CANTO DECIMOQUINTO
1
El giusto Dio, quando i peccati nostri
han di remissïon passato il segno,
acciò che la giustitia sua dimostri
ugual alla pietà, spesso dà regno
a tyranni atrocissimi et a mostri,
e dà lor forza et di mal far ingegno.
Per questo Mario et Sylla pose al mondo,
et duo Neroni et Caio furibondo,
2
Domitïano e il figlio d’Antonino;
e tolto da la immonda e bassa plebe
exaltò nel Imperio Maximino;
e nascer prima fe’ Creonte a Thebe;
e diè Mezentio al populo Agilino,
che grasse fe’ di sangue human le glebe;
e diede Italia a tempi men remoti
in preda agli Hunni, ai Longobardi, ai Gothi.
3
Che d’Atila dirò? che de l’iniquo
Ezzellin da Roman? che d’altri cento?
che dopo lungo andar sempre in obliquo,
ne manda Dio per multa et per tormento.
Di questo haven non pur al tempo antiquo,
ma anchora al nostro chiaro experimento,
quando a noi, greggi inutili et mal nati,
ha dato per guardian lupi arrabbiati;
4
a cui non par c’habbia a bastar lor fame,
c’habbia il lor ventre a capir tanta carne;
e chiaman lupi di più ingorde brame
da boschi oltramontani a divorarne.
Di Trasimeno l’insepulto ossame,
di Canne e Trebbia poco e d’Allia parne
verso quel che le ripe e i campi ingrassa,
dove Ada e Mella e il Ronco e il Tarro passa.
5
Hor Dio consente che noi siàn puniti
da populi di noi forse peggiori,
de li multiplicati et infiniti
nostri nefandi, obbrobrïosi errori.
Tempo verrà che a depredar lor liti
andaren noi, se mai saren migliori
e li peccati lor giungano al segno,
che l’eterna Bontà muovano a sdegno.
6
Deveano allhora haver li excessi loro
di Dio turbata la serena fronte,
ch’ogni lor luoco scórse il Turco e il Moro
con stupri, uccisïon, rapine et onte:
ma più di tutti li altri danni, fôro
gravati dal furor di Rodomonte.
Dissi c’hebbe di lui la nuova Carlo,
et che in piazza venìa per ritrovarlo.
7
Vede tra via la gente sua troncata,
arsi i palazzi et ruinati i templi,
gran parte de la terra desolata:
mai non si vider sì crudeli exempli.
– Dove fuggite turba spaventata?
non è tra voi chi ’l danno suo contempli?
Che città, che refugio più vi resta
quando si perda sì vilmente questa?
8
Dunque un huom solo in vostra terra preso,
cinto di mura onde non può fuggire,
si partirà per viltà vostra illeso
quando tutti v’havrà fatto morire? –
Così Carlo dicea, che d’ira acceso
tanta vergogna non potea patire;
et giunse dove inanti alla gran corte
vide il Pagan por la sua gente a morte.
9
Quivi gran parte era del populazzo,
sperandovi trovar aiuto, ascesa;
perché forte di mura era il palazzo,
con munition da far lunga difesa.
Rodomonte, di orgoglio e d’ira pazzo,
solo s’havea tutta la piazza presa:
e l’una man, che prezza il mondo poco,
ruota la spada, e l’altra getta el fuoco.
10
E de la regal casa, alta e sublime,
percuote e risuonar fa le gran porte.
Gettan le turbe da le excelse cime
et merli et torri, et si metton per morte;
guastar li tetti non è alcun che stime;
et legna et pietre vanno ad una sorte,
lastre, colonne e li dorati travi
che furo in prezzo a li lor padri et avi.
11
Sta quel crudel, et su la prima entrata
di ferrigno splendor lucido appare,
come il serpe che dianzi la vernata
pasciute ha ne le tane l’esche amare;
che poscia che la pelle ha rinovata
esce del scuro albergo all’aure chiare,
et le splendide scaglie et scorze nuove
superbo liscia e al sol girando muove.
12
Non sasso, merlo, trave, arco o balestra,
né ciò che sopra il Saracin percuote
ponno allentar la sanguinosa destra
che la gran porta taglia, spezza e scuote;
et dentro fatto le ha tanta finestra,
che ben veder e veduto esser puote
da’ visi impressi di color di morte
che tutta piena havean quivi la corte.
13
Risuonan dentro a’ spatïosi tetti
feminil gridi, gemiti et lamenti:
l’afflitte donne, percuotendo i petti,
corron per casa pallide et dolenti;
et abbracciano e li usci e i cari letti
come habbiano a lassarli a strane genti.
Tratta la cosa era in periglio tanto
quando il Re giunse, et suoi baroni a canto.
14
Carlo si volse a quelle man robuste
c’hebbe altre volte a gran bisogno pronte:
– Non sète quelli voi, che meco fuste
contra Agolante (disse) in Aspramonte?
Sono le vostre forze hora sì fruste
che, s’uccideste Lui, Troiano e Aimonte
con cento mila, hor ne temete un solo
che pur è di quel sangue et di quel stuolo?
15
Perché debbo veder minor fortezza
adesso in voi, ch’io la vedessi allhora?
Mostrate a questo Can vostra prodezza,
a questo Can che li huomini divora.
Un magnanimo cor morte non prezza,
presto o tardi che sia, pur che ben mora;
ma dubitar non posso ove voi sète,
che fatto sempre vincitor m’havete. –
16
Al fin de le parole urta il destriero,
con l’hasta bassa, al Saracino adosso.
Mossesi a un tratto il paladino Ugiero,
a un tempo Namo et Olivier s’è mosso,
Avino, Avolio, Othone et Belingiero,
ch’un senza l’altro mai veder non posso:
et tutti ferîr sopra a Rodomonte
et nel petto et ne’ fianchi et ne la fronte.
17
Ma lasciamo, per dio, signor, hormai
di parlar d’ira et ragionar di morte;
et sia per questa volta detto assai
del Saracin non men crudel che forte:
che tempo è ritornar dove lasciai
Griphon, giunto a Damasco in su le porte
con Horrigille perfida, et con quello
che adultero era, et non di lei fratello.
18
De le più ricche terre di Levante,
de le più populose e meglio ornate
si dice esser Damasco, che distante
siede a Hierusalem sette giornate,
in un piano fruttifero e abondante,
non men giocondo il verno che l’estate.
A questa terra il primo raggio tolle
de la nascente Aurora un vicin colle.
19
Per la città duo fiumi crystallini
vanno inaffiando per diversi rivi
un numero infinito di giardini,
che mai non son de fiori o frondi privi.
Dicesi anchor che macinar molini
potrian far l’acque Nanfe che son quivi;
e chi va per le vie vi sente, fuore
di tutte quelle case, uscirne odore.
20
Tutta coperta è la strada maestra
di panni di diversi color lieti,
et di odorifer herba et di silvestra
fronda la terra et tutte le pareti.
Adorna era ogni porta, ogni finestra
di finissimi drappi et di tapeti,
ma più di belle et ben ornate donne
di ricche gemme et di superbe gonne.
21
Vedeasi celebrar dentro alle porte
in molti luochi solazzevol balli;
il popul, per le vie, di miglior sorte
movea li ben guarniti et bei cavalli;
facea più bel veder la ricca corte
di principi, baroni et gran vassalli,
con ciò che d’India e d’Erithree Maremme
di perle haver si può, d’oro et di gemme.
22
Venìa Griphone et la sua compagnia
mirando quinci et quindi il tutto ad agio,
quando fermolli un cavalliero in via
et li fece smontare a un suo palagio;
e per l’usanza et per sua cortesia
di nulla li lasciò patir dissagio:
li fece in bagno entrar, poi con serena
fronte raccolse a sontüosa cena.
23
E narrò lor come il Re Norandino,
Re di Damasco e di tutta Sorìa,
fatto havea il paesano e il peregrino
ch’ordine havesse di cavalleria
alla giostra invitar, ch’al matutino
del dì seguente in piazza si faria;
et che s’havean valor pare al sembiante,
potrian mostrarlo senza andar più inante.
24
Anchor che quivi non venne Griphone
a questo effetto, pur l’invito tenne;
che qual volta se n’habbia occasïone,
mostrar virtude mai non disconvenne.
Interrogollo poi de la cagione
di quella festa, et s’ella era solenne
usata ogn’anno, o pur impresa nuova
del Re che i suoi veder volesse in pruova.
25
Rispose il Cavallier: – La bella festa
s’ha da far sempre ad ogni quarta luna:
de l’altre che verran la prima è questa;
anchora non se n’è fatta più alcuna.
Serà in memoria che salvò la testa
il Re in tal giorno da una gran fortuna,
dopo che quattro mesi in doglie e in pianti
sempre era stato, et con la morte inanti.
26
Ma per dirti la cosa pienamente,
il nostro Re, che Norandin s’appella,
molti et molt’anni ha havuto il cor ardente
per desiderio di Lucina bella,
figlia del Re di Cypro; et finalmente
l’hebbe per moglie, et si partì con quella,
con cavallieri et donne in compagnia,
sperando ritornarsene in Sorìa.
27
Ma poi che fummo tratti a piene vele
lungi dal porto nel Carpathio iniquo,
la tempesta saltò tanto crudele,
che sbigottì sino al padrone antiquo.
Tre dì e tre notti andammo errando ne le
minacciose onde per camino obliquo;
uscimmo al fin nel lito stanchi et molli
tra freschi rivi, ombrosi e verdi colli.
28
Piantar li padaglioni, et le cortine
fra li arbori tirar facemmo lieti;
s’apparecchiaro i fuochi et le cucine,
le mense d’altra parte in su tapeti.
Intanto il Re cercando alle vicine
valli era andato a’ boschi più secreti,
se ritrovasse capre o danni o cervi;
et l’arco gli portâr drieto duo servi.
29
Mentre che in gran piacer stiamo attendendo
che da cacciar ritorni il signor nostro,
vedemo l’Orco a noi venir correndo
lungo il lito del mar, terribil mostro.
Dio vi guardi, signor, ch’el viso horrendo
del Orco agli occhi mai vi sia dimostro:
meglio è per fama haver notitia d’esso,
che andargli, sì che lo veggiate, appresso.
30
Non gli può comparir quanto sia lungo,
sì smisuratamente è tutto grosso;
in luoco d’occhi, di color di fungo
sotto la fronte ha duo coccole d’osso.
Verso noi vien (come vi dico) lungo
el lito, e par ch’un monticel sia mosso;
mostra le zanne fuor come fa il porco,
ha lungo il naso, il sen bavoso e sporco.
31
Correndo vien, e il muso a guisa porta
ch’el bracco suol quando entra in su la traccia.
Tutti che lo veggiam con faccia smorta
in fuga andamo ove il timor ne caccia.
Poco il veder lui cieco ne conforta,
quando, fiutando sol, par che più faccia
ch’altri non fa, c’habbia odorato et lume:
et a fuggirne era uopo haver le piume.
32
Corron chi qua chi là; ma poco lece
fuggir da lui, veloce più ch’el Noto:
di quaranta ch’eramo, a pena diece
sopra il naviglio si salvaro a nuoto.
Sotto il braccio un fastel d’alcuni fece,
né ’l grembo si lasciò né ’l seno vuoto;
un suo capace Zaino impiessene ancho,
che gli pendea, come a pastor, dal fianco.
33
Portonne alla sua tana il Mostro cieco,
che stava in ripa al mar cava in un scoglio;
di marmo così bianco era quel speco
come esser soglia anchor non scritto foglio.
Quivi habitava una matrona seco,
di dolor piena in vista et di cordoglio;
et havea in compagnia donne et donzelle
d’ogni età, d’ogni sorte, et brutte et belle.
34
Era presso alla grotta in ch’egli stava,
quasi alla cima del giogo superno,
un’altra non minor di quella cava,
dove del gregge suo facea governo.
Tanto n’havea, che non si numerava;
et n’era egli il pastor l’estade e ’l verno:
gli apriva alli suoi tempi, et tenea chiuso,
per spasso che n’havea, più che per uso.
35
L’humana carne meglio gli sapeva,
et prima il fa veder che all’antro arrivi:
che tre de’ nostri gioveni che haveva
tutti li mangia, anzi trangugia vivi.
Viene alla stalla, e un gran sasso ne lieva:
ne caccia il gregge, e ne riserra quivi;
con quel sen va dove il suol far satollo,
suonando una zampogna c’havea in collo.
36
El signor nostro, intanto ritornato
alla marina, il suo danno comprende;
che truova gran silentio in ogni lato,
vuoti fraschati, padiglioni e tende.
Né sa pensar chi sì gli habbia rubato;
et pien di gran timor al lito scende,
onde i nocchieri suoi vede in disparte
l’ancore trarre e in opra por le sarte.
37
Tosto ch’essi lui veggono sul lito,
el palaschermo mandano a levarlo;
ma non sì presto ha Norandino udito
de l’Orco che venuto era a rubarlo,
che, senza più pensar, piglia partito,
dovunque andato sia, di seguitarlo:
vedersi tôr Lucina sì gli duole
che o racquistarla o non più viver vuole.
38
Dove vede apparir lungo la sabbia
la frescha orma, ne va con quella fretta
con che lo spinge l’amorosa rabbia,
fin che giunge alla tana ch’io v’ho detta;
ove con tema la maggior che s’habbia
a patir mai, l’Orco da noi s’aspetta:
ad ogni suono di sentirlo parne
che affamato ritorni a divorarne.
39
Quivi Fortuna il Re da tempo guida;
che senza l’Orco in casa era la moglie.
Come ella il vede: «Fuggine!» gli grida,
«misero te, se l’Orco te ci coglie!».
«Coglia (disse) o non coglia, o salvi o uccida,
che miserrimo i’ sia non mi si toglie:
disir mi mena, e non error di via,
c’ho di morir presso alla moglie mia».
40
Poi seguì dimandandole novella
di quei che prese l’Orco in su la riva;
prima de li altri, di Lucina bella,
se l’havea morta o la tenea captiva.
La donna humanamente gli favella
e lo conforta che Lucina è viva,
e che non è alcun dubbio ch’ella mora;
che mai femina l’Orco non divora.
41
«Esser di ciò argumento ti posso io
et tutte queste donne che son meco:
a noi non è mai l’Orco stato rio,
pur che partir non si vogliàn dal speco.
A chi cerca fuggir pon grave fio,
né pace mai pôn ritrovar più seco:
o le sotterra vive, o l’incatena,
o fa star nude al sol sempre in l’arena.
42
Quando hoggi egli portò qui la tua gente,
le femine da i maschi non divise;
ma, sì come l’havea, confusamente
dentro a quella spelonca tutti mise.
Sentirà a naso il sesso differente:
le donne non temer che siano uccise;
li huomini siane certo: et impieranne
di quattro, il giorno, o sei l’avide canne.
43
Di levar lei di qui non ho consiglio
che dar ti possa; e contentar te puoi
che ne la vita sua non è periglio:
starà qui al ben e al mal c’havremo noi.
Ma vattene (per dio), vattene, figlio,
che l’Orco non te senta e non te ingoi:
tosto che giunge, d’ognintorno annasa,
et sente sin a un topo che sia in casa».
44
Rispose il Re non si voler partire
se non vedea la sua Lucina prima;
e più presto voler con lei morire,
che viver senza lei, faceva stima.
Quando vede ella non poterli dire
cosa ch’el muova da la voglia prima,
per aiutarlo fa nuovo disegno,
e ponvi ogni sua industria, ogni suo ingegno.
45
Morte havea in casa, e in ogni tempo appese,
con lor mariti assai capre et agnelle,
onde a sé et alle sue facea le spese;
et dal tetto pendea più d’una pelle.
La donna fe’ ch’el Re del grasso prese
c’havea un gran becco intorno le budelle,
et che se n’unse dal capo alle piante
fin che l’odor cacciò ch’egli hebbe inante.
46
Et poi che ’l tristo puzzo haver gli parve
di che il fetido becco ognhora sape,
piglia l’hirsuta pelle et fallo intrarve,
sì spatïosa che tutto vi cape.
Coperto sotto a così strane larve,
per le corna carpon seco lo rape
là dove chiuso era da un sasso grave
de la sua donna il bel viso soave.
47
Norandin ubidisce; et alla buca
de la spelonca ad aspettar si mette,
acciò col gregge dentro si conduca;
e fin a sera disïando stette.
Ode la sera il suon de la sambuca,
con che invita a lasciar l’humide herbette
e ritornar le pecore all’albergo
l’horribile pastor c’hanno da tergo.
48
Pensate voi se gli tremava il core
quando l’Orco sentì che ritornava,
e il crudel viso pien di tanto horrore
vide appressar all’uscio de la cava;
ma puoté la pietà più ch’el timore:
vedi se ardeva o fintamente amava.
Vien l’Orco al speco, et lieva il sasso et apre:
Norandin entra fra pecore et capre.
49
Intrato il gregge, l’Orco a noi discende;
ma prima sopra sé l’uscio si chiude.
Tutti ne va odorando: al fin duo prende;
che vuol cenar de le lor carni crude:
al rimembrar di quelle zanne horrende
non posso far ch’anchor non tremi e sude.
Partito l’Orco, il Re getta la gonna
c’havea di becco, e abbraccia la sua donna.
50
Dove haverne piacer deve et conforto,
(vedendol quivi) ella n’ha affanno e noia:
lo vede giunto ove ha da restar morto;
et non può far perhò ch’essa non muoia.
«Con tutto il mal (diceagli) ch’io supporto,
sentia, signor, non medïocre gioia
che ritrovato non t’eri con nui
quando da l’Orco hoggi pigliata fui.
Che se ’l morir ben m’era duro et forte,
come è a ciascun per natural instinto,
sol pianto harei che havesse la mia sorte,
del mondo, in sul fiorir, mio viver spinto.
405Pianger la tua convienmi et la mia morte,
o prima o dopo me che tu sia extinto».
Et poi seguì, mostrando che del danno
havria di lui, più che del proprio, affanno.
52
«La speme (disse il Re) mi fa venire
c’ho di salvarte, et tutti questi teco:
et s’io nol posso far, meglio è morire
che senza te, mio Sol, viver poi cieco.
Come io ci venni, mi potrò partire;
et voi tutti altri ne verrete meco
se non havete, come io non ho havuto,
schivo a pigliar odor d’animal bruto».
53
La fraude insegnò noi, che contra il naso
de l’Orco a-llui mostrò la moglie d’esso;
et le pelli vestir, per ogni caso
ch’egli ne palpi ne l’uscir del fesso.
Poi che di questo ognun fu persuaso,
per quanti eràn de l’uno et l’altro sesso,
tanti uccidemmo de li hirsuti becchi
quelli che più fetean, ch’eran più vecchi.
54
Se ungemo i corpi di quel grasso opimo
che ritroviamo alle intestina intorno,
et de l’horride pelli si vestimo;
intanto uscì dal aureo albergo il giorno.
Alla spelonca, come apparve il primo
raggio del Sol, fece il pastor ritorno;
et dando spirto alle sonore canne,
chiamò il suo gregge fuor de le cappanne.
55
Tenea la mano al buco de la tana
acciò col gregge non uscisson noi:
ne prendea al varco; e quando pelo o lana
sentia sul dosso, ne lasciava poi.
Huomini et donne uscimmo per sì strana
strada, coperti da li hirsuti cuoi:
et l’Orco alcun di noi mai non ritenne,
fin che con gran timor Lucina venne.
56
Lucina, o fusse perch’ella non volle
ungersi come noi, che schivo n’hebbe;
o c’havesse l’andar più lento o molle
che l’imitata bestia non harebbe;
o quando l’Orco la groppa toccolle
gridasse per la tema che le accrebbe;
o che se le sciogliessero le chiome;
sentita fu, né ben so dirvi come.
57
Tutti eramo sì intenti al caso nostro,
che non havemmo gli occhi alli altrui fatti.
Io mi rivolsi al grido: et vide il Mostro
che i spogli hirsuti havea a Lucina tratti;
poi vide che la chiuse in stretto chiostro.
Noi altri, dentro a nostre gonne piatti,
col gregge andiamo ove il pastor ne mena,
tra verdi colli in una piaggia amena.
58
Quivi attendemo insin che steso all’ombra
d’un bosco opaco il nasuto Orco dorma:
chi lungo il mar, chi verso il monte sgombra;
sol Norandin non vuol seguir nostra orma.
L’amor de la sua donna sì l’ingombra
che alla grotta tornar vuol fra la torma,
né partirsene mai sino alla morte
se non racquista la fedel consorte:
59
che quando dianzi havea all’uscir del chiuso
vedutola restar captiva sola,
fu per gettarsi, dal dolor confuso,
spontaneamente al vorace Orco in gola;
et si mosse et gli corse insino al muso,
né fu lontano andar sotto la mola:
ma pur lo tenne in mandra la speranza
che havea di trarla anchor di quella stanza.
60
La sera, quando alla spelonca mena
il gregge l’Orco, et che fuggiti sente
noi tutti, et che riman privo di cena,
chiama Lucina d’ogni mal nocente,
et la condanna star sempre in catena
sopra il suo tetto nel scoglio eminente:
vedela il Re per sua cagion patire
et di duol spasma, et sol non può morire.
61
Matino e sera l’infelice amante
la può veder come se affliga et agna;
che misto fra le capre le va inante,
torni alla stalla o torni alla campagna.
Ella con viso mesto e supplicante
gli accenna che per dio qui non rimagna,
dove egli sta a gran rischio de la vita,
né perhò a-llei può dare alcuna aita.
62
Così la moglie anchor de l’Orco prega
il Re che se ne vada, ma non giova;
che di gir mai senza Lucina niega
et sempre in ciò più fermo si ritruova.
In questa servitude, in che lo lega
Pietate e Amor, stette con lunga pruova
tanto che a capitar venne a quel sasso
il figlio d’Agrican e ’l Re Gradasso;
63
dove con lor audacia tanto fenno,
che liberaron la bella Lucina,
ben che vi fu aventura più che senno;
et lei al padre, che per la marina
venìa cercando liberarla, dénno:
et questo fu ne l’hora matutina
che Norandin con l’altro gregge stava
a ruminar ne la montana cava.
64
Ma poi ch’el giorno aperta fu la sbarra
e seppe il Re la Donna esser partita,
che la moglie de l’Orco gli lo narra
e come a punto era la cosa gita;
gratie a Dio rende, et con voto ne inarra
ch’essendo fuor di tal miseria uscita,
faccia che giunga onde per arme possa,
per prieghi o per thesoro esser riscossa.
65
Pien di letitia va con l’altra schiera
del simo gregge, et vien a i verdi paschi;
et quivi aspetta sin che all’ombra nera,
vinto dal sonno, il Mostro in l’herba caschi;
poi ne vien tutto il giorno et tutta sera.
Sicuro al fin che l’Orco non l’intaschi,
sopra un naviglio monta in Satalìa;
et son tre mesi che arrivò in Sorìa.
66
In Rhodi, in Cypro, per città e castella
e d’Africa e d’Egytto e di Turchia,
il Re cercar fe’ di Lucina bella;
né fin l’altrhier haver ne puòte spia.
L’altrhier n’hebbe dal socero novella
che seco l’havea salva in Nicosia,
dopo che molti dì vento crudele
era stato contrario alle sue vele.
67
Per allegrezza de la buona nuova
prepara il nostro Re la ricca festa;
et vuol che ad ogni quarta luna nuova
una se n’habbia a far simil a questa:
che la memoria refrescar gli giova
de’ quattro mesi che in hirsuta vesta
fu tra il gregge de l’Orco; e un giorno, quale
serà dimane, uscì di tanto male.
68
Questo ch’io v’ho narrato in parte vidi,
in parte udi’ da chi trovosse al tutto;
dico dal Re, che le Kalende et l’Idi
vi stette, sin che volse in riso il lutto:
e se n’udite mai far altri gridi,
dicete a chi li fa ch’è mal instrutto. –
El gentilhuomo in tal modo a Griphone
di lor festa narrò l’alta cagione.
69
Un gran pezzo di notte si dispensa
da’ cavallieri in tal ragionamento,
e conchiudon ch’amore e pietà immensa
mostrò quel Re con grande experimento.
Trarronsi, poi che si levâr da mensa,
dove hebbon grato e buon alloggiamento.
Nel seguente matin sereno e chiaro,
al suon de le allegrezze si destaro.
70
Vanno scorrendo timpani et trombette,
et ragunando in piazza la cittade.
Hor, poi che de cavalli et de carrette
e gente udiro ribombar le strade,
Griphon le lucide arme si rimette,
che son di quelle che si truovan rade;
che le havea impenetrabili e incantate
la Fata bianca di sua man temprate.
71
Quel d’Antïochia, più d’ogn’altro vile,
armossi seco e compagnia gli tenne.
Preparate havea lor l’hoste gentile
nerbose lance e salde e grosse antenne,
e del suo parentado non humìle
compagnia tolta; e seco in piazza venne;
e scudieri a caval, e alcuni a piede,
a tal servigi attissimi, lor diede.
72
Giunsero in piazza, e trarronsi in disparte,
né pel campo curâr far di sé mostra,
per veder meglio il bel popul di Marte
ch’ad uno, a dua, a tre veniano in giostra:
chi con colori accompagnati ad arte
letitia o doglia alle sue donne mostra;
chi nel cimier, chi nel depinto scudo
disegna Amor, se l’ha benigno o crudo.
73
Sorïani in quel tempo haveano usanza
d’armarsi a questa guisa di Ponente:
forse ve l’inducea la vicinanza
che de’ Franceschi havean continuamente,
che quivi allhor reggean la sacra stanza
dove in carne habitò Dio omnipotente;
c’hor li superbi e miseri christiani,
con biasmo lor, lasciano in man de’ Cani.
74
Dove abbassar devrebbeno la lancia
in augumento de la santa fede,
tra lor si dàn nel petto e ne la pancia
a destruttion del poco che si crede.
Che fate qui, gente di Spagna e Francia?
Volgete altrove, e voi, Svizari, il piede,
e voi, Tedeschi, a far più degno acquisto;
che quanto qui cercate è già di Christo.
75
S’esser voi Christianissimi volete,
e voi altri Catholici nomati,
perché di Christo li huomini uccidete?
perché de’ beni lor son dispogliati?
Perché Hierusalem non rïhavete,
che tolto è stato a voi da’ rinegati?
perché Constantinopoli e del mondo
la miglior parte occùpa il Turco immondo?
76
Non hai tu, Spagna, l’Africa vicina,
che t’ha via più di questa Italia offesa?
E pur, per dar travaglio alla meschina,
lasci la prima tua sì bella impresa.
O d’ogni vitio fetida sentina,
dormi, Italia imbrïaca, e non ti pesa
c’hora di questa gente, hora di quella
che già serva ti fu, sei fatta ancella?
77
Se ’l dubbio di morir ne le tue tane,
Svizer, di fame, in Lombardia ti guida,
e tra noi cerchi o chi ti dia del pane
o, per uscir d’inopia, chi te uccida,
alle ricchezze d’Asia pon le mane;
d’Europa il Turcho, o almen di Grecia snida:
o del lungo digiun potrai sfamarti,
o cader con più merto in quelle parti.
78
Quel ch’a te dico, i’ dico al tuo vicino
Tedesco anchor: là le ricchezze sono
che vi portò da Roma Constantino;
portonne il meglio, e fe’ del resto dono.
Pactolo et Hermo, onde si tra’ l’or fino,
Migdonia e Lydia, e quel paese buono
per tante laudi in tante historie noto,
non è, s’andar vi vuoi, troppo remoto.
79
Tu, gran Leone, a cui premon le terga
de le chiavi del ciel le gravi some,
non lasciar che nel sonno si summerga
Italia, se la man l’hai ne le chiome.
Tu sei Pastore; e Dio t’ha quella verga
data a portar, e scelto il fiero nome,
perché tu ruggia, e che le braccia stenda,
sì che da’ lupi il gregge tuo difenda.
80
Ma d’un parlare in altro, ove sono ito
sì lungi dal camin ch’io facevo hora?
Non lo credo perhò sì haver smarrito
ch’io non lo sappia ritrovare anchora.
Dicea ch’in la Sorìa si tenea il rito
d’armar, che li Franceschi haveano allhora:
sì che bella in Damascho era la piazza
di gente armata d’elmo e di corazza.
81
Le vaghe donne gettano da’ palchi
sopra i giostranti i fior vermigli e gialli,
mentre essi fanno a suon de li oricalchi
levare a salti et aggirar cavalli.
Ciascuno, o bene o mal ch’egli cavalchi,
vuol far quivi vedersi, e sprona e dàlli:
di ch’altri ne riporta pregio e lode;
move altri a riso, e gridar drieto s’ode.
82
De la giostra era il prezzo una armatura
che fu donata al Re pochi dì inante,
che su la strada ritrovò a ventura
ritornando d’Armenia un mercadante.
El Re di nobilissima testura
le sopraveste all’arme giunse, e tante
perle vi pose intorno et gemme et oro,
che stimar si potea molto thesoro.
83
Se connosciute il Re quell’arme havesse,
care havute l’haria sopra ogni arnese;
né ’n premio de la giostra l’havria messe,
come che liberal fusse e cortese.
Lungo serìa chi raccontar volesse
chi l’havea sì sprezzate e vilipese,
ch’in la publica strada le lasciasse,
preda a chiunque inanzi o indrieto andasse.
84
Di questo ho da contarvi più di sotto:
hor dirò di Griphon, ch’alla sua giunta
un paro e più di lancie trovò rotto,
menato più d’un taglio e d’una punta.
De li più cari a Norandin furo otto
che quivi insieme havean liga congiunta,
gioveni in arme pratichi et industri,
tutti o signori o di famiglie illustri.
85
Rispondean questi in la sbarrata piazza
per quel dì, ad uno ad uno, a tutto ’l mondo,
prima di lancia e poi di spada o mazza,
sin che guardarli al Re fusse giocondo;
e si foravan spesso la corazza:
per giuoco in summa qui facean secondo
fan li nemici capitali, excetto
che potea il Re partirli a suo diletto.
86
Quel d’Antïochia, un huom senza ragione,
che Martano il codardo nominosse,
come se de la forza di Griphone
esso consorte e participe fosse,
audace intrò nel martïale agone;
e poi da canto ad aspettar fermosse
sin che finisse una battaglia fiera
che tra duo cavallier comminciata era.
87
El signor di Seleucia, di quelli uno
ch’a sostener l’impresa haveano tolto,
combattendo in quel tempo con Ombruno,
lo ferì d’una punta in mezo il volto
sì che l’uccise, e pietà n’hebbe ognuno;
ognun n’hebbe pietà perch’era molto
buon cavallier, né un altro sì cortese
era in Damasco o in tutto quel paese.
88
Veduto ciò, Martano hebbe paura
che parimente a sé non avenisse;
e ritornando in la sua vil natura,
a pensar cominciò come fuggisse.
Pur Griphon, ch’era appresso e n’havea cura,
lo spinse al fin, poi ch’assai fece e disse,
contra un gentil guerrier che s’era mosso,
come si spinge il cane al lupo adosso;
89
che diece passa gli va drieto o venti,
e poi si ferma, et abbaiando guarda
come degrigni i minacciosi denti
e come in gli occhi horribil fuoco gli arda.
Quivi, ove erano e principi presenti
e tanta gente nobile e gagliarda,
fuggì l’incontro il timido Martano,
e torse il freno e il capo a destra mano.
90
Pur la colpa potea dar al cavallo
chi di scusarlo havesse tolto il peso;
ma con la spada poi fe’ sì gran fallo
che non l’havria Demosthene difeso:
di charta armato par, non di metallo;
sì teme d’ogni colpo essere offeso.
Ne fugge al fine, e l’ordine disturba,
ridendo intorno a-llui tutta la turba.
91
El batter de le mani, il grido, il scorno
se gli levò de’ populari drieto.
Tornò all’albergo, e gran spatio del giorno
stette aspettando in camera secreto
fin che la compagnia fêsse ritorno.
Ma torniamo a Griphon, che poco lieto
di costui vide le biasmevol prove,
e stato volentier serebbe altrove.
92
Arde nel core, e fuor nel viso avampa,
come sia tutta sua quella vergogna;
perché l’opere sue di simil stampa
vedere aspetta il populo et agogna:
sì che refulga chiara più che lampa
sua virtù, questa volta gli bisogna;
ch’un oncia, un dito sol d’error che faccia,
per la mala impression parrà sei braccia.
93
Già la lancia havea tolta su la coscia
Griphon, ch’errare in arme era poco uso:
spinse il cavallo a tutta briglia, e poscia
ch’alquanto andato fu, la messe suso,
e portò nel ferire estrema angoscia
al baron di Sidonia, ch’andò giuso.
Ognun maravigliando in piè si lieva;
che ’l contrario di ciò tutto attendeva.
94
Tornò Griphon con la medesma antenna,
ch’intiera e ferma ricovrata havea,
et in tre pezzi la ruppe alla penna
del scudo del signor di Lodicea:
quel per cader tre volte e quattro accenna,
che tutto steso in la groppa giacea;
pur rilevato al fin la spada strinse,
volta il cavallo, e vêr Griphon si spinse.
95
Griphon, che ’l vede in sella, e che non basta
sì fiero incontro perché a terra vada,
dice fra sé: – Quel che non puòte l’hasta,
in cinque colpi o sei farà la spada. –
E su la tempia subito l’attasta
d’un dritto tal, che par che dal ciel cada;
e un altro gli accompagna e un altro appresso,
tanto che l’ha stordito e in terra messo.
96
Quivi erano d’Apamia duo germani,
soliti in giostra rimaner di sopra,
Tirse e Corimbo; et ambo per le mani
del figlio d’Olivier cadêr sosopra:
lasciò il primo li arcion nel scontro vani;
con l’altro messa fu la spada in opra.
Già per commun giudicio si tien certo
che di costui fia de la giostra il merto.
97
Entrato era in la lizza Salinterno,
gran Dïodarro e Maliscalco regio.
Costui di tutto il stato havea il governo,
e di sua man fu cavallier egregio;
e disdegnoso ch’un guerrier externo
debbia portarne de la giostra il pregio,
piglia una lancia, e verso Griphon grida,
e minacciando alla battaglia il sfida.
98
Ma quel con un lancion gli fa risposta,
c’havea per lo miglior fra diece eletto,
e per non fare error nel scudo apposta,
e quel via passa e la corazza e il petto:
passa il ferro crudel tra costa e costa
e fuor pel tergo un palmo esce di netto.
El colpo (excetto ’l Re) fu a tutti caro;
ch’ognuno odiava Salinterno avaro.
99
Griphone, appresso a questi, in terra getta
dui di Damasco, Ermophilo e Carmondo;
la militia del Re dal primo è retta;
del mar grande Almiraglio era il secondo:
l’uno al scontro lasciò la sella in fretta;
adosso a l’altro riversciossi il pondo
del rio destrier, che sostener non puòte
l’alto valor con che Griphon percuote.
100
El signor di Seleucia anchor restava,
miglior guerrier di tutti li altri sette;
e ben la sua possanza accompagnava
con destrier buono e con arme perfette.
Dove de l’elmo la vista si chiava
sua lancia al scontro l’uno e l’altro mette:
pur Griphon maggior scontro al Pagan diede,
che lo fe’ staffeggiar dal manco piede.
101
Gettaro i tronchi, e si tornaro adosso
pieni di molt’ardir coi brandi nudi.
Fu ’l Pagan prima da Griphon percosso
d’un colpo che spezzato haria l’incudi:
con quel fender si vide e ferro et osso
d’un ch’eletto s’havea tra mille scudi;
e se non era doppio e fin l’arnese,
ferìa la coscia ove cadendo scese.
102
Ferì quel di Seleucia alla visera
Griphone a un tempo; e fu quel colpo tanto,
che l’haria aperta e rotta, se non era
fatta, come l’altre arme, per incanto.
Gli è un perder tempo ch’el Pagan più fera,
che non ha via dove entri in ignun canto;
e in più parti Griphon già fessa e rotta
ha l’armatura a lui, né perde botta.
103
Già si potea veder quanto di sotto
il signor di Seleucia era a Griphone;
et se a partir non li venian di botto,
quel che sta peggio la vita vi pone;
sì che ’l Re alla sua guardia fece motto
ch’intrasse a distaccar l’aspra tenzone:
quindi fu l’uno, et quindi l’altro tratto;
et fu lodato il Re di sì buon atto.
104
Li otto che dianzi havean col mondo impresa
e non potuto durar poi contra uno,
havendo mal la parte lor difesa,
usciti eran del campo ad uno ad uno.
L’altri ch’eran venuti a-llor contesa
quivi restâr senza contrasto alcuno,
havendo lor Griphon, solo, interrotto
quel che tutti essi havean a far contra otto.
105
Et durò quella festa così poco,
ch’in men d’un’hora il tutto fatto s’era:
ma Norandin, per far più lungo il giuoco
et per continuarlo insino a sera,
dal palco scende al spatïoso luoco,
et fa partir in dua la grossa schiera;
indi secondo il sangue et la lor prova
li huomini accoppia, et fa una giostra nuova.
106
Griphon intanto havea fatto ritorno
alla sua stanza, pien d’ira et di rabbia:
che del compagno più gli preme il scorno
che non giova l’honor ch’esso vinto habbia.
Quivi, per tôr l’obbrobrio c’havea intorno,
Martano adopra le mendaci labbia;
et l’astuta et bugiarda meretrice,
come meglio sapea, gli era adiutrice.
107
O sì o non ch’el Gioven lor credesse,
mostrò pur starsi a quella scusa cheto;
et pel suo meglio allhora allhora elesse
quindi levarsi tacito et secreto,
temendo che Martano si facesse,
se comparia, gridarsi il popul drieto:
così per una via nascosa et corta
usciro al camin lor fuor de la porta.
108
Griphon, o ch’egli o il caval stanco fosse,
o gli gravasse il sonno pur le ciglia,
al primo albergo che trovâr fermosse,
che non erano andati oltra duo miglia.
Trassesi l’elmo, et tutto disarmosse,
et trar fece a’ cavalli et sella et briglia;
et poi serrossi in camera soletto,
et nudo per dormir si pose in letto.
109
Non hebbe così presto il capo basso
che chiuse li occhi, et fu dal sonno oppresso
così profundamente, che mai Tasso
né Ghiro mai s’addormentò quanto esso.
Martano intanto et Horrigille, a spasso
entrati in un giardin ch’era lì presso,
un tradimento ordîr, che fu il più strano
che mai cadesse in sentimento humano.
110
Martano disegnò tôrre il destriero
et panni et arme che Griphon s’ha tratte,
venire inanzi al Re pel cavalliero
che tante prove havea giostrando fatte.
L’effetto ne seguì, fatto il pensiero:
tolle il caval più candido che latte,
scudo, cimiero et arme et sopraveste,
et tutte di Griphon l’insegne veste.
111
Et con la Donna et suoi scudieri, dove
era il populo anchora, in piazza venne;
et giunse a tempo che finian le prove
di girar spade et arrestar antenne.
Commanda il Re ch’el cavallier si truove
che per cimier havea le bianche penne,
bianche le vesti et bianco il corridore;
ch’el nome non sapea del vincitore.
112
Colui che indosso il non suo cuoio haveva,
come l’Asino già quel del Leone,
chiamato, se ne andò, come attendeva,
a Norandino in luoco di Griphone.
Quel Re cortese incontro se gli leva,
l’abbraccia et bacia, e allato se lo pone:
né gli basta honorarlo et dargli loda,
che vuol ch’el suo valor per tutto s’oda.
113
Et fa gridarlo a suon de li oricalchi
vincitor de la giostra di quel giorno:
l’alta voce ne va per tutti i palchi,
che ’l nome indegno udir fa d’ognintorno.
Seco il Re vuol che a par a par cavalchi
quando al palazzo suo poi fa ritorno;
et di sua gratia tanto gli comparte,
che bastaria se fusse Hercole o Marte.
114
Bello et ornato alloggiamento dielli
in corte, et honorar fece con lui
Horrigille ancho; e nobili donzelli
mandò con essa, et cavallieri sui.
Ma tempo è homai che di Griphon favelli,
il qual, né dal compagno né d’altrui
temendo inganni, addormentato s’era,
né mai se risvegliò fino alla sera.
115
Tosto che è desto, et che de l’hora tarda
s’accorge, esce di camera con fretta,
dove il falso cognato et la bugiarda
Horrigille lasciò con l’altra setta;
et come non gli truova, et che riguarda
non v’esser l’arme et suoi panni, suspetta;
ma il veder poi più suspettoso il fece
quelli del suo compagno in quella vece.
116
Sopravien l’hoste, et di colui l’informa
che già gran pezzo, di bianche arme adorno,
con la donna et col resto de la torma
havea ne la città fatto ritorno.
Truova Griphon a poco a poco l’orma
che ascosa gli havea Amor sin a quel giorno;
et con suo gran dolor vede esser quello
adulter di Horrigille, et non fratello.
117
Di sua sciocchezza indarno hora si duole,
c’havendo il ver da peregrini udito,
lasciato mutar s’habbia alle parole
di chi l’havea più volte già tradito.
Vendicar si potea, né seppe: hor vuole
l’inimico punir che gli è fuggito;
et è constretto con troppo gran fallo
a tôr di quel vil huom l’arme e ’l cavallo.
118
Eragli meglio andar senza arme e nudo
che porsi indosso la corazza indegna,
o che imbracciar l’abominato scudo,
o por su l’elmo la beffata insegna;
ma per seguir la meretrice e ’l drudo
ragion in lui par al disio non regna.
A tempo venne alla città, che anchora
il giorno havea quasi di vivo un’hora.
119
Presso alla porta ove Griphon venìa
siede a sinistra un splendido castello,
che, più che forte et a guerre atto sia,
di ricche stanze è accommodato et bello.
Con gran signori et primi di Sorìa
ed alte donne in un gentil drapello,
quivi si celebrava in loggia amena
la real sontüosa et lieta cena.
120
La bella loggia sopra il muro usciva
con l’alta ròcca fuor de la cittade;
et per gran tratto di lontan scopriva
li larghi campi et le diverse strade.
Hor che Griphon verso la porta arriva
con quell’arme di obbrobrio et di viltade,
fu con non troppa aventurosa sorte
dal Re veduto et da tutta la corte:
121
et reputato quel di chi havea insegna,
mosse le donne e i cavallieri a riso.
El vil Martano, come quel che regna
in gran favor, dopo ’l Re è il primo assiso,
et presso a-llui la Donna di sé degna;
da’ quali Norandin con lieto viso
vòlse saper chi fusse quel codardo
che havea sì del suo honor poco riguardo;
122
c’havendo fatto il dì la trista pruova,
con tanta fronte hor torna loro inante.
Dicea: – Questa mi par cosa assai nuova,
ch’essendo voi guerrier degno e prestante,
costui compagno habbiate, che non truova
di viltà pare in terra di Levante.
Forse il facete per mostrar maggiore,
per tal contrario, il vostro alto valore.
123
Ma ben vi giuro per li eterni dèi
che, se non fusse ch’io riguardo a vui,
la publica ignominia gli farei,
ch’io soglio far a gli altri uguali a lui:
perpetua ricordanza gli darei,
come ognhor di viltà nimico fui;
ma sappia grado, se si parte indenne,
che hoggi in vostra compagnia qui venne. –
124
Colui che fu di vitii un pieno vaso
rispose: – Alto signor, dir non sapria
chi sia costui; che ritrovallo a caso,
venendo d’Antïochia, in su la via.
Il suo sembiante m’havea persuaso
che fusse degno di mia compagnia;
che di lui pruova non ho inteso o vista,
se non quella che fece hoggi assai trista.
125
La qual mi spiacque sì, che mancò poco
che per punir l’estrema sua viltade
non gli facessi allhora allhora un giuoco
che non toccasse mai lance né spade:
ma hebbi, più che a-llui, rispetto al luoco
et reverentia a vostra maestade.
Né per me voglio che gli sia guadagno
d’essermi stato un giorno o dui compagno;
126
di che contaminato ancho esser parme;
et sopra il cor mi serà eterno peso
se, con vergogna del mestier de l’arme,
costui de nostre man si parte illeso:
et meglio che lasciarlo, satisfarme
potrete se quel fia da un merlo impeso;
et fia lodevol opra et signorile,
perch’el sia exempio et specchio d’ogni vile. –
127
Al detto suo Martano Horrigille have,
senza accennar, confermatrice presta.
– Non son (rispose il Re) l’opre sì prave
ch’al mio parer v’habbia d’andar la testa:
voglio per pena del peccato grave
che sol rinuovi al populo la festa. –
E presto a un suo baron, che fe’ venire,
impose quanto havesse ad exequire.
128
Molti armati il baron drieto si tolse,
et alla porta de la terra scese;
e quivi con silentio li raccolse,
et la venuta di Griphone attese:
e nel entrar sì d’improviso il colse,
che fra i duo ponti a salvamento il prese;
et lo ritenne con beffe et con scorno
in una oscura stanza insin al giorno.
129
Il Sol a pena havea il dorato crine
tolto di grembio alla nutrice antica,
et cominciava da le piaggie alpine
a cacciar l’ombre e far la cima aprica;
quando, temendo il vil Martan ch’al fine
Griphone ardito la sua causa dica
et ritorni la colpa onde era uscita,
tolse licentia et fece indi partita,
130
trovando idonia scusa al priego regio
perché non stia al spettacolo ordinato.
Altri doni gli havea fatto, col pregio
de la non sua vittoria, il signor grato;
et sopra tutto un amplo privilegio,
dove era d’alti honori al summo ornato.
Lasciànlo andar; ch’io vi prometto certo
che la mercede havrà secondo il merto.
131
Fu Griphon tratto a gran vergogna in piazza,
quando più si trovò piena di gente.
Gli havean levato l’elmo et la corazza,
lasciatolo in farsetto assai vilmente;
et come il conducessero alla mazza,
posto l’havean sopra un carro eminente,
che lento lento tiravan duo vacche
da lunga fame attenuate e fiacche.
132
Venian d’intorno all’ignobil quadriga
vecchie sfacciate et dishoneste putte
di che n’era una et hor un’altra auriga,
et con gran biasmo lo mordeano tutte.
Poneanlo li fanciulli in maggior briga,
che, oltra le parole infami et brutte,
l’harian con sassi insino a morte offeso
se da i più saggi non era difeso.
133
L’arme che del suo mal erano state
cagion, che di lui fêr non vero indicio,
da la coda del carro strasinate
patian nel fango debito supplicio.
Le ruote inanzi a un tribunal fermate,
gli fêro udir de l’altrui maleficio
la sua ignominia, ch’en su gli occhi detta
gli fu, gridando un publico trombetta.
134
Quindi il levaro, et lo mostrâr per tutto
dinanzi a templi et officine et case,
dove alcun nome scelerato et brutto
che non gli fusse detto non rimase.
Fuor de la terra all’ultimo condutto
fu da la turba, che si persuase
bandirlo et cacciar indi a suon di busse,
non connoscendo ben ch’egli si fusse.
135
Sì presto a pena gli sferraro i piedi
et liberaro l’una et l’altra mano,
che tôrre ’l scudo et impugnar gli vedi
la spada, che rigò gran pezzo il piano.
Non hebbe contra sé lance né spiedi;
che senza arme venìa il populo insano.
Ma differisco in l’altro canto il resto;
che tempo è homai, signor, di finir questo.