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Spirto gentil, che sei nel terzo giro
del ciel fra le beate anime asceso,
scarco da mortal peso,
dove premio si rende a chi con fede
5vivendo fu de honesto amore acceso,
a me, che dal tuo ben non già sospiro,
ma di me che anchor spiro,
poi che al dolor che ne la mente sede
sopra ogn’altro crudel non si concede
10di metter fine all’angosciosa vita,
gli occhi che già mi fur benigni tanto
volgi alli miei, ch’al pianto
apron sì larga et sì continua uscita;
vedi come mutati son da quelli
15che ti solean parer già così belli.
La infinita ineffabile bellezza
che sempre miri in ciel non te distorni
che gli occhi a me non torni,
a me, che già mirando ti credesti
20di spender ben tutte le notti et i giorni;
e se ’l levarli alla suprema altezza
ti leva ogni vaghezza
di quanto mai qua giù più caro havesti,
la piatà al men cortese mi ti presti
25ch’in terra unqua non fu da te lontana.
Et hora io n’ho d’haver più chiaro segno,
quando nel divin regno,
dove senza me sei, n’è la fontana;
s’amor non può, donque, piatà ti pieghi
30d’inchinare il bel sguardo alli miei prieghi.
Io sono, i’ son ben dessa; or vedi come
m’ha cangiata il dolor fiero et atroce,
ch’a fatica la voce
può di me dar riconoscenza vera.
35Lassa, che al tuo partir partì veloce
da le guance, da gl’occhi e da le chiome
quella a cui davi nome
tu di beltà, et io n’andava altera
che mel credea, poi che in tal pregio t’era.
40Ch’ella da me partisse allhora, et s’ancho
non tornasse mai più, non mi dà noia,
poi che tu, a cui sol gioia
di lei dare intendea, mi vieni manco;
non voglio, non, s’anch’io non vegno dove
45tu sei, che questo o ch’altro ben mi giove.
Come possibil è, quando soviemme
del bel sguardo soave ad hora ad hora,
che spento ha sì breve hora,
o di quel dolce lieto riso extinto,
50che mille volte io non sia morta o mora?
Perché, pensando all’ostro et alle gemme
ch’avara tomba tiemme,
di ch’era il viso angelico distinto,
non scoppia il duro cor dal dolor vinto?
55Come è ch’io viva, quando mi rimembra
ch’empio sepolcro et invidiosa polve
contamina et disciolve
le delicate alabastrine membra?
Dura condition ch’è morte et peggio:
60patir di morte e insieme viver deggio.
Io sperai ben di questo carcer tetro,
che qui mi serra, ignuda anima sciorme,
et correr dietro all’orme
de li tuoi santi piedi, et teco farme
65de le belle una in ciel beate forme;
ch’io crederei, quando ti fusse dietro
e insieme udisse Pietro
et di fede et d’amor da te lodarme,
che le sue porte non potria negarme.
70Deh, perché tanto è questo corpo forte,
che né la lunga febre, né il tormento
che magior nel cor sento
potesse trarlo a desiata morte,
sì che lasciato havessi il mondo teco,
75che senza te, ch’eri suo lume, è cieco?
La cortesia e il valor che stati ascosi
non so in qual antri et latebrosi lustri
eran molt’anni et lustri,
et che poi teco apparvero, et la speme
80che, in più matura etade, all’opre illustri
pareggiassi di Publi et Gnei famosi
suoi fatti gloriosi,
sì che a sentire havessero l’extreme
genti ch’anchor vivea di Marte il seme,
85hor più non veggio; né da quella notte
che agli occhi miei lasciasti un lungo oscuro,
mai più veduti furo,
ché ritornaro a lloro antique grotte,
e per disdegno congiuraron, quando
90del mondo uscir, torne perpetuo bando.
Del danno suo Roma infelice accorta
disse: «Poi che costui, Morte, mi tolli,
non mai più i sette colli
duce vedran che trionfando possa
95per sacra via trar catenati colli.
De l’altre piaghe ond’io son quasi morta
forse sarei risorta;
ma questa è in mezzo il cor quella percossa
che da me ogni speranza m’ha rimossa».
100Turbato corse il Tibro alla marina,
e ne diè annoncio ad Ilia sua, che mesta
gridò piangendo: «Hor questa
di mia progenie è l’ultima ruina».
Le sante nimphe e i boscarecci dei
105trassero al grido a lacrimar con lei.
E fu sentito e ’n l’una, e ’n l’altra riva
pianger donne et donzelle, figlie et matri,
e da purpurei patri
alla più bassa plebbe, il popul tutto,
110e dire: «O patria, questo dì fra gli altri
de Alia e di Canne a’ posteri se scriva,
que’ giorni che captiva
restasti et che ’l tuo imperio fu distrutto,
né più di questo son degni de lutto».
115E ’l desiderio, signor mio, e ’l ricordo
che di te in tutti gl’animi rimaso,
non trarà già a l’occaso
sì presto il violento fato ingordo,
né potrà far che, mentre voce e lingua
120formin parole, il tuo nome s’extingua.
Pon’ questo apresso l’altre pene mie:
che di salir al mio signor, canzone,
sì ch’oda tua ragione,
d’ogn’intorno te son chiuse le vie.
125Piacesse a’ venti al men di riportarli
che di lui sempre pensi, o pianga, o parli.