CANTO TRIGESIMO
1
Soviemmi che cantar già vi devea,
già lo promissi, et poi m’uscì di mente,
d’una suspitïon che fatto havea
la bella donna di Ruggier dolente,
molto più dispiacevole et più rea,
e di più acuto e venenoso dente,
de l’altra che pel dir di Ricciardetto
a divorare il cor l’entrò nel petto.
2
Devea cantarne, et altro incominciai,
perché Rinaldo in mezo sopravenne;
e poi Guidon mi diè che fare assai,
che tra camino a bada un pezzo il tenne.
D’una cosa in un’altra in modo entrai,
che mal di Bradamante mi sovenne:
sovienmene hora, et vuo’ narrarne inanti
che di Rinaldo e di Gradasso canti.
3
Ma bisogna ancho, prima ch’io ne parli,
che d’Agramante vi ragioni un poco,
che havea ridutte le reliquie in Arli
che gli restâr del gran notturno fuoco,
quando a raccôrre il sparso campo et darli
soccorso et vittuaglie era atto il luoco:
l’Aphrica ha contra, et la Spagna vicina,
et è in sul fiume assiso alla marina.
4
Per tutto il regno fa scriver Marsiglio
gente a piedi e a cavallo, et trista et buona;
per forza e per amor ogni naviglio
atto a battaglia s’arma a Barcelona.
Agramante, che vede il suo periglio,
a spender largamente non perdona;
intanto gravi exattïoni e spesse
han tutte le città d’Aphrica oppresse.
5
Havea fatto offerire a Rodomonte,
perché tornasse, et impetrar nol puòte,
una cugina sua, figlia d’Aimonte,
et il regno d’Oran dargli per dote.
Non si vòlse l’altier mover dal ponte,
dove tant’arme e tante selle vuote
di quei che capitati erano al passo
raccolte havea, che già copriane il sasso.
6
Intanto Bradamante iva accusando
che così lunghi eran quei venti giorni,
li quai finiti, il termine era, quando
a lei Ruggiero et alla fede torni.
A chi aspetta di carcere o di bando
uscir, non par ch’el tempo più soggiorni
a darli libertade, o de l’amata
patria vista gioconda e disïata.
7
In quel duro aspettare ella talvolta
pensa che Eto e Pyròo sia fatto zoppo;
o sia la ruota guasta, che a dar volta
le par che tardi, oltra l’usato, troppo.
Più lungo di quel giorno, a cui per molta
fede nel cielo il giusto Hebreo fe’ intoppo,
più de la notte che Hercole produsse,
parea lei ch’ogni notte, ogni dì fusse.
8
Oh quante volte da invidiar le diero
li orsi, li ghiri e i sonnacchiosi tassi!
che quel tempo voluto havrebbe intiero
tutto dormir, che mai non si destassi;
né poter altro udir, fin che Ruggiero
dal pigro sonno lei non richiamassi.
Ma non pur questo non può far, ma anchora
non può dormir di tutta notte un’hora.
9
Di qua di là va le noiose piume
tutte premendo, e mai non si riposa.
Spesso aprir la finestra ha per costume,
per veder s’ancho di Tithon la sposa
sparge dinanzi al matutino lume
el bianco giglio e la vermiglia rosa:
non meno anchor, poi che nasciuto è il giorno,
brama vedere il ciel di stelle adorno.
10
Poi che fu quattro o cinque giorni appresso
il termine a finir, piena di spene
stava aspettando d’hora in hora il messo
che le apportasse: – Ecco Ruggier che viene. –
Montava sopra un’alta torre spesso,
che i folti boschi e le campagne amene
scopria d’intorno, e parte de la via
donde di Francia a Montalban si gìa.
11
Se di lontano o splendor d’arme vede
o cosa tal ch’a cavallier simiglia,
che sia il suo desïato Ruggier crede,
e rasserena i belli occhi e le ciglia;
se disarmato o vïandante a piede,
che sia messo di lui speranza piglia:
e se ben poi fallace la ritrova,
pigliar non cessa una et un’altra nuova.
12
Credendolo incontrar, talhora armossi,
scese dal monte e giù smontò nel piano;
né lo trovando, si sperò che fossi
per altra strada giunto a Montalbano;
e col disir con che havea i piedi mossi
fuor del castel, ritornò dentro invano:
né qua né là trovollo; e passò intanto
il termine aspettato da lei tanto.
13
El termine passò d’uno, di dui,
quattro, sei, dieci dì, quindici e venti;
né vedendo il suo sposo, né di lui
sentendo nuova, incomminciò lamenti
c’havria mosso a pietà ne i regni bui
quelle Furie crinite de serpenti;
e fece oltraggio a’ belli occhi divini,
al bianco petto, all’aurei crespi crini.
14
– Dunque fia ver (dicea) che mi convegna
cercar un che mi fugge e mi s’asconde?
Dunque debbio prezzar un che mi sdegna?
Debbio pregar chi mai non mi risponde?
Patirò che chi m’odia, il cor mi tegna?
un che sì stima sue virtù profonde,
che bisogno serà che dal ciel scenda
immortal dea ch’el cor d’amor gli accenda?
15
Sa questo altier ch’io l’amo e ch’io l’adoro,
né mi vuol per amante né per serva;
el crudel sa che per lui spasmo e moro,
e dopo morte a darmi aiuto serva:
e perché non gli narri il mio martoro
atto a piegar la sua voglia proterva,
da me s’asconde, come aspide suole,
che, per star empio, il canto udir non vuole.
16
Deh ferma, Amor, costui che così sciolto
dinanzi al lento mio correr s’affretta;
o tornami nel grado onde m’hai tolto
quando né a te né ad altri ero suggetta!
Deh, come è il sperar mio fallace e stolto,
ch’in te con prieghi mai pietà si metta;
che ti diletti, anzi ti pasci e vivi
di trar da li occhi lachrymosi rivi!
17
Ma di che debbio lamentarmi (ahi lassa!)
fuor che del mio disire irrationale?
ch’alto mi lieva, e tanto in l’aria passa,
che arriva in parte ove s’abbrucia l’ale;
poi non potendo sostener, mi lassa
dal ciel cader, né qui finisce il male;
che le rimette, e di nuovo arde, onde io
non ho mai fine al precipitio mio.
18
Anzi assai più che del desir, mi deggio
di me doler, che sì gli apersi il seno;
onde cacciata ha la ragion di seggio,
et ogni mio poter può di lui meno.
Quel mi trasporta ognhor di mal in peggio,
né lo posso frenar, che non ha freno:
e mi fa certa che mi mena a morte,
perché aspettando il mal noccia più forte.
19
Deh perché voglio ancho di me dolermi?
Ch’error, se non d’amarti, unqua commessi?
Che maraviglia, se fragili e infermi
feminil sensi fur subito oppressi?
Perché devevo usar ripari o schermi
che la summa beltà non me piacessi,
li alti sembianti e le saggie parole?
Misero è quel che veder schiva il Sole!
20
Et oltra el mio destino, io ci fui spinta
da li conforti altrui degni di fede:
summa felicità mi fu dipinta,
ch’esser devea di questo amor mercede.
Se la persuasione, ohimè! fu finta,
se fu inganno il consiglio che mi diede
Merlin, posso di lui ben lamentarmi,
ma non d’amar Ruggier posso ritrarmi.
21
Di Merlin posso e de la Maga insieme
dolermi, e mi dorrò d’essi in eterno,
che dimostrare i frutti del mio seme
mi fêro da li spirti de lo inferno
per pormi sol con questa falsa speme
in servitù; né la cagion discerno,
se non ch’erano forse invidïosi
de li sicuri miei lunghi riposi. –
22
Sì l’occùpa il dolor, che non avanza
luoco ove in lei conforto habbia ricetto;
ma, mal grado di quel, vien la speranza
e vi vuole alloggiar in mezo il petto,
rifrescandole pur la rimembranza
di quel ch’al suo partir l’ha Ruggier detto:
e vuol, contra il parer de li altri affetti,
che d’hora in hora il suo ritorno aspetti.
23
Questa speranza dunque la sostenne,
finito i venti giorni, un mese appresso;
sì che il dolor sì forte non le tenne,
come tenuto havria, l’animo oppresso.
Un dì che per la strada se ne venne,
che per trovar Ruggier solea far spesso,
udì cose a sue voglie in modo averse,
che drieto a l’altro ben la speme perse.
24
Venne a incontrare un cavallier Vascone
che dal campo Aphrican venìa diritto,
dove era stato da quel dì prigione
che fu inanzi a Parigi il gran conflitto.
Bradamante lo messe per ragione
di molte cose, e là dove prescritto
havea ch’el fin de sue dimande fosse,
venne a Ruggiero, et in Ruggier fermosse.
25
Il cavallier buon conto le ne rese,
che connosceva tutta quella corte;
e narrò di Ruggier, come contese
da sol a sol con Mandricardo forte;
e come egli l’uccise, e più d’un mese
poi ne restò ferito e presso a morte:
e s’era la sua historia qui conclusa,
fatto havria di Ruggier la vera escusa.
26
Ma come poi vi giunse, una donzella
esser nel campo, nomata Marphisa,
che men non era, che gagliarda, bella,
d’arme experimentata in ogni guisa;
e che Ruggier l’amava, e Ruggiero ella,
e lor compagnia raro era divisa;
e si credea per publico parere
ch’eran insieme marito e mogliere,
27
e che come Ruggier si faccia sano,
il matrimonio publicar si deve;
e ch’ogni Re, ogni Principe pagano
gran piacere e letitia ne riceve,
che de l’uno e de l’altro soprhumano
connoscendo il valor, sperano in breve
far una razza d’huomini da guerra
la più gagliarda che mai fusse in terra…
28
Credea il Vascon quel che dicea, non senza
cagion, perché in l’exercito pagano
era di questo universal credenza,
e in secreto e in palese e forte e piano
se ne dicea, per la benivolenza
che poi ch’infermo, e quando prima sano
era Ruggier, gli havea con grande affetto
dimostrato Marphisa in fatto e in detto.
29
L’esser venuta a’ Mori ella in aita
con lui, né senza lui comparir mai,
havea questa credenza stabilita;
ma poi l’havea accresciuta pur assai,
ch’essendosi del campo già partita
portandone Brunel (come io contai),
senza esservi d’alcuno richiamata,
sol per veder Ruggier v’era tornata.
30
Sol per lui visitar, che gravemente
languia ferito, in campo venuta era,
non una sola volta, ma sovente;
vi stava il giorno e si partia la sera:
e molto più da dir dava alla gente,
ch’essendo connosciuta così altiera
che tutto il mondo a sé le parea vile,
solo a Ruggier fusse benigna e humìle.
31
... come le aggiunse, et affermò per vera
questa altra nuova, fu di tanta pena
Bradamante assalita e così fiera,
che nel petto celar la puòte a pena
e non ne fare accorto chi seco era.
Dunque di gelosia, di rabbia piena,
da sé scacciata havendo ogni speranza,
ritornò furibonda alla sua stanza;
32
e senza disarmarsi, sopra il letto,
col viso volta in giù, tutta si stese,
dove per non gridar, sì che sospetto
di sé facesse, i panni in bocca prese;
e ripetendo quel che le havea detto
il cavalliero, in tal dolor discese,
che più non lo potendo sofferire,
fu forza a disfocarlo, e così dire:
33
– A chi (misera!) mai creder più deggio?
Ognuno (ahi lassa!) è perfido e crudele,
poi che crudele e perfido l’huom veggio
ch’io tenni il più constante e il più fedele.
Qual crudeltà, qual fu perfidia peggio,
qual più degna di pianto e di querele,
di questa fatta mai, qual fu men degna
donzella mai di me che lo sostegna?
34
Perché, Ruggier, come di te non vive
cavallier di più ardir, di più bellezza,
né che a gran pezzo al tuo valore arrive,
né a’ tuoi costumi, né a tua gentilezza;
perché non fai che fra tue illustri e dive
virtù si dica anchor c’habbi fermezza?
si dica c’habbi invïolabil fede?
a che ogni altra virtù s’inchina e cede.
35
Non sai che non compar, se non v’è quella,
alcun valore, alcun nobil costume?
come né cosa (e sia quanto vuol bella)
si può veder dove non splenda lume.
Facil ti fu ingannar una donzella
di cui tu signor eri, idolo e nume,
a cui potevi far con tue parole
creder che fusse oscuro e freddo il Sole.
36
Crudel, di che peccato a doler t’hai,
se d’uccider chi t’ama non ti penti?
Se ’l mancar di tua fé sì liggier fai,
di ch’altro peso il cor gravar ti senti?
Come tratti il nemico, se tu dài
a me, che t’amo sì, questi tormenti?
Ben dirò che giustitia in ciel non sia,
s’a veder tardo la vendetta mia.
37
Se più di tutti li peccati quello
de l’empia ingratitudine l’huom grava,
e per questo del ciel l’angel più bello
fu relegato in parte oscura e cava;
e se gran fallo aspetta gran flagello
quando debita emenda il cor non lava,
guarda ch’aspro flagello in te non scenda,
che mi se’ ingrato e non vuoi farne emenda.
38
Di furto anchora, oltra ogni vitio rio,
di te, crudel, ho da dolermi molto.
Che tu mi tenga il cor, non ti dico io:
di questo, io vuo’ che te ne vada assolto;
dico di te che t’eri fatto mio,
e poi contra ragion mi ti sei tolto.
Renditi, iniquo, a me; che tu sai bene
che non si può salvar chi l’altrui tene.
39
Tu m’hai, Ruggier, lasciata: io te non voglio,
né lasciarte volendo, ancho potrei;
ma per uscir d’affanno e di cordoglio
posso e voglio finire i giorni miei.
Di non morirti in gratia sol mi doglio;
che se concesso m’havessero i dèi
ch’io fussi morta quando t’ero grata,
morte non fu già mai tanto beata. –
40
Così dicendo, di morir disposta,
salta del letto, e di rabbia infiammata
si pon la spada alla sinistra costa;
ma si ravede poi che è tutta armata.
Il miglior spirto in questo le s’accosta,
e nel cor le ragiona: – O donna nata
di tanto alto lignaggio, adunque vuoi
finir con sì gran biasmo i giorni tuoi?
41
Non è meglio che al campo tu ne vada,
dove morir si può con laude ognhora?
Quivi, se avien che inanzi a Ruggier cada,
del morir tuo si dorrà forse anchora:
ma se a morir te avien per la sua spada,
chi serà mai che più contenta mora?
Ragion è ben che di vita te privi,
poi che egli è causa anchor che tu non vivi.
42
Verrà forse ancho che prima che mori
farai vendetta di quella Marphisa
che t’ha con fraudi e dishonesti amori,
da te Ruggiero alïenando, uccisa. –
Questi pensieri parveno migliori
alla donzella; e presto una divisa
si fe’ su l’arme, che volea inferire
disperatione e voglia di morire.
43
Senza scudiero e senza compagnia
scese dal monte, e si pose in camino
verso Parigi la più dritta via,
dove era dianzi il campo Saracino;
che la novella anchora non se udia
che l’havesse Rinaldo paladino,
aiutandolo Carlo e Malagigi,
fatto tôr da l’assedio di Parigi.
44
Alloggiò quella notte ad un castello
ch’alla via di Parigi si ritrova,
e del notturno assalto del fratello,
che ruppe il Re Agramante, udì la nuova.
Quivi hebbe buona mensa e buono hostello:
ma questo et ogn’altro agio poco giova;
che poco mangia e poco dorme, e poco,
non che posar, ma ritrovar può luoco.
45
Pur chiuse alquanto appresso all’alba i lumi,
e di veder le parve il suo Ruggiero
che le dicesse: – Perché ti consumi,
dando credenza a quel che non è vero?
Tu vedrai prima all’erta andare i fiumi
ch’ad altri mai, ch’a te, volga il pensiero.
S’io non amassi te, né il cor potrei
né le pupille amar de li occhi miei. –
46
E parea suggiungesse: – Io son venuto
per battizarmi e far quanto ho promesso;
e s’io son stato tardi, m’ha tenuto
altra ferita, che d’amore, oppresso. –
Fuggise in questo il Sonno, né veduto
fu più Ruggier, che si fuggì con esso.
Rinuova allhora i pianti la donzella,
e ne la mente sua così favella:
47
– Fu quel che piacque un falso sogno, e questo
che mi tormenta (ahi lassa!) è un vegghiar vero.
El ben fu sogno, e dileguòsi presto,
ma non è sogno il martìr aspro e fiero.
Perc’hor non ode e vede il senso desto
quel ch’udire e veder parve al pensiero?
A che conditïone, occhi miei, sète,
che chiusi il bene, aperti il mal vedete?
48
El dolce sogno mi promesse pace,
e l’amaro vegghiar mi torna in guerra:
el dolce sogno è ben stato fallace,
ma l’amaro vegghiar, ohimè! non erra.
Se ’l vero annoia, e il falso sì mi piace,
non oda o veggia mai più vero in terra:
se ’l dormir mi dà gaudio, e il vegghiar guai,
poss’io dormir senza destarmi mai.
49
O felici animal ch’un sonno forte
sei mesi tien senza mai li occhi aprire!
Che s’assimigli tal sonno alla morte,
tal vegghiare alla vita, io non vuo’ dire;
ch’a tutte altre contraria la mia sorte
sente morte a vegghiar, vita a dormire:
ma s’a tal sonno morte s’assimiglia,
deh, Morte, hor hora chiudimi le ciglia! –
50
Ma costei seguitar non voglio tanto,
ch’io non ritorni a quei dui cavallieri
che d’accordo legato haveano a canto
la solitaria fonte i lor destrieri.
La pugna lor, di che vuo’ dirvi alquanto,
non fu per acquistar terre né imperi,
ma perché Durindana il più gagliardo
habbia ad havere, e cavalcar Baiardo.
51
Senza che tromba o che tambur cennasse
quando a mover s’havean, senza maestro
ch’el schermo e il ben ferir lor raccordasse,
e stimulasse il cor d’animoso estro,
l’uno e l’altro d’accordo il ferro trasse,
e si venne a trovare agile e destro.
Li spessi e gravi colpi a farsi udire
incominciaro, et a scaldarsi l’ire.
52
Due spade altre non so per prova elette
ad esser ferme e solide e ben dure,
che a tre colpi di quei si fusser rette,
ch’erano fuor di tutte le misure:
ma quelle fur di tempre sì perfette,
per tante experïentie sì sicure,
che ben poteano insieme riscontrarsi
con mille colpi e più, senza spezzarsi.
53
Hor qua Rinaldo, hor là mutando il passo,
con gran destrezza e molta industria et arte
fuggìa di Durindana il gran fraccasso,
che sa ben come spezza il ferro e parte.
Ferìa maggior percosse il Re Gradasso;
ma quasi tutte al vento erano sparte:
se coglieva talhor, coglieva in luoco
dove potea gravar e nuocer poco.
54
L’altro con più ragion sua spada inchina,
e fa spesso al Pagan stordir le braccia;
quando alli fianchi e quando ove confina
la corazza con l’elmo, gli la caccia;
ma truova tanto l’armatura fina
che piastra non ne rompe o maglia straccia:
se dura e forte la trovava tanto,
venìa perché era fatta per incanto.
55
Senza prender riposo erano stati
gran pezzo tanto alla battaglia fisi,
che volti li occhi in nessun mai de’ lati
haveano, fuor che ne i turbati visi;
quando da un’altra zuffa distornati,
e da tanto furor furon divisi:
ambi voltaro a un gran strepito il ciglio,
e videro Baiardo in gran periglio.
56
Vider Baiardo a zuffa con un mostro
ch’era più di lui grande, et era augello:
havea più lungo di tre braccia il rostro;
l’altre fattezze havea di pipistrello:
havea la piuma negra come inchiostro;
havea l’artiglio grande, acuto e fello;
li occhi di fuoco, il sguardo havea crudele;
l’ale havea grandi, che parean due vele.
57
Forse era vero augel, ma non so dove
o quando un altro mai ne fusse tale.
Non ho veduto mai né letto altrove,
fuor ch’in Turpin, d’un sì fatto animale:
questo rispetto a credere mi muove
che l’augel fusse un diavolo infernale
che Malagigi in quella forma trasse,
acciò che la battaglia disturbasse.
58
Rinaldo il credette ancho, e gran parole
e sconcie poi con Malagigi n’hebbe.
Egli già confessar non gli lo vuole;
e perché tôr di colpa si vorrebbe,
giura pel lume che dà lume al Sole
che di questo imputato esser non debbe.
Fusse augello o demonio, il mostro scese
sopra Baiardo, e con l’artiglio il prese.
59
Le redine il destrier, che era possente,
subito rompe, e con sdegno e con ira
contra l’augello i calci adopra e il dente:
ma quel veloce in aria si ritira;
indi ritorna, e con l’ugna pungente
lo va battendo e d’ognintorno aggira.
Baiardo offeso, e che non ha ragione
di schermo alcun, ratto a fuggir si pone.
60
Fugge Baiardo, e in la vicina selva
va ricercando le più spesse fronde.
Segue di sopra la pennuta belva
con li occhi fisi ove la via seconde:
ma pur il buon destrier tanto s’inselva,
ch’al fin sotto una grotta si nasconde.
Poi che l’alato la traccia ne perse,
altrove a batter l’aria si converse.
61
Rinaldo e il Re Gradasso, che partire
veduta han la cagion de la lor pugna,
restâr d’accordo quella differire
fin che si salvi dal grifo e da l’ugna
di quel augel che sì lo fa fuggire;
con patto che qual d’essi lo ragiugna,
a quella fonte lo restituisca,
dove la lite lor poi se finisca.
62
Seguendo, si partîr da la fontana,
l’herbe novellamente in terra peste.
Così da lor Baiardo s’allontana,
c’hebbon le piante in seguir lui mal preste.
Gradasso, che non lungi havea l’alfana,
sopra vi salse, e per quelle foreste
lasciò Rinaldo di gran spatio drieto,
di sì strana aventura poco lieto.
63
Perse Rinaldo l’orme in pochi passi
del suo destrier, che fe’ strano vïaggio:
rivi profondi, e dove iniqui sassi
e dense spine havea ’l luoco selvaggio,
andò cercando, acciò che si celassi
da l’animal che gli faceva oltraggio.
Rinaldo, dopo la fatica vana,
tre giorni anchor l’attese alla fontana,
64
se da Gradasso vi fusse condutto,
sì come tra lor dianzi si convenne:
ma poi che far si vide poco frutto,
dolente e a piedi in campo se ne venne.
Ma torniamo a quell’altro, c’hebbe tutto
contrario caso a questo: egli via tenne,
non per ragion, ma per suo buon destino,
dove annitrir udì il caval vicino;
65
e ritrovollo in la spelonca cava,
che del timor c’havea del strano augello
anchor smarrito e tremebondo stava:
quivi il prese il Pagan, quivi suo féllo.
Ben la conventïon si ricordava,
che alla fonte tornar devea con quello;
ma non gli parve allhora di observarla,
e così in mente sua tacito parla:
66
– Pazzo è colui che cerca haver con guerra
quel che può haver con pace. Già venn’io
da l’un a l’altro capo de la terra
acciò questo destrier facessi mio.
Chi crederà ch’io ’l lasci havendol, erra;
che se di ricovrarlo havrà disio
il patron suo, non mi par cosa indegna,
come io già in Francia, hor egli in India vegna.
67
Non men sicura a lui fia Sericana,
che già due volte Francia a me sia stata. –
Così dicendo, per la via più piana
ne venne in Arli, e vi trovò l’armata;
e quindi con Baiardo e Durindana
si partì sopra una galea spalmata.
Ma questo a un’altra volta; che hor Gradasso,
Rinaldo e tutta Francia drieto lasso.
68
Voglio Astolfo seguir, ch’a sella e morso
a uso facea andar di palafreno
l’Hippogrypho per l’aria a sì gran corso,
che l’aquila e il falcon vola assai meno.
Poi che de’ Galli hebbe il paese scorso
da un mare a l’altro e da Pyrene al Rheno,
tornò verso Ponente alla montagna
che separa la Francia da la Spagna.
69
Passò in Navarra, et indi in Aragona,
lasciando a chi ’l vedea gran maraviglia.
Restò lungi a sinistra Taracona,
Biscaglia a destra, et arrivò in Castiglia.
Vide Gallicia e il regno d’Ulispona,
poi volse il corso a Cordova e Siviglia;
né lasciò presso al mar né fra campagna
città che non vedesse in tutta Spagna.
70
Vide le Gade e la meta che pose
a’ primi naviganti Hercole invitto.
Per l’Aphrica vagar poi si dispose
dal mar d’Atlante ai termini d’Egytto.
Vide le Baleariche famose
e l’Isola d’Evizza al camin dritto.
Poi volse il freno, e tornò verso Arzilla
sopra al mar che da Spagna dipartilla.
71
Vide Marocco, Feza, Orano, Hippona,
Algier, Buzea, tutte città superbe
c’hanno d’altre città tutte corona,
corona d’oro, e non di fronde o d’herbe.
Verso Biserta e Tunisi poi sprona:
vede Capisse e l’Isola del Zerbe
e Tripoli e Berniche e Tolomitta,
sin dove il Nilo in Asia si traghitta.
72
Tra la marina e la selvosa schiena
del fiero Atlante vide ogni contrada.
Poi diè le spalle ai monti di Carena,
e sopra i Cyrenei prese la strada;
e traversando i campi de l’arena,
venne a’ confin di Nubia in Albaiada.
Rimase drieto il Cimitier di Batto
e il gran tempio d’Amon, c’hoggi è disfatto.
73
Indi giunse ad un’altra Tremisenne,
che segue pur di Macometto il stilo.
Poi volse a gli altri Ethïopi le penne,
che contra questi son di là dal Nilo:
alla città di Nubia il camin tenne
tra Dobada e Coalle in aria a filo.
Questi Christiani son, quei Saracini;
e stan con l’arme in man sempre a’ confini.
74
Senapo Imperator de la Ethïopia,
che in luoco tien di settro in man la croce,
di gente, di cittadi e d’oro ha copia
quindi sin là dove il mar Rosso ha foce;
e serva a punto nostra fede propia,
che può salvarlo dal exilio atroce:
è (s’io non piglio error) questo quel luoco
dove al battesmo lor usano il fuoco.
75
Dismontò il duca Astolfo alla gran corte
dentro da Nubia, e visitò il Senapo.
Il Castello è più ricco assai che forte
dove dimora de’ Ethïòpi il capo:
le catene de’ ponti e de le porte,
gangheri e chiavistei da piede a capo,
e finalmente tutto quel lavoro
che nui di ferro usiamo, ivi usan d’oro.
76
Anchor che del finissimo metallo
vi sia tale abondanza, è pur in pregio.
Colonnate di limpido chrystallo
eran le loggie del palazzo Regio;
facean di verde, rosso, azuro e giallo
d’intorno a’ vòlti un relucente fregio,
divisi tra proportionati spati,
rubin, smeraldi, zaphiri e topati.
77
In muri, in tetti, in pavimenti sparte
eran le perle, eran le gemme fine.
Quindi il muschio odorifero si parte
che vien portato per tante marine:
le belle cose in summa in questa parte
nascon, che van pel mondo peregrine.
El gran Soldano è a questo Re suggetto:
qui Prete Ianni, e là Senapo è detto.
78
Di quanti Re mai d’Ethïopia fôro,
il più ricco fu questo e il più possente;
ma con tutta sua possa e suo thesoro,
li occhi perduti havea miseramente.
Et era questo il men del suo martoro:
molto era più noioso e più spiacente
che, quantunque ricchissimo se chiame,
crucïato era da perpetua fame.
79
Se per mangiar o ber quello infelice
venìa, cacciato dal bisogno grande,
tosto apparia l’infernal schiera ultrice
di monstrüose Harpie brutte e nefande,
che col grifo e con l’ugna predatrice
spargeano i vasi, e rapian le vivande;
e quel che non capia lor ventre ingordo,
vi rimanea contaminato e lordo.
80
E questo, perché essendo d’anni acerbo
e vìstose levato in tanto honore,
che, oltra le ricchezze, di più nerbo
era di tutti li altri e di più core,
divenne, come Lucifer, superbo,
e pensò mover guerra al suo Fattore.
Con la sua gente la via prese al dritto
al monte onde esce il gran fiume d’Egytto.
81
Inteso havea che su quel monte alpestre,
ch’oltra le nubi sino al ciel si lieva,
era quel paradiso che terrestre
si dice, ove habitò già Adamo et Eva.
Con cameli, elephanti e con pedestre
exercito, orgoglioso si moveva
con gran desir, se v’habitava gente,
di farla alle sue leggi ubidïente.
82
Dio gli ripresse il temerario ardire,
e mandò l’Angel suo tra quelle frotte,
che centomila ne fece morire
e condennò lui a perpetua notte.
Alla sua mensa poi fece venire
l’horrendo mostro dal’infernal grotte,
che gli rape e contamina li cibi,
né lascia che ne gusti o ne delibi.
83
In desperatïon continua il messe
uno che già gli havea prophetizato
che le sue mense non seriano oppresse
da la rapina e dal odor ingrato,
come dentro di Nubia si vedesse
volar per l’aria un cavallier armato:
perché dunque impossibil parea questo,
privo d’ogni speranza vivea mesto.
84
Hor che con gran stupor vede la gente
sopra ogni muro e sopra ogni alta torre
intrar l’armato cavallier, repente
a noncïarlo al Re di Nubia corre,
a cui la prophetia ritorna a mente;
et oblïando per letitia tôrre
la fedel verga, con le mane inante
vien brancolando al cavallier volante.
85
Astolfo ne la piazza del castello
con spatïose ruote in terra scese.
Poi che fu il Re condutto inanzi ad ello,
inginocchiossi, e le man giunte stese,
e disse: – Angel di Dio, Messia novello,
ben che perdon non mertino mie offese,
mira che proprio è a noi peccar sovente,
a voi perdonar sempre a chi si pente.
86
Del mio error consapevole, io non chieggio
né chiederti ardirei li antiqui lumi;
che tu lo possa far, ben creder deggio,
che sei de’ cari a Dio beati numi.
Ti basti il gran martìr ch’io non ci veggio,
senza ch’ognhor la fame me consumi:
almen discaccia le fetide Harpie,
che non rapiscan le vivande mie.
87
E di marmore un tempio ti prometto
edificar de l’alta Regia mia,
che tutte d’oro habbia le porte e il tetto,
e dentro e fuor di gemme ornato sia;
e dal tuo santo nome serà detto,
e del miracol tuo sculpito fia. –
Così dicea quel Re che nulla vede,
cercando invan baciar al Duca il piede.
88
Rispose Astolfo: – Né l’Angel di Dio,
né son Messia novel, né dal ciel vegno;
ma son mortal e peccatore anch’io,
di tanta gratia a me concessa indegno.
Io farò ogni opra acciò ch’el mostro rio,
per morte o fuga, io ti levi del regno.
S’io ’l fo, me non, ma Dio ne loda solo,
che per tuo aiuto qui mi drizzò il volo.
89
Fa’ questi voti a Dio, debiti a lui;
a lui li templi edifica e li altari. –
Così parlando, andavano ambidui
verso il castel fra li baron preclari.
Il Re commanda alli sergenti sui
che subito il convivio si prepari,
sperando che non debbia esserli tolta
la vivanda di mano a quella volta.
90
Dentro una ricca sala incontinente
apparecchiossi il convivio solenne.
Col Senapo s’assise solamente
il duca Astolfo, e la vivanda venne.
Ecco il stridor che per l’aria si sente,
percossa intorno da l’horribil penne;
ecco venir l’Harpie brutte e nefande,
tratte dal cielo a odor de le vivande.
91
Erano sette in una schiera, e tutte
volto di donna havean, pallide e smorte,
per lunga fame attenuate e sciutte,
horribili a veder più che la Morte.
L’alaccie grandi havean, deformi e brutte;
le man rapaci, e l’ugne incurve e torte;
grande e fetido il ventre, e lunga coda,
come di serpe che s’aggira e snoda.
92
Si sentono venir per l’aria, e quasi
si vedon tutte a un tempo in su la mensa
rapir li cibi e riversar i vasi:
e molta feccia il ventre lor dispensa,
tal che gli è forza d’atturare i nasi;
che non si può soffrir la puzza immensa.
Astolfo, come l’ira lo sospinge,
contra li ingordi uccelli il ferro stringe.
93
Uno sul collo, un altro su la groppa
percuote, e chi nel petto, e chi nel’ala;
ma come fera in s’un sacco di stoppa,
poi langue il colpo, e senza effetto cala.
E quelli non lasciâr piatto né coppa
che fusse intatto, né sgombrâr la sala
che le rapine lor, lor fiero pasto
il tutto havea contaminato e guasto.
94
Havuto havea quel Re ferma speranza
nel Duca, che l’Harpie gli discacciassi;
et hor che nulla ove sperar gli avanza,
sospira e geme, e disperato stassi.
Viene al Duca del corno rimembranza,
che suole aitarlo a’ perigliosi passi;
e conchiude tra sé che questa via
per discacciare i mostri ottima sia.
95
E prima fa ch’el Re con soi baroni
di calda cera l’orecchie si serra,
acciò che tutti, come il corno suoni,
non habbiano a fuggir fuor de la terra.
S’arma egli, e si rassetta in su li arcioni
del Hippogrypho, et il bel corno afferra;
et accennando al scalco, poi commanda
che ripona e la mensa e la vivanda.
96
E così in una loggia s’apparecchia
con altra mensa altra vivanda nuova.
Ecco l’Harpie che fan l’usanza vecchia:
Astolfo il corno subito ritrova.
Li augelli, che non han chiusa l’orecchia,
udito il suon, non puon star alla prova;
ma vanno in fuga pieni di paura,
che né del cibo o d’altro hanno più cura.
97
Subito il Paladin dietro lor sprona:
volando escie il caval fuor de la loggia
e col castel la gran città abbandona,
e per l’aria, cacciando i mostri, poggia.
Astolfo il corno tuttavolta suona:
fuggon l’Harpie verso la Zona roggia,
tanto che sono a l’altissimo monte
dove il Nilo ha (se in alcun luoco ha) fonte.
98
Quasi de la montagna alla radice
entra sotterra una profonda grotta,
che certissima porta esser si dice
di chi all’inferno vuol scender talhotta.
Quivi si fu la turba predatrice,
come in sicuro albergo, ricondotta,
e giù sin di Cocito in su la proda
scese, e più là, dove quel suon non oda.
99
All’infernal caliginosa buca
ch’apre la strada a chi si tol dal lume,
finì l’horribil suon l’inclyto Duca,
e fe’ raccôrre al suo caval le piume.
Ma prima che più inanzi lo conduca,
per non mi dispartir dal mio costume,
poi che da tutti i lati ho pieno il foglio,
finire il canto e riposar mi voglio.