da forza temeraria astretta,
non può senza pergiur costei dolerse,
né dimandar né procacciar vendetta
de l’onta ria che già più dì sofferse,
quel ch’ella non può far, far a noi spetta,
ché l’occorrenze prospere e l’adverse
convien c’habbiam comuni; et si proveggia
di vendicarla, anchor ch’ella nol chieggia.
13
Non accade ch’io narri e come et quando
(perché la cosa a tutto il mondo è piana)
et quante volte e in quanti modi Orlando,
con comun’onta, offeso habbia Morgana;
da la prima fïata incominciando
che ’l drago e ’ tori uccise alla fontana,
fin che le tolse Zilïante il biondo,
ch’amava più di ciò ch’ella havea al mondo.
14
Dico di quel che non sapete forse
et s’alcuna lo sa, tutte nol sanno:
più che l’altre soll’io, perché m’occorse
gir al suo lago quel medesimo anno:
alcune sue (ma ben non se n’accorse
Morgana) raccontato il tutto m’hanno.
A me ch’a punto il so, sta ben ch’io ’l dica,
tanto più che le son sorella e amica.
15
A me convien meglio chiarirvi quella
parte che dianzi io vi dicea confusa.
Poi ch’Orlando hebbe preso mia sorella,
rubbata, afflitta e in ogni via delusa,
di tormentarla non cessò, fin ch’ella
non gli fe’ il giuramento il qual non s’usa
tra noi mai violar; né ci soccorre
il dir che forza altrui cel faccia tòrre.
16
Non è particolare e non è sola
di lei l’ingiuria, anzi apartien a tutte;
e quando fosse anchora di lei sola,
debbiam unirsi a vendicarla tutte
e non lasciarla ingiurïata sola,
ché siam compagne e siam sorelle tutte;
et quando ancho ella il nieghi con la bocca,
quel che ’l cor vuol considerar ci tocca.
17
Se toleriam l’ingiuria, oltra che segno
mostriam di debolezza o di viltade,
et oltra che si tronca al nostro regno
il nervo principal, la maiestade,
facciam ch’osin di nuovo e che disegno
di farci peggio in altri animo cade:
ma chi fa sua vendetta, oltra ch’offende
chi offeso l’ha, da molti si difende. —
18
E seguitò parlando, et disponendo
le fate a vendicar il comun scorno:
che s’io volessi il tutto ir ridicendo,
non havrei da far altro tutto un giorno.
Che non facesse questo, non contendo,
per Morgana e per l’altre ch’havea intorno;
ma ben dirò che più il proprio interesse
che di Morgana o d’altre, la movesse.
19
Non potea Alcina levarsi dal core
che le fusse Ruggier così fuggito:
né so se da più sdegno o da più amore
le fusse il cor la notte e ’l dì assalito;
e tanto era più grave il suo dolore,
quanto men lo potea dir espedito,
perché del danno che patito havea
era la fata Logistilla rea.
20
Nem potuto ella havria, senza accusarla,
del ricevuto oltraggio far doglianza;
ma perch’ivi di liti non si parla
che sia tra lor, né se n’ha ricordanza,
parlò de l’onta di Morgana e farla
vendicar procacciò con ogni instanza,
che senza dir di sé, ben vede ch’ella
fa per sé anchor, se fa per la sorella.
21
Ella dicea che, come universale
biasmo di lor son di Morgana l’onte,
far se ne debbe anchor vendetta tale
che sol non habbia da patirne il Conte,
ma che n’abbassi ognun che sotto l’ale
de l’aquila superba alzi la fronte:
propone ella così, così dissegna,
perché Ruggier di nuovo in sua man vegna.
22
Sapeva ben che fatto era christiano,
fatto baron e paladin di Carlo,
ché se fusse, qual dianzi era, pagano,
miglior speranza havria di ricovrarlo;
ma poi ch’armato era di fede, invano
senza l’aiuto altrui potria tentarlo,
ché, se sola da sé vuol farli offesa,
gli vede appresso troppo gran difesa.
23
Per questo havea fier odio, acerbo isdegno,
inimicitia dura e rabbia ardente
contra re Carlo e ogni baron del regno,
contra i popoli tutti di Ponente,
parendo a lei che troppo al suo dissegno
lor bontà fusse avversa e renitente;
né sperar può che mai Ruggier s’opprima,
se non distrugge Carlo a un tempo o in prima.
24
Odia l’imperator, odia il nipote,
ch’era l’altra colonna a tener ritto,
sì che tra lor Ruggier cader non puote,
né da forza d’incanto essere afflitto.
Parlato c’hebbe Alcina, né anchor vuote
restar d’udir l’orecchie altro delitto,
che Fallerina pianse il drago morto
et la destruttion del suo bell’horto.
25
Poi c’hebbe acconciamente Fallerina
detto il suo danno e chiestone vendetta,
entrò l’aringo e tenel Dragontina,
fin che tutt’hebbe la sua causa detta
e quivi raccontò l’alta rapina
ch’Astolpho et alcun altro di sua setta
fatto le havea dentro alle proprie case
de’ suoi prigion, sì ch’un non v’en rimase.
26
Poi l’Aquilina e poi la Silvanella,
poi la Montana e poi quella dal Corso,
la fata Bianca e la Bruna sorella
et una a cui tese le reti Borso;
poi Grifonetta e poi questa e poi quella
(ché far di tutte io non potrei discorso)
dolendo si venian, chi d’Uliviero,
chi del figliuol d’Amon e chi d’Ugiero,
27
chi di Dudone e chi di Brandimarte,
quand’era vivo, e chi di Carlo istesso.
Tutti chi in una e chi in un’altra parte
havean lor fatto danno e oltraggio espresso,
rotti gli incanti e disprezzata l’arte
a cui natura e il ciel talhora ha cesso:
a pena d’ogni cento trovavi una
che non havesse hauto ingiuria alcuna.
28
Quelle che da dolersi per se stesse
non hanno, sì de l’altre il mal lor pesa
che non men che sia suo proprio interesse
si duol ciascuna e se ne chiama offesa:
non eron per patir che si dicesse
che l’arte lor non possa far difesa
contra le forze e gli animi arroganti
di paladini e cavallier erranti.
29
Tutte per questo (eccettüando solo
Morgana, c’havea fatto il giuramento
che mai né a viso aperto né con dolo
procacciaria ad Orlando nocumento),
quante ne son fra l’uno e l’altro polo,
fra quanto il sol riscalda e affredda il vento,
tutte approvàr quel c’havea Alcina detto
e tutte instàr che se gli desse effetto.
30
Poi che Demogorgon, principe saggio,
del gran Consiglio udì tutt’il lamento,
disse: «Se dunque, è general l’oltraggio,
alla vendetta general consento:
che sia Carlo, sia Orlando, sia il lignaggio
di Francia, sia tutto l’Imperio spento;
e non rimanga segno né vestigi,
né pur si sappia dir: “Qui fu Parigi”».
31
Come ne i casi perigliosi spesso
Roma e l’altre republiche fatt’hanno,
c’hanno il poter di molti a un solo cesso
che faccia sì che non patiscan danno;
così quivi ad Alcina fu commesso
che pensasse qual forza o qual inganno
s’havesse a usar, ch’ognuna d’esse presta
havria in aiuto ad ogni sua richiesta.
32
Come chi tardi il suo denar dispensa,
né d’ogni compra tosto si compiace,
cerca due volte e più tutta la Sensa
e va mirando in ogni lato, e tace;
si ferma al fin dove ritrova immensa
copia di quel ch’al suo bisogno face
e quivi hor questa, hor quella cosa volve,
cento ne piglia, e anchor non si risolve:
33
questa mette da parte e quella lassa
et quella che lasciò di novo piglia;
poi la rifiuta et ad un’altra passa;
muta e rimuta, e ad una al fin s’appiglia:
così d’alti pensieri una gran massa
rivolge Alcina e lenta si consiglia;
per cento strade col pensier discorre,
né sa veder anchor dove si porre.
34
Dopo molto girar, si ferma al fine
e le par che l’Invidia esser dea quella
che l’alto Impero occidental ruine,
faccia ch’apunto sia come s’appella;
ma di chi dar più tosto l’intestine
a roder debbia a questa peste fella,
non sa veder, né che più piaccia al gusto
creda di lei, che ’l cor di Gano ingiusto.
35
Stato era grande appresso Carlo Gano
un tempo sì, che alcun non gl’iva al paro;
poi con Astolpho quel di Mont’Albano,
Orlando e gli altri che virtù mostraro
contra Marsiglio e contra il re africano,
fèr sì che tanta altezza li levaro,
onde il meschin, che di fumo e di vento
tutto era gonfio, vivea mal contento.
36
Gano superbo, livido e maligno
tutti i grandi appo Carlo odiava a morte;
non potea alcun veder, che senza ordigno,
senza opra sua si fusse acconcio in corte:
se ben con humil voce et falso ghigno
sapea finger bontade, e d’ogni sorte
usar d’hipocrisia, che chi i costumi
suoi non sapea, li porria a’ piedi i lumi.
37
Poi, quando si trovava appresso a Carlo
(ché tempo fu ch’era ogni giorno seco),
rodea nascosamente come tarlo,
dava mazzate a questo e a quel da cieco:
sì raro dicea il vero e sì offuscarlo
sapea che da lui vinto era ogni greco.
Giudicò Alcina, com’io dissi, degno
cibo a l’Invidia il cor de vitii pregno.
38
Fra i monti inaccessibili d’Imavo,
che ’l ciel sembran tener sopra le spalle,
fra le perpetue nevi e ’l giaccio ignavo
discende una profonda e oscura valle
donde da un antro horribilmente cavo
a l’Inferno si va per dritto calle:
et questa è l’una de le sette porte
che conducono al regno de la Morte.
39
Le vie, l’entrate principal son sette,
per cui l’anime van dritto a l’Inferno;
altre ne son, ma tòrte, longhe e strette,
come quella di Tenaro e d’Averno:
questa de le più usate una si mette,
di che l’infame Invidia have il governo:
a questo fondo horribile si cala
sùbito Alcina e non v’adopra scala.
40
S’accosta alla spelonca spaventosa
e percuote a gran colpo con un’asta
quella ferrata porta, mezzo rósa
da’ tarli et da la rugine più guasta.
L’Invidia, che di carne venenosa
alhora si pascea d’una cerasta,
levò la bocca alla percossa grande
da le amare e pestifere vivande.
41
E di cento ministri c’havea intorno
mandò senza tardar uno alla porta,
che, conosciuta Alcina, fa ritorno
et di lei nova indietro le raporta.
Quella pigra si lieva e contra il giorno
le vien incontra e lascia l’aria morta,
ché ’l nome de le fate sin al fondo
si fa temer del tenebroso mondo.
42
Tosto che vide Alcina così ornata
d’oro, di seta e di ricami gai
(ché riccamente era vestir usata,
né si lasciò non culta veder mai),
con guardatura oscura e avenenata
gli lividi occhi alzò, piena di guai;
e féro il cor dolente manifesto
i sospiri ch’uscian del petto mesto.
43
Pallido più che bosso e magro e afflitto,
arido e secco ha il dispiacevol viso;
l’occhio, che mirar mai non può diritto;
la bocca, dove mai non entra riso,
se non quando alcun sente esser proscritto,
del stato espulso, tormentato e ucciso
(altrimenti non par ch’unqua s’allegri);
ha longhi i denti, ruginosi e negri.
44
— O de li imperatori imperatrice, —
cominciò Alcina — o de li re regina,
o di principi invitti domitrice,
o de Persi e Macedoni ruina,
o del romano e greco orgoglio ultrice,
o gloria a cui null’altra s’avicina,
né serà mai per appressarsi, s’ancho
il fasto lievi a l’alto Impero franco;
45
una vil gente che fuggì da Troia
sin all’alte paludi de la Tana,
dove a i vicini così venne a noia
che la spinser da sé tosto lontana;
e quindi anchora in ripa alla Danoia
cacciata fu da l’aquila romana;
et indi al Rheno, ove in discorso d’anni
entrò con arte in Francia e con inganni,
46
dove aiutando hor questo hor quel vicino
incontra a gli altri e poi, con altro aiuto,
questi c’hora gli havea dato il domino
scacciando, a parte a parte ha il tutto havuto,
fin che il nome regal levò Pipino
al suo signor, poco a l’incontro astuto.
Hor Carlo, suo figliuol, l’impero regge
e dà all’Europa e a tutto il mondo legge.
47
Puoi tu patir che la già tante volte
di terra in terra discacciata gente,
a cui le sedie hor questi hor quelli han tolte,
né lasciato in riposo lungamente,
puoi tu patir c’hor signoreggi molte
provincie e freni homai tutto Ponente
et che da l’Indo a l’onde maure estreme
la terra e il mar al suo gran nome treme?
48
Alle mortal grandezze un certo fine
ha Dio prescritto, a cui si può salire,
che, passandol, serian come divine;
il che natura e il ciel non può patire,
ma vuol che gionto a quel, poi si decline.
A quello è gionto Carlo, se tu mire.
Hor questa ogni tua gloria antiqua passa,
se tanta altezza per tua man s’abbassa. —
49
E seguitò mostrando altra cagione
c’havea di farlo, e mostrò insieme il modo;
però c’havria un gran mezo Ganelone,
d’ogni inganno capace e d’ogni frodo:
poi le soggiunse che d’obligatione,
facendol, le porrebbe al cor un nodo
in suoi servigi sì tenace e forte
che non lo potria sciòrre altro che morte.
50
Al detto de la fata, brevemente
diè l’Invidia risposta, che farebbe.
Gli suoi ministri ha separatamente,
che ciascun sa per sé quel che far debbe:
tutti hanno impresa di tentar la gente;
ogn’un guadagnar anime vorrebbe:
stimula altri i signori, altri i plebei;
chi fa gli vecchi e chi i fanciulli rei;
51
et chi li cortigiani et chi gli amanti,
et chi li monachetti e i loro abbati:
quei che le donne tentano son tanti,
che seriano a fatica noverati.
Ella venir se li fe’ tutti innanti
e poi ch’ad un ad un gli hebbe mirati,
stimò sé sola a sì importante effetto
sufficïente, e ciascun altro inetto.
52
E de suoi brutti serpi venenosi
fatt’una scielta, in Francia corre in fretta
e giunger mira in tempo ch’a i focosi
destrieri il fren la bionda Aurora metta,
alhor ch’i sogni men son fabulosi
e nascer veritade se n’espetta:
con nuovo habito quivi e nuove larve
al conte di Maganza in sogno apparve.
53
Le fantastiche forme seco tolto
l’Invidia havendo, apparve in sogno a Gano;
e gli fece veder tutto raccolto
in larga piazza il gran popul christiano,
che gli occhi lieti havea fissi nel volto
d’Orlando e del signor di Mont’Albano,
ch’in veste triomphal, cinti d’alloro,
sopra un carro venian di gemme e d’oro.
54
Tutta la nobiltà di Chiaramonte
sopra bianchi destrier lor venìa intorno:
ognun di lauro coronar la fronte,
ognun vedea di spoglie hostili adorno;
e la turba con voci a lodar pronte
gli parea udir, che benediva il giorno
che, per far Carlo a null’altro secondo,
la valorosa stirpe venne al mondo.
55
Poi di veder il popolo gli è aviso,
che si rivolga a lui con grand’oltraggio,
e dir si senta molta ingiuria in viso
et codardo nomar, senza coraggio,
et con batter di man, sibilo e riso,
s’oda beffar con tutto il suo lignaggio;
né quei di Chiaramonte haver più loda,
che li suoi biasmo, par che vegga et oda.
56
In questa visïon l’Invidia il core
con man gli tocca più fredda che neve;
e tanto spira in lui del suo furore
che ’l petto più capir non può, né deve.
Al cor pon de le serpi la peggiore,
un’altra onde l’udita si riceve,
la terza a gli occhi: onde di ciò che pensa,
di ciò che vede et ode ha doglia immensa.
57
De l’aureo albergo essendo il Sol già uscito,
lasciò la visïone e il sonno Gano,
tutto pien di dolor dove sentito
toccar s’havea con la gelata mano.
Ciò che vide dormendo gli è scolpito
già ne la mente e non l’estima vano;
non false illusïon, ma cose vere
gli par che gli habbia Dio fatto vedere.
58
Da quell’hora il meschin mai più riposo
non ritrovò, non ritrovò più pace:
da l’occulto venen il cor gli è roso,
che notte e giorno sospirar lo face:
gli par che liberal e gratïoso
sia a tutti gli altri et a nessun tenace,
se non a’ Maganzesi, il re di Francia;
fuor che la lor premiato habbia ogni lancia.
59
Già fuor di tende e fuor de padiglioni
in Parigi tornata era la corte,
havendo Carlo i principi e baroni
e tutti i forestier di miglior sorte
fatto, con gran proferte e ricchi doni,
contenti accompagnar fuor de le porte;
e tra più arditi cavalier del mondo
stava a goder il suo stato giocondo.
60
Et come saggio padre di famiglia
la sera dopo le fatiche a mensa
tra gli operarii con ridenti ciglia
le giuste parti a questo e a quel dispensa;
così, poi che di Libia e di Castiglia
spentasi intorno havea la face accensa,
rendea a signori e cavalieri merto
di quanto in armi havean per lui sofferto.
61
A chi collane d’oro, a chi vasella
dava d’argento, a chi gemme di pregio;
cittadi haveano alcuni, altri castella:
ordine alcun non fu, non fu collegio,
borgo, villa né tempio né capella,
che non sentisse il beneficio regio:
e per dieci anni fe’ tutte le genti
c’havean patito da i tributi esenti.
62
A Rinaldo il governo di Guascogna
diede, e pension di molti mila franchi;
tre castella a Olivier donò in Borgogna,
che de ’l suo antico stato erano a i fianchi;
donò ad Astolpho in Picardia Bologna;
non vi dirò ch’al suo nipote manchi:
diede al nipote principe d’Anglante
Fiandra in governo e donò Bruggia e Guante;
63
et promesse lo scettro e la corona,
poi che n’havesse il re Marsiglio spinto,
del regno di Navara e d’Aragona,
la qual impresa alhor era in procinto.
Hebbe la figlia d’Amon di Dordona
da quello del fratel dono distinto:
le diè Carlo in dominio quel che darle
in governo solea: Marsiglia et Arle.
64
In somma, ogni guerrier d’alta virtute,
chi città, chi castella hebbe, e chi ville.
A Marfisa e a Ruggier fur provedute
larghe provisïoni a mille a mille.
Se da lo imperator le gratie haute
tutte ho a notar, farò troppe postille:
nissun, vi dico, o in comune o in privato,
partì da lui che non fusse premiato.
65
Né feudi nominando né livelli,
fur senza obligo alcun liberi i doni,
acciò il non sciorre i canoni di quelli
o non ne tòrre a’ tempi investigioni,
potesse li lor figli o li fratelli,
gli heredi far cader di sue ragioni:
liberi furo e veri doni, e degni
d’un re che degno era d’imperio e regni.
66
Hor, sopra gli altri, quei di Chiaramonte
ne i real doni havean tanto vantaggio
che sospirar facean dì e notte il conte
Gan di Maganza, et tutto il suo lignaggio:
come gli honori d’un fossero l’onte
de l’altra parte, lor pungea il coraggio;
et questa invidia a l’odio, et l’odio a l’ira,
et l’ira alfine al tradimento il tira.
67
Et perché, d’astio et di veneno pregno,
potea nasconder mal il suo dispetto
et non potea non dimostrar lo sdegno
che contra il re per questo havea concetto;
et non men per fornir alcun disegno
ch’in parte ordito, in parte havea nel petto,
finse haver voto, et ne sparse la voce,
d’ire al Sepolcro e al monte de la Croce:
68
et era il suo pensiero ire in Levante
a ritrovar il calife d’Egitto,
col re de la Soria poco distante;
e più sicuro a bocca che per scritto
trattar con essi, che le terre sante
dove Dio visse in carne e fu traffitto,
o per fraude o per forza da le mani
fusser tolte e dal scettro de’ christiani.
69
Indi andar in Arabia havea disposto,
e far scender quei populi a l’acquisto
d’Africa, mentre Carlo era discosto
et di gente il paese mal provisto.
Già inanzi la partita havea composto
che Desiderio al vicario di Christo,
Tassillo a Francia, e a Scotia e ad Inghelterra
havesse il re di Datia a romper guerra;
70
et che Marsiglio armasse in Catalogna
e scendesse in Provenza e in Acquamorta
et con un altr’esercito in Guascogna
corresse a Mont’Alban fin su la porta;
egli Maganza, Basilea, Cologna,
Costanza et Aquisgrana, che più importa,
promettea far ribelli a Carlo, e in meno
d’un mese tòrli ogni città del Rheno.
71
Hor fattasi fornir una galea
di vettovaglia, d’armi et de compagni,
poi che licenza dal re tolt’havea,
uscì del porto et de i sicuri stagni.
Restar a dietro, anzi fuggir parea
il lito, et occultar tutti i vivagni:
indi l’Alpe a sinistra parea lunge,
ch’Italia invan da barbari disgiunge;
72
indi i monti Ligustici, e riviera
che con aranzi e sempre verdi mirti
quasi havendo perpetua primavera,
sparge per l’aria i ben olenti spirti.
Volendo il legno in porto ir una sera
(in qual apunto io non saprei ben dirti),
hebbe un vento da terra in modo all’orza
ch’in mezo il mar lo fe’ tornar per forza.
73
Il vento tra maestro e tramontana,
con timor grande e con maggior periglio,
tra l’oriente e mezodì allontana
sei dì senza allentarsi unqua il naviglio.
Fermossi al fine ad una spiaggia istrana,
tratto da forza più che da consiglio,
dove un miglio discosto da l’arena
d’antique palme era una selva amena:
74
che per mezo da un’acqua era partita
di chiaro fiumicel, fresco et giocondo,
che l’una et l’altra proda havea fiorita
de i più soavi odor che siano al mondo.
Era di là dal bosco una salita
d’un picciol monticel quasi rotondo,
sì facil a montar, che prima il piede
d’haver salito, che salir si vede.
75
D’odoriferi cedri era il bel colle
con maestrevol ordine distinto;
la cui bell’ombra al sol sì i raggi tolle
ch’al mezodì dal rezzo è il calor vinto.
Ricco d’intaglio e di soave e molle
getto di bronzo e in parti assai dipinto,
un longo muro in cima lo circonda,
d’un alto e signoril palazzo sponda.
76
Gano, che di natura era bramoso
di cose nuove e dal bisogno astretto
(che già tutto il biscotto haveano roso),
de’ suoi compagni havendo alcuno eletto,
si mise a caminar pel bosco ombroso,
tra via prendendo d’ascoltar diletto
da’ rugiadosi rami d’arbuscelli
il piacevol cantar de’ vaghi augelli.
77
Tosto ch’egli dal mar si pose in via
et fu scoperto dal luogo eminente,
di trombe torte et pifare armonia
da l’alta casa insino al lito sente:
non molto va che bella compagnia
truova di donne, et dietro alcun sergente
che palafreni vuoti havean con loro,
altri di seta, altri guarniti d’oro;
78
che con cortesi et belli inviti fenno
Gano salir, et chi venìa con lui.
Con pochi passi fine alla via denno
le donne e i cavalier, a dui a dui.
L’oro di Creso, l’artificio e ’l senno
d’Alberto, di Bramanti, di Vitrui,
non potrebbono far, con tutto l’agio
di ducento anni, un così bel palagio.
79
Et da i demoni tutto in una notte
lo fece far Gloricia incantatrice,
c’havea l’esempio ne l’idee incorrotte
d’un che Vulcano haver fatto si dice;
del qual restaro poi le mura rotte
quel dì che Lenno fu da la radice
svelta et gettata con Cipro e con Delo
da i figli de la Terra contra il cielo.
80
Tenea Gloricia splendida e gran corte,
non men ricca d’Alcina et di Morgana;
non men d’esse era dotta in ogni sorte
d’incantamenti inusitata e strana;
ma non, com’esse, pertinace e forte
ne l’altrui ingiurie, anzi cortese e humana,
né potea al mondo haver maggior diletto
che honorar questo et quel nel suo bel tetto.
81
Sempre ella tenea gente a la veletta,
a’ porti et all’uscita de le strade,
che con inviti i pellegrini alletta
venir a lei da tutte le contrade.
Con gran splendor il suo palazzo accetta
poveri e ricchi et d’ogni qualitade;
e il cor de’ viandanti con tai modi
nel suo amor lega d’insolubil nodi.
82
Et come havea di accarezzar usanza
e di dar a ciascun debito honore,
fece accoglienza al conte di Maganza
Gloricia, quanto far potea maggiore;
et tanto più, che ben sapea ad instanza
d’Alcina esser qui giunto il traditore:
ben sapev’ella c’havea Alcina ordito
che capitasse Gano a questo lito.
83
Ell’era stata in India al gran Consiglio
dove l’alto esterminio fu concluso
d’ogni guerriero ubidïente al figlio
del re Pipino; e nissun era escluso,
eccetto il Maganzese, il cui consiglio,
il cui favor stimàr atto a quell’uso:
dunque, a lui le accoglienze e’ modi grati
che quivi gli altri havean, fur radoppiati.
84
Gloricia Gano, com’era commesso
da chi fatto l’havea cacciar da i venti,
acciò quindi ad Alcina sia rimesso
tra’ Scithi e l’India a i suoi regni opulenti,
fa la notte pigliar nel sonno oppresso,
et li compagni insieme e li sergenti.
Così far quivi a gli altri non si suole,
ma dar questo vantaggio a Gano vuole.
85
Et ben che, più che honor, biasmo si tegna
pigliar in casa sua ch’in lei si fida,
et a Gloricia tanto men convegna,
che fa del suo splendor sparger le grida,
pur non le par che questo il suo honor spegna:
ché tòrre al ladro e occider l’homicida,
tradir il traditor, ha degni esempi,
ch’ancho si pon lodar, secondo i tempi.
86
Quando dormia la notte più soave,
Gano e i compagni suoi tutti fur presi
et serrati in un ceppo duro et grave,
l’un presso a l’altro, trenta Maganzesi.
Gloricia in terra dissegnò una nave
capace et grande con tutti suo’ arnesi,
et fece li prigion legar in quella,
sotto la guardia d’una sua donzella.
87
Sparge le chiome e qua e là si volve
tre volte e più, fin che mirabilmente
la nave ivi dipinta ne la polve
da terra si levò tutta ugualmente.
La vela al vento la donzella sciolve,
per incanto alhor nata parimente,
et verso il ciel ne va, come per l’onda
suol ir nocchier che l’aura habbia seconda.
88
Gano e i compagni, che per l’aria tratti
da terra si vedean tanto lontani,
com’assassini istranamente attratti
nel lungo ceppo per piedi e per mani,
tremando di paura, e stupefatti
di maraviglia de’ lor casi strani,
volavan per Levante in sì gran fretta
che non gli havrebbe giunti una saetta.
89
Lasciando Ptolomaide e Berenice
e tutt’Africa drieto e poi l’Egitto
e la Deserta Arabia e la Felice,
sopra il mar Eritreo fecion traghitto.
Tra Persi e Medi, e là dove si dice
Batra, passan, tenendo il corso dritto
tuttavia fra orïente e tramontana,
e lascian Casia a dietro e Sericana.
90
Et sì come veduti eran da molti,
di sé davano a molti maraviglia:
facean tener levati al ciel i volti
con occhi immoti et con arcate ciglia.
Vedendoli passar alcuni stolti
da terra alti lo spatio di duo miglia
et non potendo ben scorgere i visi,
hebbon di lor diversi et strani avisi.
91
Alcuni imaginar che di Charone,
lo nocchiero infernal, fusse la barca,
che d’anime dannate a perditione
a la via di Cocito andasse carca.
Altri diceano, d’altra opinïone:
— Questa è la santa nave ch’al ciel varca,
che Pietro tol da Roma, acciò ne l’onde
di stupri et simonie non si profonde. —
92
Et altra cosa altri dicean dal vero
molto diversa et senza fin rimota.
Passava intanto il navilio leggiero
per la contrada a’ nostri poco nota,
fra l’India havendo e Tartaria il sentiero,
quella di città piena et questa vota,
fin che fu sopra la bella marina
ch’ondeggia intorno a l’isola d’Alcina.
93
Ne la città d’Alcina, nel palagio,
dentro alle loggie la donzella pose
la nave, e tutti li prigion ad agio,
e l’imbasciata di Gloricia espose.
Ne i ceppi, come stavano, a disagio
Alcina in una torre al sole ascose
i Maganzesi, havendo riferite
del dono a chi ’l donò gratie infinite.
94
La sera fuor di carcere poi Gano
fe’ a sé condurre e a ragionar il messe
de lo stato di Francia e del romano,
di quel ch’Orlando et che Ruggier facesse.
L’astuto Maganzese, c’hebbe piano
quanto la donna Carlo in odio havesse,
Ruggiero, Orlando e gli altri, tosto prese
l’util partito, et a salvar s’attese.
95
— S’haver, donna, volete ognun nimico, —
disse — che de la corte sia di Carlo,
me in odio havrete anchora, ché ’l mio antico
seggio è tra’ Franchi, e non potrei negarlo;
ma se più tosto odiate chi gli è amico
et di sua volontà vuol seguitarlo,
me non havrete in odio, ch’io non l’amo,
ma il danno e biasmo suo più di voi bramo.
96
Et s’hebbe alcun mai da bramar vendetta
di tiranno che gli habbia fatto oltraggio,
bramar di Carlo et di tutta sua setta
vendetta inanzi a tutti i sudditi haggio;
come di re da cui sempre negletta
la gloria fu di tutto il mio lignaggio
et che, per sempre al cor tenermi un telo,
con favor alza i miei nimici al cielo.
97
Il mio figliastro Orlando, che mia morte
procurò sempre e ad altro non aspira,
contra me mille volte ha fatto forte;
per lui m’ha mille volte hauto in ira:
Rinaldo, Astolpho et ogni suo consorte
di giorno in giorno a maggior grado tira:
tal che sicuro, per lor gran possanza,
non che in corte non son, ma né in Maganza.
98
Hor, per maggior mio scorno, un fuggitivo
del sfortunato figlio di Troiano,
Ruggier, che m’ha un fratel di vita privo
et un nipote con la propria mano,
tiene in più honor che mai non fu Gradivo
Marte tenuto dal popul romano:
tal che levato indi mi son, con tutto
il sangue mio, per non restar distrutto.
99
Se me e questi altri c’havete qui meco,
che sono il fior di casa da Pontiero,
uccidete o dannate a carcer cieco,
di perpetuo timor sciolt’è l’Impero:
ch’ogni nimico suo, c’habbia noi seco,
per noi può entrar in Francia di leggiero,
ché ci havemo la parte in ogni terra,
fortezze e porti e luoghi atti a far guerra. —
100
Et seguitò il parlar astuto e pieno
di gran malitia, sempre mai toccando
quel che vedea di gaudio empirle il seno,
che le vuol dar Ruggier preso et Orlando.
Alcina ascolta et ben nota il veleno,
che l’Invidia in lui sparse, ir lavorando:
commanda allhora allhora che sia sciolto
et sia con tutti i suoi di prigion tolto.
101
Volse che poi le promettesse Gano,
con giuramenti stretti et d’horror pieni,
di non cessar, fin che legato in mano
Ruggier col suo figliastro non le meni:
ma, per poter non darli assunto in vano,
oltr’oro e gemme e aiuti, altri terreni
promise ella a l’incontro, di far quanto
potea sopra natura oprar l’incanto.
102
Et gli diè ne la gemma d’uno anello
un di quei spirti che chiamiam folletti,
che gli ubedisca, et così possa havello
com’un suo servitor de’ più soggetti:
Vertunno è il nome, che in fiera, in ucello,
in huomo, in donna e in tutti gli altri aspetti,
in un sasso, in un’herba, in una fonte
mutar vedrete in un chinar di fronte.
103
Hor perché Malagigi non aiuti,
com’altre volte ha fatto, i paladini,
gli spiriti infernal tutti fe’ muti,
gli terrestri, gli aérii e gli marini;
eccetto alcuni pochi c’ha tenuti
per uso suo, non franchi né latini,
ma di lingua da gli altri sì rimota
ch’a nigromante alcun non era nota.
104
Quel ch’alla fata il traditor promise,
promiser gli altri anchor ch’eran con lui.
Fermato il patto, Gano si rimise
nel fantastico legno con li sui.
Il vento, come Alcina li commise,
fra i lucidi Indi e li Cimerii bui
soffiando, ferì in guisa ne l’antenna
ch’in aria alzò la nave come penna.
105
Né, men che rato, lo portò quïeto
per la medesma via che venut’era;
sì che, fra spatio di sett’hore, lieto
si ritrovò ne la sua barca vera,
di pan, di vin, di carne e infin d’aceto
fornita et d’insalata per la sera:
fe’ dar le vele al vento e venne a filo
ad imboccar sott’Alessandria il Nilo.
106
Et già da l’armiraglio havendo hauto
salvo condotto, al Cairo andò diritto,
con duo compagni, in un legno minuto,
segretamente, e in habito d’Egitto.
Dal calife per Gano conosciuto,
ché molte volte inanzi s’havean scritto,
fu di carezze sì pieno e d’honore
che ne scoppiò quasi il ventoso core.
107
In questo mezo che l’Invidia ascosa
il traditor rodea di ch’io vi parlo,
come l’altrui bontà fu da lui rosa,
ché poco dianzi il simigliavo a un tarlo;
ira, odio, sdegno, amor facea angosciosa
Alcina, e un fier disio di strugger Carlo;
et quanto più credea di farlo in breve
tant’ogn’indugia le parea più greve.
108
Il conte di Pontier le havea narrato
che, prima che di Francia si partisse,
da lui fu Desiderio confortato,
per ambasciate e lettere che scrisse,
che con Tedeschi et Ungheri da un lato,
che facil fòra ch’a sue genti unisse,
saltasse in Francia; et che Marsiglio hispano
saltar faria da l’altro, e l’Aquitano.
109
Et che quel glie n’havea dato speranza;
poi venia lento a metterla in effetto,
o che tema di Carlo la possanza,
o sia mal di sua lega il nodo astretto.
Alcina che si mor di disïanza
di por Francia e l’Imperio in mal assetto,
adopra ogni saper, ogni suo ingegno,
per dar colore a così bel dissegno.
110
Et è bisogno al fin ch’ella ritruovi,
per far mover di passo il Longobardo,
sproni che siano aguzzi più che chiovi:
tanto le pare a questa impresa tardo!
Et come fece far dissegni nuovi
dianzi l’Invidia a quel cochin pagliardo,
così spera trovar un’altra peste
che ’l pigro re da la sua inertia deste.
111
Conchiuse che nissuna era meglio atta
a stimularlo e far più risentire,
d’una che nacque quando ancho la matta
Crudeltà nacque, e le Rapine e l’Ire.
Che nome havesse et come fusse fatta,
ne l’altro canto mi riserbo a dire,
dove farò, per quanto è mio potere,
cose sentir maravigliose e vere.

CANTO SECONDO

1
Pensar cosa miglior non si può al mondo,
d’un signor giusto e in ogni parte buono,
che del debito suo non getti il pondo,
ben che talhor ne vada curvo e prono;
ch’ami e curi i suoi popoli, secondo
che da lor padri amati i figli sono;
che l’opre e le fatiche pei figliuoli
fan quasi sempre, e raro per sé soli:
2
ponga a i perigli et a le cose strette
il petto inanzi e faccia a gli altri schermo:
che non sia il mercenario il qual non stette,
poi che venir vide a sé il lupo, fermo;
ma sì bene il pastor vero, che mette
la vita propria pel suo gregge infermo,
il qual conosce le sue pecorelle
ad una ad una, e lui conoscono elle.
3
Tal fu in terra Saturno, Hercole e Giove,
Bacco, Poluce, Osiri et poi Quirino,
che con giustitia et virtüose prove
et con soave e a tutti ugual domino,
fur degni in Grecia, in India, in Roma et dove
corse lor fama, haver honor divino;
che riputar non si potrian defunti,
ma a più degno governo in cielo assunti.
4
Quando il signor è buono, i sudditi ancho
fa buoni: ch’ognun imita chi regge
e s’alcun tiene il vitio suo pur, mancho
lo mostra fuor, o in parte lo corregge.
O beati li regni a chi un huom franco
e sciolto da ogni colpa habbia a dar legge!
Così infelici anchora e miserandi,
ove un ingiusto, ove un crudel commandi;
5
che sempre accresca et più gravi la soma,
come in Italia molti a’ giorni nostri,
de’ quali il biasmo in questo e l’altro idioma
faran sentire ancho i futuri inchiostri:
che migliori non son che Gaio a Roma,
o Neron fosse o fosser gli altri mostri:
ma se ne tace, perché è sempre meglio
lasciar i vivi et dir del tempo veglio:
6
et dir qual sotto Fallari Agrigento,
qual fu sotto i Dionigi Siracusa,
qual Fere in man del suo tiran cruento,
da i quali et senza colpa et senza accusa
la gente ogni dì quasi a cento a cento
era troncata o in longo esiglio esclusa.
Ma né senza martir sono essi anchora,
ch’al cor lor sta non minor pena ogn’hora.
7
Sta lor la pena de la qual si tacque
il nome dianzi et de la qual dicea
che nacque quando la brutt’Ira nacque,
la Crudeltade et la Rapina rea:
e quantunque in un ventre con lor giacque,
di tormentarle mai non rimanea.
Hor dirò il nome, ch’io non l’ho anchor detto:
nomata questa pena era il Sospetto.
8
Il Sospetto, piggior de tutti i mali,
spirto il piggior d’ogni maligna peste
che l’infelici menti de’ mortali
con venenosi stimoli moleste;
non le povere o l’humili, ma quali
s’aggiran dentro a le superbe teste
di questi scelerati, che per opra
di gran fortuna a gli altri stan di sopra.
9
Beato chi lontan da questi affanni
nuoce a nissuno, ch’a nissuno è odioso!
Infelici altrotanto, e più, i tiranni,
a cui né notte mai né dì riposo
dà questa peste e gli ricorda i danni,
e morti date a quello, e a tutti esoso!
Et gli dimostra ch’a temer sol d’uno
han tutti gli altri, et esso sol d’ognuno.
10
Non v’incresca di starmi un poco a udire,
ché non però dal mio sentier mi scosto;
anzi farò questo c’hor narro uscire
dove poi vi parrà che sia a proposto.
Uno di questi, il qual primo a nudrire
usò la barba, per tener discosto
chi li potea la vita a un colpo tòrre,
ne ’l suo palazzo edificò una torre,
11
che, d’alte fosse cinta e grosse mura,
havea un sol ponte che si lieva e cala;
fuor ch’un balcon, non v’era altra apertura,
ov’apena entra il giorno e l’aria esala:
quivi dormia la notte et era cura
de la moglier di mandar giù la scala:
di quella entrata è un gran mastin custode,
ch’altri mai che lor dua non vede et ode.
12
Non ha ne la moglier però sì grande
fede il meschin, che prima ch’a lei vada,
quando uno e quando un altro suo non mande,
che cerchi i luoghi onde a temer gli accada.
Ma ciò poco gli val, ché le nefande
man de la donna e la sua propria spada
fér d’infinito mal tarda vendetta,
e a l’inferno volò lo spirto in fretta.
13
E Rhadamanto, giudice del loco,
tutto il cacciò sotto il bollente stagno,
dove non pianse et non gridò: — I’ mi cuoco —,
come gridava ogn’altro suo compagno;
e la pena mostrò curar sì poco,
che disse il giustitier: — Io te la cagno —;
e lo mandò ne le più oscure cave,
dove è un martìr d’ogni martìr più grave.
14
Né quivi parve anchor che si dogliesse;
et domandato, disse la cagione:
che quando egli vivea, tanto l’oppresse
et tal li diè il Sospetto afflittione
(che nel capo quel giorno se li messe,
che si fece signor contra ragione),
che sol hora il pensar d’esserne fuore
sentir non li lassava altro dolore.
15
Si consigliaro i saggi de l’Inferno
come potesse haver degno tormento,
che seria contra l’instituto eterno
se peccator là giù stesse contento;
et di nuovo mandarlo al caldo, al verno
concluso fu da tutto il parlamento
et di nuovo al Sospetto in preda darlo,
ch’entrasse in lui senza più mai lasciarlo.
16
Così di nuovo entrò il Sospetto in questa
alma, et di sé et di lei fece tutt’uno,
come in ceppo salvatico s’inesta
pomo diverso e ’l nespilo su’l pruno;
o di molti colori un color resta,
quand’un pittor ne piglia di ciascuno
per imitar la carne, e ne riesce
un diferente a tutti quei che mesce.
17
Di suspettoso che ’l tiràn fu in prima,
hor divenuto era il Sospetto istesso
et, come morte la ragion di prima
havesse in lui, li parea haverla appresso.
Ma ritornando al mio parlar di prima,
ché per questo in oblio non l’havea messo,
Alcina se ne va dove su ’l tergo
d’un alto scoglio ha questo spirto albergo.
18
Quel scoglio ove il Sospetto fa soggiorno
è da ’l mar alto da seicento braccia,
di ruvinose balze cinto intorno,
e da ogni canto di cader minaccia.
Il più stretto sentier che vada al Forno,
là dove il Grafagnino il ferro caccia,
la via Flamminia o l’Apia nomar voglio
verso quel che dal mar va in cima al scoglio.
19
Prima che giunghi a la suprema altezza,
sette ponti ritruovi e sette porte:
tutt’hanno con lor guardie una fortezza;
la settima de l’altre è la più forte.
Là dentro, in grande affanno e gran tristezza,
ché li par sempre a’ fianchi haver la morte,
il Sospetto meschin solo s’annida;
nissun vuol seco e di nissun si fida.
20
Grida da’ merli e tien le guardie deste,
né mai riposa al sol né al ciel oscuro,
e ferro sopra ferro et ferro veste:
quanto più s’arma, è tanto men sicuro.
Muta et accresce hor quelle cose hor queste
a le porte, al terraglio, al fosso, al muro:
per darne altrui, munitïon gli avanza;
et non li par che mai n’habbia a bastanza.
21
Alcina, che sapea ch’indi il Sospetto
né a prieghi né a minaccie vorria uscire
e tràrlone era forza al suo dispetto,
tutto pensò ciò che potea seguire.
Havea seco arrecato a questo effetto
l’acqua del fiume che fa l’huom dormire
et entrando invisibil ne la rocca,
con essa ne le tempie un poco il tocca.
22
Quel cade adormentato; Alcina il prende
et scongiurando spiriti infernali
fa venir quivi un carro e su vel stende,
che tiran duo serpenti c’hanno l’ali;
poi verso Italia in tanta fretta scende
che con la più non van di Giove i strali.
La medesima notte è in Lombardia,
in ripa di Ticin dentro a Pavia:
23
là dove il re de’ Longobardi alhora
l’antico seggio, Desiderio, havea.
Nel ciel orïental sorgea l’aurora
quando perdé il vigor l’acqua lethea:
lasciò il sonno il Sospetto; et quel, che fuora
e lontan dal castel suo si vedea,
morto seria, se non fusse già morto,
ma la fata hebbe presta al suo conforto.
24
Gli promesse ella indietro rimandarlo
senza alcun danno; e in guisa li promesse,
che puoté in qualche parte assicurarlo,
non sì però ch’in tutto li credesse;
ma prima in Desiderio, che di Carlo
temea le forze, entrasse gli commesse
et che non se li lievi mai del seno
fin che tutto di sé non l’habbia pieno.
25
Mentre fu Carlo i giorni inanzi astretto
dal re d’Africa a un tempo et da Marsiglio,
il re de’ Longobardi, per negletto
et per perduto havendo posto il giglio,
non curando né papa né interdetto
a la Romagna havea dato di piglio;
po’ entrando ne la Marca, con battaglia
e Pesaro havea preso e Sinigaglia.
26
Indi sentendo ch’era il foco spento,
morto Agramante e il re Marsiglio rotto,
de la temerità sua mal contento
si riputò a mal termine condotto.
Hor viene Alcina e accresceli tormento:
ché ’l spirto rio fa entrar in lui di botto,
che notte e dì l’afflige, crucia et ange
e più che sopra un sasso in letto il frange.
27
Gli par veder che lassi il Reno e l’Erra
il popul già troiano e poi sicambro,
et apra l’Alpi e scenda ne la terra
che riga il Po, l’Ada, il Ticino et l’Ambro:
veder s’espetta in casa sua la guerra
et sua ruina più chiara che un ambro;
né più certo rimedio al suo mal truova
che contra Francia ogni vicin commova.
28
Et come quel che gran tesori uniti
havea d’esattïoni et di rapine
et havea i sacri argenti convertiti
in uso suo da le cose divine,
con doni e con proferte e gran partiti
colligò molte natïon vicine,
come già il conte di Pontier li scrisse
prima che da la corte si partisse.
29
Tutta havea Gano questa tela ordita,
che ’l Longobardo dovea tesser poi;
e quella poi non era oltre seguita
et fin qui stava ne’ principii suoi.
Hor la mente, d’un stimolo ferita
piggior di quel che caccia asini e buoi,
conchiuse e fece nascer come un fongo
quel che più giorni havea menato in longo.
30
Fe’ in pochi dì che Tassillone, ch’era
suo genero e cugin del duca Namo,
tutta la stirpe sua fuor di Bavera
cacciò, senza lasciarvene un sol ramo.
Fe’ similmente ribellar la fera
Sansogna e ritornar a re Gordamo
e trasse, per por Carlo in maggior briga,
con gli Ungheri i Boemi in una liga;
31
e ’l re di Datia e il re de le due Marche
pór tra la Frisa e ’l termine d’Olanda
tante fuste e galee, carache e barche,
per gir ne l’Inghilterra e ne l’Irlanda,
che per fuggir havean le somme carche
molte terre da mar da quella banda.
Da un’altra parte si sentiva il vecchio
nimico in Spagna far grande apparecchio.
32
Tutto seguì ciò c’havea ordito Gano,
ch’era d’insidie e tradimenti il padre.
Fu suscitato Hunnuldo l’aquitano
a soldar genti fattïose e ladre:
mettendo terre a sacco, capitano
di ventura era detto da le squadre;
nascosamente da Lupo aiutato,
di Bertolaggi di Baiona nato.
33
Fér queste nuove, per diversi avisi
venute, a Carlo abandonar le feste
e a donne e ai cavalier i giochi e’ risi
et mutar le leggiadre in scure veste.
De’ saccheggiati populi et occisi
per ferro, fiamme, opprissioni e peste,
le memorie percosse ad hora ad hora
prometteano altrotanto e peggio anchora.
34
O vita nostra de travaglio piena,
com’ogni tua allegrezza poco dura!
Il tuo gioir è come aria serena,
ch’a la fredda stagion troppo non dura:
fu chiaro a terza il giorno e a vespro mena
sùbita pioggia, et ogni cosa oscura.
Parea ai Franchi esser fuor d’ogni periglio,
mort’Agramante e rotto il re Marsiglio;
35
et ecco un’altra volta che ’l ciel tuona
da un’altra parte et tutto arde de lampi,
sì che ogni speme i miseri abandona
di poter frutti còr de li lor campi.
Et così avvien ch’una novella buona
mai più di venti o trenta dì non campi,
perché vien dietro un’altra che l’uccide;
e piangerà doman l’huom c’hoggi ride.
36
Per le cittadi huomini e donne errando,
con visi bassi e d’allegrezza spenti,
andavan taciturni suspirando,
né si sentian anchor chiari lamenti:
qual ne le case attonite avvien, quando
mariti o figli o più cari parenti
si veggon travagliar ne l’hor’estreme,
ch’infinito è il timor, poc’è la speme.
37
E quella poca pur spenger il gielo
vuol de la tema e dentro il cor si caccia:
ma come può d’un picciolin candelo
fuoco scaldar dov’alta neve aggiaccia?
Chi lieva a Dio, chi lieva a’ santi in cielo
le palme giunte e la smarrita faccia,
pregandoli che, senza più martire,
basti il passato a disfogar lor ire.
38
Come che il popol timido per tema
desperi e perda il core e venga manco,
nel magnanimo Carlo non iscema
l’ardir, ma cresce, e nei paladin ancho:
ché la virtù di grande fa suprema,
quanto travaglia più, l’animo franco;
e gloria et immortal fama ne nasce,
che me’ d’ogn’altro cibo il guerrier pasce.
39
Carlo, a cui ritrovar dificilmente,
la terra e il mar cercando a parte a parte,
si potria par di santa e buona mente,
e d’ogni fintion netta e d’ogn’arte
(e lasso! anchor oltre l’età presente
volgi l’antiche e più famose carte);
a Dio raccomandò sé, i figli e il stato,
né più curò ch’esser di fede armato.
40
Né men saggio che buono, poi c’hauto
hebbe ricorso alla Maggior Possanza,
che non mancò né mancherà d’aiuto
ad alcun mai che ponga in lei speranza,
fece che, senza indugia, proveduto
fu a tutti i luoghi ov’era più importanza:
gli capitani suoi per ogni terra
mandò a far scelta d’huomini da guerra.
41
Non si sentiva alhor questo rumore
de i tamburi, com’hoggi, andar in volta,
invitando la gente di più core,
o forse (per dir meglio) la più stolta,
che per tre scudi o per prezzo minore
vada ne’ luoghi ove la vita è tolta:
stolta più tosto la dirò ch’ardita,
ch’a sì vil prezzo venda la sua vita.
42
A la vita l’honor s’ha da preporre,
fuor che l’honor non altra cosa alcuna:
prima che mai lasciarsi l’honor tòrre
déi mille vite perdere, non ch’una.
Chi va per oro o vil guadagno a porre
la sua vita in arbitrio di fortuna,
per minor prezzo crederò che dia,
se troverà chi compri, ancho la mia.
43
O, com’io dissi, non sanno che vaglia
la vita quei che sì l’estiman poco;
o c’han disegno, inanzi a la battaglia,
che ’l piè li salvi a più sicuro loco.
La mercenaria mal fida canaglia
prezzar gli antichi imperatori poco:
de la lor nation più tosto venti
volean, che cento di diverse genti.
44
Non era a quelli tempi alcun escluso
che non portasse l’armi e andasse in guerra,
fuor che fanciul da sedici anni in giuso
o quel che già l’estrema etade afferra:
ma tal militia sol era per uso,
sol per bisogno e honor de la sua terra:
sempre sua vita esercitando sotto
buon capitani, in armi era ognun dotto.
45
Carlo per tutta Francia e per la Magna,
per ogni terra a’ suoi regni soggetta,
fa scriver gente, e poi la piglia e cagna
secondo che gli par atta et inetta:
sì che fa in pochi giorni alla campagna
un esercito uscir di gente eletta,
da far che Marte fin su nel ciel treme,
non che a’ nimici l’impeto non sceme.
46
Gli elmi, gli arnesi, le corazze e scudi,
che poco dianzi fur messi da parte,
et de lor fatte ample officine ai studi
de l’ingegnose aragne era gran parte,
sì che forsi tornar in su gli incudi
temeano e farsi ordigni a più vil arte;
hor imbruniti, fuor d’ogni timore,
godeano esser riposti al primo honore.
47
Suonan di qua et di là tanti martelli,
che n’assorda di strepito ogni orecchia:
quei batton piastre e le rifanno e quelli
vanno acconciando l’armatura vecchia;
altri le barde torna a li penelli,
coprirle altri di drappo s’apparecchia:
chi cerca questa cosa et chi ritruova
quell’altra; altri racconcia, altri rinuova.
48
Poi che Carlo al tesor ruppe il serraglio,
hebbon da travagliar tutt’i mestieri,
ma né maggior né più commun travaglio
era però, che di trovar destrieri:
ché li disagi et de le spade il taglio
tolto n’havean da le decine i zeri:
quali si fusson (ché i buoni eran rari),
come il sangue e la vita erano cari.
49
Carlo, oltre l’ordinario che solea
haver d’huomini d’armi alle frontiere
e de la gente ch’a piè combatea,
che per pace era usato ancho tenere,
de l’un canto e de l’altro hor fatto havea
che pien’era ogni cosa di bandiere:
trenta sei mila armati in su l’arzoni,
e quattro tanto e più furo i pedoni.
50
E per li molti esempi che già letto
de’ capitani havea del tempo veglio,
com’huom ch’amava sopra ogni diletto
d’udir historie e farne al viver speglio;
et più perché vedutone l’effetto
per propria esperïenza, il sapea meglio;
connobbe al tempo la prestezza usata
aver più volte la vittoria data;
51
e ch’era molto meglio ch’egli andasse
i nimici a trovar ne la lor terra
e sopra li lor campi s’alloggiasse
e desse lor de’ frutti de la guerra,
che dentro alle confine gli aspettasse
che l’Alpi e ’l Pireneo fra dui mar serra.
Fatta la mostra, i popoli divise
in molte parti e a’ suoi capi i commise.
52
In quel tempo era in Francia il cardinale
di Santa Maria in Portico venuto,
per Leon terzo e pel seggio papale
contra Lombardi a domandarli aiuto:
ché mal s’era tra spada e pastorale,
e con gran disvantaggio, combattuto.
L’imperador, dunque, il primier stendardo
che fe’ espedir, fu contra il Longobardo.
53
Era Carlo amator sì de la Chiesa,
sì d’essa protettor e di sue cose
che sempre l’augumento et la difesa,
sempre l’util di quella al suo prepose:
però, dopo molt’altre, questa impresa
nome di Christianissimo li pose
e dal santo Pastor meritamente
sacrato imperator fu di Ponente.
54
Mandò il nipote Orlando e mandò fanti
seco, a cavallo e una gran schiera d’archi.
Subito Orlando a pigliar l’Alpi inanti
fece ir li suoi più d’armatura scarchi;
ma trovàr ch’i nimici vigilanti
havean prima di lor pigliato i varchi
e fur constretti d’aspettar il Conte
con tutto l’altro campo a piè del monte.
55
Orlando quei da l’armi più leggiere,
quando pedoni e quando gente equestre,
cominciò alla sua gionta a far vedere
hor su le manche hor su le piagge destre;
e far fuochi avampar tutte le sere,
di qua e di là, per quelle cime alpestre;
e di voler passar mostra ogni segno
fuor ch’ove di passar fors’ha dissegno.
56
A Mon Ginevra, al Mon Senese havea
e a tutti i monti ove la via più s’usa,
provisto il Longobardo e vi tenea
con fanti e cavalieri ogni via chiusa;
sopra Saluzzo i monti difendea
un suo figliuolo et esso quei di Susa.
Per tutti questi passi, hor basso hor alto,
Orlando movea loro ogni dì assalto.
57
Spesso fa dar all’armi e mai non lassa
l’inimico posar né dì né notte:
né però l’un su quel de l’altro passa,
e ben si pon segnar pari le botte.
Ma serebb’ita in lungo e forse cassa
d’effetto sua fatica in quelle grotte,
se non gli havesse la vittoria in mano
fatta cader un nuovo caso strano.
58
Nel campo longobardo un giovan era,
signor di Villafranca a piè de’ monti,
capitan de gli armati alla leggiera,
che n’havea mille ad ogni impresa pronti,
di tanto ardir, d’audacia così fiera
che sempre inanzi iva alle prime fronti;
e sue degne opre non pur fra gli amici,
ma laude ancho trovar da gli nimici.
59
Era il suo nome Othon da Villafranca,
di lucid’armi e ricche vesti adorno,
che la fida moglier, nomata Bianca,
in ricamar havea speso alcun giorno.
La destra parte era oro, era la manca
argento et ancho havean dentro e d’intorno,
quella d’argento e questa in nodi d’oro,
le note incomincianti i nomi loro.
60
Havea un caval sì snello e sì gagliardo
che par non havea al mondo, et era còrso,
sparso di rosse macchie il col, leardo
l’un fianco e l’altro e dal ginocchio al dorso.
Men sicuro di lui parea e più tardo,
volga alla china o drizzi all’erta il corso,
quel animal che da le balze cozza
coi duri sassi, e lenta la camozza.
61
Su quel destrier Othone, hor alto hor basso
correndo, era per tutto in un momento,
quando lanciando un dardo e quando un sasso,
ché la persona sua ne valea cento.
Hor s’opponeva a questo, hor a quel passo;
né sol valea di forza e d’ardimento,
ma facea con la lingua e con la fronte
audaci mille cor, mille man pronte.
62
Poi che Fortuna a quella audacia arriso
hebbe cinque o sei giorni, entrò in gran sdegno,
ché pur troppa baldanza l’era aviso
ch’Othon pigliasse nel suo instabil regno,
c’havendo di lontano alcun ucciso,
d’entrar nel stuol facesse ancho dissegno;
e gli ruppe in un tratto, come vietro,
ogni speranza di tornar a dietro.
63
Balduin con molt’altri gli la tolse,
ch’a un stretto passo il colse per sciagura:
il cavallo al voltar dietro li colse
dove i schinchi e le coscie hanno giuntura,
sì che lo fe’ prigion, volse o non volse,
quantunque il cavalier senza paura
non si rendesse mai, fra la tempesta
di mille colpi, fin c’hebbe elmo in testa.
64
Perduto l’elmo, non fe’ più contrasto,
ma disse: — Io mi vi rendo —; e lasciò il brando,
molto più del destrier, che vedea guasto,
che del maggior suo danno sospirando.
La presa di quest’huomo venne il basto,
com’io vi dirò appresso, rassettando,
sul qual fur poi le gravi some poste
ch’a Desiderio si rupper le coste.
65
Lasciato a Villafranca havea la fida,
casta, bella, gentil, diletta moglie,
quando di quella schiera si fe’ guida,
seguendo più l’altrui che le sue voglie;
hor restando prigion, n’andar le grida
là dove più poteano arrecar doglie:
alla moglie n’andar casta e fedele,
che mandò al ciel i pianti e le querele.
66
Sparso la Fama havea, com’è sua usanza
di sempre aggrandir cosa che rapporte,
che Othon preso e ferito era, non sanza
grandissimo periglio de la morte.
Perciò il figliuol del re, c’havea la stanza
vicino a lei con parte di sua corte,
andò per visitarla e trar di pianto,
se valesse il conforto però tanto.
67
Penticon (ché quel nome havea il figliuolo
del re de’ Longobardi) poi che venne
a veder la beltà che prima, solo
conoscendo per fama, minor tenne;
com’augel ch’entra ne le panie a volo,
né può dal visco poi ritrar le penne,
si ritrovò nel cieco laccio preso,
che nel viso di lei stava ogn’hor teso.
68
E dove era venuto a dar conforto,
non si partì chi più bisogno n’hebbe.
Dal camin dritto immantinente al torto
voltò il disio, che smisurato crebbe:
hor, non che preso, ma che fosse morto
Othon suo amico, intendere vorrebbe:
l’huom che pur dianzi con ragion amava,
contra ragion hor mortalmente odiava.
69
Né può d’un mutamento così iniquo
render la causa o far scusa migliore,
che attribuirlo a l’ordine che obliquo
da tutti gli humani ordini, usa Amore;
di cui per legge e per costume antiquo
gli effetti son d’ogn’altro esempio fuore.
Non potea Penticon al disio folle
far resistenza o, se potea, non volle.
70
E lasciandosi tutto in preda a quello,
senza altra escusa e senza altro rispetto,
cominciò a frequentar tanto il castello
ch’a tutto il mondo dar potea sospetto,
indi fatto più audace con più bello
modo che seppe, a palesarle il petto,
a pregar, a promettere, a venire
a’ mezi onde haver speri il suo desire.
71
La bella donna, che non men pudica
era che bella, e non men saggia e accorta,
prima che farsi oltre il dover amica
di sì importuno amante, esser vuol morta.
Ma quegli, avvenga ch’ella sempre dica
di non voler, però non si sconforta
et è disposto di far altre prove,
quand’il pregar e proferir non giove.
72
Ella conosce ben di non potere
mantener lungamente la contesa
e stando quivi, se non vuol cadere,
non può, se non da morte, esser difesa.
Ma questa suol, fra l’aspre, horride e fiere
conditïon, per l’ultima esser presa:
quindi, prima fuggir e perder prima
ciò ch’altro ha al mondo che l’honor, fa stima.
73
Ma dove può ella andar, ch’ogni cittade
che tra il mar, l’Alpi e l’Apenino siede,
del padre de l’amante è in podestade,
né sicuro per lei luogo ci vede?
Passar l’Alpi non può, ch’ivi le strade
chiude la gente, chi a caval, chi a piede:
non ha il destrier che fe’ alle Muse il fonte,
né ’l carro in che Medea fuggì Creonte.
74
Di questo fe’ tra sé longo discorso,
né mai seppe pigliar util consiglio.
Ad un suo vecchio al fin hebbe ricorso,
ch’amava Othon come signor e figlio.
Costui s’imaginò tosto il soccorso
di trar l’afflitta donna di periglio
e le propose per segreti calli
salva ridur a le città di Galli.
75
Stato era cacciator tutta sua vita,
ma molto più quand’eran gli anni in fiore,
et havea per quei monti ogni via trita,
di qua errando et di là, dentro e di fuore.
Pur che non fusse nel partir sentita,
la condurrebbe salva al suo signore:
solo si teme che la prima mossa
occulta a Penticon esser non possa;
76
che, non ch’un dì, ma poche hore interpone
che non sia seco, et v’ha sempre messaggio.
Mentre va d’una in altra opinïone
com’habbia a proveder il vecchio saggio,
vede che lei salvar et con ragione
Othon può vendicar di tanto oltraggio,
portar facendo al folle amante pena
di quel desir ch’a tanto obrobrio il mena.
77
Eshorta lei ch’ancho duo dì constante
stia, fin che di là torni ove andar vuole,
et, come saggia, intanto al sciocco amante
prometta largamente e dia parole.
Fatto il pensier, si parte in un instante
per una via ch’in uso esser non suole,
con lunghi avolgimenti, ma assai destra
quanto creder si può d’una via alpestra.
78
Tosto arrivò dove occupava il monte
la gente del figliuol del re Pipino,
e dimandò voler parlar al Conte;
ma la guardia il condusse a Balduïno,
che del campo tenea la prima fronte.
Costui d’Orlando frate era uterino:
vuo’ dir ch’ambi eran nati d’una madre,
ma l’un Milon, l’altro havea Gano padre.
79
Il Maganzese, poi che di costui
attentamente hebbe il parlar inteso:
di liberar il signor suo e per lui
darli il figliuol del re nimico preso;
non lasciò che parlasse al Conte, in cui
di virtù vera era un disio sì acceso
che di ciò non seria stato contento,
c’haver gli parria odor di tradimento.
80
E dubitava non facesse Orlando
quel che Fabritio e che Camil già féro,
che l’uno a Pirrho e l’altro, già assediando
Falisci, in mano i traditor lor diero.
Finse voler la notte occupar (quando
la strada havea imparata) un poggio altiero,
che si vedea a l’incontro oltre la valle,
e i nimici assalir dietro alle spalle.
81
Con volontà d’Orlando, in su la sera
Balduin se ne va con buona scorta
de cavalieri armati a la leggiera,
e un fante ognun di lor dietro si porta.
La luna in mezo il ciel, che ritond’era,
vien lor mostrando ogni via dritta e torta:
appresso a terza, si trovar dal loco
dove s’hanno a condur lontani poco.
82
Si fermàr quivi e ricreàr alquanto
sé e li cavalli in una occulta piaggia;
che seco vittuaglia haveano, quanto
bastar potea per quella via silvaggia.
Il vecchio corre a la sua donna intanto
e le divisa ciò ch’ordinat’haggia.
A Villafranca Penticon rimena
il suo disio, che ’l giorno spunta a pena.
83
La donna, che dal dì che le fu tolto
il suo marito andò sempre negletta,
questo, che spiera di vederlo sciolto
e far d’ogni sua ingiuria alta vendetta,
ritrova i panni allegri e il crin e ’l volto,
quanto più sa, per più piacer rassetta;
e fe’ quel dì, quel che non fe’ più inante,
grata accoglienza al poco cauto amante.
84
Et con honesta forza, la mattina,
e dolci prieghi, a mangiar seco il tenne.
Il vecchio intanto a Balduin camina,
ch’al venir rato haver parve le penne:
piglia tosto ogni uscita, indi declina
ove il dì si facea lieto e solenne;
et quivi, senza poter far difese,
e Penticon e di suoi molti prese.
85
Lasciato havea chi sùbito al fratello
la vera causa del suo andar narrassi:
c’havea per prender Penticon, non quello
monte occupar, volti la sera i passi;
sì che per l’orme sue verso il castello
pregava che col resto il seguitassi.
Benché non piacque al Conte che tacciuto
questo gli havesse, pur non negò aiuto
86
e con tutti gli altri ordini si mosse,
senza che tromba o che tambur s’udisse,
et perché inteso il suo partir non fosse,
lasciò ch’il foco insino al dì notrisse.
La presa del figliuol, non che percosse,
ma al vecchio padre in modo il cor trafisse
che si levò da l’Alpi e mezo rotta
salvò a Chivaschi et a Vercei la frotta.
87
Né a Vercei né a Chivaschi il paladino
di voler dar l’assalto hebbe dissegno;
anzi i passi volgea dritto al Ticino,
a la città che capo era del regno.
Desiderio, per chiuderli il camino,
lo va a trovar, ma non li fa ritegno;
et è sì inferïor nel gran conflitto
che ne riman perpetuamente afflitto.
88
Quivi càder de’ Longobardi tanti
e tanta fu quivi la strage loro
che ’l loco de la pugna gli habitanti
Mortara dipoi sempre nominoro.
Ma prima che seguir questo più inanti,
ritornar voglio agli altri gigli d’oro,
che Carlo ai capitani raccomanda
ch’alle sue giuste imprese altrove manda.
89
Con diece milla fanti e settecento
lanze e duo milla arcier andò Rinaldo
verso Guascogna, per far mal contento
di sua perfidia l’Aquitan rubaldo.
Bradamante e Ruggier, che ’l regimento
havean del lito esposto al fiato caldo,
hebbon di fanti non so quante millia
e legni armati a guardia di Marsillia.
90
Come chi guardi il mar, così si pone
chi a cavallo, chi a piè, che guardi il lito.
Ulivier guardò Fiandra, Salamone
Bertagna, Picardia Sansone ardito:
dico per terra; ch’altra provisione,
altro esercito al mar fu statüito.
Con grossa armata cura hebbe Ricardo
da la foce del Reno al Mar Picardo.
91
E dal Picardo al capo di Bertagna,
havendo huomini e legni in abondanza,
uscì Carlo col resto a la campagna,
e venne al Reno e lo passò a Costanza;
et arrivò sì tosto ne la Magna
che la fama al venir poco l’avanza;
passò il Danubio e si trovò in Baviera,
che mosso Tassillone ancho non s’era.
92
Tassillon, de Boemi et de Sassoni
esercito espettando e d’Ongheria,
a le squadre di Francia e legïoni
tempo di prevenirli dato havia.
Carlo fermò ad Augusta i confaloni
e mandò a l’inimico ambasciaria
a saper se volesse esperïenza
far di sua forza o pur di sua clemenza.
93
Tassillon, impaurito de la presta
giunta di Carlo, ch’improviso il colse,
con tutto il stato se li diè in podesta
e Carlo humanamente lo raccolse;
ma che rendesse alla prima richiesta
il tolto a Namo et a’ consorti, volse
et che lor d’ogni danno et interesse
c’havean per questo hauto, sodisfesse
94
e settecento lancie per un anno,
e diece milla fanti li pagasse;
la qual gente volea ch’alhora a danno
di Desiderio in Lombardia calasse.
Con li statichi i Franchi se ne vanno
e prima che il passaggio altri vietasse
(ché de’ Boemi prossimi havean dubbio),
tornàr ne l’altra ripa del Danubbio.
95
E verso Praga in tanta fretta andaro,
di nostra fede a quell’età nimica
(ben che né anchora a questa nostra ho chiaro
che le sia tutta la contrada amica),
ch’a prima gionta i varchi gli occuparo,
cacciato e rotto con poca fatica
re Cardoranno, che mezo in fracasso
quivi era accorso a divietar il passo.
96
Gli Franceschi cacciar fin su le porte
di Praga li Boemi in fuga e in rotta.
Quella città, di fosse e mura forte,
salvò col suo signor la maggior frotta:
le diè Carlo l’assalto; ma la sorte
al suo disegno mal rispose alhotta,
ch’a gran colpi di lancie il popul fiero
fe’ ritornar la gente de lo Impero.
97
Ché, mentre era difeso et assalito
da un lato il muro, il forte Cardorano
(di cui se si volesse un huom più ardito,
si cercheria forse pel mondo in vano)
fuor de la porta era da un altro uscito,
et havea fatto un bel menar di mano;
et dentro, con prigioni e preda molta,
sua gente seco salva havea raccolta.
98
Et fe’ che Carlo andò più ritenuto
et hebbe maggior guardia alle sue genti,
havendo lor d’un sito proveduto
da porvi più sicuri alloggiamenti,
dove il fiume di Molta è ricevuto
da l’acque d’Albi a l’Oceàn correnti:
la barbara cittade in loco siede,
che quinci un fiume e quindi l’altro vede.
99
Tra le due ripe, alla città distanti
un tirar d’arco, s’erano alloggiati
sì che s’havean la città messa inanti,
che gli altri fiumi havea drieto e dai lati.
Carlo, perché dai lochi circonstanti
non habbian vettovaglia gli assediati
et perché il campo suo stia più sicuro,
tra un fiume e l’altro in longo tirò un muro,
100
ch’era di fuor di travi e di testura
di grossi legni, e dentro pien di terra;
e perché non uscisson de le mura
dal canto ove la doppia acqua li serra,
su le ripe di fuor hebbe gran cura
di por ne le bastie genti da guerra,
che con velette et scolte a nissun’hora
lasciasson huomo entrar o venir fuora.
101
Quindi una lega appresso, era un’antica
selva de tassi e de fronzuti cerri,
che mai sentito colpo d’inimica
secure non havea né d’altri ferri:
quella mai non potesti fare aprica,
né quando n’apri il dì né quando il serri,
né al solstitio, né al tropico, né mai,
Phebo, vi penetrar tuoi chiari rai.
102
Né mai Diana, né mai nimpha alcuna,
né Pane mai, né satyr, né sileno
si venne a ricrear all’ombra bruna
di questo bosco di spavento pieno;
ma scelerati spirti et importuna
religïon quivi dominio havieno,
dove di sangue human a dei non noti
si facean empi sacrifici e voti.
103
Quivi era fama che Medea, fuggendo
dopo tanti inimici al fin Teseo,
che fu, con modo a racontarlo horrendo,
quasi ucciso per lei dal padre Egeo;
né più per tutto il mondo loco havendo
ove tornar se non odioso e reo,
in quelle alhora inhabitate parti
venne e portò le sue malefich’arti.
104
So ch’alcun scrive che la via non prese,
quando fuggì dal suo figliastro audace,
verso Boemia, ma andò nel paese
che tra i Caspi e l’Oronte e Hircania giace,
e che il nome di Media da lei scese:
il che a negar non serò pertinace,
ma dirò ben ch’ancho in Boemia venne
o dopo o alhora, e signoria vi tenne;
105
e fece in mezo a questa selva oscura,
dove il sito le parve esser più ameno,
la stanza sua di così grosse mura
che non verria per molti secol meno;
e per potervi star meglio sicura,
di spirti intorno ogn’arbor havea pieno,
che rispingean con morti e con percosse
chi d’ir ne’ suoi segreti ardito fosse.
106
Et perché, per virtù d’herbe e d’incanti,
de le fate una et immortal fatt’era,
tanto espettò che triomphar di quanti
nimici havea vid’al fin Morte fiera:
indi a grand’agio ripensando a tanti
a’ quai fatt’havea notte inanzi sera,
all’ingiurie sofferte, affanni e lutto,
vid’esser stato Amor cagion del tutto.
107
E fatta homai per lunga età più saggia
(ché van di par l’esperïenze e gli anni),
pensa per l’avvenir come non caggia
più negli error c’havea passati, e danni;
e vede, quando Amor poter non v’haggia,
ch’in lei né anchor havran poter gli affanni;
e studia e pensa e fa novi consigli,
come di quel tiran fugga gli artigli.
108
Ma perché, essendo de la stirpe antica
che già l’irata Vener maledisse,
vide che non potea viver pudica
et era forza che ’l destin seguisse,
pensò come d’amor ogni fatica,
ogni amarezza, ogni dolor fuggisse;
come gaudi e piacer, quanti vi sono,
prender potesse e quanto vi è di buono.
109
Cagion de la sua pena l’era aviso
che fusse, come havea visto l’effetto,
il tener l’occhio tuttavia pur fiso
e l’animo ostinato in uno oggetto;
ma quando havesse l’amor suo diviso
fra molti e molti, arderia manco il petto:
se l’un fosse per trarla in pena e in noia,
cento serian per ritornarla in gioia.
110
Di quel paese poi fatta regina,
che venne a lungo andar pieno e frequente,
perché ammirando ognun l’alta dottrina
le facea homaggio volontariamente,
nuova religïon e disciplina
instituì, da ogn’altra diferente:
che, senza nominar marito o moglie,
tutti empïano sossopra le sue voglie.
111
Et de li dieci giorni haveva usanza
di ragunarsi il populo li sei,
femine e maschi, tutti in una stanza,
confusamente i nobili e i plebei:
in questa dimandavan perdonanza
d’ogni gaudio intermesso a li lor dei,
ch’era a guisa d’un tempio fabricata
di varii marmi e di molt’oro ornata.
112
Finita l’oration, facean due stuoli,
da un lato l’un, da l’altro l’altro sesso;
indi levati i lumi, a corsi e a voli
venian al nefandissimo complesso;
et meschiarsi le madri coi figliuoli,
con le sorelle i frati accadea spesso:
e quella usanza, c’hebbe initio alhora,
tra li Boemi par che duri anchora.
113
Deh! perché quando, o figlia del re Oeta,
o d’Athene o di Media ti fuggisti,
deh! perché a far l’Italia nostra lieta
con sì gioconda usanza non venisti?
Ogni mente per te seria quïeta,
senza cordoglio e senza pensier tristi
e quella gelosia che sì tormenta
gli nostri cor, seria cacciata e spenta.
114
Oh come, donne, miglior parte havreste
d’un dolce, almo piacer, che non havete!
Dove voi digiunate e senza feste
fate vigilia in molta fame e sete,
tal satolle e sì fatte prendereste
che grasse vi vedrei più che non sete.
Ma ben’io stolto a porre in voi disire
da farvi, per gir là, da noi fuggire!
115
Visse più d’una età, leggiadra e bella
regina di quei populi, Medea,
ch’ad ogni suo piacer si rinovella
e da sé caccia ogni vecchiezza rea;
e questo per virtù d’un bagno ch’ella
per incanto nel bosco fatto havea,
al qual, perché nissun altro s’accosti,
mille demoni a guardia haveva posti.
116
Questa fata del popolo boemme
hebbe per tanti secoli governo
che ’l tempo si potria segnar con l’emme,
et quasi credea ognun che fusse eterno:
ma poi ch’a partorir in Bettelemme
Maria venne il figliuol del Re superno,
quivi regnar o non poté o non volse,
e di vista dagli huomini si tolse.
117
Et ne l’antica selva, fra la torma
de li demoni suoi tornò a celarsi,
dove ogni ottavo dì sua bella forma
in bruttissima serpe havea a mutarsi.
Per questa opinïon, vestigio et orma
di piede human nissun potea trovarsi
inanzi a questo dì di ch’io vi parlo,
che l’aurea fiamma alzò in Boemia Carlo.
118
L’imperator commanda che dal piede
taglin le piante a lor bisogno et uso:
l’esercito non osa, perché crede,
da lunga fama e vano error deluso,
che chi ferro alza incontra il bosco, fiede
se stesso o more o ne l’inferno giuso
visibilmente in carne e in ossa è tratto
o resta cieco o spiritato o attratto.
119
Carlo, fatta cantar una solenne
messa da l’arcivescovo Turpino,
entra nel bosco et alza una bipenne
e ne percuote un olmo più vicino:
l’arbor, che tanta forza non sostenne,
ché Carlo un colpo fe’ da paladino,
cadde in duo tronchi, come fu percosso;
e sette palmi era d’intorno grosso!
120
Chi si ricorda il dì di san Giovanni,
che sotto Hercole o Borso era sì allegro?
che poi veduto non habbiam molt’anni,
come né anchora altro piacer integro,
di poi che cominciar gli assidui affanni
dei quali è in tutta Italia ogni cor egro:
parlo del dì che si facea contesa
di saettar dinanzi alla sua chiesa.
121
Quel dì inanzi alla chiesa del Battista
si ponean tutti i sagittari in schiera,
né colpo uscia fin ch’al bersaglio vista
la saeta del principe non era;
poi con la nobiltà la plebe mista
l’aria di freccie a gara facea nera:
così ferito c’hebbe il bosco Carlo,
fu presto tutto il campo a seguitarlo.
122
Sotto il continuo suon di mille accette
trema la terra e par che ’l ciel ribombi;
hor quella pianta hor questa in terra mette
il capo, e rompe a l’altre braccia e lombi.
Fuggon da’ nidi lor guffi e civette,
che vi son più che tortore o colombi,
e, con le code fra lor gambe, i lupi
lascian l’antiche insidie e i lochi cupi.
123
Per la molta bontà ch’era in effetto
e vera in Carlo, non mendace e finta,
fu sì la forza al diavol maledetto
da l’aiuto di Dio quivi rispinta
ch’a lui non nocque, né, per suo rispetto,
a chi s’havea per lui la spada cinta:
sì che mal grado de l’Inferno tutto
a li demoni il nido era distrutto.
124
Un fremito, qual suol da l’irat’onde
del tempestoso mar venir a’ lidi,
cotal si udì fra turbate fronde,
meschio di pianti e spaventosi gridi;
indi un vento per l’aria si difonde
che ben appar che Belzebù lo guidi:
ma né per questo avvien ch’al saldo e fermo
valor di Carlo habbia la selva schermo.
125
Cade l’eccelso pin, cade il funèbre
cipresso, cade il venenoso tasso,
cade l’olmo atto a riparar che l’ebre
viti non giaccian sempre a capo basso;
cadono e fan cadendo le latebre
cedere agli occhi et alle gambe il passo:
piangon sopra le mura i pagan stolti,
vedendo alli lor dèi gli seggi tolti.
126
Alcun dentro ne gode, ché n’espetta
di veder sopra a Carlo e tutti i Franchi
scender dal ciel così dura vendetta
ch’a sepelirli il populo si stanchi.
Com’è troncato un arbore, si getta
nel fiume ch’alla selva bagna i fianchi;
e quello, ubidïente, ai corni sopra
lo porta al loco ov’è poi messo in opra.
127
In questo tempo havea l’iniquo Gano,
per dar a Carlo in ogni parte briga,
composto il re d’Arabia e il Soriano
col calife d’Egitto in una liga;
et dopo il colpo, per celar la mano
in guisa d’huom che conscïenza instiga,
per voto a cui già s’obligasse inanti,
era andato al Sepolcro, ai Luoghi santi.
128
Quivi da Sansonetto ricevuto,
che da Carlo in governo havea la terra,
era stato alcun giorno e poi venuto
verso Costantinopoli per terra,
dove certa notitia havendo hauto
di Carlo ch’in Boemia facea guerra,
s’era voltato, per la dritta via
di Servia e di Belgrado, in Ungheria.
129
Ritrovò, essendo già Philippo morto,
haver il regno un figlio d’Otacchiero,
che come l’avol dritto, così ei torto
hebbe l’animo sempre da l’Impero.
Gano li venne in tempo a dar conforto,
ch’era pel re di Francia in gran pensiero,
del qual nimico discoperto s’era
per la causa del duca di Baviera
130
et molto si dolea di Tassillone
c’havesse senza lui fatta la pace,
di che il Boemme e l’Ungaro e il Sassone
restava in preda alla francesca face.
Havea d’aiutar Praga intentione,
ma de l’assunto si vedea incapace:
impossibil li par ch’in così breve
tempo far possa quel ch’in ciò far deve.
131
Ma se l’assedio si potea produrre,
se potea andar in lungo anchor un mese,
tanta gente era certo di condurre,
oltre il soccorso che daria il paese,
che i gigli d’or ne le bandiere azurre
quivi restar faria con l’altro arnese:
ma s’hora andasse, non farebbe effetto
se non d’attizzar Carlo a più dispetto.
132
Gano promesse che farebb’ogni opra
che Praga anchor un mese si terrebbe;
et poi che molto han ragionato sopra
quanto far ciascun d’essi in questo debbe,
parte Gano da Buda e tra via adopra
lo ingegno che molt’atto a tradir hebbe:
va da Strigonia in Austria, indi si tiene
a destra mano et in Boemmia viene.
133
Il peregrino di Gierusalemme,
con quanti havea condotti a’ suoi servigi,
humilmente, senz’oro e senza gemme
ma de panni vestiti grossi e bigi,
nel campo tolto al popolo boemme
baciò la mano al buon re di Parigi,
c’havendolo raccolto ne le braccia,
di qua e di là li ribaciò la faccia.
134
Era inclinato di natura molto
a Gano Carlo e ne facea gran stima,
et poche cose fatte havria, che tolto
il suo consiglio non havesse prima;
com’ogni signor quasi in questo è stolto,
che lascia il buono et il piggior sublima;
né, se non fuor del stato, o dato in preda
degli inimici, par che ’l suo error creda.
135
Per non saper dal finto il vero amico
scernere, in tal error misero incorre.
Di questo vi potrei, c’hora vi dico,
più d’un esempio inanzi agli occhi porre,
e senza ritornar al tempo antico,
n’havrei più d’uno a nostra età da tòrre:
ma se più verso a questo canto giungo,
temo v’offenda il suo tropp’esser lungo.

CANTO TERZO

1
D’ogni desir che tolga nostra mente
dal dritto corso et a traverso mande,
non credo che si trovi il più possente
né il più commun di quel de l’esser grande:
brama ognun d’esser primo, e molta gente
haver dietro et a lato, a chi commande;
né mai li par che tanto gli altri avanzi
che non dissegni anchor salir più inanzi.
2
Se questa voglia in buona mente cade
(ch’in buona mente ha forza ancho il desire),
l’huom studia che virtù gli apra le strade,
che sia guida e compagna al suo salire:
ma se cade in ria mente (ché son rade
che dir buone possiam senza mentire),
indi aspettar calunnie, insidie e morte,
et ogni mal si può di piggior sorte.
3
Gano, non li bastando che maggiore
non havea alcun in corte, eccetto Carlo,
era tanto insolente che minore
lui vorria anchora, e havea disio di farlo;
et hor che sopranatural favore
si sentia da colei che potea darlo,
oltra il desir havea speme e dissegno
fra pochi giorni d’occuparli il regno.
4
Et pur che fosse il suo desir successo,
non saria dal fellon, senza rispetto
che tra li primi suoi baroni messo
Carlo l’havea di luogo infimo e abietto,
stato ferro né tòsco pretermesso,
né scelerato alcun fatto né detto;
e mille al giorno, non che un tradimento,
ordito havria per conseguir suo intento.
5
Carlo tutto il successo de la guerra
narrò senza sospetto al Maganzese
e li mostrò c’havria in poter la terra
prima ch’a mezo anchor fusse quel mese.
Questo nel petto il traditor non serra,
ma tosto a Cardoran lo fa palese
e per un suo li manda a dar consiglio
come possa schifar tanto periglio.
6
Da quella volpe il re boemme instrutto,
mandò un araldo in campo l’altro giorno,
che così disse a Carlo, essendo tutto
corso ad udir il populo d’intorno:
— Il mio signor, da la tua fama indutto,
o imperador d’ogni virtude adorno,
per crudeltà non pensa né avaritia
c’habbi raccolto qui tanta militia;
7
né che tu metta il fin di tua vittoria
in haverli la vita o il stato tolto,
ma solo in haver vinto, ché tal gloria
più che sua morte o che ’l suo haver val molto,
acciò che il nome tuo ne la memoria
del mondo viva e mai non sia sepolto,
ché contra ogni ragion saresti degno,
come tu sei, se fessi altro disegno.
8
Ma tu non guardi forsi che l’effetto
tutto contrario appar a quel che brami:
tu brami d’esser glorïoso detto,
e con l’effetto tuttavia t’infami.
Che tu sia entrato nel nostro distretto
con cento mille armati, gloria chiami,
ma quanto ella sia grande estimar déi,
che noi siamo a fatica un contra sei.
9
Miltiade e Temistocle converse
a parlar in suo honor tutte le genti,
perché con pochi armati, questi Xerse,
quel vinse Dario, in terra e in mar possenti.
Vincer pochi con molti, mai tenerse
non sentisti fra l’opere eccellenti.
S’in te è valor, pon giù il vantaggio e poi
vien alla prova e vincene, se puoi.
10
Da sol a sol la pugna t’offerisce,
da dieci a dieci, o vòi da cento a cento,
il mio signor; e accresce e minuisce,
secondo che accettar tu sei contento:
con patto che, se Dio lui favorisce,
sì che tu resti vinto o preso o spento,
che tu gli habbi a rifar e danni e spese
e tornar con tuo campo in tuo paese;
11
né chi la Francia e chi l’Imperio regge
fino a cento anni lo guerreggi mai:
ma se tu vinci lui, torrà ogni legge
ch’imporre a senno tuo tu li vorai.
Il buon pastor pon l’anima pel gregge:
essendo tu quel re di che fam’ hai,
la tua persona o di pochi altri arisca,
acciò così gran popul non perisca. —
12
Così disse l’araldo, né risposta
lo imperator li diede alhora alcuna,
ma da la moltitudine si scosta
e i consiglieri suoi seco raguna,
ché lor sententie sopra la proposta
de l’araldo udir vuol ad una ad una.
Il primo fu Turpin che consigliasse
che l’invito del barbar accettasse,
13
non già da solo a sol, ma in compagnia
di quattro o sei de suoi guerrier più forti;
dei quali egli esser uno s’offeria.
Così Namo et Ugier par che conforti
et che fra dieci dì la pugna sia
o quanto può che ’l termine più scórti:
perché, successo che lor sia ben questo,
possano volger poi l’animo al resto.
14
Era in quei cavalier tanta arroganza
per fortunati antichi lor successi
che tutti in quella impresa, con baldanza
di restar vincitor, si serian messi.
Poi disse il suo parer quel di Maganza,
che la pugna accettar pur si dovessi,
ma non però venir a farla inante
che Rinaldo ci fosse o quel d’Anglante;
15
che ci fosse Olivier con ambi i figli,
Ruggier et alcun altro dei famosi:
ché quando senza questi ella si pigli,
fòran di Carlo i casi perigliosi.
— Tenete voi sì privi di consigli
gli nimici, — dicea — che fusser osi
di domandar a par a par battaglia,
se non han gente ch’al contrasto vaglia?
16
Se non ci intervenisse la corona
di Francia, non havrei tanti riguardi,
benché, né senza anchor, di scelta buona
si de’ mancar in tòr i più gagliardi:
ma dovendo venirci il re in persona,
come a bastanza potremo esser tardi
a darli, con consiglio ben maturo,
compagnia con la qual sia più sicuro?
17
Io non vi contradico che valenti
cavalier qui non sian come coloro
che nominati v’ho per eccellenti,
ma non sappiam così le prove loro.
Questo luogo non è da esperimenti
di chi sia, al parangon, di rame o d’oro:
vogliam di quei che cento volte esperti,
de la virtude lor n’han fatti certi. —
18
E seguitò mostrando, con ragioni
di più efficacia ch’io non so ridire,
che non doveano senza i dui campioni,
lumi di Francia, a tal prova venire;
e la sua vinse l’altre opinïoni,
che la pugna s’havesse a diferire
fin che venisse a così gran bisogna
l’uno d’Italia e l’altro di Guascogna.
19
Queste parole et altre dicea Gano
per charità non già del suo signore,
ma di vietar che non gli andasse in mano
quella città studiava il traditore,
e tanto prolongar che Cardorano
l’aiuto havesse ch’attendea di fuore:
in somma, il suo parer parve perfetto
e fu per lo miglior di tutti elletto.
20
Che dieci guerrier fussero, si prese
conclusion, pur come Gano volse
e da’ dieci di maggio al fin del mese
di giugno un lungo termine si tolse.
In questo mezo si levàr l’offese
e quell’assedio tanto si disciolse
che Praga potea haver di molte cose
che fossino alla vita bisognose.
21
Nove intanto venian de l’apparecchio
che l’Ungaro facea d’armata grossa;
ma sempre Gano a Carlo era a l’orecchio,
che dicea: — Non temer che faccia mossa. —
Io lessi già in un libro molto vecchio,
né l’auttor par che sovvenir mi possa,
ch’Alcina a Gano un’herba al partir diede,
che chi ne mangia fa ch’ognun li crede.
22
Quella mostrò nel monte Syna Dio
a Moisè suo sì che con essa poi
il popul duro fece humil e pio
e ubidiente a li precetti suoi.
Poi la mostrò il demonio a Macon rio,
a perdition degli Afri e degli Eoi:
la tenea in bocca predicando e valse
ritrar ch’udiva alle sue leggi false.
23
Gano, havendo già in ordine l’orsoio,
di sì gran tela apparecchiò la trama
e quel demon che d’uno in altro coio
si sa mutar, a sé da l’anel chiama.
— Vertunno, — disse — di desir mi moio
di fornir quel che da me Alcina brama;
e pensando la via, veggio esser forza
che d’alcun ch’io dirò tu pigli scorza. —
24
E le parole seguitò, mostrando
ch’a tramutar s’havea prima in Terigi:
Terigi che scudier era d’Orlando,
venuto da fanciul ai suoi servigi;
e dopo in altre faccie e seminando
dovea gir sempre scandali e litigi.
Presa che di Terigi hebbe la forma,
di quanto havesse a far tolse la norma.
25
Di sua mano le lettere si scrisse
credentïal, come dettolli Gano;
che, con stupor vedendole, poi disse
Orlando, e Carlo, ch’eran di sua mano.
Pòstole il sigil sopra, dipartisse
Vertunno e col signor di Mont’Albano,
ch’era a campo a Morlante, ritrovosse,
prima che gionto al fin quel giorno fosse.
26
Presso a Morlante havea Rinaldo, e sotto
il vicin monte, havuto aspra battaglia
et in essa l’esercito havea rotto
de gli inimici, e morto e messo a taglia.
Unuldo ne la terra era ridotto
e Rinaldo gli havea fatto serraglia,
pien di speranza, in uno assalto o dui,
d’haver in suo poter la terra e lui.
27
Veduto il viso et il parlar udito,
che di Terigi havean chiara sembianza,
Rinaldo fa carezze in infinito
al messaggier del conte di Maganza:
che sia d’Orlando, e quello havea sentito
per fama, li dimanda con instanza;
com’habbia, a piè de l’Alpi et indi appresso
Vercelli, in fuga il Longobardo messo.
28
Come presente alle battaglie stato
fusse il demonio, li facea risposta
e la lettera intanto, che portato
di credenza gli havea, gli hebb’in man posta.
Quel l’apre e legge e lui, per man pigliato,
da chi lo possa udir seco discosta.
Vertunno, prima ch’altro incominciasse,
di petto un’altra lettera si trasse.
29
Poi disse: — Il cugin vostro mi commise
ch’io vi facessi legger questa appresso. —
Rinaldo mira le note precise,
che li paion di man di Carlo istesso;
il qual Orlando di Boemmia avise
d’esser pentito, senza fin, che messo
così potente esercito habbia in mano
de l’audace signor di Mont’Albano:
30
però che, vinto Unuldo (come crede
che vincer debbia) e toltoli Guascogna,
egli d’Unuldo esser vorrà l’herede,
ché crescer stato a Mont’Alban agogna;
e la sospitïon c’ha de la fede
di Rinaldo corrotta, non si sogna:
in somma, par che sia disposto Carlo,
per forza o per amor, quindi levarlo.
31
Ma che prima tentar vuol per amore:
finger ch’al maggior uopo lo dimande
per un de’ dieci il cui certo valore
abbatta a Cardoran l’orgoglio grande;
e vuol per questo che dia un successore
a l’esercito c’ha da quelle bande;
e che disegna mai più non li porre
governo in man, se li può questo tòrre.
32
Vuol ch’Orlando li scriva ch’esso anchora
serà in questa battaglia un degli elletti,
e gl’insti che, rimossa ogni dimora,
veduto il successor venire, affretti.
Rinaldo, mentre legge, s’incolora
per ira in viso e par che foco getti;
morde le labbia, hor l’uno hor l’altro preme
e più che ’l mar quand’ha tempesta freme.
33
Letta la carta, il spirto li soggiunge,
pur da parte d’Orlando: — Habbiate cura
che se alla discoperta un dì vi giunge,
vi farà Carlo peggio che paura,
però che tuttavia Gano lo punge
che la corte di voi faccia sicura:
la qual, sì come dice egli, ogni volta
che voglia ve ne vien, sossopra è volta.
34
Al cugin vostro acerbamente duole
che ’l re tenga con voi questa maniera,
che cerchi, a instanza di chi mal vi vuole,
far parer vostra fé men che sincera;
e che più creda alle false parole
d’un traditor, che a tanta prova vera
che si vede di voi: ma dagli ingrati
son le più volte questi modi usati.
35
Ché, quando l’avaritia li ritiene
di render premio a chi di premio è degno,
studian far venir causa e se non viene,
la fingon, per la quale habbino sdegno;
et di esiglio, di morte o d’altre pene,
in luogo di mercé, fanno dissegno;
per far parer ch’un vostro error seguito
quel ben che far voleano habbia impedito.
36
Orlando, perché v’ama e perché aspetta
il medesmo di sé fra pochi giorni,
che ’l re in prigion, Gano instigando, il metta
o li dia bando o li faccia altri scorni
(ché, come contra voi, così l’alletta
contr’esso anchor), senza far più soggiorni
per me vi esorta a prender quel partito
ch’egli ha di tòr per sé già statüito:
37
che di quel mal che senza causa teme
facciate morir Carlo, come merta.
Prendete accordo con Unuldo e insieme
con lui venite a farli guerra aperta:
vegga se Gano e se ’l suo iniquo seme,
contra il valor e la possanza certa
di Chiaramonte e l’una e l’altra lancia
tanto honorata, può difender Francia. —
38
E seguitò dicendoli ch’Orlando
prima favor occulto li darebbe;
poscia in aiuto alla scoperta, quando
fusse il tempo, in persona li verrebbe.
Rinaldo havea grand’ira et, attizzando
il fraudolente spirto, sì l’accrebbe
ch’alhora alhora pensò armar le schiere
e levar contra Carlo le bandiere;
39
poi diferì fin ch’arivasse il messo
ch’a la pugna boemica il chiamasse
et che sentisse commandarsi appresso
ch’in guardia altrui l’esercito lasciasse.
Quel che Gano gli havea quivi commesso,
Vertunno a fin con diligentia trasse:
poi, con lettere nuove e nuovo aspetto,
venne a Marsiglia e fece un altr’effetto.
40
D’Ariguccio s’havea presa la faccia,
ch’era di Carlo un cavallaro antico:
egli scrive le lettere, egli spaccia
se stesso et chiude egli in la bolgia il plico:
l’insegna al petto e il corno al fianco allaccia
e fu a Marsiglia in men ch’io non lo dico;
e le dettate lettere da Gano
pose a Ruggier et alla moglie in mano.
41
Alla sorella di Ruggier, Marfisa,
mostrò che Carlo lo mandasse anchora,
come a tutti tre insieme, e poi divisa-
mente a ciascun, da Carlo scritto fòra.
Sotto il nome del re Gano gli avisa
che navighi Ruggier senza dimora
ver’ le colonne che Tirintio fisse
e sorga sopra la città d’Ulisse;
42
e Marfisa con gli altri da cavallo
si vada con Rinaldo a por in schiera,
ché vint’Unuldo, come senza fallo
vederlo vinto in pochi giorni spiera,
vuol ch’assalti Galitia e Portugallo;
né l’impresa esser può se non liggiera:
ché li dà aiuto, passo e vettovaglia
Alfonso d’Aragon, re di Biscaglia.
43
Appresso scrive a l’animosa figlia
del duca Amon che stia sicuramente:
che né da terra né da mar Marsiglia
ha da temer di peregrina gente.
Se false o vere sian non si consiglia,
né si pensa alle lettere altrimente:
Ruggier va in Spagna, Marfisa a Morlante,
resta a guardar Marsiglia Bradamante.
44
L’imperator, intanto, che le frode
non sa di Gano e solo in esso ha fede,
di tutti gli altri amici il parer ode,
ma solamente a quel di Gano crede;
né cavalier, se non che Gano lode,
a far quella battaglia non richiede:
con lui consiglia chi si debba porre
ne’ luoghi onde li duci s’hanno a tòrre.
45
Quando Gano ha risposto, ogn’altro chiude
la bocca, né si replica parola.
In luogo di Rinaldo egli conclude
che mandi Namo; e l’intention è sola
perché Rinaldo, a cui le voglie crude
l’ira facea, l’impichi per la gola,
ché penserà che sol lo mandi Carlo
per levarli l’esercito e pigliarlo.
46
Consiglia che si lassi Baldoino
a governar in Lombardia le squadre,
il qual fratel d’Orlando era uterino,
nato, com’ho già detto, d’una madre;
cortese cavaliero e paladino
e degno a cui non fosse Gano padre,
per consiglio del qual Carlo lo ellesse
ch’a l’imperio fraterno succedesse.
47
Gli dieci eletti alla battaglia fòro
Carlo, Orlando, Rinaldo, Ugier, Dudone,
Aquilante, Grifon e il padre loro
e con Turpin il genero d’Amone.
Fatta la ellettïone di costoro,
si spacciaro in diversa regïone
prima gli avisi e poi quei ch’ordinati
in luogo fur dei capitan chiamati.
48
Namo fu il primo, il qual, correndo in posta,
insieme con l’aviso era venuto.
Già Rinaldo sua causa havea proposta,
e dimandato alla sua gente aiuto;
che tanto in suo favor s’era disposta
che, dai maggiori al populo minuto,
tutti affatto volean prima morire
che Rinaldo lassar così tradire.
49
Tra Rinaldo et Unuldo già fatt’era
accordo et amicitia, ma coperta.
A lo arrivar del duca di Baviera
Rinaldo, che la fraude havea per certa,
di sdegno arse e di còlera sì fiera
che tre volte la man pose a Fusberta,
con voglia di chiavargliela nel petto,
pur (non so già perché) gli hebbe rispetto.
50
Ma spesso nominandol traditore,
et Carlo ingrato, e minacciandol molto
che lo faria impiccar in dishonore
di Carlo, lo raccolse con mal volto.
Namo, a cui poco noto era l’errore
in che Vertunno havea Rinaldo involto,
mirando ove da l’impeto era tratto,
stava maraviglioso e stupefatto:
51
ma magnanimamente li rispose
che, traditor nomandolo, mentia.
Rinaldo, se non ch’uno s’interpose,
alzò la mano e percosso l’havria:
prender lo fece et in prigion lo pose;
e tolto c’hebb’Unuldo in compagnia,
le ville e le cittade e le castella
del re per forza e per amor rubella.
52
Et dovunque ritrovi resistenza
o dà il guasto o saccheggia o mette a taglia:
gli dà tutta Guascogna ubidïenza
e poche terre espettano battaglia.
Gan da Pontier, che n’hebbe intelligenza,
ché del tutto Vertunno lo raguaglia,
con lieto cor, ma con dolente viso,
fu il primo che ne diede a Carlo aviso.
53[55G]
Se padre, a cui sempre giocondo e bello
fu di mostrarsi al suo figliuol benigno,
se lo vedesse incontra alzar coltello,
fatto senza cagion empio e maligno,
più maraviglia non havria di quello
c’hebbe Carlo, vedendo in corbo il cigno
Rinaldo esser mutato et contra Francia
volta senza cagion sì buona lancia.
54[56G]
Quel ch’avverria a un nocchier che si trovasse
lontano in mar e fremer l’onde intorno,
tornar di sopra e andar le nube basse
vedesse negre et oscurarsi il giorno;
che mentre al divietar s’apparecchiasse
di non haver da la fortuna scorno,
il governo perdesse, o simil cosa
a la salute sua più bisognosa;
55[57G]
quel ch’avverrebbe a una cittade astretta
da nimici crudel, privi di fede,
che d’alcun fresco oltraggio far vendetta
habbian giurato e non haver mercede;
che, mentre la battaglia ultima espetta
e a l’ultima difesa si provede,
vegga la munition arsa e distrutta,
in che havea posto sua speranza tutta;
56[58G]
quel ch’avverria a ciascun che già credesse
d’haver condotto un suo desir a segno,
dove col tempo la fatica havesse,
l’haver, posto, gli amici, ogni suo ingegno;
e cosa nascer sùbito vedesse
pensata meno e romperli il disegno:
quel duol, quell’ira, quel dispetto grave
a Carlo avvien, come l’aviso n’have.
57[53G]
Gano gli diè l’aviso e poi che ’l varco,
come bramato havea, vide patente
di potersi cacciar a dir incarco
et ignominia del nimico absente,
sciolse la crudel lingua e non fu parco
a mandar fuor ciò che gli venne in mente:
dei falli di Rinaldo, poi che nacque,
che fece e puote far, nissuno tacque.
58[54G]
Come s’arruota e non ritrova loco
né in ciel né in terra un’agitata polve,
come nel vase acqua che bolle al foco,
di qua di là, di su di giù si volve:
così il pensier gira di Carlo e poco
in questa parte o in quella si risolve.
Provisïon già fatta nulla giova,
tutta lasciar conviensi, e rifar nuova.
59
Hor torna a Carlo il conte di Pontiero
e li dà un altro aviso di Marsiglia,
ch’indi sciolta l’armata havea Ruggiero
per uscir fuor del stretto di Siviglia,
né ad alcun havea detto il suo pensiero;
et certo, poi che questa strada piglia,
gli è manifesto che, voltando intorno,
si troverà sorto in Guascogna un giorno.
60
Et de la coniettura sua non erra:
perché Marfisa ad un medesmo punto
se n’era coi cavalli ita per terra,
et a Rinaldo havea poter aggiunto.
Hor, se Carlo temea di questa guerra,
ché Rinaldo lo fa restar consunto,
quant’ha più da temer, se questi dui
di tal valor si son messi con lui?
61
Gano con molt’instanza lo conforta
che di Rinaldo levi la sorella,
prima che di Provenza e d’Acquamorta
seco li faccia ogni città rubella
et al fratello apra quest’altra porta
d’entrar in Francia sin ne le budella,
ché ben deve pensar ch’ella il partito
piglierà del fratel e del marito.
62
Et che mandasse sùbito a Ricardo,
c’havea l’armata in punto, ancho li disse,
acciò che dal Fiamingo e dal Picardo
ne l’Atlantico mar rato venisse
et il rubello e truffator stendardo
di Ruggier inimico perseguisse,
che con tutte le navi s’havea, senza
sua commission, levato di Provenza;
63
e che sùbito a Orlando paladino
con diligenza vada una staffetta
ad avisarlo, come havea il cugino
del perfid’Aquitan preso la setta,
e ch’egli dia la gente a Balduino,
ripassi l’Alpi e a Francia corra in fretta,
e con lui meni tutta quella schiera
che dianzi gli ha mandata di Baviera;
64
e che tra via faccia cavalli e fanti,
quanti più può, da tutte le contrade,
non quelli sol che gli verranno inanti,
ma che constringa a darne ogni cittade,
altre mille, altre il doppio, altre non tanti,
come più e men havran la facultade:
et ch’egli dar il terzo gli volea
di questi ch’in Boemmia seco havea.
65
Carlo pensava chi d’Orlando in vece
et chi degli altri dui poner dovea
ne la battaglia, che da diece a diece
dianzi promessa a Cardoran havea.
Come quel mulatiero, in somma, fece,
c’havea il coltel perduto e non volea
che si stringesse il fodro vuoto e secco,
in luogo del coltel rimesse un stecco:
66
così, in luogo d’Orlando e di Ruggiero
e di Rinaldo, fu da Carlo elletto
Othone, Avolio e il frate Berlingiero:
ch’Avino infermo era già un mese in letto.
Gli dà consiglio il conte di Pontiero
che di Giudea si chiami Sansonetto,
per valer meglio, quando a tempo giugna,
che i tre figli di Namo in questa pugna.
67
A danno lo dicea, non a profitto
di Carlo, il traditor: perché a l’offesa
che di far in procinto ha il re d’Egitto,
non sia in Hierusalem tanta difesa.
A Sansonetto fu sùbito scritto
e dal corrier la via per Tracia presa,
il qual, mutando bestie, sì le punse
ch’in pochi giorni a Palestina giunse.
68
Di tòr Marsiglia si proferse Gano,
senza che spada stringa o abbassi lancia:
vuol sol da Carlo una patent’in mano
da poter comandar per tutta Francia.
Nulla propone il fraudolente in vano:
se giova o nuoce, Carlo non bilancia,
né véntila altrimenti alcun suo detto,
ma sùbito lo vuol porr’ad effetto.
69
Di quanto havea ordinato il Maganzese
andò l’aviso a l’Ungaro e al Boemme,
in Sansogna, in le Marche si distese,
in Frisa, in Datia, a l’ultime maremme.
Gano de’ suoi parenti seco prese,
seco tornati di Hierusalemme,
e quindi se n’andò per tòr la figlia
del duca Amon, con fraude, di Marsiglia.
70
Di Baviera in Suevia, et indi, senza
indugio, per Borgogna e ’vernia sprona
e molto declinando da Provenza,
sparge il rumor d’andar verso Baiona:
finge in un tratto di mutar sentenza
e con molti pedoni entra in Narbona,
che per Francia in gran fretta e per la Magna
raccolti et tratti havea seco in campagna.
71
Gionse in Narbona all’oscurar del giorno,
e, gionto, fa serrar tutte le porte
e pon le guardie ai ponti e ai passi intorno,
che novella di sé fuor non si porte.
D’un corsar genoese (Oria od Adorno
fusse, non so) quivi trovò a gran sorte
quattro galee, con che predando gia
il mar di Spagna e quel di Barberia.
72
Gano, dato a ciascun debiti premi,
sopra i navigli i suoi pedoni parte
e come biancheggiar vide gli estremi
termini d’oriente, indi si parte
e va quanto più può con vele e remi:
ma tien l’astuto a l’arrivar quest’arte
che non si scuopre a vista di Marsiglia
prima che ’l sol non scenda oltra Siviglia.
73
La figliuola d’Amon, che non sa anchora
che Rinaldo rubel sia de l’Impero,
veduto il giglio che sì Francia honora,
la croce bianca e l’uccel bianco e il nero
e poi Vertunno in su la prima prora,
c’havea l’insegna e il viso di Ruggiero,
senza timor, senz’armi corre al lito,
credendosi ire in braccio al suo marito,
74
il qual sia, per alcun novo accidente,
tornato a lei con parte de l’armata:
non dal marito, ma dal fraudolente
Gano si ritrovò ch’era abracciata.
Come chi còrre il fior volea e il serpente
trova che ’l punge; così disarmata,
e senza poter farli altra difesa,
dagli inimici suoi si trovò presa.
75
Si trovò presa ella e la rocca insieme,
ché non vi potea far difesa alcuna.
Il popul, che ciò sente e peggio teme,
chi qua chi là con l’armi si raguna;
il rumor s’ode, come il mar che freme
vòlto in furor da sùbita fortuna:
ma poi Gano parlandoli, e di Carlo
mostrando commission, fece acchetarlo.
76
Dissegna il traditor che di vita esca
la sua nimica, inanzi ch’altri il viete;
poi muta voglia, non che li n’incresca,
né del sangue di lei non habbia sete,
ma spera poter meglio con tal ésca
Rinaldo e Ruggier trar alla sua rete:
e tolti alcuni seco, con speranza
di me’ guardarla, andò verso Maganza.
77
Dui scudier de la donna, ch’a tal guisa
trar la vedean, montàr sùbito in sella;
e l’uno andò a Rinaldo et a Marfisa
verso Guascogna a darne la novella;
l’altro Orlando trovar prima s’avisa,
che ’l campo non lontano havea da quella,
da quella strada, per la qual captiva
la sfortunata giovane veniva.
78
Orlando havendo in commissione hauto
di dar altrui l’impresa de’ Lombardi
et a’ Franceschi accorrere in aiuto
contra Rinaldo e li frati gagliardi,
era già in ripa al Rodano venuto
e fermato a Valenza havea i stendardi;
dove da Carlo esercito espettava,
altro n’havea et altro n’assoldava.
79
Venne il scudiero e li narrò la froda
ch’a la donna havea fatto il Conte iniquo
e ch’in Maganza lungi da la proda
del fiume la trahea per calle obliquo;
poi li soggionse: — Non patir che goda
d’haver quest’onta il tuo aversario antiquo
fatto al tuo sangue. Se ciò non ti preme,
come potranno in te gli altri haver speme? —
80
Di sdegno Orlando, anchor che giust’e pio,
fu per scoppiar; perché volea celarlo,
come di Gano il nov’oltraggio udio,
e benché fa pensier di seguitarlo,
pur se ne escusa e mostrasi restio,
ché far non vuol sì grave ingiuria a Carlo,
per comission del qual sa c’havea Gano
post’in Marsiglia e ne la donna mano.
81
Così risponde, e tuttavia dirizza
a far di ciò il contrario ogni dissegno,
ché l’onta sì de la cugina attizza,
sì accresse il foco de l’antico sdegno
che non trova per ira e per la stizza
loco che ’l tenga, e non può star al segno:
a pena espettar può che notte sia,
per pigliar drieto al traditor la via.
82
Né Brigliador né Vaglientino prese,
perché tropp’ambi connosciuti furo;
ma di pel bigio un gran corsier ascese,
c’havea il capo e le gambe e il crin oscuro:
lassò il quartier e l’altro usato arnese,
e tutto si vestì d’un color puro:
partì la notte, e non fu chi sentisse,
se non Terigi sol, che si partisse.
83
Gano per l’Acque Sestie, indi pel monte
a la man destra havea preso il camino;
passò Druenza et Issara, ove il fonte
a men di quattro miglia era vicino:
ché nel paese entrar volea del conte
Macario di Losana, suo cugino;
e per terre de’ Svizzeri andar poi,
e per Lorena, a’ Maganzesi suoi.
84
Orlando venne accelerando il passo,
ch’ogni via sapea quivi o breve o longa,
et come cacciator ch’attenda al passo
ch’a ferir il cingial nel spiedo giunga,
si misse fra dui monti drieto a un sasso;
né molto Gano il suo venir prolunga,
che dinanzi e di dietro e d’ambi i lati
cinta la donna havea d’huomini armati.
85
Lassò di molta turba andar inante
Orlando, prima che mutasse loco,
ma come vide giunger Bradamante,
parve bombarda a cui sia dato il foco:
con sì fiero e terribile sembiante
l’assalto cominciò, per durar poco:
la prima lancia a Gano il petto afferra
e ferito aspramente il mette a terra.
86
Passò lo scudo, la corazza e il petto;
et se l’hasta a lo scontro era più forte,
li seria drieto apparso il ferro netto,
né data fòra mai più degna morte.
Pur giacer li conviene a suo dispetto,
né quindi si può tòr, ch’altri nol porte:
Orlando il lassa in terra e più nol mira,
volta il cavallo e Durindana aggira.
87
Le braccia ad altri, ad altri il capo taglia,
chi fino a’ denti e chi più basso fende;
chi ne la gola e chi ne l’inguinaglia,
chi forato nel petto in terra stende.
Non molto in longo va quella battaglia,
ché tutta l’altra turba a fuggir prende:
li caccia quasi Orlando meza lega,
indi ritorna e la cugina slega.
88
La quale, eccetto l’elmo, il scudo e il brando,
tutto il resto de l’armi ritenea,
ché Gano, per alzar sua gloria, quando
non più ch’una donzella presa havea,
pensò, havendola armata, ir dimostrando
che ’l medesimo honor se li dovea
ch’ad Hercole e Teseo gli antiqui dènno
di quel ch’a Termodonte in Scitia fenno.
89
Orlando, che non volse connosciuto
esser d’alcun, indi accusato a Carlo,
e per ciò con un scudo era venuto
d’un sol color, che fece in fretta farlo,
andò là dove Gano era caduto
e prima l’elmo, senza salutarlo,
e dopo il scudo, la spada li trasse
e volse che la donna se n’armasse.
90
Poi se n’andò fin che Mattafellone,
il buon destrier di Gan, hebbe in la briglia,
e ritornando fece ne l’arcione
’scender d’Amon la liberata figlia;
né, per non dar di sé cognitione,
levò mai la visiera da le ciglia:
poi, senza dir parola, il freno volse
e di lor vista in gran fretta si tolse.
91
Bradamante lo priega che ’l suo nome
le voglia dir et ottener nol puote:
Orlando in fretta il destrier sprona e come
corrier che vada a gara, lo percuote.
Va Bradamante a Gano e per le chiome
li lieva il capo e due e tre volte il scuote;
et alza il brando nudo ad ogni crollo,
con voglia di spiccar dal busto il collo.
92
Ma poi s’avide che, lasciandol vivo,
potria Marsiglia haver per questo mezo
e li faria bramar, d’ogn’agio privo,
che di sé fosse già polvere e lezo.
Come ladro il legò, non che cattivo
e col capo scoperto al sole e al rezo,
per longa strada hor drieto sel condusse,
hor cacciò inanzi a gran colpi di busse.
93
Quella sera medesima veduto
le venne quel scudier del qual io dissi
ch’andò a Valenza a dimandar aiuto,
né parve a lui ch’Orlando lo esaudissi;
indi era dietro a l’orme egli venuto
di Gano, per veder ciò che seguissi
de la sua donna e per poter di quella
ai fratelli portar poi la novella.
94
A costui diede la capezza in mano,
che pel collo, pei fianchi e per le braccia,
sopra un debol roncin l’iniquo Gano
trahea legato a discoperta faccia.
Curar la piaga li fe’ da un villano,
che per bisogno in tal opre s’impaccia;
il qual, stridendo Gano per l’ambascia,
tutta l’empie di sal e a pena fascia.
95
Il Maganzese al collo un cerchio d’oro
e precïose annella haveva in dito
et alla spada un cinto di lavoro
molto ben fatto e tutto d’or guarnito;
e queste cose e l’altre che trovoro
di Gano haver del ricco e del polito,
la donna a Sinibaldo tutte diede,
ch’era di maggior don degna sua fede.
96
A Sinibaldo, che così nomato
era il scudier, con l’altre ancho concesse
la gemma in che Vertunno era incantato,
ma non sapendo quanto ella li desse,
né sapendolo anchora a chi fu dato,
con l’altre annella in dito se lo messe;
stimòllo et hebbe in prezzo, ma minore
di quel c’havria, sapendo il suo valore.
97
Pel Delfinato, indi per Lingua d’Oca
ne va, dove trovar spera il fratello,
c’havea Guascogna o ne restava poca,
homai ridotta al suo voler rubello.
Come la volpe che galina od oca,
o lupo che ne porti via l’agnello
per macchie o luoghi ove in perpetuo adugge
l’ombra le pallid’herbe, ascoso fugge;
98
ella così da le città si scosta
quanto più può, né dentro mura alloggia,
ma dove truovi alcuna casa posta
fuor de la gente, ivi si colca o appoggia:
il giorno mangia e dorme e sta riposta,
la notte al camin suo poi scende e poggia:
le par mill’anni ogn’hora che ’l rubaldo
s’indugi a dar prigion al suo Rinaldo.
99
Com’animal selvatico, ridotto
pur dianzi in gabbia o in luogo chiuso e forte,
corre di qua e di là, corre di sotto,
corre di sopra e non trova le porte;
così Gano, vedendosi condotto
da’ suoi nimici a manifesta morte,
cercava col pensier tutti li modi
che lo potesson trar fuor di quei nodi.
100
Pur la guardia li lascia un dì tant’agio
che dà de l’esser suo notitia a un hoste
e li promette trarlo di disagio,
s’andar vuol a Baiona per le poste
et al Lupo, figliuol di Bertolagio,
far che non sien le sue miserie ascoste:
ch’in costui spera, tosto che lo intenda,
ch’a li suoi casi alcun rimedio prenda.
101
L’hoste, più per speranza di guadagno
che per esser di mente sì pietosa,
salta a cavallo e la sferza e ’l calcagno
adopra e notte o dì poco riposa:
giunse, io non so s’io dica al Lupo o a l’agno,
so ch’io l’ho da dir agno in una cosa:
ch’era di cor più timido che agnello,
nel resto lupo insidïoso e fello.
102
Tosto che ’l Lupo ha la novella udita,
senza far il suo cor noto a persona,
con cento cavalier de la più ardita
gente c’havesse, uscì fuor di Baiona;
e verso dove havea la strada uscita
che facea Bradamante, in fretta sprona;
poi si nasconde in certe case guaste
ch’eran tra via, ma ch’a celarlo baste.
103
L’hoste quivi lasciando i Maganzesi,
andò per trovar Gano e Bradamante,
ché da l’insidie e da li lacci tesi
non pigliassero via troppo distante.
Non molto andò che di lucenti arnesi
guarnito un cavalier si vide inante,
che cacciando il destrier più che di trotto,
parea da gran bisogno esser condotto.
104
Galoppandoli innanzi iva un valetto,
due damigelle poi, poi veniva esso:
le damigelle havean l’una l’elmetto,
la lancia e ’l scudo a l’altra era commesso.
Prima che giunga ove lor possa il petto
veder o ’l viso, o più si faccia appresso,
l’hoste a l’incontro la figlia d’Amone
vede venir col traditor prigione.
105
Poi vide il cavalier da le donzelle,
tosto ch’a Bradamante fu vicino,
ire a ’bracciarla, et accoglienze belle
far l’una a l’altra a capo humile e chino
et poi ch’una e due volte iterar quelle,
volgersi e ritornar tutte a un camino:
e chi pur dianzi in tal fretta venia,
lasciar per Bradamante la sua via.
106
Quest’era l’animosa sua Marfisa,
la qual non si fermò, tosto ch’intese
de la cognata presa, et in che guisa;
e per ir in Maganza il camin prese,
certa di liberarla, pur ch’uccisa
già non l’havesse il Conte maganzese;
e se mort’era, far quivi tai danni
che desse al mondo da parlar mill’anni.
107
L’hoste gionse tra loro e salutolle
cortesemente e mostrò far l’usanza,
ché la sera albergar seco invitolle
e finse che non longi era la stanza;
poi, mal accorto, a Gano cennar volle
e del vicin aiuto dar speranza:
ma dal scudier che Gano havea legato
fu il misero veduto et accusato.
108
Marphisa, c’havea l’ira e la man presta,
lo ciuffò ne la gola e l’havria morto,
se non facea la cosa manifesta
c’havea per Gano ordita et il riporto;
pur li travolse in tal modo la testa
ch’andò poi, fin che visse, a capo torto.
Le chiome in fretta armar, ch’eran scoperte,
de le vicine insidie amendue certe.
109
Tolgon tra lor con ordine l’impresa,
che Bradamante non s’habbia a partire,
ma star del traditor alla difesa,
ch’alcun nol scioglia né faccia fuggire;
e che Marphisa attenda a far offesa
a’ Maganzesi, ucciderli e ferire.
Così ne van verso la casa rotta,
dov’i nimici ascosi erano in frotta.
110
L’altre donzelle e i dui scudier restaro,
ch’eran senz’armi, non troppo lontano;
Bradamante e Marphisa se n’andaro
verso gli aguati, havendo in mezo Gano.
Tosto che dritto il loco si trovaro,
saltò Marphisa con la lancia in mano
dentro a la porta e messe un alto grido,
dicendo: — Traditor, tutti v’uccido. —
111
Come chi vespe o galavroni o pecchie
per follia va a turbar ne le lor cave,
se li sente per gli occhi e per l’orecchie
armati di puntura aspera e grave;
così fa il grido de le mure vecchie
del rotto albergo uscir le genti prave
con un strepito d’armi e, da ogni parte,
tanto rumor c’havria da temer Marte.
112
Marphisa, che dovunque apparia il caso
più periglioso divenia più ardita,
con la lancia mandò quattro a l’occaso,
che trovò stretti insieme in su l’uscita;
e col troncon, ch’in man l’era rimaso,
sol in tre colpi a tre tolse la vita.
Ma tornate ad udir un’altra volta
quel che fe’ poi c’hebbe la spada tolta.

CANTO QUARTO

1
Donne mie care, il torto che mi fate
ben è il maggior che voi mai feste altrui:
che di me vi dolete et accusate
che ne’ miei versi io dica mal di vui,
che sopra tutti gli altri v’ho lodate,
come quel che son vostro e sempre fui:
io v’ho offeso, ignorante, in un sol loco;
vi lodo in tanti a studio e mi val poco.
2
Questo non dico a tutte, ché ne sono
di quelle anchor c’hanno il giudicio dritto,
che s’appigliano al più che ci è di buono,
e non a quel che per cianciare è scritto;
dàn facilmente a un lieve error perdono,
né fan mortal un venïal delitto.
Pur, s’una m’odia, anchor che m’amin cento,
non mi par di restar però contento,
3
ché, come io tutte riverisco et amo,
e fo di voi, quanto si può far, stima,
così né che pur una m’odii bramo,
sia d’alta sorte, medïocre o d’ima.
Voi pur mi date il torto, et io mel chiamo;
concedo che v’ha offeso la mia rima,
ma per una ch’in biasmo vostro s’oda,
son per farne udir mille in gloria e loda.
4
Occasïon non mi verrà di dire
in vostro honor, che preterir mai lassi,
e mi sforzerò anchor farla venire,
acciò il mondo empia e fin nel ciel trapassi;
e così spero vincer le vostr’ire,
se non serete più dure che sassi:
pur, se sarete ancho ostinate, poi
la colpa non più in me sarà, ma in voi.
5
Io non lasciai per amor vostro troppo
Gano allegrar di Bradamante presa,
ché venir da Valenza di galoppo
feci il signor d’Anglante in sua difesa;
et hor costui che credea sciorr’ il groppo
di Gano e far alle guerriere offesa,
a vostro honor udite ancho in che guisa,
con tutt’i suoi, trattar fo da Marphisa.
6
Marphisa parve al stringer de la spada
una Furia ch’uscisse de l’inferno;
gli usberghi e gli elmi, ovunque il colpo cada,
più fragil son che le cannuccie il verno;
o che giù al petto o almen che a’ denti vada
o che faccia del busto il capo esterno,
o che sparga cervella o che triti ossa
convien che uccida sempre ogni percossa.
7
Dui ne partì fra la cintura e l’anche:
restar le gambe in sella e cadde il busto;
da la cima del capo un divis’anche
fin su l’arcion, ch’andò in dui pezzi giusto;
tre ferì su le spalle, o destre o manche;
e tre volte uscì il colpo acre e robusto
sotto la poppa dal contrario lato:
dieci passò da l’uno all’altro lato.
8
Lungo saria voler tutti li colpi
de la spada crudel, dritti e riversi,
quanti ne sveni, quanti snervi e spolpi,
quanti ne tronchi e fenda porr’ in versi.
Chi fia che Lupo di viltade incolpi,
e gli altri in fuga appresso a lui conversi,
poi che dal brando che gli uccide e strugge
difender non si può se non chi fugge?
9
Creduto havea la figlia di Beatrice
d’esser venuta a far quivi battaglia
e si ritrova, gionta, spettatrice
di quanto in armi la cognata vaglia,
ché non è alcun del numero infelice
ch’a lei s’accosti pur, non che l’assaglia,
che fan pur troppo, senza altri assalire,
se puon, volgendo il dosso, indi fuggire.
10
D’ogni salute hor disperato Gano,
di corvi e d’avoltor ben si ved’ésca,
ché, poi che questo aiuto è stato vano,
altro non sa veder che li rïesca.
Lo trasser le cognate a Mont’Albano,
che più che morte par che li rincresca;
e fin ch’altro di lui s’habbia a disporre,
lo fan calar nel piè giù d’una torre.
11
Ruggiero intanto al suo viaggio intento,
ch’anchor nulla sapea di questo caso,
carcando hor l’orza et hor la poggia al vento,
facea le prore andar volt’a l’occaso.
Ogni lito di Francia più di cento
milia lontano a dietro era rimaso.
Tutta la Spagna, che non sa a ch’effetto
l’armata il suo mar solchi, è in gran sospetto.
12
La città nominata da l’antico
Barchino Hanon, tumultüar si vede;
Taracona e Valenza e il lito aprico
a cui l’Alano e il Gotto il nome diede;
Cartagena, Almeria, con ogni vico,
de’ bellicosi Vandali già sede;
Malica, Saravigna, fin là dove
la strada al mar diede il figliuol di Giove.
13
Havea Ruggier lasciato poche miglia
Tariffa a dietro e da la destra sponda
vede le Gade, e più lontan Siviglia,
e ne le poppe havea l’aura seconda;
quando a un tratto di man, con maraviglia,
un’isoletta uscir vide da l’onda:
isola par et era una balena,
che fuor del mar scopria tutta la schena.
14
L’apparir del gran mostro, che ben diece
passa del mar con tutto il dosso usciva,
correr a l’armi i naviganti fece
et a molti bramar d’esser a riva.
Saete e sassi e foco acceso in pece
da tutto il stuolo in gran rumor veniva
di timpani e di trombe, e tanti gridi,
che facea il ciel, non che sonar i lidi.
15
Poco lor giova ir l’acqua e l’aer vano
di percosse e di strepiti ferendo,
che non si fa per questo più lontano,
né più si fa vicino il pesce horrendo;
quanto un sasso gettar si può con mano,
quel vien l’armata tuttavia seguendo:
sempre le appar col smisurato fianco
hora dal destro lato, hora dal manco.
16
Andàr tre giorni et altre tante notti,
quanto il corso dal stretto al Tago dura,
che sempre di restar sommersi e rotti
dal vivo e mobil scoglio hebbon paura:
gli assalse il quarto dì, che già condotti
eran sopra Lisbona, un’altra cura:
ché scoperson l’armata di Ricardo
che contra lor venia dal mar Picardo.
17
Insieme si connobero l’armate,
tosto che l’una hebbe de l’altra vista.
Ruggier si crede ch’ambe sian mandate
perché lor meno il Lusitan resista,
e non che, per zinzanie seminate
da Gano, l’una l’altra habbia a far trista:
non sa il meschin che colui sia venuto
per ruinarlo, e non per darli aiuto.
18
Fa sugli arbori tutti e in ogni gabbia
e le bandiere stendere e i pennoni,
dar ai tamburi e gonfiar guancie e labbia
a trombe, a corni, a piffari, a bussoni.
Come allegrezza et amicitia s’habbia
quivi a mostrar, fa tutti i segni buoni;
gettar fa in l’acqua i palischermi e gente
lo manda a salutar humanamente.
19
Ma quel di Normandia, ch’assai diverso
dal buon Ruggier ha in ogni parte il core,
al suo vantaggio intento, non fa verso
lui segno alcun di gaudio né d’amore,
ma, con disir di romperlo e sommerso
quivi lasciar, ne vien senza rumore;
e scostandosi in mar, l’aura seconda
si tolle in poppa, ove Ruggier l’ha in sponda.
20
Poi che vide Ruggier assenzo al mèle,
armi a’ saluti, odio a l’amor opporse
et che, ma tardi, del voler crudele
del capitan di Normandia s’accorse,
né più poter montar sopra le vele
di lui, né per fuggir di mezo tòrse,
si volse e diede a’ suoi duri conforti,
ch’invendicati almen non fosser morti.
21
L’armata de’ Normandi urta e fracassa
ciò che tra via, cacciando Borea, intoppa
et prore e sponde al mar aperte lassa,
da non le serrar poi chiovi né stoppa:
ch’ogni sua nave al mezo, ov’è più bassa,
vince dei Provenzal la maggior poppa.
Ruggier, col disvantaggio che ciascuna
nave ha minor, ne sostien sei contr’una.
22
Il naviglio maggior d’ogni normando,
che nel castel da poppa havea Ricardo,
per l’alto un pezzo era venuto orzando,
come su l’ali il pellegrin gagliardo
che, mentre va per l’aria volteggiando,
non lieva mai da la riviera il sguardo;
e vista alzar la preda ch’egli attende,
come folgor dal ciel ratto giù scende.
23
Così Ricardo, poi ch’in mar si tenne
alquanto largo e vedut’ hebbe il legno
con che venia Ruggier, tutte l’antenne
fece carcar sino a l’estremo segno;
et, sì come era sopra vento, venne
ad investir e riuscì il disegno,
che tutto a un tempo fur l’àncore gravi
d’alto gettate ad attaccar le navi
24
et correndo alle gomone in aita
più d’una mano, i legni gionti furo.
Da pal di ferro intanto e da infinita
copia de dardi era nissun sicuro:
che da le gabbie ne cadea, con trita
calzina e solfo acceso, un nembo oscuro:
né quei di sotto a ritrovar si vanno
con minor crudeltà, con minor danno.
25
Quelli di Normandia, che di luogo alto
e di numero havean molto vantaggio,
nel legno di Ruggier féro il mal salto,
dal furor tratti e dal lor gran coraggio;
ma tosto si pentir del folle assalto,
ché non patendo il buon Ruggier l’oltraggio,
presto di lor, con bel menar de mani,
fe’ squarzi e tronchi e gran pezzi da cani;
26
e via più a sé valer la spada fece
che ’l vantaggio del legno lor non valse,
o perché contra quattro fosson diece:
con tanta forza e tant’ardir gli assalse!
Fe’ di negra parer rossa la pece
e rosseggiar intorno l’acque salse,
ché da prora e da poppa e da le sponde
molti a gran colpi fe’ saltar ne l’onde.
27
Fattosi piazza e visto sul naviglio
che non era huom se non de’ suoi rimaso,
ad una scala corse a dar di piglio,
per montar sopra quel di maggior vaso;
ma veduto Ricardo il gran periglio
in che incorrer potea, provid’al caso.
Fu la provisïon per lui sicura,
ma mostrò di poch’altri tener cura.
28
Mentre i compagni difendean il loco,
andò a li schiffi e fe’ gettarli all’acque:
quattro o sei n’avisò, ma il numer poco
fu verso agli altri a chi la cosa tacque.
Poi fe’ in più parti al legno porre il foco,
ch’ivi non molto adormentato giacque;
ma di Ruggier la nave accese anchora
e da le poppe andò sin alla prora.
29
Ricardo si salvò dentro ai battelli
et seco alcuni suoi c’hebbe più cari;
e sopra un legno si fe’ por di quelli
ch’in sua conserva havean solcati i mari:
indi mandò tutti i minor vasselli
a trar i suoi dei salsi flutti amari:
che per fuggir l’ardente dio di Lenno
in braccio a Theti et a Nettun si denno.
30
Ruggier non havea schiffo ove salvarse,
ché, come ho detto, il suo mandato havea
a salutar Ricardo et allegrarse
di quel di che doler più si dovea;
né all’altre navi sue, ch’erano sparse
per tutto il mar, ricorso haver potea,
sì che, tardando un poco, ha da morire
nel foco quivi o in mar, se vuol fuggire.
31
Vede in prua, vede in poppa e ne le sponde
crescer la fiamma, e per tutte le bande:
ben certo è di morir, ma si confonde,
se meglio sia nel foco o nel mar grande:
pur si risolve di morir ne l’onde,
acciò la morte un poco in longo mande:
così spicca un gran salto da la nave
in mezo il mar, di tutte l’armi grave.
32
Qual suol vedersi in lucid’onda e fresca
di tranquillo vivai’ correr la lasca
al pan che getti il piscator o a l’ésca
ch’in ramo alcun de le sue rive nasca;
tal la balena, che per longa tresca
segue Ruggier perché di lui si pasca,
visto il salto, v’accorre e senza noia
con un gran sorso d’acqua se l’ingoia.
33
Ruggier, che s’era abbandonato e al tutto
messo per morto, dal timor confuso,
non s’avide al cader come condutto
fusse in quel luogo tenebroso e chiuso,
ma perché li parea fetido e brutto,
esser spirto pensò di vita escluso,
il qual fusse dal Giudice superno
mandato in purgatorio o giù a l’inferno.
34
Stava in gran tema del foco penace,
di che havea ne la nuova fé già inteso.
Era com’una grotta ampla e capace
l’oscurissimo ventre ov’era sceso:
sente che sotto i piedi arena giace,
che cede, ovunque egli la calca, al peso:
brancolando, le man quanto può stende
da l’un lato e da l’altro, e nulla prende.
35
Si pone a Dio, con humiltà di mente,
de’ suoi peccati a dimandar perdono,
che non lo danni all’infelice gente
di quei ch’al ciel mai per salir non sono.
Mentre ch’in ginocchion divotamente
sta così orando al basso curvo e prono,
un picciol lumicin d’una lucerna
vide apparir lontan per la caverna.
36
Esser Charon lo giudicò da lunge,
che venisse a portarlo all’altra riva:
s’avvide, poi che più vicin li giunge,
che senza barca a sciutto piè veniva.
La barba alla cintura si congiunge,
le spalle il bianco crin tutto copriva;
ne la destra una rete havea, a costume
di piscator, ne la sinistra un lume.
37
Ruggier lo vedea appresso et era in forse
se fosse huom vivo o pur fantasma et ombra.
Tosto che del splendor l’altro s’accorse
che feria l’armi e si spargea per l’ombra,
si trasse a drieto e per fuggir si torse,
come destrier che per camino adombra;
ma poi che si miràr l’un l’altro meglio,
Ruggier fu il primo a dimandar al veglio:
38
— Dimmi, padre, s’io vivo o s’io son morto,
s’io sono al mondo o pur son a l’inferno:
questo so ben, ch’io fui dal mar absorto,
ma se per ciò io morissi, non discerno.
Perché mi veggo armato, mi conforto
ch’io non sia spirto dal mio corpo esterno;
ma poi l’esser rinchiuso in questo fondo
fa ch’io temo esser morto e fuor del mondo.
39
— Figliuol, — rispose il vecchio — tu sei vivo,
com’anch’io son; ma fòra meglio molto
esser di vita l’un e l’altro privo,
che nel mostro marin viver sepolto.
Tu sei d’Alcina, se non sai, captivo:
ella t’ha il laccio teso e al fin t’ha colto,
come colse me anchora, con parecchi
altri che ci vedrai, gioveni e vecchi.
40
Vedendoti qui dentro, non accade
di darti cognition chi Alcina sia,
che se tu non havessi sua amistade
hauta prima, ciò non t’avverria.
In India vedut’hai la quantitade
de le conversïon che questa ria
ha fatto in fiere, in fonti, in sassi, in piante,
de cavalier di ch’ella è stata amante.
41
Quei che, per nuovi successor, men cari
le vengono, muta ella in varie forme,
ma quei che se ne fuggon, che son rari,
sì come esserne un tu credo d’apporme,
quando giunger li può negli ampli mari
(però che mai non ne abandona l’orme),
gli caccia in ventre a quest’horribil pesce,
onde mai vivo o morto alcun non esce.
42
Le fate hanno tra lor tutta partita
e l’habitata e la deserta terra:
l’una ne l’Indo può, l’altra nel Scyta,
questa può in Spagna e quella in Inghilterra;
e ne l’altrui ciascuna è prohibita
di metter mano, et è punita ch’erra:
ma comune fra lor tutt’il mare hanno
e ponno a chi lor par quivi far danno.
43
Tu vederai qua giù, scendendo al basso,
degli infelici amanti i scuri avelli,
de’ quali è alcun sì antico, che nel sasso
li nomi non si pon legger di quelli.
Qui crespo e curvo, qui debole e lasso
m’ha fatto il tempo, e tutti bianchi i velli;
che quando io venni, a pena uscìan dal mento
com’oro i peli c’hor vedi d’argento.
44
Quant’anni sien non saprei dir, ch’io scesi
in queste d’ogni tempo oscure grotte:
che qui né gli anni annoverar né i mesi,
né si può il dì connoscer da la notte.
Duo vecchi ci trovai, dai qual intesi
quel da che fur le mie speranze rotte:
che più de la mia età ci havean consunto,
et io li giunsi a sepelire a punto.
45
E mi narràr che, quando giovinetti
ci vennero, alcun’altri havean trovati,
che similmente d’Alcina diletti,
di poi qui presi e posti erano stati:
sì che, figliuol, non converrà ch’espetti
riveder mai più gli huomini beati,
ma con noi che tre eramo et hora teco
siam quattro, starti in questo ventre cieco.
46
Ci rimasi io già solo et poscia dui,
poi da venti dì in qua tre fatti eramo,
et hoggi quattro, essendo tu con nui:
ch’in tanto mal grand’aventura chiamo
che tu ci trovi compagnia, con cui
pianger possi il tuo stato oscuro e gramo,
e non habbi a provar l’affanno e ’l duolo
che quel tempo io provai che ci fui solo. —
47
Come ad udir sta il misero il processo
de’ falli suoi che l’han dannato a morte,
così turbato e col capo demesso
udia Ruggier la sua infelice sorte.
— Rimedio altro non ci è — soggiunse appresso
il vecchio — che di oprar l’animo forte.
Meco verrai dove, secondo il loco,
l’industria e il tempo n’ha adagiati un poco.
48
Ma voglio proveder prima di cena,
che qui sempre però non si digiuna. —
Così dicendo, Ruggier indi mena,
cedendo al lume l’ombra e l’aria bruna,
dove l’acqua per bocca a la balena
entra e nel ventre tutta si raguna:
quivi con la sua rete il vecchio scese
e di più forme pesci in copia prese.
49
Poi, con la rete in collo e il lume in mano,
la via a Ruggier per strani groppi scorse:
al salir et al scendere la mano,
ai stretti passi ancho talhor, li porse.
Tratto ch’un miglio o più l’hebbe lontano,
con gli altri dui compagni al fin trovorse
in più capace luogo, ove a l’esempio
d’una moschea, fatt’era un picciol tempio.
50
Chiaro vi si vedea come di giorno,
per le spesse lucerne ch’eran poste
in mezzo e per li canti e d’ogn’intorno,
fatte de nicchi di marine croste:
a dar lor l’olio traboccava il corno,
ché non è quivi cosa che men coste,
pei molti capidogli che divora
e vivi ingoia il mostro ad hora ad hora.
51
Una stanza alla chiesa era vicina,
di più famiglia che la lor capace,
dove su ben asciuta alga marina
nei canti alcun commodo letto giace.
Tengono in mezo il fuoco la cucina:
che fatt’havea l’artefice sagace,
che per longo condotto di fuor esce
il fumo, ai luoghi ove sospira il pesce.
52
Tosto che pon Ruggier là dentro il piede,
vi riconosce Astolfo paladino,
che mal contento in un dei letti siede,
tra sé piangendo il suo fiero destino.
Lo corre ad abbracciar, come lo vede:
li lieva Astolfo incontro il viso chino
et come lui Ruggier esser conosce,
rinuova i pianti e fa maggior l’angosce.
53
Poi che piangendo a l’abbracciar più d’una
e di due volte ritornati furo,
l’un l’altro dimandò da qual fortuna
fusson dannati in quel gran ventre oscuro.
Ruggier narrò quel ch’io v’ho già de l’una
e l’altra armata detto, il caso oscuro
e di Ricardo senza fin si dolse;
Astolfo poi così la lingua sciolse:
54
— Dal mio peccato (ch’accusar non voglio
la mia fortuna) questo mal m’avviene.
Tu di Ricardo, io sol di me mi doglio:
tu pati a torto, io con ragion le pene.
Ma, per aprirti chiaramente il foglio
sì che l’historia mia si vegga bene,
tu déi saper che non son molti mesi
ch’andai di Francia a riveder mie’ Inglesi.
55
Quivi, per chiari e replicati avisi
essendo più che certo de la guerra
che ’l re di Danismarca e i Datii e i Frisi
apparecchiato havean contra Inghelterra,
ove il bisogno era maggior mi misi,
per lor vietar il dismontar in terra,
dentro un castel che fu per guardia sito
di quella parte ov’è men forte il lito,
56
ché da quel canto il re mio padre Othone
temea che fosse l’isola assalita.
Signor di quel castel era un barone
c’havea la moglie di beltà infinita,
la qual tosto ch’io vidi, ogni ragione,
ogni honestà da me fece partita;
e tutto il mio voler, tutto il mio core
diedi in poter del scelerato amore.
57
Et senza haver a l’honor mio riguardo
che quivi ero signor, egli vassallo
(ché contra un debol, quant’è più gagliardo
chi le forze usa, tant’è maggior fallo),
poi che dei prieghi ir il rimedio tardo
et vidi lei più dura che metallo,
all’insidie aguzzar prima l’ingegno
et indi alla vïolenza hebbi il dissegno.
58
E perché, come i modi miei non molto
erano honesti, così anchor né ascosi,
fui dal marito in tal sospetto tolto
ch’in lei guardar passò tutt’i gelosi.
Per questo non pensar che ’l desir stolto
in me s’allenti o che giamai riposi;
et uso atti e parole in sua presenza
da far romper a Iobbe la patienza.
59
Et perché havevo pur quivi rispetto
d’usar le forze a la scoperta seco,
dov’era tanto populo, in conspetto
de’ principi e baron che v’eran meco,
disegnai di sforzarlo, ma l’effetto
coprir, e lui far in vederlo cieco;
e mezo a questo un cavalier trovai,
il qual molt’era suo, ma mio più assai.
60
A’ prieghi miei, costui li fe’ vedere
com’era mal accorto e poco saggio
a tener dove io fossi la mogliere,
che sol studiavo procacciarli oltraggio;
e seria più laudabile parere,
tosto che mi accadesse a far vïaggio
da un loco a un altro, com’era mia usanza,
di salvar quella in più sicura stanza.
61
Còrre il tempo potrà la prima volta
che, per non ritornar la sera, andassi:
che spesso havevo in uso andar in volta
per riparar, per riveder i passi.
Gualtier (che così havea nome) l’ascolta,
né vuol ch’indarno il buon consiglio passi:
pensa mandarla in Scotia, ove di quella
il padre era signor di più castella.
62
Quivi segretamente alcune some
de le sue miglior cose in Scotia invia.
Io do la voce d’ir a Londra e, come
mi pare il tempo, un dì mi metto in via;
et ei con Cinthia sua (che così ha nome),
senza sospetto di trovar tra via
cosa ch’a l’andar suo fosse molesta,
del castel esce et intra in la foresta.
63
Con donne e con famigli disarmati
la via più trita inverso Scotia prese:
non molto andò, che cadde negli aguati,
ne l’insidie ch’i miei già gli havean tese.
Haveva alcuni miei fedel mandati,
che coi visi coperti in strano arnese
li furo adosso e tolser la consorte;
e a lui di gratia fu campar da morte.
64
Quella portano in fretta in una torre,
fuor de la gente, in loco assai rimoto,
donde a me senza indugio un messo corre,
il qual mi fa tutto il successo noto.
Io già havea detto di volermi tòrre
de l’isola; e la causa di tal moto
era ch’udivo esser Rinaldo a Carlo
fatto nimico et io volea aiutarlo.
65
Agli amici fo motto e, come io voglia
passar quel giorno, inverso il mar mi muovo;
poi mi nascondo et armi muto e spoglia
e piglio a’ miei servigi un scudier novo;
e per le selve ove meno ir si soglia
verso la torre ascosa via ritrovo
e dove è più solinga e strana et erma,
incontro una donzella che mi ferma,
66
e dice: «Astolfo, giovaràti poco»
che mi chiamò per nome «andar di piatto,
che ben serai trovato, e a tempo e a loco
ti punirà quello a chi ingiuria hai fatto.»
Così dice e ne va poi come foco
che si vede pel ciel discorrer ratto:
la vuo’ seguir; ma sì corre, anzi vola,
che replicar non posso una parola.
67
E se n’andò quel dì medesimo ancho
a ritrovar Gualtier afflitto e mesto,
che per dolor si battea il petto e ’l fianco,
e li fe’ tutto il caso manifesto:
non già ch’alcun me lo dicessi e manco
che con gli occhi io ’l vedessi, io dico questo;
ma, così, discorrendo con la mente,
veggo che non puot’esser altrimente.
68
Conietturando, similmente, seppi
esser costei d’Alcina messaggiera;
che dal dì ch’io mi sciolsi dai suoi ceppi,
sempre venuta insidïando m’era.
Com’ho detto, costei Gualtier pei greppi
pianger trovò di sua fortuna fiera;
né chi offeso l’havea li mostra solo,
ma il modo anchor di vendicar suo duolo.
69
E lo pon, come suol porr’a la posta
il mastro de la caccia i spiedi e i cani;
e tanto fa ch’un mio corrier, ch’in posta
mandavo a ’ Ntona, li fa andar in mani.
Io scrivea a un mio, che vi tenea a mia posta
un legno per portarmi agli Aquitani,
il giorno ch’io volea che fusse a punto
in certa spiaggia per levarmi giunto.
70
Né in Antona volea né in altro porto,
per non lasciar connoscermi, imbarcarmi:
del segno anchor io lo faceva accorto
col qual volea dal lito a lui mostrarmi,
acciò stando sul mar tuttavia sorto
mandasse il palischermo indi a levarmi;
et, a l’incontro, il segno che dovessi
far egli a me in la lettera gli espressi.
71
Ben fu Gualtier de la ventura lieto,
che se gli apria la strada a la vendetta.
Fe’ che tornar non puoté il messo e, cheto,
dov’era un suo fratel se n’andò in fretta
e lo pregò che gli armasse in segreto
un legno de fedele gente elletta.
Hauto il legno, il buon Gualtiero corse
al capo di Lusarte e quivi sorse.
72
Vicino a questo mar sedea la rocca,
dove aspettavo, in parte assai selvaggia
sì che apparir veggo lontan la cocca
col segno da me dato in su la gaggia:
io, d’altra parte, quel ch’a me far tocca
li mostro da la torre e da la spiaggia.
Manda Gualtier lo schiffo e me raccoglie
et un scudier c’ho meco, e la sua moglie.
73
Né sé né alcun de’ suoi ch’io connoscessi
prima scopersi che sul legno fui;
ove lassando a pena ch’io dicessi:
— Dio aiutami —, pigliar me fece ai sui,
che come vespe o galavroni spessi
mi s’aventaro e, commandando lui,
in mar buttàrmi, ove già questa fera,
com’Alcina ordinò, nascosa s’era.
74
Così il peccato mio brutto e nefando,
degno di questa e di più pena molta,
m’ha chiuso qui, onde di come e quando
io n’habbia a uscir, ogni speranza è tolta,
quella protectïon tutta levando,
che san Giovanni havea già di me tolta. —
Poi c’hebbe così detto, allentò il freno
Astolfo al pianto e bagnò il viso e il seno.
75
Ruggier, che come lui non era immerso
sì nel dolor, ma si sentia più sorto,
gli studiava, inducendoli alcun verso
de la Scrittura, di trovar conforto.
— Non è — dicea — del Re de l’universo,
l’intentïon che ’l peccator sia morto,
ma che dal mar d’iniquitadi a riva
ritorni salvo e si converta e viva.
76
Cosa humana è a peccar; e pur si legge
che sette volte il giorno il giusto cade;
e sempre a chi si pente e si corregge
ritorna a perdonar l’Alta bontade:
anzi, d’un peccator che fuor del gregge
habbi errato e poi torni a miglior strade,
maggior gloria è nel regno de li eletti
che di nonantanove altri perfetti. —
77
Per far nascer conforto, cotal seme
il buon Ruggier venìa spargendo quivi;
poi ricordava ch’altra volta insieme
d’Alcina in Oriente fur captivi;
e come di là usciro, ancho haver speme
dovean d’uscir di questo carcer vivi.
— S’alhora io fui — dicea — degno d’aita,
hor ne son più, che son miglior di vita. —
78
E seguitò: — Se quando ne l’errore
de la dannata legge ero perduto
e ne l’otio sommerso e nel fetore
tutto d’Alcina, com’animal bruto,
mi liberò il mio Sommo Almo Fattore,
perché sperar non debbio hora il suo aiuto,
che per la fede essendo puro e netto
di molte colpe, io so che m’ha più accetto?
79
Creder non voglio che ’l demonio rio,
dal qual la forza di costei dipende,
possa nuocere agli huomini che Dio
per suoi connosce e che per suoi difende.
Se vera fede havrai, se l’havrò anch’io,
Dio la vedrà ch’i nostri cori intende:
et vedendola vera, habbi speranza
che non havrà il demonio in noi possanza. —
80
Astolfo, presa la parola, disse:
— Questo ogni buon christian de’ tener certo.
Non scese in terra Dio, né con noi visse,
né in vita e in morte ha tanto mal sofferto,
perché il nimico suo dipoi venisse
a riportar di sua fatica il merto.
Quel che sì ricco prezzo costò a lui,
non lascierà sì facilmente altrui.
81
Non manchi in noi contritïone e fede
et il pregar con purità di mente,
che Dio non può mancarci di mercede.
Egli lo disse, e il dir suo mai non mente.
Scritto ha nel suo Evangelio: «Ch’in me crede,
occide nel mio nome ogni serpente,
il venen bee senza che mal li faccia,
sana gli infermi e li demoni scaccia.»
82
e dice altrove: «Quando con perfetta
fede ad un monte a commandar tu vada:
“Di qui ti lieva, e dentro il mar ti getta”
che ’l monte piglierà nel mar la strada.»
Ma perché fede quasi morta è detta
quella che sta senza far opre a bada,
procacciam con buon’opere che sia
più grata a Dio la tua fede e la mia.
83
Proviam di trar alla vera credenza
questi altri che son qui presi con nui,
di che già fatto ho qualche esperïenza,
ma poco un parer mio può contra dui.
Forse saremo a mutar lor sentenza
meglio insieme tu et io, ch’io sol non fui;
e se potiam questi al demonio tòrre,
non ha qua dentro poi dove si porre.
84
Et Dio, tutti vedendone fedeli
pregar la sua clemenza che n’aiute,
dal fonte di pietà scender dai cieli
farà qua dentro un fiume di salute. —
Così dicean, poi salmi, hinni e vangeli,
oratïon ch’a mente havean tenute,
incominciaro i cavalier devoti
e a porr’in opra i prieghi e i pianti e i voti.
85
Intanto gli altri dui con studio grande
cercavan di far vezzi al novell’hoste.
Di varii pesci varie le vivande
a rosto e lesso al foco erano poste.
Poco inanzi, un naviglio da le bande
di Vinegia, spezzato ne le coste,
la balena s’havea cacciato sotto
e tratto in ventre in molti pezzi rotto;
86
et le bótte e le casse e li fardelli
tutti nel ventre ingordo erano entrati.
Gli naviganti solo coi battelli
ai legni di conserva eran campati,
sì che v’è da dar foco e nei piatelli
da condir buoni cibi e delicati
con zuchero e con spetie; et havean vini
e còrsi e grechi, precïosi e fini.
87
Passavano pochi anni, ch’una o due
volte non si rompesson legni quivi,
dond’i prigion per le bisogne sue
cibi trahean da mantenersi vivi.
Poser la cena, come cotta fue;
s’havessen pane o se ne fusson privi,
non so dir certo: ben scrive Turpino
che sotto il gorgozulle era un molino,
88
che con l’acque ch’entravan per la bocca
del mostro, il grano macinava a scosse,
il quale o in barcia o in caravella o in cocca
rotta là dentro ritrovato fosse.
D’una fontana similmente tocca,
ch’a ridirla le guancie mi fa rosse,
lo scrive pure et il miracol copre
dicendo ch’eran tutte magich’opre.
89
Non l’affermo io per certo né lo niego:
se pane hebbono o no, lo seppon essi.
Li dui fedel, de dui infedeli al priego,
fen punto a salmi e a tavola son messi.
Ma d’Astolfo e Ruggier più non vi sego:
diròvi un’altra volta i lor successi.
Finch’io ritorno a rivederli, ponno
cenar ad agio e dipoi far un sonno.
90
Intanto Carlo, alla battaglia intento
che ’l re boemme haver dovea con lui,
senza sospetto ignun che tradimento
(quel che non era in sé) fusse in altrui,
facea provar destrier, che cento e cento
n’havea d’elletti a li bisogni sui;
e li migliori, a chi facea mestieri,
largamente partia fra i suoi guerrieri.
91
Né solo haver per sé buon’armatura
quanto più si potea forte e liggiera,
ma trovarne ai compagni ancho havea cura,
che se mai lor ne fu bisogno, hor n’era.
Seco gli usava alla fatica dura
due fïate ogni dì, mattino e sera;
et seco in maneggiar arme e cavallo
facea provarli, e non ferir in fallo.
92
Ma Cardoran, che non ha alcun dissegno
di por lo stato a sorte d’una pugna,
viene aguzzando tuttavia l’ingegno
sì come tronchi a l’augel santo l’ugna.
Aspetta e spera da Ungheria, e dal regno
de li Sassoni homai, ch’aiuto giugna:
la notte e ’l giorno intanto unqua non resta
di far più forte hor quella cosa hor questa.
93
Et ridur si fa dentro a poco a poco
e vettovaglia e munition e gente,
ché, per la tregua, in assediar quel loco
l’esercito era fatto negligente
et parea quasi ritornata in gioco
la guerra ch’a principio era sì ardente;
e scemata di qui più d’una lancia,
contra Rinaldo era tornata in Francia.
94
Sansogna e Slesia et Ungaria una bella
e grossa armata insieme posta havea:
la gente di Sansogna, e così quella
di Slesia, i pedestri ordini movea;
venir con questi, e la più parte in sella,
l’esercito de gli Ungar si vedea;
poi seguia un stuol di Traci e di Valachi,
Bulgari, Servïan, Russi e Polachi.
95
Questi mandava il greco Constantino,
e per suo capitano un suo fratello,
sì come quel ch’a Carlo di Pipino
portava iniqua invidia et odio fello,
per esser fatto imperator latino
et usurparli il coronato augello.
Ben di lor mossa e del lor pors’in via
havuto Carlo havea più d’una spia;
96
ma, com’ho detto, Gano con diversi
mezi gli havea cacciato et fisso in mente
che si metteva insieme per doversi
mandar verso Ellesponto quella gente
e tragittarsi in Asia contra i Persi,
c’havean presa Bitinia novamente;
et ch’era a petition fatta et instanza
del greco imperator la ragunanza.
97
Né ch’ella fusse a li suoi danni volta
prima sentì, ch’era in Boemia entrata,
sì che ben si pentì più d’una volta
che la sua più del terzo era scemata,
già credendo haver vinto; quindi tolta
n’havea una parte et al nipote data.
Ma quel ch’oggi dir volsi è qui finito:
chi più ne brama udir, domani invito.

CANTO QUINTO

1
Un capitan che d’inclito e di saggio
e di magno e d’invitto il nome merta,
non dico per richezza o per lignaggio,
ma perché spesso habbia fortuna esperta,
non si suol mai fidar sì nel vantaggio
che la vittoria si prometta certa:
sta sempre in dubbio c’haver debba cosa
da ripararsi il suo nimico ascosa.
2
Sempre li par veder qualche segreta
fraude scoccar, ch’ogni suo honor confonda:
ché pur là dov’è più tranquilla e quieta,
più perigliosa è l’acqua e più profonda;
perciò non mai prosperità sì lieta
né tal baldanza a’ suoi desir seconda,
che lasciar voglia gli ordini e i ripari
che faria havendo huomini e dei contrari.
3
Io ’l dirò pur, se ben audace parlo,
che quivi errò quel sì lodato ingegno
col qual paruto era più volte Carlo
saggio e prudente e più d’ogn’altro degno:
ma il vincer Cardorano e vinto trarlo,
glorïoso spettacolo, al suo regno,
quivi gli havea così occupato i sensi,
ch’altro non è ch’ascolti, vegga et pensi.
4
Né si scema sua colpa, anzi augumenta,
quando di Gano il mal consiglio accusi.
Per lui vuol dunque ch’altri vegga o senta,
et ei star tuttavia con gli occhi chiusi?
Dunque l’alloppia Gano e l’addormenta
et tutti gli altri ha da i segreti esclusi?
Ben seria il dritto che tornasse il danno
solamente su quei che l’error fanno.
5
Ma, pel contrario, il popolo innocente,
il cui parer non è ch’ascolti o chieggia,
è le più volte quel che solamente
patisse quanto il suo signor vaneggia.
Carlo, che non ha tempo che di gente
né che d’altro ripar più si proveggia,
quella con diligentia, che si trova,
tutta rivede e gli ordini rinova.
6
Et come che passar possa la Molta
sul ponte che v’è già fatto a man destra,
e la sua gente, in gli ordini raccolta,
ritrarre al monte et alla strada alpestra
e ver’ le terre franche indi dar volta,
o dove creda haver la via più destra:
pur ogni condition dura et estrema
vuol patir, prima che mostrar che tema.
7
Hor quel muro ch’opposto havea alla terra
tra un fiume e l’altro con sì longo tratto,
fa con crescer di fosso e legne e terra,
più forte assai che non havea già fatto;
et con gente a bastanza i passi serra
acciò non, mentre attende ad altro fatto,
questi di Praga, ritrovato il calle
di venir fuor, l’assaltino a le spalle.
8
L’un nimico havea dietro e l’altro a fronte,
e vincer quello e questo animo havea.
L’esercito de’ barbari su al monte
passò l’Albi, vicino ove sorgea.
Carlo tenea sopra l’altr’acqua il ponte,
ch’uscìa verso la selva di Medea,
e quello alla sua gente, che divise
in tre battaglie, al destro fianco mise.
9
Et così fece che ’l sinistro lato
non men difeso era da l’altro fiume:
si pose dietro l’argine e il steccato,
da non poter salir senza haver piume.
Il corno destro ad Olivier fu dato,
del sangue di Borgogna inclito lume,
che cento fanti havea per ogni fila,
le file cento, con cavai seimila.
10
Hebbe il Danese in guardia l’altro corno,
con numer par de fanti e de cavalli.
L’imperator, di drappo azuro adorno
tutto trapunto a fior de gigli gialli,
reggea nel mezo, e i paladini intorno,
duci, marchesi, e principi vassalli
e sette mila havea di gente equestre,
et duplicato numero pedestre.
11
A l’incontro, il stuol barbaro, diviso
in tre battaglie, era venuto inanti,
men d’una lega appresso a questi assiso,
et similmente havea i dui fiumi ai canti.
Cento settanta mila era il preciso
numer, ch’un sol non ne mancava a tanti;
e in ogni banda con ugual portioni
partiti i cavalli erano e i pedoni.
12
Ogni squadra de’ barbari non manco
ivi quel giorno stata esser si crede,
che tutto fosse insieme il popul franco,
quanto ve n’era, chi a caval, chi a piede:
ma tal ardir e tal valor, tal anco
ordine havean questi altri, e tanta fede
nel suo signor, d’ingegno e di prudenza,
che ciascun valer quatro havea credenza.
13
Ma poi sentìr, che si trovaro in fatto,
che pur troppo era un sol, non che a bastanza;
né di quella battaglia hebbono il patto
che lor promesso havea loro arroganza:
e potea Carlo rimaner disfatto
se Dio, che salva ch’in lui pon speranza,
non gli havesse al bisogno proveduto
d’un improviso e non sperato aiuto.
14
Et non poteron sì l’insidie astute,
l’arte e l’ingan de ’l traditor crudele
che non potesse più chi per salute
nostra morendo, volse bere il fele:
Gano le ordì, ma al fin l’alta Virtute
fece in danno di lui tesser le tele:
lo fe’ da Bradamante e da Marfisa
metter prigione, e detto v’ho in che guisa.
15
Quelle gli havean già ritrovato adosso
lettere e contrasegni e una patente,
per le quali apparea che Gano mosso
non s’era a tòr Marsiglia di sua mente,
ma che venuto il male era da l’osso:
Carlo n’era cagion principalmente.
E vider scritto quel ch’in mar appresso
per distrugger Ruggier s’era commesso.
16
E leggendo, Marfisa vi trovoro
e Ruggier traditor esser nomati,
perché, partiti da le guardie loro,
in favor di Rinaldo erano andati;
et per questo rubelli a i gigli d’oro
eran per tutto il regno divulgati;
e Carlo havea lor dietro messo taglia,
sperando haverli in man senza battaglia.
17
Marfisa, che sapea ch’alcun errore
né suo né del fratell’era precorso,
pel qual dovesse Carlo imperatore
contr’essi in sì grand’ira esser trascorso,
di giusto sdegno in modo arse nel core
che, quanto ir si potea di maggior corso,
correr pensò in Boemmia e uccider Carlo,
che non potrian suoi paladin vietarlo.
18
E ne parlò con Bradamante e appresso
col Selvaggio Guidon, ch’ivi era alhora:
ché Mont’Alban gli havea il fratel commesso,
che vi dovesse far tanta dimora
che Malagigi, com’havea promesso,
venisse; e l’aspettava d’hora in hora
per dar a lui la guardia del castello
e poi tornar in campo al suo fratello.
19
Marfisa ne parlò, come vi dico,
a i duo germani e li trovò disposti
che s’habbia a trattar Carlo da nimico
e far che l’odio lor caro li costi;
che si meni con lor Gano, il suo amico,
et che s’un par di forche ambi sian posti;
et che si scanni, tronchi, tagli e fenda
qualunque d’essi la difesa prenda.
20
Guidon, ch’andar con lor facea pensiero
né lasciar senza guardia Mont’Albano,
espedì allhora allhora un messaggiero,
ch’andò a far fretta al frate di Viviano;
e li parve che fusse quel scudiero
che tratto havea quivi legato Gano;
per narrar lui che la figlia d’Amone
libera e sciolta e Gano era prigione.
21
Sinibaldo, il scudier, calò del monte
e verso Malagigi il camin tenne;
e nol potendo haver in Agrismonte,
più lontan per trovarlo ir li convenne.
Ma il dì seguente Alardo entrò nel ponte
di Mont’Albano e ben a tempo venne,
ché, lui posto in suo loco, entrò in camino
Guidon, senza espettar più il suo cugino.
22
Egli e le donne, tolto i loro arnesi,
in Armaco e a Tolosa se ne vanno
due donzelle e tre paggi havendo presi,
col conte de Pontier che legat’hanno.
Lasciànli andar, che forsi più cortesi
che non ne fan sembianti, al fin seranno:
diciam del messo il qual da Mont’Albano
vien per trovar il frate di Viviano.
23
Non era in Agrismonte, ma in disparte,
tra certe grotte inaccessibil quasi,
dove imagini sacre e sacre carte,
sacri altar, pietre sacre e sacri vasi,
et altre cose appartinenti all’arte,
de le quai si valea per varii casi,
in un hostello havea ch’in cima a un sasso
non admettea, se non con man, il passo.
24
Sinibaldo, che ben sapea il camino
(ché vi venne talhor con Malagigi,
del qual da’ tener’anni picolino
fin a’ più forti stato era a’ servigi),
giunse a l’hostello e trovò l’indovino
c’havea sdegno coi spirti aerii e stigi,
ché scongiurati havendoli due notti,
gli lor silentii anchor non havea rotti.
25
Malagigi volea saper s’Orlando
nimico di Rinaldo era venuto,
sì come in apparenza iva mostrando,
o pur gli era per dar segreto aiuto:
perciò due notti i spirti scongiurando,
l’aria e l’inferno havea trovato muto;
hora s’apparecchiava al ciel più scuro
provar il terzo suo maggior scongiuro.
26
La causa che tenean lor voci chete
non sapeva egli, et era nigromante;
e voi non nigromanti lo sapete,
mercé che già ve l’ho narrato inante.
Quando contra l’Imperio ordì la rete
Alcina, s’ammutiro in uno instante,
eccetto pochi, che serbati fòro
da quelle fate a li servigi loro.
27
Malagigi, al venir di Sinibaldo,
molto s’alegra udendo la novella
che sia di man del traditor ribaldo
in libertà la sua cugina bella,
e ch’in la gran fortezza di Rinaldo
si trovi chiuso in podestà di quella;
e li par quella notte un anno lunga,
che veder Gano preso li prolunga.
28
Perciò s’affretta con la terza prova
di vincer la durezza de i demoni;
e con horrendo mormore rinova
prieghi, minaccie e gran scongiurationi,
possenti a far che Belzabù si mova
con le squadre infernali e legïoni.
La terra e il cielo è pien di voci horrende,
ma del confuso suon nulla s’intende.
29
Il mutabil Vertunno, ch’in l’anello
che Sinibaldo havea stava nascosto
(sapete già come fu tolto al fello
Gan di Maganza e in altro dito posto:
non ch’el scudier virtù sapesse in quello,
ma perché il vedea bello e di gran costo),
Vertunno, a chi il parlar non fu interdetto,
là si trovò con gli altri spirti astretto.
30
Et perché il silinguagnolo havea rotto,
narrò di Gano l’opera volpina,
ch’a prender varie forme l’havea indotto
per por Rinaldo e i suoi tutti in ruina;
e li narrò l’historia motto a motto,
e da Gloricia comminciò e d’Alcina,
fin che sul molo Bradamante ’scesa
per fraude fu con la sua terra presa.
31
Maravigliosse Malagigi e lieto
fu ch’un spirito a sé ignoto gli havesse
a caso fatto intendere un segreto
che saper d’alcun altro non potesse.
L’anel in ch’era chiuso il spirto inquieto,
nel dito, onde lo tolse, ancho rimesse
e la mattina andò verso Rinaldo,
pur con la compagnia di Sinibaldo.
32
Rinaldo dava il guasto alla campagna
de li Turoni e la città premea,
ché, costeggiando Arverni e quei di Spagna,
col lito di Pittoni e di Bordea,
se gli era il pian renduto e la montagna,
né fatto colpo mai di lancia havea:
ma già per l’advenir così non fia,
poi ch’Orlando al contrasto gli venia.
33
Orlando amò Rinaldo e li fu sempre
a far piacer e non oltraggio pronto;
ma questo amor è forza che distempre
il veder far del re sì poco conto.
Non sa trovar ragion per la qual tempre
l’ira c’ha contra lui per questo conto:
cagion non li può alcuna entrar nel core,
che scusi il suo cugin di tanto errore.
34
Hor se ne viene il paladino innanti,
quanto più può, verso Rinaldo in fretta
e seco ha cavalier, arcieri e fanti,
varie nation, ma tutta gente elletta.
Sa Rinaldo ch’ei vien, né fa sembianti
quali far debbe chi il nimico espetta:
tanto sicur di quello si tenea
ch’in nome suo detto il demon gli havea.
35
Da campo a Torse, ove era, non si mosse,
né curò d’alloggiarsi in miglior sito.
È ver che nel suo cor maravigliosse
che, dopo che Terigi era partito,
avisato dal conte più non fosse,
per tramar quanto era tra loro ordito:
molto di ciò maravigliossi, e molto
c’havesse il baston d’or contra sé tolto
36
e non gli havesse innanzi un de i mal nati
del scelerato sangue di Maganza
mandato a castigar de li peccati
indegni di trovar mai perdonanza:
ma tai contrarii non puon far che guati
fuor di quanto li mostra la fidanza,
né che per suo vantaggio se gli affronti
dove vietar li possa guadi o ponti.
37
Ben mostra far provisïon, ma solo
fa per dissimular e per coprire
l’accordio c’haver crede col figliuolo
del bon Milon, da non poter fallire.
Ma il Conte, che non sa di Gano il duolo,
fa le sue genti gli ordini seguire:
né questa né altra cosa pretermette,
ch’a valoroso capitan si spette.
38
Alla sua gionta, tutti i passi tolle,
che non venga a Rinaldo vettovaglia;
e di quanti ne prese, alcun non volle
vivo serbar, ma impicca e i capi taglia.
Quel, donde più Rinaldo d’ira bolle,
è che ’l cugin fa publicar la taglia,
la qual su la persona il re de’ Franchi
bandita gli ha di cento mila franchi.
39
Et ha fatto ancho publicar per bando
che ’l re vuol perdonar a tutti quelli
che verran ne l’esercito d’Orlando
e lascieran Rinaldo e li fratelli.
Rinaldo al fin si vien certificando
ch’Orlando esser non vuol de li ribelli,
e si connosce, in somma, esser tradito,
ma quando non vi può prender partito.
40
Vede che se non vien al fatto d’arme,
anchor che nol può far con suo vantaggio,
di fame serà vinto, se non d’arme,
ch’a lui nav’ ir non può né carïaggio;
e teme appresso, che la gente d’arme
un giorno non si lievi a farli oltraggio:
ché non è cosa che più presto chiame
a ribellarsi un campo, che la fame.
41
Mirava le sue genti e li parea
che di febre sentissero ribrezo
sì la giunta d’Orlando ognun premea,
c’havean creduto dover star di mezo.
Rinaldo, poi che forza lo traea,
fece tutto il suo campo uscir del rezo,
e cautamente, in quattro schiere armato,
al Conte il fe’ veder fuor del steccato.
42
Già prima i fanti e i cavalieri havea
con Hunuldo partito e con Ivone;
quei di Medoco il duca conducea,
con quei di Villanova e di Rione,
da San Macario, l’Aspara e Bordea,
Selva Maggior, Caorsa e Talamone,
e gli altri che dal mar fino in Rodonna
tra Cantello s’albergano e Garonna.
43
Usciti erano gli Auscii e li Tarbelli
sotto i segni d’Hunuldo alla campagna;
gli Cotüeni e li Ruteni e quelli
de le valee che Dora e Niva bagna;
e gli altri che le ville e li castelli
quasi vuoti lasciàr de la montagna
che già natura alzò per muro e sbarra
al furor aquitano e di Navarra.
44
Rinaldo gli Vassari e li Biturgi,
Tabali, Petrocori havea in governo,
e Pittoni e li Movici e Cadurgi,
con quei che scesi eran dal monte Averno;
e quei c’havean tra dove, Loria, surgi
e dove è meta al tuo viaggio eterno,
le montagne lasciate e le maremme,
con quei di Borgo, Blaia et Angolemme.
45
Et oltre a questi, havea d’altro paese
e fanti e cavalier di buona sorte,
de quai parte havea prima e parte prese
dal suo signor, quando partì di corte;
tutti a l’honor di lui, tutti a l’offese
de suoi nimici pronti sino a morte.
Dato havea in guardia questo stuol gagliardo
a Ricciardetto et al fratel Guicciardo.
46
Hunuldo d’Aquitania era nel destro,
Ivo sul fiume havea il sinistro corno;
de la schiera di mezo fu il maestro
Rinaldo, che quel dì molt’era adorno
d’un ricco drappo di color cilestro
sparso di pecchie d’or dentro e d’intorno,
che cacciate parean dal natio loco
da l’ingrato villan con fumo e foco.
47
Et perché ad ogni incommodo occorresse
(che non men ch’animoso, era discreto),
contra quei de la terra il fratel messe,
con buona gente, per far lor divieto
che, mentre gli occhi e le man volt’havesse
a quei dinanzi, non venisser drieto
o venisser da’ fianchi e con gran scorno,
oltre il danno, li dessero il mal giorno.
48
Da l’altra parte il capitan d’Anglante
quelli medesimi ordini gli oppone:
fa longo il fiume andar Teone inante,
figliuolo e capitan di Tassillone;
da l’altro corno al conte di Barbante,
alla schiera di mezo egli s’oppone.
Bianca e vermiglia havea la sopravesta,
ma di ricamo d’or tutta contesta.
49
Nell’un quartier e l’altro la figura
d’un rilevato scoglio havea ritratta,
che sembra dal mar cinto e che non cura
che sempre il vento e l’onda lo combatta.
L’uno di qua, l’altro di là procura
pigliar vantaggio e le sue squadre adatta
con tal rumor e strepito di trombe
che par che triemi il mar e il ciel ribombe.
50
Già l’uno e l’altro havea, con efficace
et ornato sermon, chiaro e prudente,
cercato d’animar e far audace
quanto potuto havea più la sua gente.
Era d’ambo gli eserciti capace
il campo, sino al mar largo e patente,
ché non s’era indugiato a questo giorno
a levar boschi e far spianate intorno.
51
Li corridori e l’arme più leggiere
e quei ch’i colpi lor credono al vento,
hor longi, hor presso, intorno alle bandiere
scorrono il pian con longo avolgimento,
mentre gli huomini d’arme e le gran schiere
vengon de’ fanti a passo ugual e lento,
sì che né picca a picca o piede a piede,
se non quanto vuol l’ordine, procede.
52
L’un capitano et l’altro a chiuder mira
dentro ’l nimico e poi venirli a fiancho.
Theon, per questo, il corno estende e gira
et Ivo il simil fa dal lato manco.
Andar da l’altra parte non s’aspira,
ché l’acqua vi facea sicuro e franco
a Rinaldo il sinistro, al Conte serra
il destro corno il gran fiume de l’Erra.
53
L’un campo e l’altro venìa stretto e chiuso,
con suo vantaggio stretto ad affrontarsi:
tutte le lancie con le punte in suso
poteano a due gran selve assimigliarsi,
le quai venisser, fuor d’ogn’human uso,
forsi per magica arte, ad incontrarsi.
Cotali in Delo esser doveano, quando
andava per l’Egeo l’isola errando.
54
A l’accostarsi, al ritener del passo,
a l’abbassar dell’haste ad una guisa,
sembra cader l’horrida Hircina al basso,
che tutta a un tempo sia dal piè succisa:
un fragor s’ode, un strepito, un fracasso,
qual fors’ Italia udì quando divisa
fu dal monte Apenin quella gran costa
che su Tipheo per soma eterna è imposta.
55
Al giunger de gli eserciti si spande
tutto ’l campo di sangue e il ciel di gridi:
a un volger d’occhi in mezo e da le bande
ogni cosa fu piena d’homicidi:
in gran confusïon tornò quel grande
ordine, e non è più chi regga o guidi
o ch’oda o vegga, ché conturba e involve,
assorda e accieca il strepito e la polve.
56
A ciascun a bastanza, a ciascun troppo
era d’haver di se medesmo cura.
La fantaria fu per discior il groppo,
perduto il lume in quella nebbia oscura:
ma quelli da cavallo al fiero intoppo
già non hebbon la fronte così dura:
le prime squadre sùbito e l’estreme
di qua di là restar confuse insieme.
57
Le compagnie d’alcuni, che promesso
s’havean di star vicine, unite e strette
e l’un l’altro in aiuto essersi appresso
né si lassar se non da morte astrette,
in modo si disciolser che rimesso
non fu più ’l stuol fin che la pugna stette;
et di cento o di più ch’erano stati
al dipartir non furo i dui trovati.
58
Ché da una parte Orlando e da l’altr’era
Rinaldo entrato, e prima con la lancia
forando petti e più d’una gorgera,
più d’un capo, d’un fianco e d’una pancia;
poi, l’un con Durindana e con la fera
Fusberta l’altro, i dui lumi di Francia,
a’ colpi, quai fece in Alfegra Marte,
ponean in rotta e l’una e l’altra parte.
59
Come ne i paschi tra Primaro e Filo,
voltando in giù verso Volana e Goro,
ne i mesi che nel Po cangiato ha il Nilo
il bianco uccel ch’a’ serpi dà martoro,
veggiam, quando lo punge il fiero asilo,
cavallo andar in volta, asino e toro,
così veduto havreste quivi intorno
le schiere andar senza pigliar soggiorno.
60
A Rinaldo parea che, distornando
da quella pugna il cavalier di Brava,
li suoi sarebbon vincitori, quando
sol Durindana è che gli afflige e grava;
di lui parea il medesimo ad Orlando:
che se da le sue genti il dilungava,
facilmente a li Franchi e a li Germani
cederiano i Pittoni e gli Aquitani.
61
Perciò l’un l’altro, con gran studio e fretta
e con simil desir, par che procacci
di ritrovarsi e da la turba stretta
tirarsi in parte ove non sia ch’impacci.
Per vietarli il camin nissun gli aspetta,
non è chi lor s’opponga o che s’affacci,
ma in quella parte ove gli veggon volti,
tutti le spalle dàn, nissun i volti.
62
Come da verde margine di fossa
dove trovat’ havean lieta pastura,
le rane soglion far sùbita mossa
e ne l’acqua saltar fangosa e scura
se da vestigio human l’herba percossa
o strepito vicin lor fa paura;
così le squadre la campagna aperta
a Durindana cedono e a Fusberta.
63
Li duo cugin, di lancie proveduti
(che d’olmo l’un, l’altro l’avea di cerri),
s’andaro incontro e i lor primi saluti
furo abassar alle visiere i ferri.
Li dui destrier, che senton con che acuti
sproni a li fianchi il suo ciascun afferri,
si vanno a ritrovar con quella fretta
ch’uccel di ramo o vien dal ciel saetta.
64
Negli elmi si feriro a mezo il campo
sotto la vista, al confinar dei scudi:
suonàr come campane e gettàr vampo,
come talhor sotto ’l martel gli incudi.
Ad amendui le fatagion fur scampo,
che non puotero entrarvi i ferri crudi:
l’elmo d’Almonte e l’elmo di Mambrino
difese l’un e l’altro paladino.
65
Il cerro e l’olmo andò, come se stato
fosser di canne, in tronchi e in schegge rotto:
messe le groppe Brigliador sul prato,
ma, come un caprio snel, sorse di botto.
L’un e l’altro col fren abbandonato,
dove piacea al cavallo, era condotto,
coi piedi sciolti e con aperte braccia,
ruvescio a dietro, e parea morto in faccia.
66
Poi che per la campagna hebbono corso
di più di quattro miglia il spatio in volta,
pur rivenne la mente al suo discorso
e la memoria sparsa fu raccolta:
tornò alla staffa il piè, la mano al morso,
e rassettati in sella dieder volta
e con le spade ignude aspra tempesta
portaro al petto, agli homeri e alla testa.
67
Tutt’in un tempo, d’un parlar mordente
Rinaldo a ferir venne, e di Fusberta,
al cavalier d’Anglante, e insiememente
li disse — Traditor — a voce aperta;
e la testa che l’elmo rilucente
tenea difesa, li fe’ più che certa
ch’a far colpo di spada di gran pondo
si ritrovava altri che Orlando al mondo.
68
Per l’aspro colpo il senator romano
si piegò fin del suo destrier sul collo,
ma tosto col parlar e con la mano
ricompensò l’oltraggio e vendicollo:
li fe’ risposta che mentia e villano
e disleal e traditor nomollo;
e la lingua e la mano a un tempo sciolse
et quella il core e questa l’elmo colse.
69
Moltiplicavan le minaccie e l’ire,
le parole d’oltraggio e le percosse;
né l’un l’altro potea tanto mentire
che detto traditor più non li fosse.
Poi che tre volte o quattro così dire
si sentì Orlando dal cugin, fermosse
e pianamente domandollo come
li dava, e per che causa, cotal nome.
70
Con parole confuse li rispose
Rinaldo, che di còlera ardea tutto;
Carlo, Orlando e Terigi insieme pose
in un fastel, da non ne trar construtto:
come si suol rispondere di cose
donde quel che dimanda è meglio instrutto.
— Pian, pian, fa ch’io t’intenda, — dicea Orlando
— cugino; e cessi l’ira intanto e il brando. —
71
In questo tempo i cavalieri e i fanti
per tutto ’l campo fanno aspra battaglia;
non si vede ancho in mezo, né da i canti,
qual parte habbia vantaggio e chi più vaglia.
Le trombe, i gridi, i strepiti son tanti
che mal i duo cugin alzar, che vaglia,
le voci ponno e far sentir di fuore
perché l’un l’altro chiami traditore.
72
Per questo fur d’accordo di ritrarsi
e diferir la pugna al novo sole;
poi, la mattina, insieme ritrovarsi
nel verde pian con le persone sole;
e qual fosse di lor certificarsi
il traditor, con fatti e con parole.
Fatto l’accordo, dier subito volta
e per tutto sonar féro a raccolta.
73
Al dipartir vi fur pochi vantaggi;
pur, s’alcun ve ne fu, Rinaldo l’hebbe:
che, oltre che de’ prigioni e carïaggi
vi guadagnasse, a grand’util gli accrebbe,
ch’alloggiò dove haver da li villaggi
copia di vettovaglie si potrebbe.
L’altra mattina, com’era ordinato,
si trovò solo a la campagna armato.
74
Scendono a basso a Basilea et al Reno
e van longo le rive insino a Spira,
lodando il ricco e di cittadi pieno,
il bel paese ove il gran fiume gira.
Entrano quindi alla Germania in seno,
e son già a Norimbergo, onde la mira
lontan si può veder de la montagna
che la Boemia serra d’Alemagna.
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Vener, continüando il lor vïaggio,
s’un monte onde vedean giù ne la valle
la pugna che Sassoni, Ungari e Traci
facean crudel contra i Francesi audaci:
76
e gli haveano a tal termine condotti,
per esser tre, com’io dicea, contr’uno,
e sì gli havean ne l’antiguardia rotti
che senza volger volto fuggia ognuno:
né per fermarli i capitani dotti
de la militia havean riparo alcuno;
anzi, i primi ch’in fuga erano volti,
i secondi e i terzi ordini havean sciolti.
77
L’ardite donne, con Guidone e ’nsieme
gli altri venuti seco a questa via,
sul monte si fermar che da l’estreme
rive d’intorno tutto il pian scopria,
dove sì Carlo e li suoi Franchi preme
la gente di Sansogna e d’Ungheria
e l’altre varie natïoni miste,
barbare e greche, ch’a pena resiste.
78
Con gran cavaleria russia e polacca,
l’esercito di Slesia e di Sansogna
guida Gordamo e sì fiero s’attacca
con la gente di Fiandra e di Borgogna
e sì l’ha rotta, tempestata e fiacca
al primo incontro, che fuggir bisogna;
né può Olivier fermarli, ch’è lor guida,
e priega invano e invan minaccia e grida.
79
Hor, mentre questo et hor quell’altro prende
ne le spalle, nel collo et ne le braccia
volge per forza l’un, l’altro riprende
che ’l nimico veder non voglia in faccia;
Gordamo di traverso a lui si stende
et s’un corsier ch’a tutta briglia caccia,
sì con l’urto il percuote e sì l’afferra
con la gross’hasta, che lo stende a terra.
80
Non longi da Olivier era un Gherardo
et un Anselmo: il primo è di sua schiatta,
ché di don Buoso nacque, ma bastardo
(però havea il nome del vecchio da Fratta);
il secondo fiamingo, il cui stendardo
seguia una schiera in sue contrade fatta:
restàr questi dui soli alle difese,
fuggendo gli altri, del gentil marchese.
81
Gherardo col caval d’Olivier venne
e si volea accostar perché montassi,
et Anselmo, menando una bipenne,
gli andava inanzi e disgombrava i passi,
quando Gordamo alzò la spada e fenne
con un gran colpo i lor disegni cassi,
ché da la fronte agli occhi a quello Anselmo
divise il capo, e non gli valse l’elmo.
82
Tutto ad un tempo, o con poco intervallo,
con la spada a due man menò Baraffa,
venuto quivi con Gordamo, et hallo
accompagnato il dì sempre alla staffa;
e le gambe troncò dietro al cavallo
de l’altro sì che parve una giraffa:
ch’alto dinanzi e basso a dietro resta.
Sopra Gherardo ognun picchia e tempesta;
83
e tanto li ne dàn che l’hanno morto
prima ch’aiutar possa il suo parente.
Dolse a Olivier vederli far quel torto,
ma vendicar non lo potea altrimente,
perché, da terra a gran pena risorto,
havea da contrastar con troppa gente;
pur, quanto longo il braccio era e la spada,
dovunque andassi si facea far strada.
84
E se non fosser stati sì lontani
da lui suoi cavalier in fuga volti,
che fuggian come cervo innanzi a’ cani
o la perdice a sparavieri sciolti,
tra lor per forza de piedi e de mani
saria tornato e gli havria anchor rivolti:
ma che speme può haver perché contenda
che forz’ è ch’egli moia o che s’arrenda?
85
Ecco Gordamo, senza alcun rispetto
ch’egli a cavallo e ch’Olivier sia a piede,
arresta un’altra lancia e ’n mezo il petto
a tutta briglia il paladino fiede;
e lo riversa sì che de l’elmetto
una percossa grande al terren diede.
Tosto ch’in terra fu, sentì levarsi
l’elmo dal capo, e non poter aitarsi:
86
ché li son più di venti adosso a un tratto,
su le gambe, sul petto e su le braccia;
et più di mille un cerchio gli hanno fatto:
altri il percuote et altri lo minaccia;
chi la spada di mano, chi gli ha tratto
dal collo il scudo e chi l’altre armi slaccia.
Al duca di Sansogna al fin si rende,
che lo manda prigione alle sue tende.
87
Se non tenea Olivier, quando havea anchora
l’arme e la spada, la sua gente in schiera,
come fermarla e come volgerl’hora
potrà, che disarmato e prigion era?
Fuggesi l’antiguardia, ch’ apre e fora
l’altra battaglia e l’urta in tal maniera
che, confondendo ogn’ordine, ogni metro,
seco la volge e seco porta indietro.
88
Et perché Praga è lor dopo le spalle,
i fiumi a canto e gli Alemani a fronte,
non sanno ove trovar sicuro calle
se non a destra, ov’era fatto il ponte;
e però a quella via sgombran la valle
con li pedoni i cavalieri a monte;
ma non rïesce, perché già re Carlo
preso havea il passo e non volea lor darlo.
89
Carlo, che vede scompigliata e sciolta
venir sua gente in fuga manifesta,
la via del ponte gli ha sùbito tolta,
perché ritorni o ch’ivi faccia testa;
né vi può far però ripar, ché molta
l’arme abandona e di fuggir non resta;
e qualch’un, per la tema che l’affretta,
lascia la ripa e nel fiume si getta.
90
Altri s’affoga, altri notando passa,
altri il corso de l’acqua in giro mena;
chi salta in una barca e il caval lassa,
chi lo fa notar dietro alla carena;
o dove un legno appar, ivi s’ammassa
la folta sì che, di soverchio piena,
o non si può levar se non si scarca
o nel fondo tra via cade la barca.
91
Non era minor calca in su l’entrata
del ponte, che da Carlo era difesa,
et sì cresce la gente spaventata:
a chi più d’ogni biasmo il morir pesa
che ’l re non pur con tutta quell’armata
che seco havea ne perde quella impresa,
ma, con molt’altri huomini et bestie a monte,
nel fiume è rovesciato giù del ponte.
92
Carlo ne l’acqua giù dal ponte cade
et non è chi si fermi a darli aiuto,
che sì a ciascun per sé da far accade
che poco conto d’altri ivi è tenuto:
quivi la cortesia, la charitade,
amor, rispetto, beneficio hauto,
o s’altro si può dir, è tutto messo
da parte e sol ciascun pensa a se stesso.
93
Se si trovava sotto altro destriero
Carlo che quel che si trovò quel giorno,
restar potea ne l’acqua de leggiero,
né mai più in Francia bella far ritorno.
Bianco era il buon caval, fuor ch’alcun nero
pelo, che parean mosche havea d’intorno
il collo e i fianchi fin presso alla coda:
da questo al fin fu ricondotto a proda.