24

Gentil città, che con felici auguri
dal monte altier, che forse ben per sdegno
ti mira sì, qua giù ponesti i muri,
come dal meglio di Toscana hai regno,
5così del tutto havessi, ché ’l tuo merto
fora di questo et di più imperio degno.
Qual stil è sì facondo e sì diserto
che de le laudi tue corressi tutto
un così lungo campo et così aperto?
10Del tuo Mugnon potrei, quando è più asciutto,
meglio i sassi contar che dir a pieno
quel che ad amar e riverir m’ha indutto;
più presto che narar quanto si’ ameno
et fecondo il tuo pian che si distende
15tra verdi poggi in fin al mar Tireno,
o come lieto Arno lo riga e fende,
et quinci et quindi quanti freschi et molli
rivi tra via sotto sua scorta prende.
A veder pien di tante ville i colli
20par che ’l terren ve le germogli come
vermene germogliar suole e rampolli.
Se dentro un mur sotto il medesmo nome
fusser raccolti i tuoi palazzi sparsi
non ti serian da paregiare due Rome.
25Una so ben che mal ti può uguagliarsi
e mal forse anco havria possuto prima
che li edificcii suoi le fussero arsi
da quel furor che uscì dal freddo clima
hor de’ Vandali, 〈hor de’ Eruli,〉 hor di Goti,
30a l’italica rugine aspra lima.
Dove son, se non qui, tanti devoti,
dentro et di fuor d’arte e d’ampiezza eggregi
tempi, et di ricche oblation non vuoti?
Chi potrà a pien lodar li tetti regii,
35di tuoi privati i portici et le corti,
di magistrati et le corti et li seggi?
Non ha il verno poter ch’in te mai porti
di sua immondicia, sì ben questi monti
t’han lastricata fin alli angiporti.
40Piazze, mercati, vie marmoree, ponti,
tale belle opre de pittori industri,
vive sculture, intagli, getti, impronti;
e ’l popul grande, et di tanti anni e lustri
l’antique et chiare stirpe, le richezze,
45l’arti, li studii et li costumi illustri;
le leggiadre manere et le bellezze
de donne et de donzelle a cortesi atti
senza alcun danno d’onestade avezze;
et tanti altri ornamenti che ritratti
50porto nel cor meglio è tacer che al suono
di tanto humile avena se ne tratti.
Ma che larghe ti sian d’ogni suo dono
Fortuna a gara con Natura, ahi lasso,
a me che val s’in te misero sono,
55se sempre ho il viso mesto e il ciglio basso,
se de lacrime ho gli ochi humidi spesso,
se mai senza suspir non muto il passo?
Da penitentia et da dolor oppresso
di vedermi lontan da la mia luce
60trovomi sì ch’odio talhor me stesso.
L’ira, il furor, la rabbia mi conduce
a biastemar chi fu cagion ch’io venni,
e chi a venir mi fu compagno et duce,
et me, che senza me di me sostenni
65lasciar, ohimè, la meglior parte, il core,
et più all’altrui che al mio desir mantenni.
Che de richezza, de beltà, d’honore
sopra ogn’altra città de Etruria sali,
che fa questo, Fiorenza, al mio dolore?
70Gli tuoi Medici, anchor che sieno tali
che t’habian salda ogni tua antiqua piaga,
non han perhò rimedio alli mei mali.
Oltra a quei monti, a ripa l’onda vaga
del re de’ fiumi, in bianca e pura stola
75cantando ferma il sol la bella maga
che con sua vista può sanarmi sola.