CANTO SECONDO
1
Pensar cosa miglior non si può al mondo,
d’un signor giusto e in ogni parte buono,
che del debito suo non getti il pondo,
ben che talhor ne vada curvo e prono;
ch’ami e curi i suoi popoli, secondo
che da lor padri amati i figli sono;
che l’opre e le fatiche pei figliuoli
fan quasi sempre, e raro per sé soli:
2
ponga a i perigli et a le cose strette
il petto inanzi e faccia a gli altri schermo:
che non sia il mercenario il qual non stette,
poi che venir vide a sé il lupo, fermo;
ma sì bene il pastor vero, che mette
la vita propria pel suo gregge infermo,
il qual conosce le sue pecorelle
ad una ad una, e lui conoscono elle.
3
Tal fu in terra Saturno, Hercole e Giove,
Bacco, Poluce, Osiri et poi Quirino,
che con giustitia et virtüose prove
et con soave e a tutti ugual domino,
fur degni in Grecia, in India, in Roma et dove
corse lor fama, haver honor divino;
che riputar non si potrian defunti,
ma a più degno governo in cielo assunti.
4
Quando il signor è buono, i sudditi ancho
fa buoni: ch’ognun imita chi regge
e s’alcun tiene il vitio suo pur, mancho
lo mostra fuor, o in parte lo corregge.
O beati li regni a chi un huom franco
e sciolto da ogni colpa habbia a dar legge!
Così infelici anchora e miserandi,
ove un ingiusto, ove un crudel commandi;
5
che sempre accresca et più gravi la soma,
come in Italia molti a’ giorni nostri,
de’ quali il biasmo in questo e l’altro idioma
faran sentire ancho i futuri inchiostri:
che migliori non son che Gaio a Roma,
o Neron fosse o fosser gli altri mostri:
ma se ne tace, perché è sempre meglio
lasciar i vivi et dir del tempo veglio:
6
et dir qual sotto Fallari Agrigento,
qual fu sotto i Dionigi Siracusa,
qual Fere in man del suo tiran cruento,
da i quali et senza colpa et senza accusa
la gente ogni dì quasi a cento a cento
era troncata o in longo esiglio esclusa.
Ma né senza martir sono essi anchora,
ch’al cor lor sta non minor pena ogn’hora.
7
Sta lor la pena de la qual si tacque
il nome dianzi et de la qual dicea
che nacque quando la brutt’Ira nacque,
la Crudeltade et la Rapina rea:
e quantunque in un ventre con lor giacque,
di tormentarle mai non rimanea.
Hor dirò il nome, ch’io non l’ho anchor detto:
nomata questa pena era il Sospetto.
8
Il Sospetto, piggior de tutti i mali,
spirto il piggior d’ogni maligna peste
che l’infelici menti de’ mortali
con venenosi stimoli moleste;
non le povere o l’humili, ma quali
s’aggiran dentro a le superbe teste
di questi scelerati, che per opra
di gran fortuna a gli altri stan di sopra.
9
Beato chi lontan da questi affanni
nuoce a nissuno, ch’a nissuno è odioso!
Infelici altrotanto, e più, i tiranni,
a cui né notte mai né dì riposo
dà questa peste e gli ricorda i danni,
e morti date a quello, e a tutti esoso!
Et gli dimostra ch’a temer sol d’uno
han tutti gli altri, et esso sol d’ognuno.
10
Non v’incresca di starmi un poco a udire,
ché non però dal mio sentier mi scosto;
anzi farò questo c’hor narro uscire
dove poi vi parrà che sia a proposto.
Uno di questi, il qual primo a nudrire
usò la barba, per tener discosto
chi li potea la vita a un colpo tòrre,
ne ’l suo palazzo edificò una torre,
11
che, d’alte fosse cinta e grosse mura,
havea un sol ponte che si lieva e cala;
fuor ch’un balcon, non v’era altra apertura,
ov’apena entra il giorno e l’aria esala:
quivi dormia la notte et era cura
de la moglier di mandar giù la scala:
di quella entrata è un gran mastin custode,
ch’altri mai che lor dua non vede et ode.
12
Non ha ne la moglier però sì grande
fede il meschin, che prima ch’a lei vada,
quando uno e quando un altro suo non mande,
che cerchi i luoghi onde a temer gli accada.
Ma ciò poco gli val, ché le nefande
man de la donna e la sua propria spada
fér d’infinito mal tarda vendetta,
e a l’inferno volò lo spirto in fretta.
13
E Rhadamanto, giudice del loco,
tutto il cacciò sotto il bollente stagno,
dove non pianse et non gridò: — I’ mi cuoco —,
come gridava ogn’altro suo compagno;
e la pena mostrò curar sì poco,
che disse il giustitier: — Io te la cagno —;
e lo mandò ne le più oscure cave,
dove è un martìr d’ogni martìr più grave.
14
Né quivi parve anchor che si dogliesse;
et domandato, disse la cagione:
che quando egli vivea, tanto l’oppresse
et tal li diè il Sospetto afflittione
(che nel capo quel giorno se li messe,
che si fece signor contra ragione),
che sol hora il pensar d’esserne fuore
sentir non li lassava altro dolore.
15
Si consigliaro i saggi de l’Inferno
come potesse haver degno tormento,
che seria contra l’instituto eterno
se peccator là giù stesse contento;
et di nuovo mandarlo al caldo, al verno
concluso fu da tutto il parlamento
et di nuovo al Sospetto in preda darlo,
ch’entrasse in lui senza più mai lasciarlo.
16
Così di nuovo entrò il Sospetto in questa
alma, et di sé et di lei fece tutt’uno,
come in ceppo salvatico s’inesta
pomo diverso e ’l nespilo su’l pruno;
o di molti colori un color resta,
quand’un pittor ne piglia di ciascuno
per imitar la carne, e ne riesce
un diferente a tutti quei che mesce.
17
Di suspettoso che ’l tiràn fu in prima,
hor divenuto era il Sospetto istesso
et, come morte la ragion di prima
havesse in lui, li parea haverla appresso.
Ma ritornando al mio parlar di prima,
ché per questo in oblio non l’havea messo,
Alcina se ne va dove su ’l tergo
d’un alto scoglio ha questo spirto albergo.
18
Quel scoglio ove il Sospetto fa soggiorno
è da ’l mar alto da seicento braccia,
di ruvinose balze cinto intorno,
e da ogni canto di cader minaccia.
Il più stretto sentier che vada al Forno,
là dove il Grafagnino il ferro caccia,
la via Flamminia o l’Apia nomar voglio
verso quel che dal mar va in cima al scoglio.
19
Prima che giunghi a la suprema altezza,
sette ponti ritruovi e sette porte:
tutt’hanno con lor guardie una fortezza;
la settima de l’altre è la più forte.
Là dentro, in grande affanno e gran tristezza,
ché li par sempre a’ fianchi haver la morte,
il Sospetto meschin solo s’annida;
nissun vuol seco e di nissun si fida.
20
Grida da’ merli e tien le guardie deste,
né mai riposa al sol né al ciel oscuro,
e ferro sopra ferro et ferro veste:
quanto più s’arma, è tanto men sicuro.
Muta et accresce hor quelle cose hor queste
a le porte, al terraglio, al fosso, al muro:
per darne altrui, munitïon gli avanza;
et non li par che mai n’habbia a bastanza.
21
Alcina, che sapea ch’indi il Sospetto
né a prieghi né a minaccie vorria uscire
e tràrlone era forza al suo dispetto,
tutto pensò ciò che potea seguire.
Havea seco arrecato a questo effetto
l’acqua del fiume che fa l’huom dormire
et entrando invisibil ne la rocca,
con essa ne le tempie un poco il tocca.
22
Quel cade adormentato; Alcina il prende
et scongiurando spiriti infernali
fa venir quivi un carro e su vel stende,
che tiran duo serpenti c’hanno l’ali;
poi verso Italia in tanta fretta scende
che con la più non van di Giove i strali.
La medesima notte è in Lombardia,
in ripa di Ticin dentro a Pavia:
23
là dove il re de’ Longobardi alhora
l’antico seggio, Desiderio, havea.
Nel ciel orïental sorgea l’aurora
quando perdé il vigor l’acqua lethea:
lasciò il sonno il Sospetto; et quel, che fuora
e lontan dal castel suo si vedea,
morto seria, se non fusse già morto,
ma la fata hebbe presta al suo conforto.
24
Gli promesse ella indietro rimandarlo
senza alcun danno; e in guisa li promesse,
che puoté in qualche parte assicurarlo,
non sì però ch’in tutto li credesse;
ma prima in Desiderio, che di Carlo
temea le forze, entrasse gli commesse
et che non se li lievi mai del seno
fin che tutto di sé non l’habbia pieno.
25
Mentre fu Carlo i giorni inanzi astretto
dal re d’Africa a un tempo et da Marsiglio,
il re de’ Longobardi, per negletto
et per perduto havendo posto il giglio,
non curando né papa né interdetto
a la Romagna havea dato di piglio;
po’ entrando ne la Marca, con battaglia
e Pesaro havea preso e Sinigaglia.
26
Indi sentendo ch’era il foco spento,
morto Agramante e il re Marsiglio rotto,
de la temerità sua mal contento
si riputò a mal termine condotto.
Hor viene Alcina e accresceli tormento:
ché ’l spirto rio fa entrar in lui di botto,
che notte e dì l’afflige, crucia et ange
e più che sopra un sasso in letto il frange.
27
Gli par veder che lassi il Reno e l’Erra
il popul già troiano e poi sicambro,
et apra l’Alpi e scenda ne la terra
che riga il Po, l’Ada, il Ticino et l’Ambro:
veder s’espetta in casa sua la guerra
et sua ruina più chiara che un ambro;
né più certo rimedio al suo mal truova
che contra Francia ogni vicin commova.
28
Et come quel che gran tesori uniti
havea d’esattïoni et di rapine
et havea i sacri argenti convertiti
in uso suo da le cose divine,
con doni e con proferte e gran partiti
colligò molte natïon vicine,
come già il conte di Pontier li scrisse
prima che da la corte si partisse.
29
Tutta havea Gano questa tela ordita,
che ’l Longobardo dovea tesser poi;
e quella poi non era oltre seguita
et fin qui stava ne’ principii suoi.
Hor la mente, d’un stimolo ferita
piggior di quel che caccia asini e buoi,
conchiuse e fece nascer come un fongo
quel che più giorni havea menato in longo.
30
Fe’ in pochi dì che Tassillone, ch’era
suo genero e cugin del duca Namo,
tutta la stirpe sua fuor di Bavera
cacciò, senza lasciarvene un sol ramo.
Fe’ similmente ribellar la fera
Sansogna e ritornar a re Gordamo
e trasse, per por Carlo in maggior briga,
con gli Ungheri i Boemi in una liga;
31
e ’l re di Datia e il re de le due Marche
pór tra la Frisa e ’l termine d’Olanda
tante fuste e galee, carache e barche,
per gir ne l’Inghilterra e ne l’Irlanda,
che per fuggir havean le somme carche
molte terre da mar da quella banda.
Da un’altra parte si sentiva il vecchio
nimico in Spagna far grande apparecchio.
32
Tutto seguì ciò c’havea ordito Gano,
ch’era d’insidie e tradimenti il padre.
Fu suscitato Hunnuldo l’aquitano
a soldar genti fattïose e ladre:
mettendo terre a sacco, capitano
di ventura era detto da le squadre;
nascosamente da Lupo aiutato,
di Bertolaggi di Baiona nato.
33
Fér queste nuove, per diversi avisi
venute, a Carlo abandonar le feste
e a donne e ai cavalier i giochi e’ risi
et mutar le leggiadre in scure veste.
De’ saccheggiati populi et occisi
per ferro, fiamme, opprissioni e peste,
le memorie percosse ad hora ad hora
prometteano altrotanto e peggio anchora.
34
O vita nostra de travaglio piena,
com’ogni tua allegrezza poco dura!
Il tuo gioir è come aria serena,
ch’a la fredda stagion troppo non dura:
fu chiaro a terza il giorno e a vespro mena
sùbita pioggia, et ogni cosa oscura.
Parea ai Franchi esser fuor d’ogni periglio,
mort’Agramante e rotto il re Marsiglio;
35
et ecco un’altra volta che ’l ciel tuona
da un’altra parte et tutto arde de lampi,
sì che ogni speme i miseri abandona
di poter frutti còr de li lor campi.
Et così avvien ch’una novella buona
mai più di venti o trenta dì non campi,
perché vien dietro un’altra che l’uccide;
e piangerà doman l’huom c’hoggi ride.
36
Per le cittadi huomini e donne errando,
con visi bassi e d’allegrezza spenti,
andavan taciturni suspirando,
né si sentian anchor chiari lamenti:
qual ne le case attonite avvien, quando
mariti o figli o più cari parenti
si veggon travagliar ne l’hor’estreme,
ch’infinito è il timor, poc’è la speme.
37
E quella poca pur spenger il gielo
vuol de la tema e dentro il cor si caccia:
ma come può d’un picciolin candelo
fuoco scaldar dov’alta neve aggiaccia?
Chi lieva a Dio, chi lieva a’ santi in cielo
le palme giunte e la smarrita faccia,
pregandoli che, senza più martire,
basti il passato a disfogar lor ire.
38
Come che il popol timido per tema
desperi e perda il core e venga manco,
nel magnanimo Carlo non iscema
l’ardir, ma cresce, e nei paladin ancho:
ché la virtù di grande fa suprema,
quanto travaglia più, l’animo franco;
e gloria et immortal fama ne nasce,
che me’ d’ogn’altro cibo il guerrier pasce.
39
Carlo, a cui ritrovar dificilmente,
la terra e il mar cercando a parte a parte,
si potria par di santa e buona mente,
e d’ogni fintion netta e d’ogn’arte
(e lasso! anchor oltre l’età presente
volgi l’antiche e più famose carte);
a Dio raccomandò sé, i figli e il stato,
né più curò ch’esser di fede armato.
40
Né men saggio che buono, poi c’hauto
hebbe ricorso alla Maggior Possanza,
che non mancò né mancherà d’aiuto
ad alcun mai che ponga in lei speranza,
fece che, senza indugia, proveduto
fu a tutti i luoghi ov’era più importanza:
gli capitani suoi per ogni terra
mandò a far scelta d’huomini da guerra.
41
Non si sentiva alhor questo rumore
de i tamburi, com’hoggi, andar in volta,
invitando la gente di più core,
o forse (per dir meglio) la più stolta,
che per tre scudi o per prezzo minore
vada ne’ luoghi ove la vita è tolta:
stolta più tosto la dirò ch’ardita,
ch’a sì vil prezzo venda la sua vita.
42
A la vita l’honor s’ha da preporre,
fuor che l’honor non altra cosa alcuna:
prima che mai lasciarsi l’honor tòrre
déi mille vite perdere, non ch’una.
Chi va per oro o vil guadagno a porre
la sua vita in arbitrio di fortuna,
per minor prezzo crederò che dia,
se troverà chi compri, ancho la mia.
43
O, com’io dissi, non sanno che vaglia
la vita quei che sì l’estiman poco;
o c’han disegno, inanzi a la battaglia,
che ’l piè li salvi a più sicuro loco.
La mercenaria mal fida canaglia
prezzar gli antichi imperatori poco:
de la lor nation più tosto venti
volean, che cento di diverse genti.
44
Non era a quelli tempi alcun escluso
che non portasse l’armi e andasse in guerra,
fuor che fanciul da sedici anni in giuso
o quel che già l’estrema etade afferra:
ma tal militia sol era per uso,
sol per bisogno e honor de la sua terra:
sempre sua vita esercitando sotto
buon capitani, in armi era ognun dotto.
45
Carlo per tutta Francia e per la Magna,
per ogni terra a’ suoi regni soggetta,
fa scriver gente, e poi la piglia e cagna
secondo che gli par atta et inetta:
sì che fa in pochi giorni alla campagna
un esercito uscir di gente eletta,
da far che Marte fin su nel ciel treme,
non che a’ nimici l’impeto non sceme.
46
Gli elmi, gli arnesi, le corazze e scudi,
che poco dianzi fur messi da parte,
et de lor fatte ample officine ai studi
de l’ingegnose aragne era gran parte,
sì che forsi tornar in su gli incudi
temeano e farsi ordigni a più vil arte;
hor imbruniti, fuor d’ogni timore,
godeano esser riposti al primo honore.
47
Suonan di qua et di là tanti martelli,
che n’assorda di strepito ogni orecchia:
quei batton piastre e le rifanno e quelli
vanno acconciando l’armatura vecchia;
altri le barde torna a li penelli,
coprirle altri di drappo s’apparecchia:
chi cerca questa cosa et chi ritruova
quell’altra; altri racconcia, altri rinuova.
48
Poi che Carlo al tesor ruppe il serraglio,
hebbon da travagliar tutt’i mestieri,
ma né maggior né più commun travaglio
era però, che di trovar destrieri:
ché li disagi et de le spade il taglio
tolto n’havean da le decine i zeri:
quali si fusson (ché i buoni eran rari),
come il sangue e la vita erano cari.
49
Carlo, oltre l’ordinario che solea
haver d’huomini d’armi alle frontiere
e de la gente ch’a piè combatea,
che per pace era usato ancho tenere,
de l’un canto e de l’altro hor fatto havea
che pien’era ogni cosa di bandiere:
trenta sei mila armati in su l’arzoni,
e quattro tanto e più furo i pedoni.
50
E per li molti esempi che già letto
de’ capitani havea del tempo veglio,
com’huom ch’amava sopra ogni diletto
d’udir historie e farne al viver speglio;
et più perché vedutone l’effetto
per propria esperïenza, il sapea meglio;
connobbe al tempo la prestezza usata
aver più volte la vittoria data;
51
e ch’era molto meglio ch’egli andasse
i nimici a trovar ne la lor terra
e sopra li lor campi s’alloggiasse
e desse lor de’ frutti de la guerra,
che dentro alle confine gli aspettasse
che l’Alpi e ’l Pireneo fra dui mar serra.
Fatta la mostra, i popoli divise
in molte parti e a’ suoi capi i commise.
52
In quel tempo era in Francia il cardinale
di Santa Maria in Portico venuto,
per Leon terzo e pel seggio papale
contra Lombardi a domandarli aiuto:
ché mal s’era tra spada e pastorale,
e con gran disvantaggio, combattuto.
L’imperador, dunque, il primier stendardo
che fe’ espedir, fu contra il Longobardo.
53
Era Carlo amator sì de la Chiesa,
sì d’essa protettor e di sue cose
che sempre l’augumento et la difesa,
sempre l’util di quella al suo prepose:
però, dopo molt’altre, questa impresa
nome di Christianissimo li pose
e dal santo Pastor meritamente
sacrato imperator fu di Ponente.
54
Mandò il nipote Orlando e mandò fanti
seco, a cavallo e una gran schiera d’archi.
Subito Orlando a pigliar l’Alpi inanti
fece ir li suoi più d’armatura scarchi;
ma trovàr ch’i nimici vigilanti
havean prima di lor pigliato i varchi
e fur constretti d’aspettar il Conte
con tutto l’altro campo a piè del monte.
55
Orlando quei da l’armi più leggiere,
quando pedoni e quando gente equestre,
cominciò alla sua gionta a far vedere
hor su le manche hor su le piagge destre;
e far fuochi avampar tutte le sere,
di qua e di là, per quelle cime alpestre;
e di voler passar mostra ogni segno
fuor ch’ove di passar fors’ha dissegno.
56
A Mon Ginevra, al Mon Senese havea
e a tutti i monti ove la via più s’usa,
provisto il Longobardo e vi tenea
con fanti e cavalieri ogni via chiusa;
sopra Saluzzo i monti difendea
un suo figliuolo et esso quei di Susa.
Per tutti questi passi, hor basso hor alto,
Orlando movea loro ogni dì assalto.
57
Spesso fa dar all’armi e mai non lassa
l’inimico posar né dì né notte:
né però l’un su quel de l’altro passa,
e ben si pon segnar pari le botte.
Ma serebb’ita in lungo e forse cassa
d’effetto sua fatica in quelle grotte,
se non gli havesse la vittoria in mano
fatta cader un nuovo caso strano.
58
Nel campo longobardo un giovan era,
signor di Villafranca a piè de’ monti,
capitan de gli armati alla leggiera,
che n’havea mille ad ogni impresa pronti,
di tanto ardir, d’audacia così fiera
che sempre inanzi iva alle prime fronti;
e sue degne opre non pur fra gli amici,
ma laude ancho trovar da gli nimici.
59
Era il suo nome Othon da Villafranca,
di lucid’armi e ricche vesti adorno,
che la fida moglier, nomata Bianca,
in ricamar havea speso alcun giorno.
La destra parte era oro, era la manca
argento et ancho havean dentro e d’intorno,
quella d’argento e questa in nodi d’oro,
le note incomincianti i nomi loro.
60
Havea un caval sì snello e sì gagliardo
che par non havea al mondo, et era còrso,
sparso di rosse macchie il col, leardo
l’un fianco e l’altro e dal ginocchio al dorso.
Men sicuro di lui parea e più tardo,
volga alla china o drizzi all’erta il corso,
quel animal che da le balze cozza
coi duri sassi, e lenta la camozza.
61
Su quel destrier Othone, hor alto hor basso
correndo, era per tutto in un momento,
quando lanciando un dardo e quando un sasso,
ché la persona sua ne valea cento.
Hor s’opponeva a questo, hor a quel passo;
né sol valea di forza e d’ardimento,
ma facea con la lingua e con la fronte
audaci mille cor, mille man pronte.
62
Poi che Fortuna a quella audacia arriso
hebbe cinque o sei giorni, entrò in gran sdegno,
ché pur troppa baldanza l’era aviso
ch’Othon pigliasse nel suo instabil regno,
c’havendo di lontano alcun ucciso,
d’entrar nel stuol facesse ancho dissegno;
e gli ruppe in un tratto, come vietro,
ogni speranza di tornar a dietro.
63
Balduin con molt’altri gli la tolse,
ch’a un stretto passo il colse per sciagura:
il cavallo al voltar dietro li colse
dove i schinchi e le coscie hanno giuntura,
sì che lo fe’ prigion, volse o non volse,
quantunque il cavalier senza paura
non si rendesse mai, fra la tempesta
di mille colpi, fin c’hebbe elmo in testa.
64
Perduto l’elmo, non fe’ più contrasto,
ma disse: — Io mi vi rendo —; e lasciò il brando,
molto più del destrier, che vedea guasto,
che del maggior suo danno sospirando.
La presa di quest’huomo venne il basto,
com’io vi dirò appresso, rassettando,
sul qual fur poi le gravi some poste
ch’a Desiderio si rupper le coste.
65
Lasciato a Villafranca havea la fida,
casta, bella, gentil, diletta moglie,
quando di quella schiera si fe’ guida,
seguendo più l’altrui che le sue voglie;
hor restando prigion, n’andar le grida
là dove più poteano arrecar doglie:
alla moglie n’andar casta e fedele,
che mandò al ciel i pianti e le querele.
66
Sparso la Fama havea, com’è sua usanza
di sempre aggrandir cosa che rapporte,
che Othon preso e ferito era, non sanza
grandissimo periglio de la morte.
Perciò il figliuol del re, c’havea la stanza
vicino a lei con parte di sua corte,
andò per visitarla e trar di pianto,
se valesse il conforto però tanto.
67
Penticon (ché quel nome havea il figliuolo
del re de’ Longobardi) poi che venne
a veder la beltà che prima, solo
conoscendo per fama, minor tenne;
com’augel ch’entra ne le panie a volo,
né può dal visco poi ritrar le penne,
si ritrovò nel cieco laccio preso,
che nel viso di lei stava ogn’hor teso.
68
E dove era venuto a dar conforto,
non si partì chi più bisogno n’hebbe.
Dal camin dritto immantinente al torto
voltò il disio, che smisurato crebbe:
hor, non che preso, ma che fosse morto
Othon suo amico, intendere vorrebbe:
l’huom che pur dianzi con ragion amava,
contra ragion hor mortalmente odiava.
69
Né può d’un mutamento così iniquo
render la causa o far scusa migliore,
che attribuirlo a l’ordine che obliquo
da tutti gli humani ordini, usa Amore;
di cui per legge e per costume antiquo
gli effetti son d’ogn’altro esempio fuore.
Non potea Penticon al disio folle
far resistenza o, se potea, non volle.
70
E lasciandosi tutto in preda a quello,
senza altra escusa e senza altro rispetto,
cominciò a frequentar tanto il castello
ch’a tutto il mondo dar potea sospetto,
indi fatto più audace con più bello
modo che seppe, a palesarle il petto,
a pregar, a promettere, a venire
a’ mezi onde haver speri il suo desire.
71
La bella donna, che non men pudica
era che bella, e non men saggia e accorta,
prima che farsi oltre il dover amica
di sì importuno amante, esser vuol morta.
Ma quegli, avvenga ch’ella sempre dica
di non voler, però non si sconforta
et è disposto di far altre prove,
quand’il pregar e proferir non giove.
72
Ella conosce ben di non potere
mantener lungamente la contesa
e stando quivi, se non vuol cadere,
non può, se non da morte, esser difesa.
Ma questa suol, fra l’aspre, horride e fiere
conditïon, per l’ultima esser presa:
quindi, prima fuggir e perder prima
ciò ch’altro ha al mondo che l’honor, fa stima.
73
Ma dove può ella andar, ch’ogni cittade
che tra il mar, l’Alpi e l’Apenino siede,
del padre de l’amante è in podestade,
né sicuro per lei luogo ci vede?
Passar l’Alpi non può, ch’ivi le strade
chiude la gente, chi a caval, chi a piede:
non ha il destrier che fe’ alle Muse il fonte,
né ’l carro in che Medea fuggì Creonte.
74
Di questo fe’ tra sé longo discorso,
né mai seppe pigliar util consiglio.
Ad un suo vecchio al fin hebbe ricorso,
ch’amava Othon come signor e figlio.
Costui s’imaginò tosto il soccorso
di trar l’afflitta donna di periglio
e le propose per segreti calli
salva ridur a le città di Galli.
75
Stato era cacciator tutta sua vita,
ma molto più quand’eran gli anni in fiore,
et havea per quei monti ogni via trita,
di qua errando et di là, dentro e di fuore.
Pur che non fusse nel partir sentita,
la condurrebbe salva al suo signore:
solo si teme che la prima mossa
occulta a Penticon esser non possa;
76
che, non ch’un dì, ma poche hore interpone
che non sia seco, et v’ha sempre messaggio.
Mentre va d’una in altra opinïone
com’habbia a proveder il vecchio saggio,
vede che lei salvar et con ragione
Othon può vendicar di tanto oltraggio,
portar facendo al folle amante pena
di quel desir ch’a tanto obrobrio il mena.
77
Eshorta lei ch’ancho duo dì constante
stia, fin che di là torni ove andar vuole,
et, come saggia, intanto al sciocco amante
prometta largamente e dia parole.
Fatto il pensier, si parte in un instante
per una via ch’in uso esser non suole,
con lunghi avolgimenti, ma assai destra
quanto creder si può d’una via alpestra.
78
Tosto arrivò dove occupava il monte
la gente del figliuol del re Pipino,
e dimandò voler parlar al Conte;
ma la guardia il condusse a Balduïno,
che del campo tenea la prima fronte.
Costui d’Orlando frate era uterino:
vuo’ dir ch’ambi eran nati d’una madre,
ma l’un Milon, l’altro havea Gano padre.
79
Il Maganzese, poi che di costui
attentamente hebbe il parlar inteso:
di liberar il signor suo e per lui
darli il figliuol del re nimico preso;
non lasciò che parlasse al Conte, in cui
di virtù vera era un disio sì acceso
che di ciò non seria stato contento,
c’haver gli parria odor di tradimento.
80
E dubitava non facesse Orlando
quel che Fabritio e che Camil già féro,
che l’uno a Pirrho e l’altro, già assediando
Falisci, in mano i traditor lor diero.
Finse voler la notte occupar (quando
la strada havea imparata) un poggio altiero,
che si vedea a l’incontro oltre la valle,
e i nimici assalir dietro alle spalle.
81
Con volontà d’Orlando, in su la sera
Balduin se ne va con buona scorta
de cavalieri armati a la leggiera,
e un fante ognun di lor dietro si porta.
La luna in mezo il ciel, che ritond’era,
vien lor mostrando ogni via dritta e torta:
appresso a terza, si trovar dal loco
dove s’hanno a condur lontani poco.
82
Si fermàr quivi e ricreàr alquanto
sé e li cavalli in una occulta piaggia;
che seco vittuaglia haveano, quanto
bastar potea per quella via silvaggia.
Il vecchio corre a la sua donna intanto
e le divisa ciò ch’ordinat’haggia.
A Villafranca Penticon rimena
il suo disio, che ’l giorno spunta a pena.
83
La donna, che dal dì che le fu tolto
il suo marito andò sempre negletta,
questo, che spiera di vederlo sciolto
e far d’ogni sua ingiuria alta vendetta,
ritrova i panni allegri e il crin e ’l volto,
quanto più sa, per più piacer rassetta;
e fe’ quel dì, quel che non fe’ più inante,
grata accoglienza al poco cauto amante.
84
Et con honesta forza, la mattina,
e dolci prieghi, a mangiar seco il tenne.
Il vecchio intanto a Balduin camina,
ch’al venir rato haver parve le penne:
piglia tosto ogni uscita, indi declina
ove il dì si facea lieto e solenne;
et quivi, senza poter far difese,
e Penticon e di suoi molti prese.
85
Lasciato havea chi sùbito al fratello
la vera causa del suo andar narrassi:
c’havea per prender Penticon, non quello
monte occupar, volti la sera i passi;
sì che per l’orme sue verso il castello
pregava che col resto il seguitassi.
Benché non piacque al Conte che tacciuto
questo gli havesse, pur non negò aiuto
86
e con tutti gli altri ordini si mosse,
senza che tromba o che tambur s’udisse,
et perché inteso il suo partir non fosse,
lasciò ch’il foco insino al dì notrisse.
La presa del figliuol, non che percosse,
ma al vecchio padre in modo il cor trafisse
che si levò da l’Alpi e mezo rotta
salvò a Chivaschi et a Vercei la frotta.
87
Né a Vercei né a Chivaschi il paladino
di voler dar l’assalto hebbe dissegno;
anzi i passi volgea dritto al Ticino,
a la città che capo era del regno.
Desiderio, per chiuderli il camino,
lo va a trovar, ma non li fa ritegno;
et è sì inferïor nel gran conflitto
che ne riman perpetuamente afflitto.
88
Quivi càder de’ Longobardi tanti
e tanta fu quivi la strage loro
che ’l loco de la pugna gli habitanti
Mortara dipoi sempre nominoro.
Ma prima che seguir questo più inanti,
ritornar voglio agli altri gigli d’oro,
che Carlo ai capitani raccomanda
ch’alle sue giuste imprese altrove manda.
89
Con diece milla fanti e settecento
lanze e duo milla arcier andò Rinaldo
verso Guascogna, per far mal contento
di sua perfidia l’Aquitan rubaldo.
Bradamante e Ruggier, che ’l regimento
havean del lito esposto al fiato caldo,
hebbon di fanti non so quante millia
e legni armati a guardia di Marsillia.
90
Come chi guardi il mar, così si pone
chi a cavallo, chi a piè, che guardi il lito.
Ulivier guardò Fiandra, Salamone
Bertagna, Picardia Sansone ardito:
dico per terra; ch’altra provisione,
altro esercito al mar fu statüito.
Con grossa armata cura hebbe Ricardo
da la foce del Reno al Mar Picardo.
91
E dal Picardo al capo di Bertagna,
havendo huomini e legni in abondanza,
uscì Carlo col resto a la campagna,
e venne al Reno e lo passò a Costanza;
et arrivò sì tosto ne la Magna
che la fama al venir poco l’avanza;
passò il Danubio e si trovò in Baviera,
che mosso Tassillone ancho non s’era.
92
Tassillon, de Boemi et de Sassoni
esercito espettando e d’Ongheria,
a le squadre di Francia e legïoni
tempo di prevenirli dato havia.
Carlo fermò ad Augusta i confaloni
e mandò a l’inimico ambasciaria
a saper se volesse esperïenza
far di sua forza o pur di sua clemenza.
93
Tassillon, impaurito de la presta
giunta di Carlo, ch’improviso il colse,
con tutto il stato se li diè in podesta
e Carlo humanamente lo raccolse;
ma che rendesse alla prima richiesta
il tolto a Namo et a’ consorti, volse
et che lor d’ogni danno et interesse
c’havean per questo hauto, sodisfesse
94
e settecento lancie per un anno,
e diece milla fanti li pagasse;
la qual gente volea ch’alhora a danno
di Desiderio in Lombardia calasse.
Con li statichi i Franchi se ne vanno
e prima che il passaggio altri vietasse
(ché de’ Boemi prossimi havean dubbio),
tornàr ne l’altra ripa del Danubbio.
95
E verso Praga in tanta fretta andaro,
di nostra fede a quell’età nimica
(ben che né anchora a questa nostra ho chiaro
che le sia tutta la contrada amica),
ch’a prima gionta i varchi gli occuparo,
cacciato e rotto con poca fatica
re Cardoranno, che mezo in fracasso
quivi era accorso a divietar il passo.
96
Gli Franceschi cacciar fin su le porte
di Praga li Boemi in fuga e in rotta.
Quella città, di fosse e mura forte,
salvò col suo signor la maggior frotta:
le diè Carlo l’assalto; ma la sorte
al suo disegno mal rispose alhotta,
ch’a gran colpi di lancie il popul fiero
fe’ ritornar la gente de lo Impero.
97
Ché, mentre era difeso et assalito
da un lato il muro, il forte Cardorano
(di cui se si volesse un huom più ardito,
si cercheria forse pel mondo in vano)
fuor de la porta era da un altro uscito,
et havea fatto un bel menar di mano;
et dentro, con prigioni e preda molta,
sua gente seco salva havea raccolta.
98
Et fe’ che Carlo andò più ritenuto
et hebbe maggior guardia alle sue genti,
havendo lor d’un sito proveduto
da porvi più sicuri alloggiamenti,
dove il fiume di Molta è ricevuto
da l’acque d’Albi a l’Oceàn correnti:
la barbara cittade in loco siede,
che quinci un fiume e quindi l’altro vede.
99
Tra le due ripe, alla città distanti
un tirar d’arco, s’erano alloggiati
sì che s’havean la città messa inanti,
che gli altri fiumi havea drieto e dai lati.
Carlo, perché dai lochi circonstanti
non habbian vettovaglia gli assediati
et perché il campo suo stia più sicuro,
tra un fiume e l’altro in longo tirò un muro,
100
ch’era di fuor di travi e di testura
di grossi legni, e dentro pien di terra;
e perché non uscisson de le mura
dal canto ove la doppia acqua li serra,
su le ripe di fuor hebbe gran cura
di por ne le bastie genti da guerra,
che con velette et scolte a nissun’hora
lasciasson huomo entrar o venir fuora.
101
Quindi una lega appresso, era un’antica
selva de tassi e de fronzuti cerri,
che mai sentito colpo d’inimica
secure non havea né d’altri ferri:
quella mai non potesti fare aprica,
né quando n’apri il dì né quando il serri,
né al solstitio, né al tropico, né mai,
Phebo, vi penetrar tuoi chiari rai.
102
Né mai Diana, né mai nimpha alcuna,
né Pane mai, né satyr, né sileno
si venne a ricrear all’ombra bruna
di questo bosco di spavento pieno;
ma scelerati spirti et importuna
religïon quivi dominio havieno,
dove di sangue human a dei non noti
si facean empi sacrifici e voti.
103
Quivi era fama che Medea, fuggendo
dopo tanti inimici al fin Teseo,
che fu, con modo a racontarlo horrendo,
quasi ucciso per lei dal padre Egeo;
né più per tutto il mondo loco havendo
ove tornar se non odioso e reo,
in quelle alhora inhabitate parti
venne e portò le sue malefich’arti.
104
So ch’alcun scrive che la via non prese,
quando fuggì dal suo figliastro audace,
verso Boemia, ma andò nel paese
che tra i Caspi e l’Oronte e Hircania giace,
e che il nome di Media da lei scese:
il che a negar non serò pertinace,
ma dirò ben ch’ancho in Boemia venne
o dopo o alhora, e signoria vi tenne;
105
e fece in mezo a questa selva oscura,
dove il sito le parve esser più ameno,
la stanza sua di così grosse mura
che non verria per molti secol meno;
e per potervi star meglio sicura,
di spirti intorno ogn’arbor havea pieno,
che rispingean con morti e con percosse
chi d’ir ne’ suoi segreti ardito fosse.
106
Et perché, per virtù d’herbe e d’incanti,
de le fate una et immortal fatt’era,
tanto espettò che triomphar di quanti
nimici havea vid’al fin Morte fiera:
indi a grand’agio ripensando a tanti
a’ quai fatt’havea notte inanzi sera,
all’ingiurie sofferte, affanni e lutto,
vid’esser stato Amor cagion del tutto.
107
E fatta homai per lunga età più saggia
(ché van di par l’esperïenze e gli anni),
pensa per l’avvenir come non caggia
più negli error c’havea passati, e danni;
e vede, quando Amor poter non v’haggia,
ch’in lei né anchor havran poter gli affanni;
e studia e pensa e fa novi consigli,
come di quel tiran fugga gli artigli.
108
Ma perché, essendo de la stirpe antica
che già l’irata Vener maledisse,
vide che non potea viver pudica
et era forza che ’l destin seguisse,
pensò come d’amor ogni fatica,
ogni amarezza, ogni dolor fuggisse;
come gaudi e piacer, quanti vi sono,
prender potesse e quanto vi è di buono.
109
Cagion de la sua pena l’era aviso
che fusse, come havea visto l’effetto,
il tener l’occhio tuttavia pur fiso
e l’animo ostinato in uno oggetto;
ma quando havesse l’amor suo diviso
fra molti e molti, arderia manco il petto:
se l’un fosse per trarla in pena e in noia,
cento serian per ritornarla in gioia.
110
Di quel paese poi fatta regina,
che venne a lungo andar pieno e frequente,
perché ammirando ognun l’alta dottrina
le facea homaggio volontariamente,
nuova religïon e disciplina
instituì, da ogn’altra diferente:
che, senza nominar marito o moglie,
tutti empïano sossopra le sue voglie.
111
Et de li dieci giorni haveva usanza
di ragunarsi il populo li sei,
femine e maschi, tutti in una stanza,
confusamente i nobili e i plebei:
in questa dimandavan perdonanza
d’ogni gaudio intermesso a li lor dei,
ch’era a guisa d’un tempio fabricata
di varii marmi e di molt’oro ornata.
112
Finita l’oration, facean due stuoli,
da un lato l’un, da l’altro l’altro sesso;
indi levati i lumi, a corsi e a voli
venian al nefandissimo complesso;
et meschiarsi le madri coi figliuoli,
con le sorelle i frati accadea spesso:
e quella usanza, c’hebbe initio alhora,
tra li Boemi par che duri anchora.
113
Deh! perché quando, o figlia del re Oeta,
o d’Athene o di Media ti fuggisti,
deh! perché a far l’Italia nostra lieta
con sì gioconda usanza non venisti?
Ogni mente per te seria quïeta,
senza cordoglio e senza pensier tristi
e quella gelosia che sì tormenta
gli nostri cor, seria cacciata e spenta.
114
Oh come, donne, miglior parte havreste
d’un dolce, almo piacer, che non havete!
Dove voi digiunate e senza feste
fate vigilia in molta fame e sete,
tal satolle e sì fatte prendereste
che grasse vi vedrei più che non sete.
Ma ben’io stolto a porre in voi disire
da farvi, per gir là, da noi fuggire!
115
Visse più d’una età, leggiadra e bella
regina di quei populi, Medea,
ch’ad ogni suo piacer si rinovella
e da sé caccia ogni vecchiezza rea;
e questo per virtù d’un bagno ch’ella
per incanto nel bosco fatto havea,
al qual, perché nissun altro s’accosti,
mille demoni a guardia haveva posti.
116
Questa fata del popolo boemme
hebbe per tanti secoli governo
che ’l tempo si potria segnar con l’emme,
et quasi credea ognun che fusse eterno:
ma poi ch’a partorir in Bettelemme
Maria venne il figliuol del Re superno,
quivi regnar o non poté o non volse,
e di vista dagli huomini si tolse.
117
Et ne l’antica selva, fra la torma
de li demoni suoi tornò a celarsi,
dove ogni ottavo dì sua bella forma
in bruttissima serpe havea a mutarsi.
Per questa opinïon, vestigio et orma
di piede human nissun potea trovarsi
inanzi a questo dì di ch’io vi parlo,
che l’aurea fiamma alzò in Boemia Carlo.
118
L’imperator commanda che dal piede
taglin le piante a lor bisogno et uso:
l’esercito non osa, perché crede,
da lunga fama e vano error deluso,
che chi ferro alza incontra il bosco, fiede
se stesso o more o ne l’inferno giuso
visibilmente in carne e in ossa è tratto
o resta cieco o spiritato o attratto.
119
Carlo, fatta cantar una solenne
messa da l’arcivescovo Turpino,
entra nel bosco et alza una bipenne
e ne percuote un olmo più vicino:
l’arbor, che tanta forza non sostenne,
ché Carlo un colpo fe’ da paladino,
cadde in duo tronchi, come fu percosso;
e sette palmi era d’intorno grosso!
120
Chi si ricorda il dì di san Giovanni,
che sotto Hercole o Borso era sì allegro?
che poi veduto non habbiam molt’anni,
come né anchora altro piacer integro,
di poi che cominciar gli assidui affanni
dei quali è in tutta Italia ogni cor egro:
parlo del dì che si facea contesa
di saettar dinanzi alla sua chiesa.
121
Quel dì inanzi alla chiesa del Battista
si ponean tutti i sagittari in schiera,
né colpo uscia fin ch’al bersaglio vista
la saeta del principe non era;
poi con la nobiltà la plebe mista
l’aria di freccie a gara facea nera:
così ferito c’hebbe il bosco Carlo,
fu presto tutto il campo a seguitarlo.
122
Sotto il continuo suon di mille accette
trema la terra e par che ’l ciel ribombi;
hor quella pianta hor questa in terra mette
il capo, e rompe a l’altre braccia e lombi.
Fuggon da’ nidi lor guffi e civette,
che vi son più che tortore o colombi,
e, con le code fra lor gambe, i lupi
lascian l’antiche insidie e i lochi cupi.
123
Per la molta bontà ch’era in effetto
e vera in Carlo, non mendace e finta,
fu sì la forza al diavol maledetto
da l’aiuto di Dio quivi rispinta
ch’a lui non nocque, né, per suo rispetto,
a chi s’havea per lui la spada cinta:
sì che mal grado de l’Inferno tutto
a li demoni il nido era distrutto.
124
Un fremito, qual suol da l’irat’onde
del tempestoso mar venir a’ lidi,
cotal si udì fra turbate fronde,
meschio di pianti e spaventosi gridi;
indi un vento per l’aria si difonde
che ben appar che Belzebù lo guidi:
ma né per questo avvien ch’al saldo e fermo
valor di Carlo habbia la selva schermo.
125
Cade l’eccelso pin, cade il funèbre
cipresso, cade il venenoso tasso,
cade l’olmo atto a riparar che l’ebre
viti non giaccian sempre a capo basso;
cadono e fan cadendo le latebre
cedere agli occhi et alle gambe il passo:
piangon sopra le mura i pagan stolti,
vedendo alli lor dèi gli seggi tolti.
126
Alcun dentro ne gode, ché n’espetta
di veder sopra a Carlo e tutti i Franchi
scender dal ciel così dura vendetta
ch’a sepelirli il populo si stanchi.
Com’è troncato un arbore, si getta
nel fiume ch’alla selva bagna i fianchi;
e quello, ubidïente, ai corni sopra
lo porta al loco ov’è poi messo in opra.
127
In questo tempo havea l’iniquo Gano,
per dar a Carlo in ogni parte briga,
composto il re d’Arabia e il Soriano
col calife d’Egitto in una liga;
et dopo il colpo, per celar la mano
in guisa d’huom che conscïenza instiga,
per voto a cui già s’obligasse inanti,
era andato al Sepolcro, ai Luoghi santi.
128
Quivi da Sansonetto ricevuto,
che da Carlo in governo havea la terra,
era stato alcun giorno e poi venuto
verso Costantinopoli per terra,
dove certa notitia havendo hauto
di Carlo ch’in Boemia facea guerra,
s’era voltato, per la dritta via
di Servia e di Belgrado, in Ungheria.
129
Ritrovò, essendo già Philippo morto,
haver il regno un figlio d’Otacchiero,
che come l’avol dritto, così ei torto
hebbe l’animo sempre da l’Impero.
Gano li venne in tempo a dar conforto,
ch’era pel re di Francia in gran pensiero,
del qual nimico discoperto s’era
per la causa del duca di Baviera
130
et molto si dolea di Tassillone
c’havesse senza lui fatta la pace,
di che il Boemme e l’Ungaro e il Sassone
restava in preda alla francesca face.
Havea d’aiutar Praga intentione,
ma de l’assunto si vedea incapace:
impossibil li par ch’in così breve
tempo far possa quel ch’in ciò far deve.
131
Ma se l’assedio si potea produrre,
se potea andar in lungo anchor un mese,
tanta gente era certo di condurre,
oltre il soccorso che daria il paese,
che i gigli d’or ne le bandiere azurre
quivi restar faria con l’altro arnese:
ma s’hora andasse, non farebbe effetto
se non d’attizzar Carlo a più dispetto.
132
Gano promesse che farebb’ogni opra
che Praga anchor un mese si terrebbe;
et poi che molto han ragionato sopra
quanto far ciascun d’essi in questo debbe,
parte Gano da Buda e tra via adopra
lo ingegno che molt’atto a tradir hebbe:
va da Strigonia in Austria, indi si tiene
a destra mano et in Boemmia viene.
133
Il peregrino di Gierusalemme,
con quanti havea condotti a’ suoi servigi,
humilmente, senz’oro e senza gemme
ma de panni vestiti grossi e bigi,
nel campo tolto al popolo boemme
baciò la mano al buon re di Parigi,
c’havendolo raccolto ne le braccia,
di qua e di là li ribaciò la faccia.
134
Era inclinato di natura molto
a Gano Carlo e ne facea gran stima,
et poche cose fatte havria, che tolto
il suo consiglio non havesse prima;
com’ogni signor quasi in questo è stolto,
che lascia il buono et il piggior sublima;
né, se non fuor del stato, o dato in preda
degli inimici, par che ’l suo error creda.
135
Per non saper dal finto il vero amico
scernere, in tal error misero incorre.
Di questo vi potrei, c’hora vi dico,
più d’un esempio inanzi agli occhi porre,
e senza ritornar al tempo antico,
n’havrei più d’uno a nostra età da tòrre:
ma se più verso a questo canto giungo,
temo v’offenda il suo tropp’esser lungo.