1
O messaggi del cor sospiri ardenti,
o lacrime che ’l giorno io celo appena,
o prieghi sparsi in non feconda arena,
4o del mio ingiusto mal giusti lamenti,
o sempre in un voler pensieri intenti,
o desir’ che ragion mai non rafrena,
o speranze che Amor drieto si mena
8quando a gran salti, et quando a passi lenti;
serà che cessi o che s’allenti mai
vostro lungo travaglio e il mio martire
11o pur fia l’uno et l’altro insieme eterno?
Che fia non so; ma ben chiaro discerno
che mio poco consiglio et troppo ardire
14soli posso incolpar ch’io viva in guai.
2
Del mio pensier, che così veggio audace,
timor freddo come angue il cor m’assale:
di lino et cera egli s’ha fatto l’ale
4disposte a liquefarsi ad ogni face;
et quelle, del desir fatto seguace,
spiega per l’aria et temerario sale,
et duolmi ch’a ragion poco ne cale,
8che devria ostarli et sel comporta et tace.
Per gran vaghezza d’un celeste lume
temo non poggi sì ch’arrivi in loco
11dove s’incenda et torni senza piume.
Seranno, ohimè, le mie lacrime poco
per soccorrergli poi, quando né fiume
14né tutto il mar potrà smorzar quel foco.
3
Quando muovo le luci a mirar voi,
la forma che nel cor m’impresse Amore,
io mi sento agghiacciar dentro et di fuore
4al primo lampeggiar de’ raggi suoi.
Alle nobil manere affisso poi,
alle rare virtuti, al gran valore,
ragionarmi pian pian odo nel core:
8«Quanto hai ben collocato i pensier tuoi!».
Di che l’anima avampa, poi che degna
a tanta impresa par che Amor la chiami:
11così, in un loco, hor ghiaccio, hor foco regna.
Ma la Paura sua gelata insegna
vi pon più spesso, et dice «Perché l’ami,
14che di sì basso amante si disdegna?».
4
Quando vostra beltà, vostro valore,
donna, e con gl’occhi e col pensier contemplo,
mi volgo intorno, e non vi trovo exemplo.
Sento ch’allhor mirabilmente Amore
5mi leva a volo et me di me fa uscire
et sì in alto poggiar dietro al desire,
che non osa seguire
la speme, ché le par che quella sia
per lei troppo erta et troppo lunga via.
5
Oh, se quanto è l’ardore,
tanto, madonna, in me fusse l’ardire,
forse il mal c’ho nel core osarei dire.
A voi devrei contarlo,
5ma per timore, ohimè, d’un sdegno resto,
che faccia, s’io ne parlo,
crescergli il duol sì che l’uccida presto.
Pure io vi vuo’ dir questo:
che da voi tutto nasce il suo martire
10et s’el ne more, il fate voi morire.
6
Quante fiate io miro
li ricchi doni et tanti
che ’l ciel dispensa in voi sì largamente,
altre tante io sospiro.
5Non che il veder che inanti
a tutte l’altre donne ite ugualmente
mi percuota la mente
d’invidia, che a ferire
in molto bassa parte,
10se la cagion si parte
da un alto oggetto, mai non può venire;
et da l’umiltà mia
a vostra altezza è più che al ciel di via.
Non è d’invidia affetto
15ch’a sospirar mi mena,
ma sol d’una pietà c’ho di me stesso,
però ch’ancor m’aspetto
de la mia audacia pena
de haver in voi sì inanzi il mio cor messo.
20Ché, se l’esser concesso
di tanti il minor dono
far suol di chi il riceve
l’animo altier, che deve
di voi far dunque, in cui tanti ne sono,
25che da l’Indo all’extreme
Gade tan’altri non ha il mondo insieme?
L’haver voi conoscenza
di tanti pregi vostri,
che siate per mirar unqua sì basso
30mi dà gran diffidenza;
et benché mi si mostri
di voi cortesia sempre, pur, ahi lasso,
non posso far ch’un passo
voglia andar la speranza
35dietro al desire audace.
La misera si giace
et odia, et maledice l’arroganza
di lui, che la via tiene
molto più là che non se gli conviene.
40Et questo ch’io temo hora
non è ch’io non temessi
prima che sì perdessi in tutto il core;
et qual difesa allhora,
et quanto lunga io fessi
45per non lasciarlo, è testimonio Amore.
Ma il debile vigore
non puote contra l’alto
sembiante, et le divine
manere, et senza fine
50virtù et bellezze, sostener l’assalto:
così il cor persi, et seco
persi il sperar d’haverlo mai più meco.
Non seria già ragione
che per venire a porse
55in vostre man devesse esservi a sdegno,
se n’è stato cagione
vostra beltà, che corse
con troppo sforzo incontra ’l mio disegno.
Egli sa ben che degno
60parer non può che habbiate,
dopo un lungo tormento,
in parte a far contento;
né questo cerca anchor, ma che pietate
vi stringa al men di lui
65c’habbia a patir senza mercé per vui.
Canzon, concludi in somma alla mia Donna
ch’altro da lei non bramo
se non che a sdegno non le sia s’io l’amo.
7
La rete fu di queste fila d’oro
in che ’l mio pensier vago intricò l’ale,
et queste ciglia l’arco, i sguardi il strale,
4il feritor questi begl’occhi foro.
Io son ferito, io son prigion per loro;
la piaga in mezo ’l core aspra et mortale,
la prigion forte: et pur in tanto male
8et chi ferimmi et chi mi prese adoro.
Per la dolce cagion del languir mio
o del morir (se potrà tanto il duolo),
11languendo godo, et di morir desio;
pur ch’ella, non sappiendo il piacer ch’io
del languir m’habbia o del morir, d’un solo
14sospir mi degni, o d’altro affetto pio.
8
Amor, io non potrei
haver da te se non ricca mercede
poi che quanto amo lei Madonna vede.
Deh, fa’ ch’ella sappia anco
5quel che forse non crede: quanto io sia
già presso a venir manco,
se più nascosa l’è la pena mia.
Ch’ella la sappia fia
tanto sollevamento a’ dolor miei
10ch’io ne vivrò, dove hor me ne morrei.
9
Madonna, sète bella, et bella tanto
ch’io non veggio di voi cosa più bella:
miri la fronte o l’una et l’altra stella
4che mi scorgon la via col lume santo;
miri la bocca a cui sola do vanto,
che dolce ha il riso e dolce ha la favella,
et l’aureo crine onde Amor fece quella
8rete che mi fu tesa d’ogni canto;
o di terso alabastro il collo e il seno
o braccia o mano, et quanto finalmente
11di voi si mira, et quanto se ne crede.
Tutto è mirabil certo, non di meno
non starò ch’io non dica arditamente
14che più mirabil molto è la mia fede.
10
Se voi così mirasse alla mia fede
com’io miro a vostr’occhi e a vostre chiome,
exceder l’altre la vedreste, come
vostra bellezza ogni bellezza excede.
5Et come io veggio ben che l’una è degna
per cui né lunga servitù né dura
noiosa mai debbia parermi o grave,
così vedreste voi che vostra cura
dev’esser che quest’alma si ritegna
10sotto più leve giogo et più soave,
et con maggior speranza che non have
d’esser premiata; et se non ora a pieno
come devriase, al meno
con un dolce principio di mercede.
11
Com’esser può che degnamente io lodi
vostre bellezze angeliche et divine,
se mi par che a dir sol del biondo crine
4volga la lingua inettamente et snodi?
Quelli alti stili et quelli dolci modi
non basterian, che già greche et latine
scole ensegnaro, a dire il mezzo e il fine
8d’ogni lor loda agli aurei crespi nodi;
e ’l mirar quanto sian lucide e quanto
lunghe e ugual le ricche fila d’oro
11materia potria dar d’eterno canto.
Deh, morso havess’io, come Ascreo, l’aloro!
Di queste, se non d’altro, direi tanto
14che morrei cigno, ove tacendo io moro.
12
Uno arbuscel, che ’n le solinghe rive
all’aria spiega i rami horridi et hirti,
et d’odor vince i pin, li abeti, e i mirti,
4et lieto et verde al caldo e al ghiaccio vive,
il nome ha di colei che mi prescrive
termine et legge a’ travagliati spirti
da cui seguir non potrian Scille o Sirti
8ritrarmi, o le brumali hore o l’estive.
Et se benigno influxo di pianeta,
lunghe vigilie, od amorosi sproni
11son per condurmi ad honorata meta,
non voglio, et Phebo et Bacco mi perdoni,
che lor frondi mi mostrino poeta,
14ma ch’un ginebro sia che mi coroni.
13
Altri lodan il viso, altri le chiome
de la sua donna, altri l’avorio bianco
di che formò natura il petto e il fianco,
4altri dan a begl’occhi eterno nome;
me non mortal fragil bellezza, come
un ingegno divino ha mosso unquanco,
un animo così libero et franco
8come non senta le corporee some,
una chiara eloquentia che deriva
da un fonte di saper, una honestade
11di cortese atto, et leggiadria non schiva.
Et se l’opra mia fusse alla bontade
de la materia ugual, ne farei viva
14statua, che dureria più d’una etade.
14
Quel capriol, che con invidia et sdegno
de mille amanti a colei tanto piacque
che con somma beltà per haver nacque
4di tutti i gentil cori al mondo regno,
turbar la fronte et trar, pietoso segno,
dal petto li sospir, da gl’occhi l’acque
alla mia Donna, poi che morto giacque,
8et d’onesto sepolcro è stato degno:
che sperar, bene amando, hor non si deve,
poi che animal senza ragion si vede
11tanto premiar di servitù sì leve?
Né lungi è hormai, se de’ venir, mercede,
ché, quando s’incomincia a scior la neve,
14che appresso il fin sia il verno è chiara fede.
15
Non fu qui dove Amor tra riso et giuoco
le belle reti al mio cor vago tese?
Non sono io quello anchor che non di poco
4ma del meglio di me fui sì cortese?
Qui certo fu, ch’i’ riconosco il loco,
u’ dolcemente l’hore erano spese;
quinci l’esca fu tolta et quinci il foco
8che d’alto incendio un freddo petto accese.
Ma ch’io sia quel che con lusinghe Amore
fece, per darlo altrui, del suo cor scemo,
11s’io n’ho credenza, io n’ho più dubbio assai:
ché mi sovien che quel che perse il core
arder lontan solea da questi rai,
14et io, che son lor presso, agghiaccio et tremo.
16
Per gran vento che spire
non si estingue, anzi più cresce, un gran fuoco,
e spegne e fa sparir ogn’aura il poco.
Quanto ha guerra maggiore
5intorno in ogni loco e in su le porte,
tanto più un grande amore
si ripara nel core et fa più forte.
D’humile e bassa sorte,
Madonna, il vostro si potria ben dire
10se le minacce l’han fatto fugire.
17
Chiuso era il sol da un tenebroso velo,
che si stendea fin all’extreme sponde
de l’orizonte, et murmurar le fronde
4s’udiano, et tuoni andar scorrendo il cielo.
Di pioggia in dubbio o tempestoso gelo,
stav’io per ire oltra le torbide onde
del fiume altier che ’l gran sepolcro asconde
8del figlio audace del signor di Delo,
quando apparir su l’altra ripa il lume
dei bei vostr’occhi vidi, e udi’ parole
11che Leandro potean farmi quel giorno.
Et tutto a un tempo i nuvoli d’intorno
si dileguaro, et si scoperse il sole,
14tacquero i venti et tranquillossi il fiume.
18
O sicuro, secreto et fidel porto,
dove fuor di gran pelago due stelle,
le più chiare del cielo et le più belle,
4dopo una lunga et cieca via mi han scorto!
Hora io perdono al vento e al mare il torto,
che m’hanno con gravissime procelle
fatto sin qui, poiché, se non per quelle,
8io non potea fruir tanto conforto.
O caro albergo, o cameretta cara,
ch’in queste dolci tenebre mi servi
11a goder d’ogni sol notte più chiara!
Scorda ora i torti e i sdegni acri et protervi,
ché tal mercé, cor mio, ti si prepara
14che appagarà quanto hai servito et servi.
19
Aventuroso carcere soave,
dove né per furor, né per dispetto,
ma per amor et per pietà distretto
4la bella et dolce mia nemica m’have,
li altri prigioni al volger de la chiave
s’attristano, io m’allegro, ché diletto
et non martir, vita et non morte aspetto,
8né giudice sever, né legge grave,
ma benigne accoglienze, ma complessi
licentiosi, ma parole sciolte
11da ogni fren, ma risi, vezzi, et giuochi;
ma dolci baci dolcemente impressi
ben mille et mille et mille et mille volte,
14et se potran contarsi anco fien pochi.
20
Ne la stagion che ’l bel tempo rimena
di mia man posi un ramuscel di lauro
a mezzo colle in una piaggia amena,
che di bianco, d’azuro, vermiglio e auro
5fioriva sempre, e sempre il sol scopriva,
o fusse a l’Indo o fusse al lito mauro.
Quivi trahendo hor per herbosa riva,
hor rorando con man la tepida onda,
hor rimovendo la gleba nativa,
10hor riponendo più lieta et feconda,
fei sì con studio et con assidua cura
che ’l lauro hebbe radice e nuova fronda.
Fu sì benigna a’ miei desir’ natura
che la tenera verga crescer vidi
15e divenir solida pianta et dura.
Dolci ricetti, solitarii e fidi,
mi fur queste ombre, ove sicuro puote
sfogarsi il cor con amorosi gridi.
Vener lasciando l’alte sedie vote
20del sacro Idalio, e lungi da li odori
che fuman l’are di Sabei devote,
sovente con le Gracie in lieti cori
vi danzò intorno; et per li rami intanto
salian scherzando i pargoletti amori.
25Spesso Diana con le nimphe accanto
l’arbuscel suavissimo prepose
a le selve de Eurota et d’Erimanto:
et queste e altre dèe sotto l’amorose
frondi mentre in piacer stavano et in festa
30benedicon talhor chi ’l ramo pose.
Lassa! onde uscì la boreal tempesta?
onde la bruma? onde il rigor e il gelo?
unde la nieve a’ danni mei sì presta?
Come gli ha tolto il suo favore il cielo,
35langue il mio lauro, et de la bella spoglia
nudo gli resta et senza honor il stelo.
Verdeggia un ramo sol con poca foglia,
et fra tema et speranza sto suspesa
se mi lo lasci il verno o mi lo toglia.
40Ma più che la speranza il timor pesa
che contra il giaccio rio, ch’anchor non cessa,
il debol ramo havrà poca difesa.
Deh, perché inanzi che sia in tutto oppressa
l’egra radicce, non è chi m’insegni
45come esser possa al suo vigor rimessa?
Phebo, rettor de li superni segni,
aiuta l’arbuscello onde corona
più volte havesti nei tessali regni.
Concedi Bacco, Vertunno et Pomona,
50satiri, fauni, dryade et napee,
che nuove frondi il lauro mio repona.
Soccorran tutti i dèi, tutte le dèe,
che de li arbori han cura, il lauro mio,
perhò che gli è fatal: se viver dee,
55vivo io, se dee morir, seco moro io.
21
De la mia negra penna in fregio d’oro
molti mi sono a dimandar molesti
l’occulto senso, et io nol vuo’ dir loro.
Vuo’ che sempre nel cor chiuso mi resti,
5né per pregare o stimular d’altrui
già mai mi potrò indur ch’io ’l manifesti.
Dio, come in l’altri magisteri sui,
providentia hebbe asai quando il cor pose
ne la più ascosa parte che era in nui,
10ch’ivi i pensieri et le secrete cose
volse riporre, e chiuderne la via
a queste avide menti et curiose.
Fregiata d’or la negra penna mia
ho in cento luochi nel vestir trapunta,
15acciò palese a tutti gli occhi sia;
ma vuo’ tacere a qual effetto assunta
l’ho di portare, e non vuo’ dir se mostra
l’anima lieta o di dolor compunta.
Se voi direte ostination la nostra,
20io dirò che immodesti et importuni
voi sete, et gran discortesia la vostra.
Non so s’havete udito dir di alcuni
che de havere disiato di sapere
li altrui secreti esser vorian digiuni.
25L’uccel c’ha bigio il petto et l’ale nere,
fu prima donna et diventò cornice
per esser troppo vaga di sapere.
Ciò ch’altri asconder vol, spiar non lice,
et vi devrebbe refrenar quello anco
30che di Tiresia et Atheon si dice:
de’ qualli un fe’ restar di luce manco
Pallade ultrice, et l’altro fe’ Diana
sfamar i cani suoi del proprio fianco.
Se d’esser sopragionte a la fontana,
35nude il bel corpo, così increbbe ad esse
che vendetta ne fero acerba et strana,
non fora altra ragion che mi dolesse
che voi molto più adentro che alle gonne
veder cercasse come il cor mi stesse.
40Non son già dil valor di quelle donne,
né sì crudel che a voi facessi il danno
ch’elle fero a Tiresia e ad Atheonne;
Deh, perché inanzi che sia in tutto oppressa
l’egra radicce, non è chi m’insegni
45come esser possa al suo vigor rimessa?
questa mia negra penna in fregio d’oro.
22
Era candido il corvo, et fatto nero
meritamente fu, perché troppo hebbe
expedita la lingua a dire il vero.
Haver tacciuto Ascalapho vorebbe
5el testimonio che sul stigio fiume
alla matre e alla figlia udire increbbe:
ché di funeste e d’infelici piume
si ricoverse e restò augello obsceno,
danato sempre ad abborrire il lume.
10Porsi devrian tutte le lingue freno
et in li altrui fatti apprender da costoro
di spiar poco et di parlarne meno.
Questi per troppo dir puniti foro;
né riguardò, chi lor punì, che fosse
15d’ogni menzogna netto il detto loro.
Se de li offesi dèi sì l’ira mosse
l’esser del vero garuli et loquaci
che con eterna infamia ambi percosse,
qual pena, quale obrobrio a quelli audaci
20si converria, ch’altri biasmando vanno
de colpe in che si sanno esser mendaci?
O di noi più non curano, o non hanno
qua giù più forza, o de li nostri casi
quei che regono il ciel più poco sanno;
25che non vi sieno anchor crederei quasi,
se non ch’io veggio pur per camin certo
l’estati e i verni andar, li orti et li occasi.
Ma se vi son, come è da lor soferto
che lode e oltraggi et che premii et suplici
30non sien secondo il bono e il tristo merto?
Lor debito saria da le radici
le malediche lingue sveller tosto
che di falsi rumor sono inventrici.
Qual altro più a martir debbe esser posto
35di quel che a donna habbia con falsi gridi
biasmo, di che essa sia innocente, imposto?
Peggio è che furti, et peggio è che homicidi
macchiar l’honor, che de richezza et vita
sempre stimar più tra li saggi vidi.
40Se per sentirsi monda, esser ardita
femina deve a far prova che in libro
meglio che in marmo habbia a restar sculpita,
né a Tuccia che portò l’aqua nel cribro,
né cedo a quella Claudia che ’l naviglio
45de la matre de’ dèi trasse pel Tibro.
Al ferro, al foco, al tosco, a ogni periglio
chieggio d’expormi per mostrar che a torto
ho da portar per questo basso il ciglio.
Se non indegnamente in viso porto
50così importuna macchia che potermi
con poca acqua lavar pur mi conforto,
cresca sì che mi copra et poi si fermi
né mai più mi si lievi, et tutto il mondo
in ignominia sempre habbia a vedermi;
55et seguiti il martir non pur secondo
che fora degno il fallo, ma il più grave
c’habbia l’inferno al tenebroso fondo.
Ma si se mente chi incolpata m’have,
come è sincero il cor, così di fuore
60ogni brutezza presto mi si lave;
et tutto quel martir che a tanto errore
si converria, veggia cader su l’empio
che de la falsa accusa è stato autore,
sì che ne pigli ogni bugiardo exempio.
23
Meritamente hora punir mi veggio
del grave error che dipartir mi fece
da la mia donna, et degno son di peggio.
Ben poco saggio fui che all’altrui prece
5a cui devea et potei chiuder l’orecchi,
più ch’al mio desir proprio satisfece.
S’esser può mai che contra lei più pecchi,
tal pena sopra me subito cada
che nel mio exempio ogni amator si specchi.
10Deh, che spero io, che per sì iniqua strada,
sì rabbiosa procella d’acque et venti,
possa esser degno ch’a trovar si vada?
Arroge il pensar poi da chi mi absenti
che travaglio non è, non è periglio
15che più mi stanchi o che più mi spaventi.
Pentomi, et col pentir mi maraviglio
come io potessi uscir sì di me stesso
ch’io m’appigliasse a questo mal consiglio.
Tornar adietro hormai non m’è concesso,
20né mirar se mi giova o se mi offende:
licito fora più quel c’ho promesso.
Mentre ch’io parlo, il turbido austro prende
maggior possanza et cresce il verno, et sciolto
da ruinosi balzi il liquor scende;
25di sotto il fango, e quinci e quindi il folto
bosco mi tarda, e in tanto l’aspra pioggia
acuta più che stral mi fere il volto.
So che qui appresso non è casa et loggia
che mi ricopra, et pria che a tetto giunga,
30per lungo trato il monte hor scende hor poggia.
Né più affretar, per ch’io lo sferzi et punga,
posso il caval, ché lo sgomenta l’ira
del ciel, et stanca la via alpestre et lunga.
Tutta questa acqua et ciò che intorno spira
35vegna in me sol, che non può premer tanto
ch’uguagli al duol che dentro mi martira:
ché, se a madonna io m’appressasi quanto
me ne dilungo, et fusse speme al fine
del rio camin poi respirarle a canto,
40et le man bianche più che fresche brine
baciarle, e insieme questi avidi lumi
pascer de le bellezze alme e divine,
poco il mal tempo et loti et sassi et fiumi
mi darian noia, et mi parrebbon piani
45e più che prati molli erte et cacumi.
Ma quando avien che sì me ne allontani,
l’amene Tempe et del re Alcino li orti
che puon se non parermi horridi et strani?
Li altri in le lor fatiche hanno conforti
50di riposarsi da poi, et questa spene
li fa patir l’aversità più forti.
Non più tranquille già, né più serene
hore attender posso io, m’al fin di queste
pene et travagli, altri travagli et pene,
55altre pioggie al coperto, altre tempeste
di suspiri et de lacryme mi aspetto
che mi sien più continue et più moleste.
Duro serammi più che sasso il letto,
e ’l cor trottar per tutta questa via
60mille volte ogni dì serà constretto.
Languido il resto de la vita mia
si struggerà di stimulosi affanni,
percosso ognhor di penitentia ria.
Et mesi, l’hore e i giorni a parer anni
65comincieranno, et diverrà sì tardo
che parrà il tempo aver tarpato i vanni:
che già, aspettando di furar un sguardo
da la invitta beltà, da l’immortale
valor, da’ bei sembianti onde tutto ardo,
70vedea fuggir più che da corda strale.
24
Gentil città, che con felici auguri
dal monte altier, che forse ben per sdegno
ti mira sì, qua giù ponesti i muri,
come dal meglio di Toscana hai regno,
5così del tutto havessi, ché ’l tuo merto
fora di questo et di più imperio degno.
Qual stil è sì facondo e sì diserto
che de le laudi tue corressi tutto
un così lungo campo et così aperto?
10Del tuo Mugnon potrei, quando è più asciutto,
meglio i sassi contar che dir a pieno
quel che ad amar e riverir m’ha indutto;
più presto che narar quanto si’ ameno
et fecondo il tuo pian che si distende
15tra verdi poggi in fin al mar Tireno,
o come lieto Arno lo riga e fende,
et quinci et quindi quanti freschi et molli
rivi tra via sotto sua scorta prende.
A veder pien di tante ville i colli
20par che ’l terren ve le germogli come
vermene germogliar suole e rampolli.
Se dentro un mur sotto il medesmo nome
fusser raccolti i tuoi palazzi sparsi
non ti serian da paregiare due Rome.
25Una so ben che mal ti può uguagliarsi
e mal forse anco havria possuto prima
che li edificcii suoi le fussero arsi
da quel furor che uscì dal freddo clima
hor de’ Vandali, 〈hor de’ Eruli,〉 hor di Goti,
30a l’italica rugine aspra lima.
Dove son, se non qui, tanti devoti,
dentro et di fuor d’arte e d’ampiezza eggregi
tempi, et di ricche oblation non vuoti?
Chi potrà a pien lodar li tetti regii,
35di tuoi privati i portici et le corti,
di magistrati et le corti et li seggi?
Non ha il verno poter ch’in te mai porti
di sua immondicia, sì ben questi monti
t’han lastricata fin alli angiporti.
40Piazze, mercati, vie marmoree, ponti,
tale belle opre de pittori industri,
vive sculture, intagli, getti, impronti;
e ’l popul grande, et di tanti anni e lustri
l’antique et chiare stirpe, le richezze,
45l’arti, li studii et li costumi illustri;
le leggiadre manere et le bellezze
de donne et de donzelle a cortesi atti
senza alcun danno d’onestade avezze;
et tanti altri ornamenti che ritratti
50porto nel cor meglio è tacer che al suono
di tanto humile avena se ne tratti.
Ma che larghe ti sian d’ogni suo dono
Fortuna a gara con Natura, ahi lasso,
a me che val s’in te misero sono,
55se sempre ho il viso mesto e il ciglio basso,
se de lacrime ho gli ochi humidi spesso,
se mai senza suspir non muto il passo?
Da penitentia et da dolor oppresso
di vedermi lontan da la mia luce
60trovomi sì ch’odio talhor me stesso.
L’ira, il furor, la rabbia mi conduce
a biastemar chi fu cagion ch’io venni,
e chi a venir mi fu compagno et duce,
et me, che senza me di me sostenni
65lasciar, ohimè, la meglior parte, il core,
et più all’altrui che al mio desir mantenni.
Che de richezza, de beltà, d’honore
sopra ogn’altra città de Etruria sali,
che fa questo, Fiorenza, al mio dolore?
70Gli tuoi Medici, anchor che sieno tali
che t’habian salda ogni tua antiqua piaga,
non han perhò rimedio alli mei mali.
Oltra a quei monti, a ripa l’onda vaga
del re de’ fiumi, in bianca e pura stola
75cantando ferma il sol la bella maga
che con sua vista può sanarmi sola.
25
Forza è ch’al fine scopra et che si veggia
il gaudio mio dianzi a gran pena ascoso,
anchor ch’io sappia che tacer si deggia,
et quanto dirlo altrui sia periglioso,
5perché sempre chi ascolta è più proclive
ad invidiar che ad esserne gioioso.
Ma come, poi che alle calde aure estive
si risciolveno e giacci et neve alpine,
crescono i fiumi a par de le sue rive,
10et alcun, disprezzando ogni confine,
rompe superbo li argeni et inonda
le biade e i paschi et le città vicine,
così, quando soverchia et sovrabonda
a quanto cape et può patir il petto,
15convien che l’allegrezza se difonda
et faccia rider gli occhi et ne l’aspetto
ir con baldanza, et d’ogni nebbia mostri
l’aer del viso disgravato et netto.
Come si fan con lor mordaci rostri
20l’ingrati figli porta per uscire
de li materni viperini chiostri
(sì de nascer li affretta il fer disire,
che non attendon che la matre grave
possa l’un dopo l’altro parturire),
25così li gaudii miei ch’in le più cave
parte posi di me, per tener chiusi,
niegan più star sotto custodia et chiave;
tentano altro camin, poi ch’io li exclusi
da quel che per la bocca, da chi viene
30dal petto, par che per più trita s’usi.
Di passar quindi homai tolta ogni spene,
se ne vengon per gli occhi et per la fronte,
dove raro o non mai guardia si tiene:
guardar si suole o strada o guado o ponte,
35luoco facile a intrar, non dove sia
fiume profondo o inaccessibil monte.
Poi che vietar non posso a lor tal via,
che non faccian peggior effetto al meno
porrò ogni sforzo et ogni industria mia.
40Sappil chi ’l vuol saper ch’io son sì pieno,
sì colmo di leticia et di contento
che non lo cape a una gran parte il seno.
Ma la cagion del gran piacer ch’io sento
non vuo’ che soni voce o snodi lingua
45et faccia Dio, se mai di ciò mi pento,
che l’una svelta sia, l’altra s’extingua.
26
O più che ’l giorno a me lucida et chiara,
dolce, gioconda, aventurosa notte,
quanto men ti sperai, tanto più cara!
Stelle a furti d'amore soccorrer dotte,
5che minuisti il lume, né per vui
mi fur l’amiche tenebre interrotte!
Sonno propicio, che lasciando dui
vigili amanti soli, così oppresso
havevi ogn’altro che invisibil fui!
10Benigna porta, che con sì summesso
et con sì basso suon mi fusti aperta
ch’a pena ti sentì chi t’era appresso!
O mente anchor di non sognar incerta,
quando abbracciar da la mia dea mi vidi
15et fu la mia con la sua bocca inserta!
O benedetta man ch’indi mi guidi,
o cheti passi che m’andati inanti,
o camera che poi così m’affidi!
O complessi iterati, che con tanti
20nodi cingeste i fianchi, il petto, il collo
che non ne fan più l’edere o li acanti!
Bocca, ove ambrosia libo, né satollo
mai me ritorno; o dolce lingua, o humore
per cui l’arso mio cor bagno et rimmollo!
25Fiato, che spiri assai più grato odore
che non porta da l’Indi o da’ Sabei
phenice al rogo in che s’incende et more!
O letto, testimon de’ piacer miei,
letto, cagion ch’una dolcezza io gusti
30che non invidio il lor nectare ai dèi;
o letto, donator de’ premi giusti,
letto, che spesso in l’amoroso assalto
mosso, distratto et agitato fusti!
Voi tutti, ad un ad un, ch’ebbi de l’alto
35piacer ministri havrò in memoria eterna
et quanto è il mio poter sempre vi exalto.
Né più debb’io tacer di te, lucerna,
che con noi vigilando il ben ch’io sento
vòi che con gli occhi anchor tutto discerna:
40per te fu duplicato il mio contento,
né veramente si pò dire perfetto
uno amoroso gaudio a lume spento.
Quanto più giova in sì suave effetto
pascer la vista hor degli occhi divini,
45hor de la fronte, hor de l’eburneo petto,
mirar le ciglia et l'aurei crespi crini,
mirar le rose in su le labra sparse,
porvi la bocca e non temer de’ spini;
mirar le membra a cui non può uguagliarse
50altro candore, e giudicar mirando
che le gratie del ciel non vi fur scarse;
et quando a un senso satisfar, et quando
all’altro, sì che ne fruiscan tutti,
et pur un sol non ne lasiare in bando.
55Deh, perché son d’amor sì rari i frutti
Deh, perché del gioir sì brieve il tempo?
Perché sì lunghi e senza fine i lutti?
Perché lassasti, ohimè, così per tempo,
invida Aurora, il tuo Titone antico,
60et del partir m’accelerasti il tempo?
Ti potessi io, come ti son nimico,
nocer così! Se ’l tuo vecchio t’annoia,
ché non ti cerchi un più giovene amico?
Et vivi et lascia altrui vivere in gioia!
27
O lieta piaggia, o solitaria valle,
o culto monticel che mi difendi
l’ardente sol con le tue ombrose spalle;
o fresco et chiaro rivo che discendi
5nel bel pratel tra le fiorite sponde
e dolce ad ascoltar mormorio rendi;
o se dryade alcuna si nasconde
tra queste piante, o s’invisibil nuota
liggiadra nimpha ne le gelide onde;
10o s’alcun fauno qui s’aventa et arruota,
o contemplando stassi alta beltade
d’alcuna diva a mortali occhi ignota;
o nudi sassi, o malagevol strade,
o tenere erbe, o ben nutriti fiori
15da tepide aure et liquide rugiade,
faggi, pini, genevri, olive, allori,
virgulti, sterpi o s’altro qui si trova
c’habbia noticia de’ mie’ antiqui amori,
parlar, anzi doler, con voi mi giova:
20che, come al vecchio gaudio, testimoni
mi siate anchora alla mestitia nova.
Ma pria che del mio mal oltra ragioni
dirò ch’io sia, quantunque de’ mie’ accenti
vi devrei esser noto ai primi suoni:
25ch’io solea i mei pensier lieti et contenti
narrarvi, et mi risposoro più volte
li cavi sassi alle parole attenti.
Ma stommi in dubio che l'acerbe et molte
pene amorose sì m’habbiano afflitto
30che le prime sembianze mi sien tolte.
Io son quel che solea, dovunque o dritto
arbor vedeva, o tuffo alcun men duro
de la mia dea lasciarvi il nome scritto;
io son quel che solea tanto sicuro
35già vantarmi con voi che felice era,
ignaro, ohimé, del mio destin futuro.
S’io porto chiusa la mia doglia fera
morir mi sento, e s’io ne parlo, acquisto
nome di donna ingrata a quella altiera.
40Per non morir revelo il mio cor tristo,
ma sol a voi, ch’in gli altri casi miei
sempre mai fidi secretari ho visto.
Quel ch’a voi dico ad altri non direi:
io credo ben che restaran con voi
45come già i boni, hor li accidenti rei.
Quella, ohimé, quella, quella, ohimé, da cui
con tant’alto principio di marcede
tra i più beati al ciel levato fui,
che di fervente amor, di pura fede,
50di strettissimo nodo da non sciorse
se non per morte, già speme mi diede;
hor non m’ama, né prezza, et odia forse,
et sdegno et duol credo che ’l cor le punga
ché ad essermi cortese unqua si torse.
55Una dilatïon già mi era lunga
d’una notte intermessa, et hor, ahi lasso,
il mio contento a misi si prolunga.
Né se scusa ella che non mi apra il passo
perché non possa, ma perché non vole:
60et qui si ferma et io suplico a un sasso,
anzi a una crudel aspide che suole
atturarsi l’orecchie, acciò placarse
non possa per dolcezza di parole.
Non pur al suavissimo abbracciarse
65de l’amorose lotte, e ai dolci furti
le dolce notte a ritornare son scarse,
ma quelli bacci anchora, a’ quai risurti
miei vital spirti son spesso da morte,
mi niega, o mi dà a forza, secchi et curti.
70Le belle luci, ohimé, questo è il piu forte,
si studian che di lor men fruir possa,
poi che si son di più piacermi accorte.
Così quando una et quando una altra scossa
dà per sveller la speme di cui vivo,
75per cui morrò se fia da me rimossa.
O di voi ricco, donna, o di voi privo
esser non può che più di me non v’ami
et me, per voi sprezzar, non habbia a schivo,
sì che pel danno mio ch’io mi richiami
80di voi, non vi crediate: più me spiace
che questo troppo il vostro nome infami.
Ogni lingua di voi serà mordace,
se s’odi mai ch’un sì benigno giogo
rotto habbia o sciolto il vostro amor fugace.
85O non legarlo, o non scior fin al rogo
dovea ché in ogni caso, ma più in questo,
mal dopo il fatto il consigliarse ha luogo.
El pentir vostro esser dovea più presto,
et se ben d’ogni tempo non potea
90se non molto parermi acre et molesto,
et voi non potevate se non rea
esser de ingratitudine, se tanta
servitù senza premio si perdea,
pur io non sentirei la doglia quanta
95la sento per memoria di quei frutti
ch’hor mi niega d’accor l’altiera pianta.
L’esserne privo causa maggior lutti,
poi ch’io n’ho fatto il saggio, che non fora,
s’havuti ognhor n’avesse i denti asciutti.
100D’ingrata et di crudel dar nota alhora
io vi potea; d’ingrata et di crudele,
ma di più, dar di perfida posso hora.
Hor queste sieno l’ultime querele
ch’io ne faccia ad altrui; non men secreto
105vi serò ch’io vi sia stato fedele.
Voi, colli et rivi et nimphe et ciò ch’a drieto
ho nominato, per Dio, quanto io dico
qui con voi resti, così sempre lieto
stato vi serbi ogni elemento amico.
28
Qual son, qual sempre fui, tal esser voglio,
alto o basso fortuna che mi rote,
o siami Amor benigno, o mi usi orgoglio.
Io son di vera fede imobil cote,
5che ’l vento indarno, indarno il flusso alterno
del pelago d’amor sempre percote:
né già mai per bonaccia, né per verno,
di là dove il distin mi fermò prima,
luoco mutai, né mutarò in eterno.
10Vedrò prima salir verso la cima
de l’alpe i fiumi e s’aprirà il diamante
con legno, o piombo, e non con altra lima,
che possa il mio distin mover le piante
se non per gire a voi, che possa ingrato
15sdegno d’Amor rompermi il cor costante.
A voi di me tutto il dominio ho dato:
so ben che da la mia non fu mai fede
meglior giurata in alcun nuovo stato.
Et forse havete più ch’altri non crede,
20quando né al mondo il più sicuro regno
di questo, re né imperator possiede.
Quel ch’io v’ho dato ancho difesso tegno:
per questo voi né ad assoldar persona,
né de riparo havete a fare disegno.
25Nessuno, o che m’assalti o che mi pona
insidie, mai mi trovarà sprovista,
o mai d’havermi vinta havrà corona.
Oro non già, che i vili animi acquista,
mi acquistarà, né setro, né grandezza
30ch’al sciocco vulgo abbagliar suol la vista;
né cosa che mova animo a vaghezza
in me potrà mai più far quella prova
che ci fè il valor vostro et la bellezza.
Sì ogni vostra manera se ritrova
35scolpita nel mio cor ch’indi rimossa
esser non può per altra forma nuova.
Di cera egli non è che se ne possa
formar quando uno e quando altro sugello,
né cede ad ogni minima percossa.
40Amor lo sa che a l’intagliar di quello
ne l’idol vostro non ne levò scaglia,
se non con cento colpi di martello.
D’avorio et marmo et d’altro che s’intaglia
difficilmente, fatta una figura,
45arte non è che tramutar più vaglia.
È ’l mio cor di materia anco più dura:
può temer chi l’uccida o lo disfaccia
ma non può già temer che si’ scultura
d'Amor ch'in altra imagine lo faccia
29
De sì calloso dosso et sì robusto
non ha né dromedario, né elephante
l’odorato Indo o l’Ethiope adusto
che possa star, non che mutar le piante,
5se radoppiata gli è la soma, poi
che l’ha qual può patir, né può più inante.
Non va legno da Gade a i liti eoi
che di quanto portar possa non habbia
prescritti a punto li termini suoi:
10se, stivato di merce, anco di sabbia
più si rigrava et più, si caccia al fondo,
tal che né antena non appar, né gabbia.
Non è edificio, né cosa altra al mondo
fatta per sostentar che non ruine
15quando superchia le sue forze il pondo.
Non val corno, né acciai di tempre fine
a l’arco, et sia anchor quel ch’uccise Nesso,
che non si rompa a tirar senza fine.
Ahi, lasso, non è Atlante sì difesso
20dal ciel, Ischia a Tipheo non è sì grave,
non sotto Ethnos Enchelad’è sì oppresso,
come mi preme il gran peso che m’have
dato a portar mia stella o mio destino,
et che a principio sì m’era suave.
25Ma poi ch’io fui con quel drito a camino,
l’accrebbe ad ogni passo et accresce anco,
tal ch’io ne vo non pur incurvo et chino;
non pur io me ne sento afflitto e stanco,
ma se de più sol una dramma leve
30giunta mi sia, verrei subito a manco.
La nave son che, assai più che non deve
piena et grave, sen va per troppo carco
nel fondo onde mai più non se rileve.
Son quello oltra il dever sempre teso arco
35che per rompermi sto, non per ferire,
〈se di tirar l’arcier non è più parco〉.
Meta è al dolore quanto si può patire,
tal che ogni poca alteration che faccia
lo muta in spasmo et ne fa l’hom morire.
40Stolto serò quando io perisca et taccia
sotto il gran peso intolerando et vasto,
sì che dirò prima che oppresso giaccia,
c'ho fatto oltra il poter e a più non basto.
30
O ne’ miei danni più che ’l giorno chiara,
crudel, maligna et scelerata notte,
ch’io sperai dolce et hor trovo sì amara!
Sperai ch’uscir da le cimerie grotte
5tenebrosa devessi, et veggio c’hai
quante lampade ha il ciel teco condotte.
Tu, che di sì gran luce altiera vai,
quando al tuo pastorel nuda scendesti,
Luna, io non so s’havevi tanti rai:
10rimembriti il piacer ch’alhora havesti
d’abbraciar il tuo amante, et altro tanto
conosci che mi turbi et mi molesti!
Ah, non fu perhò il tuo, non fu già quanto
serebbe il mio, se non è falso quello
15di che il tuo Endimion si dona vanto;
ché non amor ma la mercé d’un vello,
che di candida lana egli t’offerse,
lo fe’ parere agli occhi tuoi sì bello.
Ma se fu amor che ’l freddo cor t’aperse
20et non brutta avaritia, come è fama,
lieva le luci a’ miei desiri adverse:
chi ha provato amor scoprir non ama
suoi dolci furti, ché non d’altra offesa
più che di questa amante se richiama.
25Oh che letitia m’è per te contesa!
Non è assai che Madonna mesi et anni
l’ha fra speme et timor fin qui suspesa?
Oh qual di ristorar tutti i mei danni,
oh quanta occasione hora mi vieti,
30che per fuggir ha già spiegati i vanni!
Ma scopri pur finestre, usci et pareti:
non havrà forza il tuo bastardo lume
che possa altrui scoprir nostri secreti!
Oh incivile et barbaro costume,
35ire a questa hora il populo per via
ch’è da ritrarsi alle quïete piume!
Questa licentia solo esser devria
a li amanti concessa et prohibita
a qualunque d’Amor servo non sia.
40O dolce sonno, i miei desiri aita!
Questi lincei, questi argi, c’ho d’intorno
a chiuder gli occhi et a possar invita.
Ma priego et parlo a chi non ode, e il giorno
s’appressa intanto, et senza frutto, ahi lasso,
45hor mi lievo, hor m’accosto, hor fuggio, hor torno.
Tutto nel manto ascoso a capo basso
vo per intrar; poi veggio apresso o sento
chi può vedermi et m’allontano et passo.
Che deb’io far? che posso io far tra cento
50occhi, fra tanti usci et finestre aperte?
Oh aspettato invano almo contento!
Oh disegni fallaci, oh speme incerte!
31
Ben è dura et crudel, se non si piega
donna a prometter quanto un suo fidele,
che lungamente l’ha servita, priega;
ma se promette largamente et che le
5promesse poi si scordi o non attegna,
molto è più dura et molto è più crudele,
né fermo un sì né fermo un non mai tegna,
pur come ogni parola che l’huom dice
all’orecchie de’ dei sempre non vegna.
10Et non sa anchor di quanto mal radice
questo gli sia, se ben non va col fallo
la pena alhor alhor vendicatrice;
ma lo segue ella con poco intervallo,
et ogni cor, che qui par sì coperto,
15trasparente è là su più che cristallo.
Promesso in dubbio non mi fu, ma certo
diceste darmi quel che, oltra l’havermi
promesso voi, mi si devea per merto.
Se promettendo havate pensier fermi
20d’attendere, indi li mutaste, io voglio
et ho perpetuamente da dolermi.
Del mio giudicio rio prima mi doglio,
che le speranze mie sparsi ne l’onde
credendomi fondarle in stabil scoglio.
25Dogliomi anchor che questo eror redonde
in troppa infamia a voi, perché vi mostra
volubil più che al vento arrida fronde.
Ma se diversa era la mente vostra
da le promesse, et altro era in la bocca,
30altro del cor ne le secrete chiostra,
questo fu inganno et più dirò che tocca
di tradimento, ma di par la fede
et per questo et per quel morta trabocca.
A queste colpe ogn’altra colpa cede:
35più si perdona a l’homicidio e al furto
ch’al pergiurarsi e a l’ingannare chi crede.
Né mi duol sì che ’l vostro attender curto
m’abbia summerso al fondo del martire,
al fondo onde non son mai più risurto,
40come che per vergogna né arrossire,
né segno alcuno per la fede rotta
〈di pentimento in voi veggio apparire.
La fede mai esser non dee corrotta,〉
o data a un solo o data che odan cento
45data in palese o data in una grotta.
Per la vil plebe è fatto il giuramento,
ma tra li spirti più ellevati sono
le simplici promesse un sacramento.
Voi, donne incaute, alle quali era bono
50esser belle nel cor come nel volto,
l’un di natura et l’altro proprio dono,
troppa baldanza et troppo arbitrio tolto
v’avete et di poter tutte le cose
forse vi par, perché potete molto.
55Se da le guancie poi cadon le rose,
fuggon le gratie, se riman la fronte
crespa, et le luci oscure et lacrimose,
se l’auree chiome et con tal studio conte
mutan color, se si fan brevi et rare,
60di vostri danni è vostra colpa fonte.
De la vostra beltà, che così spare,
forse natura prodiga non fora
se voi di vostra fe’ fusse più avare.
Ma donna in nessun luoco, a nessuna hora,
65d’ordire inganno altrui mai s’hebbe loda
sia a chi si vuol, né agl’inimici anchora.
E chi serà che con più biasmo s’oda,
notar di quel ch’agli congiunti suoi
o di sangue o d’amor cerchi usar froda?
70Tanto più a chi si fida! Hor chi di noi
eran più d’amor giunti et chi fidarsi
puote mai più ch’io mi facea di voi?
S’al merito e al demerito aspettarsi
l’huom deve il premio et il suplicio uguale,
75(né al punir, né al premiar son li dei scarsi),
come temo io che ve ne vegna male,
se ’l pentir prima e ’l satisfar non giunge
a cassar questo error più che mortale!
S’a voi per mia cagione o macchiar l’unge
80o vedési un crin mosso, ohimè, che doglia!
Sollo il pensarvi me da me disgiunge.
Voi de periglio et me di pena toglia
un pentir presto, un satisfarmi intiero;
che sia il debito vostro, et quel ch’io voglia,
85ch’a sapere habbia altri che voi non chero.
32
Mal si compensa, ahi lasso, un breve sguardo
all’aspra passion che dura tanto,
un interrotto gaudio a un fermo pianto,
4un partir presto a un ritornarvi tardo.
Et questo avien ché non fu pare il dardo,
né il fuoco par ch’Amor n’accese a canto:
a me il cor fisse, voi non toccò il manto,
8voi non sentite il foco ed io tutto ardo.
Pensai che ad ambi avesse teso Amore,
et voi devesse a un laccio coglier meco,
11ma me sol prese e lasciò andar voi sciolta.
Già non vid’egli molto a quella volta
che, s’avea voi, la preda era maggiore:
14et ben mostrò ch’era fanciulo et cieco.
33
Deh, voless’io quel che voler devrei!
Deh, serviss’io quant’è il servire accetto!
Deh, Madonna, l’andar fussi interdetto
4dove non vola speme ai disir miei!
Io son ben certo che non languirei
di quel colpo mortal ch’in mezo ’l petto,
non mi guardando, Amor mi diede, et stretto
8da le catene sue già non serei.
So quel ch’io posso et so quel che far degio;
ma più che giusta elettione, il mio
11fiero destino ho da imputar s’io fallo.
Ben vi vuo’ ricordar ch’ogni cavallo
non corre sempre per spronar, et vegio,
14per punger troppo, alcun farsi restio.
34
Occhi miei belli, mentre ch’i’ vi miro,
per dolcezza ineffabil ch’io ne sento,
vola come falcon c’ha seco il vento
4la memoria da me d’ogni martiro;
et tosto che da voi le luci giro,
amaricato resto in tal tromento,
che s’hebbi mai piacer non lo rammento:
8ne va il ricordo col primier sospiro.
Non sarei di vedervi già sì vago,
s’io sentisse giovar, come la vista,
11l’haver di voi nel cor sempre l’imago.
Invidia è ben se ’l guardar mio vi attrista,
et tanto più che quello ond’io m’appago
14nulla a voi perde, et a me tanto acquista.
35
Perché simil le siano et de li artigli
et del capo et del petto et de le piume,
se l’acutezza anchor non v’è del lume,
4riconoscer non vuol l’aquila i figli.
Una sol parte che non le somigli
fa che esser l’altre sue non si presume:
magnanima natura, alto costume,
8degno onde exempio un saggio amante pigli,
ché la sua donna sua creder che sia
non dee, s’a’ suoi piacer, s’a’ desir suoi
11s’a’ tutte voglie sue non l’ha conforme.
Non siate dunque in un da me diforme
perché mi si confaccia il più di voi:
14che o nulla o voi convien tutta esser mia.
36
Quando prima i crin d’oro et la dolcezza
vidi de gl’occhi et le odorate rose
de le purpuree labra et l’altre cose
4che in me crear di voi tanta vaghezza,
pensai che magior fosse la bellezza
di quanti pregi il ciel, donna, in voi pose,
ché ogn’altro alla mia vista si nascose
8troppo a mirar in questa luce avezza.
Ma poi con sì gran prova il chiaro ingegno
mi si mostrò che rimanere in forse
11mi fe’ che suo non fusse il primo loco.
Che sia maggior non so; so ben che poco
son disuguali et so che a questo segno
14altro ingegno o belezza unqua non sorse.
37
A che più strali, Amor, s’io mi ti rendo?
Lasciami viva e in tua prigion mi serra.
A che pur farmi guerra
s’io ti do l’arme e più non mi difendo?
5Perché assalirmi ancor se già son vinta?
Non posso più! Questo è quel fiero colpo
che la forza, l’ardir, che ’l cor mi tolle.
L’usato orgoglio ben danno et incolpo:
hor non recuso, di catene cinta,
10che mi meni captiva al sacro colle.
Lasciarmi viva e molle
carcere puoi sicuramente darmi,
ché mai più, Signor, armi
per essere contra a’ tuo’ disii non prendo.
38
Madonna, io mi pensai che ’l stare absente
da voi non mi dovesse esser sì grave,
s’a riveder il bel sguardo suave
4venia talhor, che già solea sovente.
Ma poi che ’l desiderio impatiente
a voi mi trasse, il cor perhò non have
meno una di sue doglie acerbe et prave,
8raddoppiar anzi tutte se le sente:
giovava il rivedervi, se sì breve
non era, ma per la partita dura
11mi fu un venen, non ch’un rimedio leve.
Così suol trar l’infermo in sepoltura
interrotto compenso: o non si deve
14incominciare, o non lasciar la cura.
39
Se con speranza di mercé perduti
ho i miglior anni in vergar tanti fogli,
et vergando dipingervi i cordogli
4che per mirare alte bellezze ho havuti,
et se sin qui non li so far sì arguti
che l’opra lor cor ad amarmi invogli,
non ho d’atender più che ne germogli
8nuovo valor ch’in questa età m’aiuti.
Dunque è meglio il tacer, Donna, che ’l dire,
poi che di versi miei non piglio altr’uso
11che delettare altrui del mio martire.
Se voi Phalare sete, io mi v’excuso
che non voglio esser quel che per udire
14dolce doler fu nel suo toro chiuso.
40
Perché, Fortuna, quel che Amor mi ha dato
vuommi contender tu: l’avorio et l’oro,
l’ostro et le perle et l’altro bel tesoro,
4di che esser mi credea ricco et beato?
Per te son d’apressarmeli vietato,
non che gioirne, e in povertà ne moro;
non con più guardia fu sul lito moro
8il pomo de l’Esperide servato.
Per una che era al precioso legno,
cento custodie a le richezze sono
11che Amor già di fruir mi fece degno.
Et è a lui biasmo: egli m’ha fatto il dono;
che possanza è la sua, se nel suo regno
14quel che mi dà non è a difender buono?
41
Spirto gentil, che sei nel terzo giro
del ciel fra le beate anime asceso,
scarco da mortal peso,
dove premio si rende a chi con fede
5vivendo fu de honesto amore acceso,
a me, che dal tuo ben non già sospiro,
ma di me che anchor spiro,
poi che al dolor che ne la mente sede
sopra ogn’altro crudel non si concede
10di metter fine all’angosciosa vita,
gli occhi che già mi fur benigni tanto
volgi alli miei, ch’al pianto
apron sì larga et sì continua uscita;
vedi come mutati son da quelli
15che ti solean parer già così belli.
La infinita ineffabile bellezza
che sempre miri in ciel non te distorni
che gli occhi a me non torni,
a me, che già mirando ti credesti
20di spender ben tutte le notti et i giorni;
e se ’l levarli alla suprema altezza
ti leva ogni vaghezza
di quanto mai qua giù più caro havesti,
la piatà al men cortese mi ti presti
25ch’in terra unqua non fu da te lontana.
Et hora io n’ho d’haver più chiaro segno,
quando nel divin regno,
dove senza me sei, n’è la fontana;
s’amor non può, donque, piatà ti pieghi
30d’inchinare il bel sguardo alli miei prieghi.
Io sono, i’ son ben dessa; or vedi come
m’ha cangiata il dolor fiero et atroce,
ch’a fatica la voce
può di me dar riconoscenza vera.
35Lassa, che al tuo partir partì veloce
da le guance, da gl’occhi e da le chiome
quella a cui davi nome
tu di beltà, et io n’andava altera
che mel credea, poi che in tal pregio t’era.
40Ch’ella da me partisse allhora, et s’ancho
non tornasse mai più, non mi dà noia,
poi che tu, a cui sol gioia
di lei dare intendea, mi vieni manco;
non voglio, non, s’anch’io non vegno dove
45tu sei, che questo o ch’altro ben mi giove.
Come possibil è, quando soviemme
del bel sguardo soave ad hora ad hora,
che spento ha sì breve hora,
o di quel dolce lieto riso extinto,
50che mille volte io non sia morta o mora?
Perché, pensando all’ostro et alle gemme
ch’avara tomba tiemme,
di ch’era il viso angelico distinto,
non scoppia il duro cor dal dolor vinto?
55Come è ch’io viva, quando mi rimembra
ch’empio sepolcro et invidiosa polve
contamina et disciolve
le delicate alabastrine membra?
Dura condition ch’è morte et peggio:
60patir di morte e insieme viver deggio.
Io sperai ben di questo carcer tetro,
che qui mi serra, ignuda anima sciorme,
et correr dietro all’orme
de li tuoi santi piedi, et teco farme
65de le belle una in ciel beate forme;
ch’io crederei, quando ti fusse dietro
e insieme udisse Pietro
et di fede et d’amor da te lodarme,
che le sue porte non potria negarme.
70Deh, perché tanto è questo corpo forte,
che né la lunga febre, né il tormento
che magior nel cor sento
potesse trarlo a desiata morte,
sì che lasciato havessi il mondo teco,
75che senza te, ch’eri suo lume, è cieco?
La cortesia e il valor che stati ascosi
non so in qual antri et latebrosi lustri
eran molt’anni et lustri,
et che poi teco apparvero, et la speme
80che, in più matura etade, all’opre illustri
pareggiassi di Publi et Gnei famosi
suoi fatti gloriosi,
sì che a sentire havessero l’extreme
genti ch’anchor vivea di Marte il seme,
85hor più non veggio; né da quella notte
che agli occhi miei lasciasti un lungo oscuro,
mai più veduti furo,
ché ritornaro a lloro antique grotte,
e per disdegno congiuraron, quando
90del mondo uscir, torne perpetuo bando.
Del danno suo Roma infelice accorta
disse: «Poi che costui, Morte, mi tolli,
non mai più i sette colli
duce vedran che trionfando possa
95per sacra via trar catenati colli.
De l’altre piaghe ond’io son quasi morta
forse sarei risorta;
ma questa è in mezzo il cor quella percossa
che da me ogni speranza m’ha rimossa».
100Turbato corse il Tibro alla marina,
e ne diè annoncio ad Ilia sua, che mesta
gridò piangendo: «Hor questa
di mia progenie è l’ultima ruina».
Le sante nimphe e i boscarecci dei
105trassero al grido a lacrimar con lei.
E fu sentito e ’n l’una, e ’n l’altra riva
pianger donne et donzelle, figlie et matri,
e da purpurei patri
alla più bassa plebbe, il popul tutto,
110e dire: «O patria, questo dì fra gli altri
de Alia e di Canne a’ posteri se scriva,
que’ giorni che captiva
restasti et che ’l tuo imperio fu distrutto,
né più di questo son degni de lutto».
115E ’l desiderio, signor mio, e ’l ricordo
che di te in tutti gl’animi rimaso,
non trarà già a l’occaso
sì presto il violento fato ingordo,
né potrà far che, mentre voce e lingua
120formin parole, il tuo nome s’extingua.
Pon’ questo apresso l’altre pene mie:
che di salir al mio signor, canzone,
sì ch’oda tua ragione,
d’ogn’intorno te son chiuse le vie.
125Piacesse a’ venti al men di riportarli
che di lui sempre pensi, o pianga, o parli.
42
O qual tu sia nel cielo, a chi concesso
ha la Piatà infinita che rilevi
qualonque ingiustamente vedi oppresso,
li affettuosi miei prieghi ricevi
5et non lasciar che questa febre audace
quant’hoggi è al mondo di bellezza levi.
Due volte ha già, poi che madonna giace,
perduto et altretanto il freddo lume
rischiarato il pianeta che più tace,
10sì che di su l’avorio si consume
quell’ostro, quel che di sue man vi sparse
la dea che nacque in le salate spume;
et quei begli occhi in che mirando s’arse
le penne Amor e sì scorcios’ei l’ale,
15ch’indi non puote mai dopo levarse,
moveno, afflitti dal continuo male,
tanta piatà che ’l ciel metton sovente
qua giù in dispetto, in odio acre et mortale.
Perché patir debb’ella? Ove si sente
20divina o humana legge o usanza alcuna
che dar pena consenta a una innocente?
Innocente è Madonna, se non d’una
colpa forse, che l’avida mia voglia
sempre ha lasciata oltre il dover digiuna:
25s’a me non duole, ad altri non ne doglia;
s’io sol ne sono offeso e le perdono,
ingiusto è ch’altri a vendicar mi toglia.
Così quanto di lei creditor sono
del mio leal servir di cotanti anni,
30dipenno tutto et volentier le dono;
né pur la ricompensa de’ miei danni
non le dimando, ma per un sofferto
ch’habbia per lei soffrir vuo’ mille affanni.
Et s’huom mai s’exaudì che si sia offerto
35poner la sua per l’altrui vita, come
quel Curtio che saltò nel foro aperto,
et Decio, e ’l figlio del medesmo nome,
che tolse de la patria tremebonda
sopra li homeri suoi tutte le some,
40o Padre eterno, i mei prieghi seconda:
fa’ ch’io languisca, et che Madonna sani;
fa’ ch’io mi doglia, et torna lei gioconda.
Et se morir me dee (che perhò vani
sieno li auguri), di morir per lei
45supplico, e al Ciel ne lievo ambe le mani.
Io, perché essere anchora non potrei
messo all’elettion, messo al partito
che fu già un Gracco e un Re de li Pherei?
So ben che ’l miglior d’essi havrei seguito:
50quel che a far per Cornelia gire a morte
non bisognò, se non il proprio invito.
Odiosa fu la tua contraria sorte,
ingratissimo Admeto, che, agli casti
prieghi inclinando, la fedel consorte
55morir per te nel più bel fior lasciasti.
43
Del bel numero vostro avrete un manco,
Signor, ché qui rest'io dove Apenino
d'alta percossa aperto mostra il fianco,
che, per agevolar l’aspro camino,
5Flavio gli diede in ripa l’onda c’hebbe
mal fortunata un capitan Barchino.
Restomi qui: né, come Amor vorebbe,
posso Madonna satisfar, né a voi
l’obligo scior che la mia fe’ vi debbe.
10Tiemme la febre, et più ch’ella m’annoi,
m’arde et strugge il pensar che la importuna,
quel che devea far prima, ha fatto poi.
Ché s’ero per restar privo de l’una
mia luce, al men non devea l’altra tormi
15la sempre aversa a’ miei disir Fortuna.
Deh, perché quando honestamente sciormi
dal debito potea, che qui mi trasse,
non venne più per tempo in letto a pormi?
Non fu mai sanità che sì giovasse
20a peregrino infermo, che tra via
da la patria lontan compagno lasse,
come giovato a me il contrario havria:
un languir dolce, che con scusa degna
m’havesse havuto di tener balìa.
25Io so ben quanto mal mi si convegna
dir, Signor mio, che fra sì lieta schiera
io malcontento sol dietro vi vegna;
ma mi fido ch’a voi, che de la fiera
punta d’Amor chiara notitia havete,
30debba la colpa mia parer leggiera.
Così vi sien tutte le imprese liete,
come è ben ver ch’ella talhor v’ha punto,
né sano forse anchora hoggi ne sete.
Sapete dunque s’havria mal assunto
35chi negasse seguir quel ch’egli accenna,
quando n’ha sotto il giogo il collo aggiunto.
Né per spronare o caricar d’antenna
si può fuggir, o con cavallo o nave
che non ne giunga in un spiegar di penna.
40Tal fallo poi di punition sì grave
punisce, ohimè, ch’io ve so dir che morte
verso quella a patir seria men grave.
Questo tyran non men crudel che forte,
ch’anchor mai perdonar non seppe offesa,
45né lascia entrar pietà ne la sua corte,
(perché mille fiate et più contesa
m’havea la lunga via, che sì m’absenta
da quella luce in c’ho l’anima accesa),
de la inobedientia hor mi tormenta
50con così gravi e sì penosi affanni
che questa febre è il minor mal ch’io senta.
Lasso, chi sa ch’io non sia al fin degli anni?
Chi sa ch’avida Morte hor non mi tenda
qui la rete d’intorno in che m’appanni?
55Ah, chi serà nel ciel che mi diffenda
da questa insidiosa a cui per voto
uno hynno poi di mille versi renda,
et nel suo tempio a tutto il mondo noto
in tavola il miracolo rimanga
60come sia per lui salvo un suo divoto?
Ché se qui moro non ho chi mi pianga:
qui sorelle non ho, non qui matre
che sopra il morto corpo il capel franga,
né quatro frati miei che con vesti atre
65m’accompagnino al lapide che l’ossa
devria chiuder del figlio allato il patre.
Madonna non è qui ch’intender possa
il miserabil caso, et che l’exangue
cadavero portar veggia alla fossa;
70onde forse pietà, che ascosa langue
nel freddo petto, si riscaldi et faccia
d’insolito calor arder il sangue.
Che s’ella anchor l’exanimata faccia
mira, a quel punto ho quasi certa fede
75ch’esser non possa che più il corpo giaccia.
Se del figliol di Japeto si crede
ch’a una statua di creta con un poco
del phebeo lume humana vita diede,
perché non crederò che ’l vital foco
80susciti ai raggi del mio sol, qui dove
troverà anchor di sé tepido il loco?
Deh, non si vegna a sì dubbiose prove!
Più sicuro et più facil è sanarmi
che constringer i fati a legge nove.
85Se pur è mio destin che debbia trarmi
in scura tomba questa febre, quando
non possa voto o medecina aitarmi,
Signor, per gratia extrema vi domando
che non vogliate da la patria cara
90che sempre stian le mie reliquie in bando.
Al men l’inutil spoglie habbia Ferrara
e su l’avel che le terrà sotterra
la causa del mio mal si legga chiara:
«come né pesce a l’aqua, né alla terra
95talpe, né al fuoco le piral remote,
così né anchor chi questo marmo serra
viver lontan da la sua donna puote».
44
Piaccia a cui piace, et chi lodar vuol lodi,
et chiami vita libera et sicura
trovarsi fuor degli amorosi nodi;
ch’io per me stimo chiuso in sepultura
5ogni spirto che alberghi in petto, dove
non stilli Amor la sua vivace cura.
Doglia a cui vol doler, ch’ove si move
questo dolce pensier, che falsamente
è detto amar, ogn’altro indi rimove;
10ch’io per me non vorrei, se d’excellente
nectar ho copia, che turbassi altr’esca
el delicato gusto di mia mente.
Prema a cui premer vuol, annoi e incresca
che, se non dopo un’aspra et lunga pena,
15raro un disegno al bel desir riesca;
ch’io per me so ch’a una allegrezza piena
ir non si può, se per difficil via
ostinata speranza non vi mena.
Pensi chi vuol ch’alla fatica ria,
20al tempo ch’in gran summa vi si spende
debil guadagno et leve premio sia;
ch’io per me dico che, se quanto offende
sdegno o repulsa, un sguardo sol ristora,
che fia pel maggior ben ch’Amor ne rende?
25Para cui par che perda ad hora ad hora
mille doni d’ingegno et di fortuna
mentre il suo intento qui fisso dimora;
ch’io per me, pur ch’io sia caro a quell’una
ch’è mio honor, mia ricchezza et mio desire,
30non ho all’altrui corone invidia alcuna.
Ricordisi chi vuole ingiurie et ire,
et discortese oblii li piacer tanti
che tante volte l’han fatto gioire;
ch’io per me non ramento ignun de quanti
35oltraggi unqua potermi arreccar doglia,
e i dolci affetti ho sempre tutti inanti.
Pensi chi vuol che ’l tempo i lacci scioglia
che Amor annoda, et che si dorrem ancho
nomando questa leve et bassa voglia;
40ch’io per me voglio al capel nero e al bianco
amare et exortar sempre che s’ami;
et s’in me tal voler dee venir manco
spezzi or la Parca alla mia vita i stami.
45
O vera o falsa che la fama suone,
i’ odo dir che l’orso ciò che trova
quand’è ferito in la piaga si pone:
hor un’erba, hor un’altra, e talhor prova
5et stecchi et spini et sassi et acqua et terra,
che affligon sempre, et nulla mai gli giova:
vol pace, et egli sol si fa la guerra,
cerca da sé scacciar l’aspro martire
et egli è quel che se lo chiude et serra.
10Ch’io sia simile a lui ben posso dire
ché, poi che Amor ferimmi, mai non cesso
a nuovi impiastri le mie piaghe aprire,
hor a ferro, hor a foco, et avien spesso
che, cercandovi por che mi dia aita,
15mortifero venen dentro v’ho messo.
Io volsi al fin provar se la partita,
s’il star da le repulse et sdegni absente
potessi risanar la mia ferita,
quando provato havea ch’era possente
20trarmi ad irreparabile ruina
a voi senza mercé l’esser presente.
Ché, s’un contrario all’altro è medicina,
non so perché, da l’un pigliando forza,
per l’altro la mia doglia non declina:
25piglia forza da l’uno, et non s’ammorza
per l’altro già; né già si minuisce,
anzi più per l’absenza si rinforza.
Io solea dir fra me: «Dove gioisce
felice alcuno in riso, in festa, in gioco,
30non sto bene io, ché Amor qui si notrisce»;
et con speranza che giovar non poco
mi devessi il contrario, io venni in parte
dove i pianti et le strida havevan loco.
Il ferro, el foco, et l’altre opre di Marte
35vedere in danno altrui pensai che fosse
a risanare un misero buona arte.
Io venni dove le campagne rosse
eran del sangue barbaro et latino
che fiera stella dianzi a furor mosse;
40et vidi un morto all’altro sì vicino
che senza premer lor quasi il terreno
a molte miglia non dava il camino;
et da chi alberga tra Garonna e ’l Reno
vidi uscir crudeltà che ne devria
45tutto el mondo d’horror rimaner pieno.
Non fu la doglia in me perhò men ria,
né vidi far d’alcun sì fiero stratio
che pareggiasse la gran pena mia:
grave fu il lor martir, ma breve spatio
50di tempo diè lor fin. Ah, crudo Amore,
che d’accrescermi il duol non è mai satio!
Io notai che ’l mal lor li trahea fuore
del mal, perché sì grave era che presto
finia la vita insieme col dolore;
55il mio mi pon fin su le porte, e questo
medesmo ir non mi lascia, et torna indrieto
et fa che mal mio grado in vita resto.
Io torno a voi, né del tornar son lieto
più che del partir fussi, et duro frutto
60de la partita et del ritorno mieto.
Havendo dunque de’ rimedii il tutto
provato ad uno ad un, fuor che l’absenza
ch’al fin provar m’havea il mio errore indutto,
et visto che mi noce, hor resto senza
65conforto ch’altra cosa più mi vaglia,
ch’in van di tutte ho fatto experienza;
et son le maghe lungi di Tessaglia,
che con radici, imagini et incanti
oprando possan far ch’io mi rivaglia.
70Eo non ho da sperar più, da qui inanti,
se non che ’l mio dolor cresca sì forte
che, per trar voi di noia et me di tanti
et sì lunghi martir, mi dia la morte.
46
Chi pensa quanto il bel disio d’amore
un spirto pelegrin tenga sublime,
non voria non haverne acceso il core;
se pensa poi che quel tanto n’opprime
5che l’util proprio e il vero ben s’oblia,
piange in van del suo ardor le cagion prime.
Chi gusta quanto dolce un creder sia
solo esser caro a chi sola n’è cara,
regna in un stato a cui null’altro è pria;
10se poi non esser sol, misero, impara
e cerca in van come ingannar sé stesso,
se vita ha poi, l’ha più che morte amara.
Chi non sa quanto aggrada essere appresso
a’ bei sembianti, al bel parlar soave
15che n’ha sì facilmente il giogo messo?
Se caso poi più del voler forza have,
che ne faccia ir lontan, si riman carco
di peso più de tutti gli altri grave.
Chi mira il viso a cui non fu il ciel parco
20di gratia ignuna, benedice l’hora
che, per pigliarlo, Amor l’attese al varco;
se, come in van risponde al bel di fora,
il mutabil voler di dentro mira,
chi ’l prese biasma e maledice ognhora.
25Chi non resta contento, o più disira
quando Madonna con parole e sguardi
dolce favor cortesemente spira?
S’avien ch’altrove intenda, o non ti guardi,
qual sulphure arde, qual pece, qual teda,
30qual Enchelado sì come tu ardi?
Chi conosce piacer che quello exceda,
ch’ella ti faccia parer falso un vero
che te può far morir quando tu ’l creda?
S’altrui suasione o mio pensiero
35mostra poi che gli è pur come io temea,
si può miracol dir s’alhor non pero.
Chi può stimar il gaudio che si crea
in quei dui giorni o tre quai dopo aspetto
un promesso ristor da la mia dea?
40Se diverso al sperar segue l’effetto,
(né per lei trovo escusa se non frale)
non so come tal duol capisca il petto.
Chi pensa in summa che, per quante scale
s’ascende al ben d’amor, per altre tante
45poi si ruina, sa ch’è minor male
smontar che per cader salir più inante.
47
Non senza causa il giglio e l’amaranto,
l’uno di fede e l’altro fior d’amore,
di bel liggiadro lor vago colore,
4Vergine illustre, v’orna il sacro manto.
Candido e puro l’un mostra altro tanto
in voi candore et purità di core;
all’animo sublime l’altro fiore
8di constantia real dà il pregio e il vanto.
Come egli al sole e al verno, fuor d’usanza
d’ogni altro germe, ancor che forza il sciolga
11dal natio humor, sempre vermiglio resta,
così vostra alta intentione honesta,
perché Fortuna la sua rota volga
14come a lei par, non può mutar sembianza.
48
Come creder debbo io che Tu in ciel oda,
Signor benigno, i miei non caldi prieghi,
se, gridando la lingua che mi sleghi,
4Tu vedi quanto il cor ne’ llacci goda?
Tu che ’l vero conosci, me ne snoda,
e non mirar ch’ogni mio senso il nieghi;
ma prima il fa’ che, di me carco, pieghi
8Caron il legno alla dannata proda.
Iscusi l’error mio, Signor eterno,
l’usanza ria, che par che sì mi copra
11gli occhi che ’l ben dal mal poco discerno.
L’haver pietà d’un cor pentito anco opra
è di mortal; sol trarlo da l’inferno
14mal grado suo pòi Tu, Signor, di sopra.