CANTO DECIMOTTAVO
1
Le donne antique fêr mirabil cose,
altre ne l’arme, altre in le sacre muse;
e di lor opre belle e glorïose
gran lume in tutto il mondo si diffuse:
Arpalice e Camilla son famose
perché in battaglia erano experte et use;
Sapho e Corinna, perché furon dotte,
splendono illustri e mai non veggon notte.
2
Le donne son venute in excellenza
di ciascun’arte ov’hanno posto cura;
e qualunque all’historie habbia avertenza
ne sente anchor la fama non oscura.
Se ’l mondo n’è gran tempo stato senza,
non perhò sempre il mal influsso dura;
e forse ascosi han lor debiti honori
o negligentia o invidia de’ scrittori.
3
Ben mi par di veder ch’al secol nostro
tanta virtù fra belle donne emerga,
che può dar opra a charte et ad inchiostro,
perché in li anni futuri se disperga
e perché, odiose lingue, il mal dir vostro
con vostra eterna infamia si summerga:
e le lor lode appariranno in guisa,
che di gran lunga avanzaran Marphisa.
4
Hor pur tornando a lei, questa Donzella
al cavallier che le usò cortesia
del esser suo non niega dar novella,
quando esso a lei voglia contar chi sia.
E la prima esser vuol a nomarse ella,
tanto il nome di lui saper disia:
– Io son (disse) Marphisa, – e fu assai questo;
che si sapea per tutto il mondo il resto.
5
L’altro comincia, poi che tocca a lui,
con più prohemio a raccontar chi sia,
dicendo: – Io credo che ciascun di vui
per fama sappia de la stirpe mia;
che non pur Francia, Spagna e i vicin sui,
ma l’India, l’Ethÿopia e la Rossìa
ha chiara cognition di Chiaramonte,
onde uscì il Cavallier ch’uccise Aimonte,
6
e quel che a Chiarïello e al Re Mambrino
diede la morte, e il regno lor disfece.
Di questo sangue, là dove in l’Euxino
l’Istro ne vien con otto corna o diece,
al duca Amon, il qual già peregrino
vi capitò, la matre mia mi fece:
e l’anno è hormai ch’io la lasciai dolente,
ch’ir volli in Francia a ritrovar mia gente.
7
Ma non potei finire il mio vïaggio,
che qua mi spinse un tempestoso Noto.
Son diece mesi o più che stanza v’haggio
(che tutti i giorni e tutte l’hore noto).
Nominato son io Guidon Silvaggio,
di poca prova anchora e poco noto.
Uccisi qui Argilon da Melibea
con dieci cavallier che seco havea.
8
Feci la prova anchor de le donzelle:
così n’ho diece a’ miei piaceri allato;
et alla scelta mia son le più belle
e son le più gentil di tutto il stato.
E queste reggo e tutte l’altre; ch’elle
di sé m’hanno il governo e il scettro dato:
così daranno a qualunque altro arrida
Fortuna sì, che la decina uccida. –
9
Li cavallier dimandano a Guidone
come ha sì pochi maschi il territoro;
et se alle moglie hanno suggettïone
come esse l’hanno in li altri luochi a loro.
Disse Guidon: – Più volte la cagione
udita n’ho da poi che qui dimoro;
e vi serà (secondo ch’io l’ho udita)
da me, poi che v’aggrada, referita.
10
Al tempo che tornâr dopo anni venti
da Troia i Greci, che durò l’assedio
dieci, e dieci altri da contrari venti
furo agitati in mar con troppo tedio,
trovâr che le lor donne alli tormenti
di tanta absentia havean preso rimedio:
tutte s’havean gioveni amanti eletti
per non si raffreddar sole ne’ letti.
11
Le case lor trovaro i Greci piene
de l’altrui figli; e per parer commune
perdonano alle moglie, che san bene
che tanto non potean viver digiune:
ma ai figli de li adulteri conviene
altrove procacciarsi altre fortune;
che tolerar non vogliono i mariti
che più alle spese lor siano notriti.
12
Sono altri exposti, altri tenuti occulti
da le lor matri e sostenuti in vita.
In varie squadre quei ch’erano adulti
feron, chi qua chi là, tutti partita.
Per altri l’arme son, per altri culti
li studi e l’arti; altri la terra trita;
serve altri in corte; altri è guardian di gregge,
come piace a colei che qua giù regge.
13
Partì fra li altri un giovinetto, figlio
di Clitemnestra, la crudel regina,
di deciotto anni, fresco come un giglio
o rosa colta allhor di su la spina;
et havendosi armato un buon naviglio,
si pose a depredar per la marina
in compagnia di cento giovinetti
del tempo suo, per tutta Grecia eletti.
14
Li Cretesi in quel tempo, che cacciato
el crudo Idomeneo del regno haveano,
e per assicurarsi il nuovo stato
d’huomini e d’arme adunation faceano,
fêro con gran stipendio lor soldato
Phalanto (così al giovene diceano),
e lui con tutti quei che seco havea
poser per guardia alla città Dictea.
15
Tra cento alme città che erano in Creta,
Dictea più ricca e più piacevole era,
di belle donne et amorose lieta,
lieta di giuochi da matino a sera:
e come era ogni tempo consueta
d’accarezzar la gente forestiera,
fe’ a costor sì, che poco lor rimase
a non farli signor de le lor case.
16
Eran gioveni tutti e belli affatto;
ch’el fior di Grecia havea Phalanto eletto:
sì che alle belle donne, al primo tratto
che ve apparîr, trassero i cor del petto.
Poi che non men che belli, anchora in fatto
si dimostrâr buoni e gagliardi al letto,
si fêro ad esse in pochi dì sì grati
che sopra ogn’altro ben n’erano amati.
17
Finita che d’accordo è poi la guerra
per cui stato Phalanto era condutto,
e ch’el stipendio militar si serra,
sì che non v’hanno i gioveni più frutto,
e per questo lasciar voglion la terra;
fan le donne di Creta maggior lutto,
e per ciò versan più dirotti pianti,
che se i lor patri havesson morti inanti.
18
Da le lor donne i gioveni assai fôro,
ciascun per sé, di rimaner pregati:
né restar volendo essi, esse con loro
n’andâr, lasciando e patri e figli e frati,
di ricche gemme e molto argento et oro
havendo i lor dimestici spogliati;
che la pratica fu tanto secreta,
che non sentì la fuga huomo di Creta.
19
Sì fu propicio il vento, sì fu l’hora
commoda, che Phalanto a fuggir colse,
che diece miglia erano usciti fuora
quando del danno suo Creta si dolse.
Poi questa spiaggia, inhabitata allhora,
trascorsi per fortuna li raccolse;
qui si posaro, e qui sicuri tutti
meglio del furto lor videro i frutti.
20
Questa lor fu per dieci giorni stanza
di piaceri amorosi tutta piena.
Ma come spesso avien che l’abondanza
seco in cor giovenil fastidio mena,
tutti d’accordo fur di restar sanza
femine, e liberarsi di tal pena;
che non è soma da portar sì grave
come haver donna, quando a noia s’have.
21
Essi che di guadagno e di rapine
eran bramosi, e di dispendio parchi,
vider che a pascer tante concubine
altro era uopo saper, che tirar archi:
sì che sole lasciâr qui le meschine,
e se ne andâr di lor ricchezze carchi
là dove in Puglia in ripa ’l mar poi sento
ch’edificâr la terra di Tarènto.
22
Le donne, che si videro tradite
da’ lor amanti in che più fede haveano,
restâr per alcun dì sì sbigottite,
che statue immote in lito al mar pareano.
Visto poi che da gridi e da infinite
lachryme alcun profitto non traheano,
a pensar cominciaro et haver cura
come aiutarsi in tanta lor sciagura.
23
E proponendo in mezo i lor pareri,
altre diceano in Creta è da tornarsi;
e più presto al arbitrio de’ severi
padri e di lor mariti offesi darsi,
che ne’ deserti liti e boschi fieri
di disagio e di fame consumarsi.
Altre dicean che si devean più presto
affogar tutte in mar, che mai far questo;
24
e che manco male era meretrici
andar pel mondo, andar mendiche o schiave,
che se stesse offerire alli supplìci
di che eran degne l’opere lor prave.
Questi e simil partiti l’infelici
si proponean, ciascun più duro e grave.
Tra loro al fine una Oronthea levosse,
ch’origine trahea dal Re Minosse,
25
la più gioven de l’altre e la più bella
e la più accorta, e che havea manco errato:
amato havea Phalanto e a lui pulcella
datasi, e per lui ’l padre havea lasciato.
Costei, mostrando in viso et in favella
el magnanimo cor d’ira infiammato,
redargüendo di tutte altre il detto,
suo parer disse, e fe’ seguirne effetto.
26
Di questa terra a lei non parve tôrsi,
che connobbe feconda e d’aria sana,
e di limpidi fiumi haver discorsi,
di selve opaca, e la più parte piana;
con porti e foci, ove dal mar ricorsi
per ria fortuna havea la gente extrana
c’hor d’Aphrica portava, hora d’Egitto
cose diverse e necessarie al vitto.
27
Qui parve a lei fermarse, e far vendetta
del viril sesso che l’havea sì offese:
vuol che ogni nave, che da venti astretta
a pigliar venga porto in suo paese,
a sacco, a sangue, a fuoco al fin si metta;
né de la vita a un sol si sia cortese.
Così fu detto e così fu concluso,
e fu fatta la legge e messa in uso.
28
Come turbar l’aria sentiano, armate
le femine correan su la marina
dal’implacabile Oronthea guidate,
che diè lor legge e si fe’ lor Reina:
e de le navi a’ liti lor cacciate
faceano incendi horribili e rapina,
huom non lasciando vivo, che novella
dar ne potesse o in questa parte o in quella.
29
Così solinghe vissero qualche anno,
aspre nemiche del sesso virile:
ma connobbero poi che ’l proprio danno
procacciarian, se non mutavan stile;
che se di lor propagine non fanno,
serà lor legge in breve irrita e vile
e mancherà con l’infecondo regno,
dove di farla eterna era disegno.
30
Sì che, temprando il suo rigore un poco,
scelsero, in spatio di quattr’anni intieri,
di quanti capitaro in questo luoco
dieci belli e gagliardi cavallieri,
che per durare in l’amoroso giuoco
contra lor cento fusser buon guerrieri.
Esse in tutto eran cento, e statuito
ad ogni lor decina fu un marito.
31
Prima ne fur decapitati molti
ch’al paragon lor reuscîr mal forti.
Hor questi dieci a buona prova tolti,
del letto e del governo hebbon consorti;
facendo lor giurar che, se più còlti
altri huomini verriano in questi porti,
essi serian che, spenta ogni pietade,
li porriano ugualmente a fil di spade.
32
Ad ingrossar et a figliar appresso
le donne, indi a temere incominciaro
che tanti nascerian del viril sesso,
che contra lor non potrian far riparo;
e al fine in man de li huomini rimesso
serìa il governo ch’elle havean sì caro:
sì che ordinâr, mentre eran li anni imbelli,
far sì che mai non fusson lor ribelli.
33
L’ordine fu dei maschi allevar pochi:
uno ogni madre vuol la legge horrenda;
tutti li altri (comanda) o li suffòchi,
o fuor del stato li permùti o venda.
Ne mandano per questo in varii luochi:
e a chi li porta dicono che prenda
femine, s’a-bbaratto haver ne pote;
se non, non torni almen con le man vuote.
34
Né uno anchora allevarian, se senza
potesson far e mantenere il gregge.
Questa è quanta pietà, quanta clemenza
a li suoi più che a li altri usa la legge:
li altri condannan con ugual sentenza;
e solamente in questo si corregge,
che non vuol che, secondo il primero uso,
le femine li uccidano in confuso.
35
Se dieci o venti o più persone a un tratto
vi fusser giunte, in carcere eran messe:
e d’una al giorno, e non di più, era tratto
il capo a sorte, che perir devesse
nel tempio horrendo che Oronthea havea fatto,
dove uno altare alla Vendetta eresse;
e dato a l’un de’ dieci il crudo ufficio
per sorte era di farne sacrificio.
36
Dopo molt’anni alle ripe homicide
a dar venne del capo un giovinetto,
la cui stirpe scendea dal buono Alcide,
di gran valor nel’arme, Elbanio detto.
Qui preso fu, che a pena se ne avide,
come quel che venìa senza suspetto;
e con gran guardia in stretta parte chiuso,
con li altri era serbato a crudel uso.
37
Di viso era costui bello e giocondo,
e di maniere e di costumi ornato;
e di parlar sì dolce e sì facondo
ch’un Aspe volentier l’havria ascoltato:
sì che, come di cosa rara al mondo,
del esser suo fu tosto rapportato
ad Alexandra figlia d’Oronthea,
ch’anchor Regina in l’isola vivea.
38
Oronthea vivea anchora; e già mancate
tutte eran l’altre che habitâr qui in prima:
e dieci tante e più n’erano nate,
e in forza eran cresciute e in maggior stima;
né tra dieci fucine, che serrate
stavon pur spesso, havean più d’una lima;
e dieci cavallieri ancho havean cura
di dar a chi venìa fiera aventura.
39
Alexandra, bramosa di vedere
el giovinetto c’havea tante lode,
da la sua matre in singular piacere
impetra sì, ch’Elbanio vede et ode;
e quando vuol partirne, rimanere
si sente il core ove è chi ’l punge e rode:
legar si sente e non sa far contesa,
e al fin dal suo prigion si truova presa.
40
Elbanio disse a lei: «Se di pietade
fusse, madonna, qui notitia anchora,
come se n’ha per tutte altre contrade
dovunque il vago Sol scalda e colora,
io v’osarei, per vostra alma beltade
ch’ogni animo gentil di sé inamora,
chiedervi in don la vita mia, che poi
serei disposto ognhor spender per voi.
41
Hor quando fuor d’ogni ragion qui sono
privi d’humanitade i cori humani,
non vi dimandarò la vita in dono,
che i prieghi miei so ben che serian vani;
ma che da cavalliero, o tristo o buono
ch’io sia, possa morir con l’arme in mani,
e non come dannato per giudicio,
o come animal bruto in sacrificio».
42
Alexandra gentil, che humidi havea
per la pietà del giovinetto i rai,
rispose: «Anchor che più crudele e rea
sia questa terra ch’altra fusse mai,
non concedo perhò che qui Medea
ogni femina sia, come tu fai:
e quando ogn’altra così fusse o peggio,
esser da l’altre excettuata i’ deggio.
43
E se ben per adietro io fussi stata
empia e crudel, come qui sono tante,
dir posso che suggetto ove mostrata
per me fusse pietà, non hebbi inante.
Ma ben di tigre serei più arrabbiata
e più duro hare’ il cor che di diamante,
se non m’havesse tolta ogni durezza
tua beltà, tuo valor, tua gentilezza.
44
Così non fusse la legge più forte
che contra peregrini è statuita,
come io non schivarei con la mia morte
di comparar la tua più degna vita.
Ma non è grado qui di sì gran sorte
che ti potesse dar libera aita;
e quel che chiedi anchor, ben che sia poco,
difficile ottener fia in questo luoco.
45
Pur io vedrò di far che tu l’ottenga,
c’habbi nanzi il morir questo contento;
ma mi dubito ben che te n’avenga,
tenendo il morir lungo, più tormento».
Suggiunse Elbanio: «Quando incontra i’ venga
a dieci armato, di tal cor mi sento
che la vita ho speranza di salvarme,
e uccider lor, se tutti fussero arme».
46
Alexandra a quel detto non rispose
se non un gran suspiro, e dipartisse;
e portò nel partir mille amorose
punte nel cor, mai non sanabil, fisse.
Venne alla matre, e volontà le pose
di non lasciar ch’el cavallier morisse,
quando si dimostrasse così forte
che, solo, havesse posto i dieci a morte.
47
La Reina Oronthea fece raccôrre
el suo consiglio, e disse: «A noi conviene
sempre il miglior che ritroviamo porre
a guardar nostri porti e nostre arene;
e per saper chi ben lasciar, chi tôrre,
prova è sempre da far, quando gli aviene;
per non patir con nostro danno a torto
che regni il vile, e chi ha valor sia morto.
48
A me par, s’a voi par, che statuito
sia ch’ogni cavallier per l’avenire,
che fortuna habbia tratto al nostro lito,
prima che al tempio si faccia morire,
possa egli sol, se gli piace il partito,
contra gli dieci alla battaglia uscire;
e se di superar tutti è possente,
habbia il porto a guardar con nuova gente.
49
Parlo così, perché haven qui un prigione
che par che vincer dieci s’offerisca.
Quando, sol, vaglia tante altre persone,
dignissimo è, per dio, che se exaudisca;
così in contrario havrà punitïone,
quando vaneggi e temerario ardisca».
Oronthea fine al suo parlar qui pose,
a cui de le più antique una rispose:
50
«La principal cagion ch’a far disegno
sul commercio de li huomini ne mosse
non fu perché a difender questo regno
del loro aiuto alcun bisogno fosse;
che per far questo havemo ardire e ingegno
da noi medesme a sufficientia e posse:
così senza sapessimo far ancho,
che non venisse il propagarsi a manco!».
51
Ma poi che senza lor questo non lece,
tolti haven, ma non tanti, in compagnia,
che mai ne sia più d’uno incontra diece
sì c’haver di noi possa signoria.
Per conciper di lor questo si fece,
non che di lor difesa uopo ne sia:
la lor prodezza sol ne vaglia in questo,
e sieno ignavi e inutili nel resto.
52
Tra noi tenere un huom che sia sì forte
contrario è in tutto al principal disegno.
Se può un solo a dieci huomini dar morte,
quante donne farà stare egli al segno?
Se i dieci nostri fusser di tal sorte,
el primo dì n’havrebbon tolto il regno.
Non è la via di dominar, se vuoi
por l’arme in mano a chi può più di noi.
53
Pon mente anchor che quando così aiti
Fortuna questo tuo, che’ dieci uccida,
di cento donne che di lor mariti
rimarran prive sentirai le grida.
Se vuol campar, propona altri partiti
ch’esser di dieci gioveni homicida;
pur, se per far con cento donne è buono
quel che dieci fariano, habbi perdono».
54
Fu d’Artemia crudel questo il parere
(così havea nome); e non mancò per lei
di far nel tempio Elbanio rimanere
scannato inanzi a-llor spietati dèi.
Ma la madre Oronthea, che compiacere
vòlse alla figlia, replicò a colei
altre et altre ragioni, e modo tenne
che nel senato il suo parer s’ottenne.
55
L’haver Elbanio di bellezza il vanto
sopra ogni cavallier che fusse al mondo
fu nei cor de le giovane di tanto
(ch’erano in quel consiglio) e di tal pondo,
che ’l parer de le vecchie andò da canto,
che con Artemia volean far secondo
l’ordine antiquo; né lontan fu molto
ad esser per favore Elbanio assolto.
56
Di perdonarli in summa fu concluso,
ma poi che la decina havesse spento
e fusse stato in l’altro assalto ad uso
di diece donne buono, e non di cento.
Di carcer fu l’altra matina schiuso,
et hebbe arme e cavallo a suo talento.
Contra dieci guerrier solo si mise,
e l’uno appresso a l’altro in piazza uccise.
57
Fu la notte seguente a prova messo
contra diece donzelle ignudo e solo,
dove hebbe al ardir suo sì buon successo,
che ad una ad una assaggiò tutto il stuolo.
E questo gli acquistò tal gratia appresso
ad Oronthea, che l’hebbe per figliuolo:
gli fe’ sposar la figlia e l’altre nove
con che havea fatto le notturne pruove.
58
E lo lasciò con Alexandra bella
(che poi diè nome a questa terra) herede,
con patto ch’a servar egli habbia quella
legge, et ogni altro che da lui succede:
che ciascun, che già mai sua fiera stella
farà qui porre il sventurato piede,
elegger possa o in sacrificio darsi
o con dieci guerrier solo provarsi.
59
E se gli avien ch’el dì li huomini uccida,
la notte con le femine si provi;
e quando in questo anchor tanto gli arrida
la sorte sua, che vincitor si trovi,
sia del femineo stuol principe e guida
e la decina a scelta sua rinuovi,
con la qual regni, fin ch’un altro arrivi
che sia più forte e lui di vita privi.
60
Appresso a duo mil’anni il costume empio
s’è mantenuto, e si mantiene anchora;
e sono pochi giorni che nel tempio
uno infelice peregrin non mora.
Se contra dieci alcun chiede, ad exempio
d’Elbanio, armarsi, che ve n’è talhora,
spesso la vita al primo assalto lassa;
né di mille uno a l’altra prova passa.
61
Pur ci passano alcuni, ma sì rari
che con le dita numerar si ponno.
Uno di questi fu Argilon: ma guari
con la decina sua non fu qui donno;
che spintoci io da venti e mar contrari
gli occhi gli chiusi in sempiterno sonno.
Così fussi io con lui morto quel giorno,
prima che in servitù visso con scorno;
62
che piaceri amorosi e riso e giuoco,
che suole amar ciascun de la mia etade,
le purpure e le gemme, e l’haver luoco
inanzi a tutti li altri in la cittade,
potuto hanno, per dio, mai giovar poco
all’huom che privo sia di libertade;
e ’l non poter mai più di qui levarmi
servitù grave e intolerabil parmi.
63
Vedermi consumar dei miglior anni
el più bel fior in sì vil opra e molle
tiemmi il cor sempre in stimulosi affanni,
et ogni gusto di piacer mi tolle.
Del padre e frati miei la gloria i vanni
batte pel mondo, e sin al ciel s’extolle;
che forse accaderia ch’anch’io n’havessi
la parte mia, s’esser con lor potessi.
64
Parmi ch’ingiuria il mio destin mi faccia
havendomi a sì vil servigio eletto;
come chi ’n le iumente il destrier caccia
c’habbia d’occhi o di piedi alcun difetto,
o per altro accidente che dispiaccia
sia fatto al’arme e a miglior uso inetto:
né sperando io, se non per morte, uscire
di sì vil servitù, bramo morire. –
65
Guidon qui fine alle parole pose
e maledisse il suo destin per sdegno,
che de li cavallieri e de le spose
gli diè vittoria in acquistar quel regno.
Astolfo stette a udire, e si nascose
tanto, che si fe’ certo a più d’un segno
che, come detto havea, questo Guidone
era figliuol del nobil duca Amone.
66
Poi gli rispose: – Io sono il duca Inglese,
il tuo cugino Astolfo; – et abbracciollo,
e con atto amorevole e cortese,
quasi piangendo, in la gota baciollo.
– Caro parente mio, non più palese
tua madre ti potea por segno al collo;
che a farne fede che tu sei de’ nostri
basta il valor che con la spada mostri. –
67
Fatto in ogni altro luoco havria gran festa
Guidon d’haver trovato un suo parente;
quivi l’accolse con la faccia mesta
perché fu di vederlovi dolente.
Se vive, sa che Astolfo schiavo resta,
né il termine è più là ch’el dì seguente;
se fia libero Astolfo, ne more esso:
sì che il ben d’uno è il mal de l’altro expresso.
68
Gli duol che li altri cavallieri anchora
habbia, vincendo, a far sempre captivi;
né, tutto ch’esso in la battaglia mora,
potrà giovar che servitù lor schivi:
che se d’un fango ben li porta fuora
e poi s’inciampi come all’altro arrivi,
havrà lui senza pro vinto Marphisa;
ch’essi pur ne fien schiavi, et essa uccisa.
69
Da l’altro canto havea l’acerba etade,
la cortesia e il valor del Giovinetto
d’amore intenerito e di pietade
tanto a Marphisa et a’ compagni il petto,
che, con morte di lui lor libertade
esser devendo, havean quasi a dispetto:
e se Marphisa non può far con manco
che uccider lui, vuol essa morir ancho.
70
Ella disse a Guidon: – Vientene insieme
con noi, che a viva forza usciren quinci. –
– Deh (rispose Guidon) lascia ogni speme
di mai più uscirne, o perdi meco o vinci. –
Ella suggiunse: – Il mio cor mai non teme
di non dar fine a cosa che cominci;
né ritrovar so la più agevol strada
di quella ove per guida habbia la spada.
71
Tal ne la piazza ho il tuo valor provato
che, s’io son teco, ardisco ad ogni impresa.
Quando la turba intorno fia al steccato
al nuovo Sol sopra il theatro ascesa,
io vuo’ che l’uccidiàn per ogni lato,
o vada in fuga o cerchi far difesa,
e che alli lupi et avoltoi del luoco
lasciamo i corpi, e la cittade al fuoco. –
72
Suggiunse a lei Guidon: – Tu m’havrai pronto
a seguitarti et a morirti a canto,
ma vivi rimaner non facciàn conto;
bastar ne può di vendicarsi alquanto:
che spesso diece mila in piazza conto
del popul feminile, et altrotanto
resta a guardar e porto e ròcca e mura,
né alcuna via d’uscir trovo sicura. –
73
Disse Marphisa: – E molto più sieno elle
de li huomini che Xerse hebbe già intorno,
e siano più de l’anime ribelle
ch’uscîr del ciel con lor perpetuo scorno;
se tu sei meco, o almen non sii con quelle,
tutte le voglio uccidere in un giorno. –
Guidon suggiunse: – Io non ci so via alcuna
ch’a valer n’habbia, se non val questa una.
74
Ne può sola salvar, se ne succede,
quest’una ch’io dirò, c’hor mi soviene.
Fuor che alle donne, uscir non si concede
né metter piede in su le salse arene:
e per questo commettermi alla fede
d’una de le mie donne mi conviene,
del cui perfetto amor fatt’ho sovente
più prova anchor, ch’io non farò al presente.
75
Non men di me tôrmi costei disia
di servitù, pur che ne venga meco;
che così spera, senza compagnia
de le rivali sue, ch’io viva seco.
Ella nel porto o Fuste o Saettia
farà ordinar, mentre è anchor l’aer cieco,
che i marinari vostri troveranno
acconcia a navigar, come vi vanno.
76
Drieto a me, tutti in un drapel ristretti,
cavallieri, mercanti e galeotti
che ad albergarvi sotto a questi tetti
meco (vostra mercé) sète ridotti,
havrete a farvi amplo sentier coi petti
se del nostro camin semo interrotti:
così spero (aiutandone le spade)
ch’io vi trarrò de la crudel cittade. –
77
– Tu fa’ come ti par – disse Marphisa,
– ch’io son per me d’uscir di qui sicura.
Più facil fia che di mia mano uccisa
la gente sia, che è dentro a quelle mura,
che mi veggia fuggir, o in altra guisa
alcun possa notar che habbi paura.
Vuo’ uscir di giorno, e sol per forza d’arme;
che per ogn’altro modo obbrobrio parme.
78
S’io ci fussi per donna connosciuta,
so che havrei da le donne honor e pregio;
e volentieri ci serei tenuta,
e tra le prime forse del collegio:
ma con costoro essendoci venuta,
non ci vuo’ d’essi haver più privilegio.
Troppo error fôra ch’io mi stessi o andassi
libera, e lor in servitù lasciassi. –
79
Queste parole et altre seguitando,
mostrò Marphisa che ’l rispetto solo
c’havea al periglio de’ compagni (quando
potria il suo ardir a lor tornar in duolo)
la ritenea d’andar con memorando
segno d’ardir tutto a sfidar quel stuolo:
e per questo a Guidon lascia la cura
d’usar la via che più gli par sicura.
80
Guidon la notte con Aleria parla
(così havea nome la fidata moglie),
né bisogno gli fu molto pregarla,
che la trovò disposta alle sue voglie.
Ella trovò una nave e fece armarla,
e v’arrecò le sue più ricche spoglie,
con pretesto volere al nuovo albóre
con le compagne uscire in corso fuore.
81
Ella havea fatto nel palazzo inanti
spade e lancie arrecar, corazze e scudi,
onde armar si potessero i mercanti
e i galeotti ch’eran mezo nudi.
Altri dormiro et altri ster vegghianti,
li otii a vicenda compartendo e i studi,
spesso guardando, e pur con l’arme indosso,
se l’Orïente anchor si facea rosso.
82
Dal duro volto de la terra il Sole
non tollea anchora il velo oscuro et atro;
a pena havea la Calistonia prole
per li solchi del ciel volto l’aratro:
quando il stuol feminil, che veder vuole
el fin de la battaglia, empì il theatro,
come Ape del suo claustro empie la soglia,
che mutar regno al nuovo tempo voglia.
83
Di trombe e grida e strepito de corni
el popul risuonar fa cielo e terra,
così citando il suo signor che torni
a terminar la cominciata guerra.
Aquilante e Griphon stavano adorni
de le lor arme, e il duca d’Inghilterra,
Guidon, Marphisa, Sansonetto e tutti
li altri, chi a piedi e chi a caval instrutti.
84
Per scender dal palazzo al mare e al porto
la piazza traversar si convenia,
né v’era altro camin lungo né corto:
così Guidon disse alla compagnia.
E poi che di ben far molto conforto
le diede, intrò senza rumor in via;
e ne la piazza, dove il popul era,
s’appresentò con più di cento in schiera.
85
Molto affrettando li compagni, andava
Guidone all’altra porta per uscire:
ma la gran moltitudine che stava
intorno armata e sempre atta a ferire
pensó, come lo vide che menava
seco quelli altri, che volea fuggire;
e tutta a un tratto alli archi suoi ricorse,
e parte, onde se uscia, venne ad opporse.
86
Guidon e li altri cavallier gagliardi,
e sopra tutti lor Marphisa forte,
al menar de le man non furon tardi,
e feron molto per sforzar le porte:
ma tanta era la copia de li dardi,
che con ferite de’ compagni e morte
pioveano lor di sopra et d’ognintorno,
ch’al fin temean d’haverne danno e scorno.
87
D’ogni guerrier l’usbergo era perfetto;
che se non era, havean più da temere.
Fu morto il caval sotto a Sansonetto;
quel di Marphisa v’hebbe a rimanere.
Astolfo tra sé disse: – Hora, ch’aspetto
che mai mi possa il corno più valere?
Io vuo’ veder, poi che non giova spada,
s’io so col corno assicurar la strada. –
88
Come aiutarsi in le fortune extreme
sempre solea, si pone il corno a bocca:
par che la terra e tutto il mondo treme
quando nel’aria il suon horribil scocca.
Sì nel cor de la gente il timor preme,
che per disir di fuga si trabbocca
giù del theatro, sbigottita e smorta,
non che lasci la guardia de la porta.
89
Come talhor si getta e si periglia
e da finestra e da sublime luoco
l’exterrefatta subito famiglia
che vede appresso et ognintorno il fuoco
che, mentre le tenea gravi le ciglia
il pigro sonno, crebbe a poco a poco;
così, messa la vita in abbandono,
ognun fuggìa dal spaventoso suono.
90
Di qua di là, di su di giù smarrita
surge la turba, e di fuggir procaccia;
son più di mille a un tempo ad ogni uscita:
cascano a monti, e l’una l’altra impaccia.
Perde in la stretta calca altra la vita;
da palchi e da finestre altra si schiaccia:
più d’un braccio si rompe e d’una testa,
di che altra morta, altra stroppiata resta.
91
El pianto, il grido insino al ciel saliva,
d’alta ruina misto e di fraccasso.
Affretta, ovunque il suon del corno arriva,
la turba spaventata in fuga il passo.
S’udite dir che d’ardimento priva
la vil plebe si mostri e di cor basso,
non vi maravigliate; che natura
è de la lepre haver sempre paura.
92
Ma che direte del già tanto fiero
cor di Marphisa e di Guidon Silvaggio?
de i dua gioveni figli d’Oliviero,
che già tanto honoraro il suo lignaggio?
Già venti mila havean stimato un zero;
et in fuga hor ne van senza coraggio,
come conigli o timidi colombi
a cui vicino alto rumor ribombi.
93
Così nocea alli suoi come alli extrani
la forza che nel corno era incantata:
Sansonetto, Guidone e i dui germani
fuggon drieto a Marphisa spaventata;
né fuggendo ponno ir tanto lontani,
che lor non sia l’orecchia ancho intronata.
Scorre Astolfo la terra in ogni lato,
dando via sempre al corno maggior fiato.
94
Chi scese al mare, e chi poggiò su al monte;
chi tra li boschi ad occultar si venne;
alcuna, senza mai volger la fronte,
fuggir per dieci dì non si ritenne;
uscì in tal punto alcuna fuor del ponte,
ch’in vita sua mai più non vi rivenne:
sgombraro in modo e piazze e templi e case,
che quasi vuota la città rimase.
95
Sansonetto, Marphisa e i duo fratelli,
Guidon, li marinari e li mercanti
fuggean (come v’ho detto), e fur di quelli
ch’al mar scendeano pallidi e tremanti;
ove Aleria trovâr, che fra i castelli
loro havea un legno apparecchiato inanti.
Quindi, poi ch’in gran fretta li raccolse,
diè i remi all’acqua et ogni vela sciolse.
96
Dentro e d’intorno il Duca la cittade
havea scorsa da i colli insino all’onde;
fatte havea vuote rimaner le strade:
ognun lo fugge, ognun se gli nasconde.
Molte trovate fur che per viltade
s’eran gettate in le latrine immonde;
e molte, non sapendo ove se andare,
messesi a nuoto et affogate in mare.
97
Per trovare i compagni il Duca viene,
che tenea certo di veder sul molo.
Si volge intorno e le deserte arene
vede per tutto, e non v’appare un solo.
Leva più gli occhi, e in alto e a vele piene
da sé lontani andar li vede a volo:
sì che gli convien fare altro disegno
al suo camin, poi che partito è il legno.
98
Lasciànlo pur andar, né ve n’incresca
che tanta strada far debbia soletto
per terra d’infedeli e barbaresca,
dove mai non si va senza suspetto:
non è periglio alcuno onde non esca
con quel suo corno, et n’ha mostrato effetto;
a lui tornerò a tempo, ma narrare
prima voglio di quei che sono in mare.
99
A piena vela si cacciorno lunge
da la crudel e sanguinosa spiaggia:
et poi che di gran spatio non li giunge
l’horribil suon che a spaventar più li haggia,
insolita vergogna sì li punge
che, come un fuoco, a tutti il viso irraggia;
l’un non ardisce a mirar l’altro, e stassi
tristo senza parlar, con li occhi bassi.
100
Passa il Nocchiero, al suo vïaggio intento,
e Cypro e Rhodi, e giù per l’onda Egea
da sé vede fuggire isole cento
col periglioso capo di Malea;
e con propitio et immutabil vento
asconder vede la greca Morea;
volta Sicilia, e per il mar Tyrrheno
costeggia de l’Italia il lito ameno:
101
e sopra Luna ultimamente sorse,
dove lasciato havea la sua famiglia.
Dio ringratiando che ’l pelago corse
senza più danno, il noto lito piglia.
Quindi a caso trovaro un legno tôrse
per fare il suo camin verso Marsiglia:
le donne e i cavallier su vi montaro,
et a Marsiglia in brieve si trovaro.
102
Quivi non era Bradamante allhora,
che haver solea governo del paese;
che se vi fosse, a far seco dimora
li sforzeria con un sforzar cortese.
Sceser nel lito, e la medesima hora
dai quattro cavallier congedo prese
Marphisa, e da la donna del Silvaggio;
e pigliò alla ventura il suo vïaggio,
103
dicendo che lodevole non era
ch’andasser tanti cavallieri insieme:
che li colombi e i storni vanno in schiera,
li danni e i cervi e ogni animal che teme;
ma l’audace falcon, l’aquila altiera,
ch’in l’aiuto d’altrui non metton speme,
orsi, tygri, leon, soli ne vanno;
che di più forza altrui tema non hanno.
104
Piacque a tutti il magnanimo pensiero;
così la compagnia fu bipartita:
per mezo i boschi e per un stran sentiero
Marphisa se n’andò sola e romita;
Griphon il bianco et Aquilante il nero
pigliâr con li altri dui la via più trita,
e giunsero a un castello il dì seguente,
dove albergati fur cortesemente.
105
Cortesemente, dico, in apparenza,
ma presto poi sentîr contrario effetto;
ch’el signor del castel, benivolenza
fingendo e cortesia, lor diè ricetto:
e poi la notte, che dormivan senza
timore alcun, tutti li prese in letto;
né li lasciò fin che non fe’ giurarli
una sua ria costuma d’observarli.
106
Ma vuo’ seguir la bellicosa donna
prima, signor, che di costor più dica.
Passò Druenza, il Rodano e la Sonna,
e venne a piè d’una montagna aprica;
quivi, lungo un torrente, in negra gonna
vide venire una femina antica,
che stanca e lassa era di lunga via,
ma via più afflitta di manenconia.
107
Questa è la vecchia che solea servire
a i malandrin nel cavernoso monte,
là dove alta giustizia fe’ venire
a dar lor morte il paladino Conte.
La vecchia, che timore ha di morire
per le cagion che poi vi seran conte,
già molti dì va per via oscura e fosca,
fuggendo ritrovar chi la connosca.
108
Quivi d’estrano cavallier sembianza
hebbe Marphisa all’habito e all’arnese;
e per ciò non fuggì, come havea usanza
fuggir da li altri ch’eran del paese;
anzi con sicurezza e con baldanza
si fermò al guado, e di lontan l’attese:
al guado del torrente, ove trovolla,
la vecchia le uscì incontra e salutolla.
109
Poi la pregò che seco oltra quell’acque
nel’altra ripa in groppa la portasse.
Marphisa, che gentil fu da che nacque,
di là dal fiumicel seco la trasse;
e portarla oltra un pezzo ancho le piacque,
fin ch’a miglior camin la ritornasse,
fuor d’un spinoso e mal dritto sentiero,
tanto che si scontraro un cavalliero.
110
Scontraro un cavallier, che armato in sella
di lucide arme e ricchi panni ornato,
verso il fiume venìa, da una donzella
e da un solo scudiero accompagnato.
La donna c’havea seco era assai bella,
ma d’altiero sembiante e poco grato,
tutta d’orgoglio e di fastidio piena,
del cavallier ben degna che la mena.
111
Pinabello, un de’ conti Maganzesi,
era quel cavallier che l’havea seco;
quel medesmo che dianzi a pochi mesi
Bradamante gettò nel cavo speco.
Quei suspir, quei singulti così accesi,
quel pianto che lo fe’ già quasi cieco,
tutto fu per costei che hor seco havea,
ch’el Negromante allhor gli ritenea.
112
Ma poi che fu levato di sul colle
l’incantato castel del vecchio Atlante,
e che ciascuno andar puoté ove volle,
per opra e per virtù di Bradamante;
costei, che alli desii facile e molle
di Pinabel sempre era stata inante,
a lui tornossi, et in sua compagnia
hor da un castello a un altro se ne gìa.
113
E sì come vezzosa era e mal usa,
quando vide la vecchia di Marphisa
non si puoté tenere a bocca chiusa
di motteggiarla e farne beffe e risa.
Marphisa altiera, appresso a cui non s’usa
sentirse oltraggio in qual si voglia guisa,
rispose d’ira accesa alla Donzella
che di lei quella vecchia era più bella;
114
e ch’al suo cavallier volea provallo,
con patto di poi tôrre a lei la gonna
e il palafren che havea, se da cavallo
gettava el cavallier di che era donna.
Pinabel che faria, tacendo, fallo,
di risponder con l’arme non assonna:
piglia il scudo e la lancia, e il caval gira,
poi vien Marphisa a ritrovar con ira.
115
Marphisa incontra una gran lancia afferra
e ne la vista a Pinabel la arresta,
e sì stordito lo riversa in terra
che stette un’hora a rilevar la testa.
Marphisa, vincitrice de la guerra,
fe’ trarre a quella giovane la vesta,
et ogni altro ornamento le fe’ porre,
e fenne il tutto alla sua vecchia tôrre:
116
e di quel giovenil habito vòlse
che la sua vecchia s’adornasse tutta;
e fe’ che ’l palafreno ancho si tolse
che la giovane havea quivi condutta.
Poi con la vecchia al suo camin si volse,
che quanto era più ornata, era più brutta.
Tre giorni andâr per malegevol strada
senza far cosa onde a parlarne accada.
117
El quarto giorno un cavallier trovaro,
che venìa in fretta galoppando solo.
Se di saper chi sia forse v’è caro,
dicovi che è Zerbin, di Re figliuolo,
di virtù exempio e di bellezza raro,
che se stesso rodea di sdegno e duolo
di non haver potuto far vendetta
d’un che gli havea gran cortesia interdetta.
118
Zerbino indarno per la selva corse
drieto a quel suo che gli havea fatto oltraggio;
ma sì a tempo colui seppe via tôrse,
sì seppe nel fuggir prender vantaggio,
sì il bosco e sì una nebbia lo soccorse
c’havea offuscato il matutino raggio,
che di man di Zerbin si levò netto
fin che ’l sdegno e il furor gli uscì del petto.
119
Zerbin non puòte, anchor che fusse irato,
tener (vedendo quella vecchia) il riso;
che gli parea dal giovenile ornato
troppo diverso il brutto antiquo viso;
et a Marphisa, che le venìa a lato,
disse: – Guerrier, tu sei pien d’ogni aviso
che damigella di tal sorte guidi,
che non temi trovar chi te la invidi. –
120
Havea la donna (se la crespa buccia
può darne indicio) più de la Sibylla,
e parea, così ornata, una bertuccia
quando per mover riso alcun vestilla;
et hor più brutta par, che si corruccia
e che da gli occhi l’ira le sfavilla:
ch’a donna non si fa maggior dispetto
che quando o vecchia o brutta le vien detto.
121
Mostrò turbarse l’inclyta Donzella
per prenderne piacer, come si prese;
e rispose a Zerbin: – Mia donna è bella,
perdio, via più che tu non sei cortese;
come che io creda che la tua favella
da quel che sente l’animo non scese:
tu fingi non connoscer sua beltade
per excusar la tua summa viltade.
122
E chi saria quel cavallier, che questa
sì giovane e sì bella ritrovasse
senza più compagnia ne la foresta,
e che di farla sua non si provasse? –
– Sì ben (disse Zerbin) teco se assesta,
che serìa mal che alcun ti la levasse;
et io per me non son così indiscreto
che te ne privi mai: stanne pur lieto.
123
Se in altro conto haver vuoi a far meco,
di quel che vaglio son per farti mostra;
ma per costei non me tener sì cieco
che solamente far voglia una giostra.
O brutta o bella sia, restisi teco:
non vuo’ partir tanta amicitia vostra.
Ben vi sète accoppiati: io giurarei,
come ella è bella, tu gagliardo sei. –
124
Suggiunse a lui Marphisa: – Al tuo dispetto
di levarmi costei provar convienti.
Non vuo’ patir ch’un sì liggiadro aspetto
habbi veduto, e guadagnar nol tenti. –
Rispose a lei Zerbin: – Non so a che effetto
l’huom si metta a periglio e si tormenti,
per riportarne una vittoria poi,
che molto più che haver perduto annoi. –
125
– Ecco un altro partito ch’io ti pono, –
disse Marphisa, – e ricusar nol déi:
se con la lancia o con la spada sono
vinto da te, mi rimarrà costei;
ma se io te vinco, a forza ti la dono.
Dunque proviàn chi de’ star senza lei:
se perdi, converrà che tu le faccia
compagnia sempre, ovunque andar le piaccia. –
126
– E così sia, – Zerbin rispose; e volse
a pigliar campo subito el cavallo.
L’un e l’altro in la sella si raccolse,
e drizza l’hasta ove non giunga in fallo.
Zerbin nel scudo alla Donzella colse:
ma parve urtasse un monte di metallo;
et ei sì fiero scontro hebbe in l’elmetto,
che (suo mal grado) uscì di sella netto.
127
Troppo spiacque a Zerbin l’esser caduto;
che in altro scontro mai più non gli avenne,
e mille di sua man ne havea abbattuto;
et a perpetuo scorno se lo tenne.
Stette per lungo spatio in terra muto;
e più gli dolse poi che gli sovenne
c’havea promesso e che gli convenia
haver la brutta vecchia in compagnia.
128
Tornando a lui la vincitrice in sella,
disse ridendo: – Questa t’appresento;
e quanto più la veggio e grata e bella,
tanto, che la sia tua, più mi contento.
Hor tu in mio luoco sei campion di quella;
ma la tua fé non se ne porti il vento,
che per sua guida e scorta tu non vada
(come hai promesso) ovunque andar le aggrada. –
129
Senza attender risposta, urta il destriero
per la foresta, e subito s’imbosca.
Zerbin, che la stimava un cavalliero,
dice alla vecchia: – Fa’ ch’io lo connosca. –
Et ella non gli tiene ascoso il vero,
onde sa che l’incende e che l’attosca:
– Il colpo fu di man d’una donzella, –
disse, – che t’ha fatto vuotar la sella.
130
Pel suo valor Costei debitamente
usurpa a’ cavallieri e scudo e lancia;
et è testé venuta d’Orïente
per assaggiare i paladin di Francia. –
Zerbin di questo tal vergogna sente
che non pur tinge di rossor la guancia,
ma restò poco di non farsi rosso
seco ogni pezzo d’arme c’havea indosso.
131
Monta a cavallo, e se stesso rampogna
che non seppe tener strette le cosce.
Tra sé la vecchia ne sorride, e agogna
di stimularlo e rinovarli angosce:
gli racorda che andar seco bisogna;
e Zerbin, che ubligato si connosce,
l’orecchie abbassa, come vinto e stanco
destrier c’ha el fren in bocca e i sproni al fianco.
132
E suspirando: – Ohimè, Fortuna fella
(dicea), che cambio è questo che mi fai?
Colei che fu sopra le belle bella,
ch’esser meco devea, levata m’hai.
Ti par ch’in luoco et in ristor di quella
si debba por costei c’hora mi dài?
Stare in danno del tutto era men male
che fare un cambio tanto disuguale.
133
Colei, che di bellezze e di virtuti
unqua non hebbe e non havrà mai pare,
summersa e rotta in mezo ai scogli acuti
cibo fatto hai de pesci e augei del mare;
e costei, che devria già haver pasciuti
sotterra i vermi, hai tolta a perservare
più dieci o quindici anni del devere,
e mi dài per ristor questo piacere. –
134
Zerbin così parlava; né men tristo
in parole e in sembianti esser parea
di questo nuovo suo sì odioso acquisto,
che de la donna che perduta havea.
La vecchia, anchor che non havesse visto
mai più Zerbin, per quel ch’esso dicea
s’avide esser colui di che notitia
le diede già Issabella di Gallitia.
135
S’el vi ricorda quel che havete inteso,
costei da la spelonca ne veniva
dove Issabella, che d’amore acceso
Zerbin tenea, fu molti dì captiva.
Più volte conto ella le havea già reso
come lasciasse la paterna riva,
e come rotta in mar da la procella
si salvasse in la spiaggia di Rocella.
136
E sì spesso dipinto di Zerbino
l’havea il bel viso e le fattezze conte,
c’hora udendol parlar, e da vicino
gli occhi alzandogli meglio ne la fronte,
vide esser quel per cui sempre mischino
fu d’Issabella il cor nel cavo monte;
che di non veder lui più si lagnava
che d’esser fatta a’ malandrini schiava.
137
La vecchia, dando alle parole udienza
che con sdegno e con duol Zerbino versa,
s’avede ben ch’egli ha falsa credenza
che sia Issabella in mar rotta e summersa:
e ben ch’ella del certo habbia scïenza,
per non lo rallegrar, pur la perversa
quel che far lieto lo potria gli tace,
e sol gli dice quel che gli dispiace.
138
Gli disse ella: – Odi, tu che sì mi sprezzi,
se sapessi che nuova ho di colei
che morta piagni, mi faresti vezzi
per udir quel che più non ti direi.
Ma non pur che tu piagni e graffi e spezzi
le guancie e i crini vuo’, ma prego i dèi
che per doglia la spada in te tu torca,
o di questi arbori un ti facci forca. –
139
Come il mastin che con furor s’aventa
adosso al ladro, e poi s’accheta presto
che quello o pane o cacio gli appresenta,
o che fa incanto approprïato a questo;
così tosto Zerbino humìl diventa
e disïoso di sapere il resto,
che la vecchia gli accenna che di quella,
che morta piange, gli sa dir novella.
140
E volto a lei con più piacevol faccia,
la supplica, la prega, la scongiura
per l’huomini, per Dio, che non gli taccia
quel che ne sappia, o buona o rea aventura.
– Cosa non udirai che pro ti faccia, –
disse la vecchia pertinace e dura:
– non è Issabella (come credi) morta;
ma viva sì, che a’ morti invidia porta.
141
È capitata, in questi pochi giorni
che non n’udisti, in man di più di venti;
sì che, qualhora ancho in la tua ritorni,
ve’ se sperar di côrre il fior convienti. –
Ah vecchia maledetta, come adorni
la tua menzogna! e tu sai pur se menti:
se ben in man di venti ella era stata,
non l’havea alcun perhò mai vïolata.
142
Dove l’havea veduta dimandolle
Zerbino, e quando, ma nulla n’invola;
che la vecchia ostinata più non volle
a quel che detto havea giunger parola.
Prima le usò Zerbino un parlar molle,
poi minaciolle di tagliar la gola:
ma tutto è invan ciò che minaccia o prega;
che non può far parlar la brutta strega.
143
Lasciò la lingua al ultimo in riposo
Zerbin, poi che ’l parlar gli giovò poco;
per quel ch’udito havea, tanto geloso,
che non trovava il cor nel petto luoco;
d’Issabella trovar sì desïoso,
che serìa per vederla ito nel fuoco:
ma non poteva andar più che volesse
la vecchia; ch’a Marphisa lo promesse.
144
E quindi per solingo e strano calle,
dove a lei piacque, fu Zerbin condotto;
né per o poggiar monte o scender valle
mai si guardaro in faccia o si fêr motto.
Ma poi ch’al mezo dì volse le spalle
il vago Sol, fu il lor silentio rotto
da un cavallier che nel camin scontraro:
quel che seguì, nel altro canto è chiaro.