CANTO VIGESIMOSEXTO

1
Donne, e voi che le donne havete in pregio,
per dio, non date a questa historia orecchia,
a questa che l’hostier dire in dispregio
e vostra infamia e biasmo s’apparecchia;
ben che né macchia vi può dar né fregio
lingua sì vile, e sia l’usanza vecchia
ch’el volgare ignorante ognun riprenda,
e parli più di quel che meno intenda.
2
Lasciate questo canto, che senza esso
può star l’historia, e non serà men chiara.
Mettendolo Turpino, anch’io l’ho messo,
non per malivolentia né per gara.
Ch’io v’ami, oltra mia lingua che l’ha expresso,
che mai non fu di celebrarvi avara,
n’ho fatto mille prove; e v’ho dimostro
ch’io son, né potrei esser se non vostro.
3
Passi, chi vuol, tre charte o quattro senza
leggerne verso, e chi pur legger vuole,
lor dia quella medesima credenza
che si suol dare a fittïoni e fole.
Ma tornando al dir nostro, poi che udienza
apparecchiata vide a sue parole
e darsi luoco incontra al cavalliero,
così l’historia incomminciò l’hostiero:
4
– Aistulfo, Re de’ Longobardi, quello
che costui che regna hor tenne per padre,
fu ne la giovinezza sua sì bello,
di sì conte fattezze e sì liggiadre,
ch’un simil non s’havria fatto a penello
se li pittor vi fusser stati a squadre.
Bello era, et a ciascun così parea:
ma di molto egli anchor più si tenea.
5
Non stimava egli tanto per l’altezza
del grado suo vedersi ognun minore,
né tanto, che di genti e di ricchezza
di tutti i Re vicini era il maggiore;
quanto d’aspetto e corporal bellezza
haver per tutto ’l mondo il primo honore:
godea di questo, udendosi dar loda,
quanto di cosa volentier più s’oda.
6
Tra li altri di sua corte havea assai grato
Fausto Latini, un cavallier Romano;
con cui sovente essendosi lodato
hor del bel viso, hor de la bella mano,
et havendolo un giorno dimandato
se mai veduto havea, presso o lontano,
altro huom di forma così ben composto,
contra quel che credea gli fu risposto.
7
«Dico (rispose Fausto) che, secondo
ch’i’ veggio e che parlarne odo a ciascuno,
ne la bellezza hai pochi pari al mondo;
e questi pochi io li restringo in uno.
Quest’uno è un fratel mio detto Iocondo:
(excetto lui) ben crederò che ognuno
di beltà molto a drieto tu ti lassi;
ma questo sol credo te adegui e passi».
8
Al Re parve impossibil cosa udire,
che sua la palma insino allhora tenne;
e d’haver connoscenza alto disire
di sì lodato giovene gli venne.
Fe’ sì con Fausto, che di far venire
quivi il fratel prometter gli convenne;
ben che a poterlo indur che ci venisse
serìa fatica, e la cagion gli disse:
9
ch’el suo fratello era huom che mosso il piede
mai non havea di Roma alla sua vita,
che del ben che Fortuna gli concede
tranquilla e senza affanni havea notrita;
la roba di ch’el padre il lasciò herede
né mai cresciuta havea né minuita;
e che parrebbe a lui Pavia lontana
più che non parria a un altro ire alla Tana.
10
E la difficulttà serìa maggiore
a poterlo spiccar da la mogliere,
con cui legato era di tanto amore
che, non volendo lei, non può volere.
Pur per ubidir lui che gli è signore,
disse d’andare e fare oltra il potere.
Giunse il Re a’ prieghi tali offerte e doni,
che di negar non gli lasciò ragioni.
11
Partissi, e in pochi giorni ritrovosse
dentro da Roma in le paterne case.
Quivi tanto pregò, ch’el fratel mosse
sì che a venire al Re gli persuase;
e fece anchor (ben che difficil fosse)
che la cognata tacita rimase,
proponendole il ben che n’usciria,
oltra ch’esso lor sempre obligo havria.
12
Fisse Iocondo alla partita il giorno:
trovò cavalli e servitori intanto,
vesti fe’ far per comparire adorno;
che talhor cresce una beltà un bel manto.
La notte a lato, el dì la moglie intorno,
con gli occhi ad hor ad hor pregni di pianto,
gli dice che non sa come patire
potrà sì lunga absentia, e non morire;
13
che pensandovi sol, da la radice
sveller si sente il cor nel lato manco.
«Deh, vita mia, non piagnere (le dice
Iocondo)», e seco piagne egli non manco;
«così mi sia questo camin felice,
come tornar vuo’ fra dui mesi almanco;
né mi faria passar d’un giorno il segno
se mi donasse il Re mezo ’l suo regno».
14
Né la donna per ciò si riconforta:
dice che troppo termine si piglia;
e s’al ritorno non la truova morta,
esser non può se non gran maraviglia.
Sempre è in affanno, e più quel dì ne porta,
che de la lor partenza era vigiglia;
tal che per la pietà Iocondo spesso
si pente ch’al fratello habbia promesso.
15
Dal collo un suo monile ella si sciolse,
ch’una crocetta havea ricca di gemme,
e di sante relliquie che raccolse
da molti luoghi un peregrin Boemme;
et il padre di lei, ch’in casa il tolse
tornando infermo di Hierusalemme,
venendo a morte poi ne lasciò herede:
questa levossi, et al marito diede;
16
e che la porti per suo amore al collo
lo prega, sì che ognhor gli ne sovegna.
Piacque il dono al marito, et accettollo;
non perché dar ricordo gli convegna:
che né tempo né absentia mai dar crollo,
né buona o ria fortuna che gli avegna,
potrà a quella memoria salda e forte
c’ha di lei sempre e havrà dopo la morte.
17
La notte ch’andò inanzi a quella aurora
che fu il termine estremo alla partenza,
al suo Iocondo par ch’in braccio mora
la moglie, che n’ha presto da star senza.
Mai non si dorme; e nanzi il giorno un’hora
viene il marito all’ultima licenza.
Montò a cavallo, e si partì in effetto;
e la moglier si ricorcò nel letto.
18
Iocondo anchor dua miglia ito non era
che gli venne la croce raccordata,
c’havea sotto il guancial messa la sera;
poi per oblivïon l’havea lasciata.
«Lasso! (dicea tra sé) di che maniera
troverò scusa che mi sia accettata,
che mia moglie non creda che gradito
poco da me sia l’amor suo infinito?».
19
Pensa l’excusa, e poi gli cade in mente
che non serà accettabile né buona,
mandi famigli, mandivi altra gente,
s’egli medesmo non vi va in persona.
Si ferma, e al fratel dice: «Hor pianamente
sin a Baccano al primo albergo sprona;
che dentro a Roma è forza ch’io rivada:
e credo ancho di giugnerti per strada.
20
Non potria fare altri il bisogno mio:
né dubitar, ch’io serò presto teco».
Voltò il caval di trotto, e disse a dio;
né di famigli suoi vòlse alcun seco.
Già cominciava, quando passò il rio,
dinanzi al Sole a fuggir l’aer cieco.
Smonta in casa, va al letto, e la consorte
quivi ritrova addormentata forte.
21
La cortina levò senza far motto,
e vide quel che men veder credea:
che la sua casta e fedel moglie, sotto
la coltra, in braccio a un giovene giacea.
Riconnobbe l’adultero di botto
per la pratica lunga che n’havea;
ch’era de la famiglia sua un garzone,
allevato da lui, d’humil natione.
22
S’attonito restasse e mal contento,
meglio è pensarlo e darne fede altrui,
ch’esserne mai per far l’experimento
che con suo gran dolor ne fe’ costui.
Assalito dal sdegno, hebbe talento
di trar la spada e ucciderli ambedui:
ma da l’amor che porta, al suo dispetto,
a l’ingrata moglier, gli fu interdetto.
23
Né lo lasciò questo ribaldo Amore
(vedi se sì l’havea fatto vassallo)
destarla pur, per non le dar dolore
che fusse da lui colta in sì gran fallo.
Quanto puoté più tacito uscì fuore,
scese le scale, e rimontò a cavallo;
e punto egli d’amor, sì il caval punse
ch’al albergo non fu, ch’el fratel giunse.
24
Cambiato a tutti parve esser nel volto;
vider tutti ch’el cor non havea lieto:
ma non v’è chi s’apponga già di molto
e possa penetrar nel suo secreto.
Credeano che da lor si fusse tolto
per ire a Roma, et ito era a Corneto.
Ch’Amor sia del mal causa ognun s’avisa;
ma non è già chi dir sappia in che guisa.
25
Estimasi il fratel che dolor habbia
d’haver la moglie sua sola lasciata;
e pel contrario duolsi egli et arrabbia
che rimasa era troppo accompagnata.
Con fronte crespa e con gonfiate labbia
sta l’infelice, e sol la terra guata;
Fausto, che a confortarlo usa ogni prova,
perché non sa la causa, poco giova.
26
Di contrario liquor la piaga gli unge,
e dove tôr devria, gli accresce doglie;
dove devria saldar, più l’apre e punge:
questo gli fa col ricordar la moglie.
Né dì posa né notte: il sonno lunge
fugge col gusto, e mai non si raccoglie;
e la faccia che dianzi era sì bella
si cangia sì, che più non sembra quella.
27
Par che li occhi s’ascondin ne la testa,
et esca il naso più del viso scarno:
de la beltà sì poca gli ne resta,
che ne potrà far paragone indarno.
Col duol venne una febre sì molesta,
che lo fe’ soggiornare al Arbia e al Arno:
e se di bello havea serbata cosa,
più presto andò che da spin colta rosa.
28
Oltra che a Fausto incresca del fratello
che veggia a simil termine condutto,
via più gl’incresce che bugiardo a quello
Principe, a chi lodollo, parrà in tutto:
mostrar de tutti li huomini il più bello
gli havea promesso, e mostrarà il più brutto.
Ma pur continuando la sua via,
seco lo trasse al fin drento a Pavia.
29
Già non vuol che lo veggia il Re improviso,
per non mostrarsi di giudicio privo:
ma per lettere inanzi gli dà aviso
ch’el suo fratel ne viene a pena vivo;
e ch’era stato all’aria del bel viso
un affanno di cor tanto nocivo,
accompagnato da una febre ria,
che più non parea quel ch’esser solia.
30
Grata hebbe la venuta di Iocondo
quanto potesse il Re d’amico havere;
che non havea desiderato al mondo
cosa altrotanto, che di lui vedere.
Non gli spiace vederlosi secondo,
e di bellezza drieto rimanere;
ben che connosca, se non fusse il male,
che gli serìa superïore o uguale.
31
Giunto, lo fa alloggiar nel suo palagio,
lo visita ogni giorno, ogn’hora n’ode;
fa gran provisïon che stia con agio,
e d’honorarlo assai si studia e gode.
Langue Iocondo, ch’el pensier malvagio
de l’ingrata moglier sempre lo rode:
né il veder giuochi, né musici udire,
dramma del suo dolor può minuire.
32
Nanzi alle stanze sue, che presso ’l tetto
eran l’estreme, havea una sala antica.
Quivi solingo (perché ogni diletto,
perché ogni compagnia gli era nemica)
si ritrahea, sempre aggiungendo al petto
di più gravi pensier nuova fatica:
e trova quivi (hor chi lo crederia?)
chi lo sanò de la sua piaga ria.
33
In capo de la sala, ove è più scuro,
che mai non v’usa le finestre aprire,
vede ch’el palco mal si giunge al muro,
e fa d’aria più chiara un raggio uscire.
Pon l’occhio quindi, e vede quel che duro
a creder fôra a chi l’udisse dire:
egli d’altrui non l’ode, anzi sel vede;
et ancho agli occhi suoi propri non crede.
34
Quindi scopria de la Reina tutta
la più secreta stanza e la più bella,
dove persona non verria introdutta,
se per molto fedel non l’havesse ella.
Quindi mirando, vide in strana lutta
ch’un Nano avinticchiato era con quella:
et era quel piccin stato sì dotto,
che la Reina havea messa di sotto.
35
Attonito Iocondo e stupefatto,
e credendo sognarsi, un pezzo stette;
e quando vide pur che egli era in fatto
e non in sogno, a se stesso credette.
«Dunque a un sgrignuto (disse) e contrafatto
sì ricca e sì gran donna si sommette,
ch’el maggior Re del mondo ha per marito,
più bello e più cortese? oh che appetito!».
36
E de la moglie sua, che così spesso
più d’ogn’altra biasmava, ricordosse,
perch’el ragazzo s’havea tolto appresso:
et hor gli parve che excusabil fosse.
Non era colpa sua più che del sesso,
che d’un solo huomo mai non contentosse:
e s’han tutte una macchia d’uno inchiostro,
almen la sua non s’havea tolto un mostro.
37
Fa il dì seguente, alla medesima hora,
al spiraglio medesimo ritorno;
e la Reina e il Nano vede anchora
ch’al signor lor fanno il medesmo scorno.
Truova l’altro dì pur che si lavora,
e l’altro; e al fin non se ne festa giorno:
e la Reina, che gli par più strano,
sempre si duol che poco l’ami il Nano.
38
Stette fra li altri un giorno a veder ch’ella
era turbata e in gran manenconia,
che due volte chiamar per la donzella
il Nano fatto havea, né anchor venìa.
Mandò la terza volta, et udì quella,
che: «Madonna, egli giuoca» riferia;
«e per non star in perdita d’un soldo,
a voi niega venire il manigoldo».
39
A sì strano spettacolo Iocondo
raserena la fronte e gli occhi e il viso;
e quale in nome, diventò giocondo
d’effetto anchora, e tornò il pianto in riso.
Allegro torna, grasso e rubicondo,
che sembra un cherubin del paradiso;
ch’el Re, il fratello e tutta la famiglia
di tal mutatïon si maraviglia.
40
Se da Iocondo il Re bramava udire
donde venisse il sùbito conforto,
non men Iocondo lo bramava dire
e fare il Re di tanta ingiuria accorto;
ma non vorria che, più di sé, punire
volesse il Re la moglie di quel torto;
sì che per dirlo e non far danno a lei,
il Re fece giurar su l’agnusdei.
41
Giurar lo fe’ che né per cosa detta,
né che gli sia mostrata che gli spiaccia,
anchora che connosca che diretta-
mente a sua Maestà danno si faccia,
tardi o per tempo mai farà vendetta;
e di più vuole anchor che se ne taccia,
sì che né il malfattor giamai comprenda,
in fatto o ’n detto, ch’el Re il caso intenda.
42
El Re, che ogn’altra cosa se non questa
creder potria, gli giurò largamente.
Iocondo la cagion gli manifesta
onde era molti dì stato dolente:
perché trovata havea la dishonesta
sua moglie in braccio d’un suo vil sergente;
e che tal pena al fin l’havrebbe morto
se tardato a venir fusse il conforto.
43
Ma in casa di sua Altezza havea veduto
cosa che molto gli scemava il duolo;
che se bene in obbrobrio era caduto,
era almen certo di non v’esser solo.
Così dicendo, e al bucolin venuto,
gli dimostrò il bruttissimo homicciuolo
che la giumenta altrui sotto si tiene,
tocca di sprone e fa giuocar di schene.
44
Se parve al Re vituperoso l’atto,
lo crederete ben, senza ch’io ’l giuri.
Ne fu per arrabbiar, per venir matto;
ne fu per dar del capo in tutti i muri;
fu per gridar, fu per non stare al patto:
ma forza è che la bocca al fin si turi
e che l’ira trangugi amara et acra,
poi che giurato havea su l’hostia sacra.
45
«Che debbio far, che mi consigli, frate
(disse a Iocondo), poi che tu mi tolli
che con degna vendetta e crudeltate
questa giustissima ira io non satolli?».
«Lasciàn (disse Iocondo) queste ingrate,
e proviamo se son l’altre sì molli;
facciàn de le lor femine ad altrui
quel ch’altri de le nostre han fatto a nui.
46
Ambi gioveni semo, e di bellezza
che facilmente non troviamo pari:
qual femina serà che n’usi asprezza,
se contra i brutti anchor non han ripari?
Se beltà non varrà né giovinezza,
varranne almen l’haver con noi denari.
Non vuo’ che torni, che non habbi prima
di mille moglie altrui la spoglia opima.
47
La lunga absentia, il veder vari luochi,
praticare altre femine di fuore
par che sovente disacerbi e sfochi
de l’amorose passïoni il core».
Al Re piacque il consiglio; indi fra pochi
non voglio giorni dir, ma fra poche hore,
con dui scudieri, oltra la compagnia
del cavallier Roman, si messe in via.
48
Travestiti cercaro Italia e Francia,
le terre de’ Fiaminghi e de l’Inglesi;
e quante ne vedean di bella guancia
trovavan tutte a’ prieghi lor cortesi.
Davano, e dato loro era la mancia;
e rimettean sovente i denar spesi.
Molte vi fôr che pregaro essi, e fôro
anch’altre tante che pregaron loro.
49
In questa terra un mese, in quella dui
soggiornando, accertârsi a vera prova
che come ne le lor, così in l’altrui
femine, castità mal se ritrova.
Dopo alcun tempo increbbe ad ambedui
di sempre procacciar di cosa nuova;
che mal poteano intrar ne l’altrui porte
senza ponersi a rischio de la morte.
50
È meglio una trovarne che di faccia
e di costumi ad ambi grata sia;
che lor communamente sodisfaccia,
e non habbiano haver mai gelosia.
«E perché (dicea il Re) vuo’ che mi spiaccia
haver più te che un altro in compagnia?
So ben ch’in tutto il gran femineo stuolo
una non è che stia contenta a un solo.
51
Una, senza sforzar nostro potere,
ma quando il natural bisogno inviti,
in festa goderemosi e in piacere,
che non n’havremo mai contese o liti.
Né credo che si debbia ella dolere:
che s’ancho ogn’altra havesse dui mariti,
più ch’a un huom solo, a dui serìa fedele;
né forse s’udirian tante querele».
52
Di quel che disse il Re, molto contento
rimaner parve il giovene Romano.
Dunque fermati in tal proponimento,
cercâr molte montagne e molto piano:
trovaro al fin, secondo il loro intento,
una figliuola d’uno hostiero Hispano,
che tenea albergo al porto di Valenza,
bella de modi e bella di presenza.
53
Era anchor sul fiorir di primavera
sua tenerella e quasi acerba etade.
Di molti figli il padre aggravato era
e nemico mortal di povertade;
sì che a disporlo fu cosa liggiera
che desse lor la figlia in potestade;
ch’ove piacesse lor potesson trarla,
poi che promesso havean di ben trattarla.
54
Pigliano la fanciulla, e piacer n’hanno
hor l’uno hor l’altro in charitade e in pace,
come a vicenda i mantici che dànno,
hor l’uno hor l’altro, fiato alla fornace.
Per veder tutta Spagna indi ne vanno,
e passar poi nel regno di Siphace:
el dì che da Valenza si partiro,
ad albergare a Ciattiva veniro.
55
Li patroni a veder strade e palazzi
andaro, e luochi publici e divini;
ch’usanza havean pigliar simil solazzi
in ogni terra ov’eran peregrini.
La fanciulla all’albergo e li ragazzi
restaro, ad acconciar letti e roncini,
e proveder che fusse alla tornata
de’ signori la cena apparecchiata.
56
Ne l’albergo un garzon stava per fante,
ch’in casa de la giovene già stette
a’ servigi del padre, e d’essa amante
fu da’ primi anni, e del suo amor godette.
Ben s’adocchiâr, ma non ne fêr sembiante,
ch’esser notato ognun di lor temette:
ma quando li padroni e la famiglia
lor dieron luoco, alzâr tra lor le ciglia.
57
El fante dimandò dove ella gisse
e qual de’ dui signor l’havesse seco.
A punto la Fiammetta il fatto disse;
così havea nome, e quel garzone il Greco.
«Quando sperai ch’el tempo, ohimè! venisse
(el Greco le dicea) di viver teco,
Fiammetta, anima mia, tu te ne vai,
e non so più di rivederti mai.
58
Fannosi i dolci miei disegni amari,
poi che sei d’altri, e tanto mi ti scosti.
Io disegnavo (havendo alcun’ denari
con gran fatica e gran sudor reposti,
ch’avanzato m’havea de’ miei salari
e de le bene andate di molti hosti)
di tornare a Valenza, e dimandarte
al padre tuo per moglie, e di sposarte».
59
La fanciulla ne li homeri si stringe,
e risponde che fu tardo a venire.
Piange il Greco e suspira, e parte finge:
«Vommi (dice) lasciar così morire?
Vita mia, un poco almen meco ti avinge,
lasciami disfogar tanto disire;
che nanzi che tu parta, ogni momento
che teco stia mi fa morir contento».
60
La pietosa fanciulla rispondendo:
«Credi (dicea) che men di te no ’l bramo;
ma né luoco né tempo ci comprendo
qui, dove in mezo di tanti occhi siamo».
El Greco suggiungea: «Certo mi rendo,
che s’un terzo ami me di quel ch’io t’amo,
in questa notte almen troverai luoco
che si potren godere insieme un puoco».
61
«Come potrò (diceagli la fanciulla),
che sempre in mezo a dui la notte giaccio,
e meco hor l’uno hor l’altro si trastulla,
e sempre al un di dui mi truovo in braccio?».
«Mai (disse il Greco) fu impossibil nulla,
pur che del far ti vogli tôrre impaccio,
se fussi chiusa in un castel d’acciaio
e d’occhi habbia ogni merlo un centinaio».
62
Pensa ella alquanto, e poi dice che vegna
quando creder potrà ch’ognuno dorma;
e pianamente come far convegna,
e de l’andare e del tornar, l’informa.
El Greco (sì come ella gli disegna),
quando sente dormir tutta la torma,
viene al uscio e lo spinge, e quel gli cede:
entra pian piano, e va a tenton col piede.
63
Fa lunghi i passi, e sempre in quel di retro
tutto si ferma, e l’altro par che muova
a guisa che di dar tema nel vetro,
non ch’el terreno habbia a calcar, ma l’ova;
tiene la mano inanzi simil metro,
va brancolando sin ch’el letto truova:
e di là dove li altri havean le piante
tacito si cacciò col capo inante.
64
Fra l’una e l’altra gamba di Fiammetta,
che supina giacea, diritto venne;
e quando le fu a par, l’abbracciò stretta,
e sopra lei sin presso al dì si tenne.
Cavalcò forte, e non andò a staffetta;
che mai bestia mutar non gli convenne:
che questa pare a lui che sì ben trotte,
che scender non ne vuol per tutta notte.
65
Havea Iocondo et havea il Re sentito
il calpistar che sempre il letto scosse;
e l’uno e l’altro, d’uno error schernito,
s’havea creduto ch’el compagno fosse.
Poi c’hebbe il Greco il suo camin fornito,
sì come era venuto, ancho tornosse.
Saettò il Sol dal Orizonte i raggi;
surge Fiammetta, e fece intrare i paggi.
66
El Re disse al compagno motteggiando:
«Frate, molto camin fatto haver déi;
e tempo è ben che ti riposi, quando
stato a caval per tutta notte sei».
Iocondo a lui rispose di rimando,
e disse: «Tu di’ quel ch’io a dire havrei:
a te tocca a posare, e pro ti faccia,
che tutta notte hai cavalcato a caccia».
67
«Anch’io (suggiunse il Re) senza alcun fallo
lasciato havria ’l mio can correr un tratto
s’havesse havuto in prestito il cavallo,
tanto ch’el mio bisogno havessi fatto».
Iocondo replicò: «Son tuo vassallo,
e puoi far meco e rompere ogni patto:
sì che non convenia tal cenni usare;
bastavamiti dir: lasciala stare».
68
Tanto replìca l’un, tanto soggiunge
l’altro, che sono a grave lite insieme;
vengon da’ motti ad un parlar che punge,
ch’ad amendue l’esser beffato preme.
Chiaman Fiammetta, che non era lunge,
e de la fraude esser scoperta teme,
per far l’un l’altro in viso il fatto dire,
che negando pareano ambi mentire.
69
«Dimmi (le disse il Re con fiero sguardo),
e non temer di me né di costui:
chi tutta notte fu quel sì gagliardo
che ti godeo senza far parte altrui?».
Credendo l’un provar l’altro bugiardo,
la risposta aspettavano ambedui.
A piè lor si gettò Fiammetta, incerta
di viver più, vedendosi scoperta.
70
Dimandò lor perdono, che d’amore,
ch’a un giovinetto havea portato, spinta,
e da pietà d’un tormentato core,
che molto havea per lei patito, vinta,
caduta era la notte in quello errore;
e seguitò senza dir cosa finta,
come tra lor con speme si condusse
ch’ambi credesson ch’el compagno fusse.
71
Il Re e Iocondo si guardaro in viso,
di maraviglia e di stupor confusi;
né d’haver ancho udito lor fu aviso
ch’altri dui fusson mai così delusi.
Poi scoppiaro ugualmente in tanto riso
che con la bocca aperta e li occhi chiusi,
potendo a pena il fiato haver dal petto,
adrieto si lasciâr cader sul letto.
72
Poi c’hebbon tanto riso, che dolere
se ne sentiano il petto e pianger li occhi,
disson tra lor: «Come potremo havere
guardia che la moglier non ne l’accocchi,
se non giova tra dui questa tenere,
e stretta sì, che l’uno e l’altro tocchi?
Se più che crini havesse occhi ’l marito,
non potria far che non fusse tradito.
73
Provate mille havemo e tutte belle;
e manco sempre ritrovate caste.
Se proviàn l’altre, ancho peggior fian quelle;
ma per ultima prova costei baste.
Dunque possemo creder che men felle
le nostre sien ch’a casa son rimaste:
e se men triste, o come l’altre sono,
che tornamo a godersile fia buono».
74
Conchiuso c’hebbon questo, chiamar fêro
per Fiammetta medesima il suo amante;
e ’n presentia di molti gli la diero
per moglie, e dote che fu lor bastante.
Poi montaro a cavallo, e il lor sentiero,
ch’era a Ponente, volsero a Levante;
et alle mogli lor se ne tornaro,
di che affanno mai più non si pigliaro.
75
El Re il primo figliuol che poi gli nacque
nomò a battesmo Strano Desiderio;
ma poi, crescendo, Strano se gli tacque,
che pel Nano alla madre era improperio.
L’historia è vera, e per ciò più mi piacque:
e dal dì ch’io parlai con quel Valerio,
sempre ho detto, e convien che anchora io dica,
che non si truova femina pudica. –
76
L’hostier qui fine alla sua historia pose,
che fu con molta attentïone udita.
Udilla il Saracin, né gli rispose
parola mai, fin che non fu finita.
Poi disse: – Io credo ben che de l’ascose
feminil frode sia copia infinita;
né si potria de la millesma parte
tener memoria con tutte le charte. –
77
Quivi era un huom d’età, c’havea più retta
opinïon de li altri, e ingegno e ardire;
né potendo horamai, che sì negletta
ogni femina fusse, più patire,
si volse a quel c’havea l’historia detta,
e dissegli: – Assai cose udimo dire
che veritade in sé non hanno alcuna:
e ben di queste è la tua favola una.
78
A chi te la narrò non do credenza,
s’evangelista ben fusse nel resto;
ch’opinïone, più che experïenza
c’habbia di donne, lo facea dir questo.
L’havere ad una o due malivolenza
fa ch’odia e biasma l’altre oltra l’honesto;
ma se gli passa l’ira, io vuo’ tu l’oda,
più c’hora biasmo, ancho dar lor gran loda.
79
E se vorrà lodarle, havrà maggiore
el campo assai, ch’a dirne mal non hebbe:
di cento potrà dir degne d’honore
verso una trista che biasmar si debbe.
Non biasmar tutte, ma serbarne fuore
la bontà d’infinite si devrebbe;
e s’el Valerio tuo disse altrimente,
disse per ira, e non per quel che sente.
80
Ditemi un poco: è di voi forse alcuno
c’habbia servato alla sua moglie fede?
che nieghi andar, quando gli sia opportuno,
all’altrui donna, e darle anchor mercede?
credete in tutto ’l mondo trovarne uno?
Chi ’l dice mente, e folle è ben chi ’l crede.
Trovatene vo’ alcuna che vi chiami?
non parlo de le publiche et infami.
81
Connoscete alcun voi, che non lasciasse
la moglie sola, anchor che fusse bella,
per seguire altra donna, se sperasse
in breve e facilmente ottener quella?
Che farebbe egli, quando lo pregasse
o desse premio a lui donna o donzella?
Credo, per compiacere hor queste hor quelle,
che tutti lasciaremmovi la pelle.
82
Quelle che lor mariti hanno lasciati,
le più volte cagione havuta n’hanno:
del suo di casa veggon lor svogliati,
e che fuor, de l’altrui bramosi, vanno.
Devriano amar, volendo essere amati,
o tôr con la misura ch’a-llor dànno.
Io farei (s’a me stesse il darla e tôrre)
tal legge, c’huom non vi potrebbe opporre.
83
Serìa la legge, ch’ogni donna colta
in adulterio, fusse messa a morte,
se provar non potesse ch’una volta
havesse adulterato il suo consorte:
se provar lo potesse, anderia assolta,
né temeria il marito né la corte.
Christo lasciò ne li precetti suoi:
non far altrui quel che patir non vuoi.
84
L’incontinenza è quanto mal si pote
imputar lor, né perhò a tutto ’l stuolo.
Ma in questo, c’ha di noi più brutte note?
che continente non si truova un solo.
E molto più n’ha da arroscir le gote
quando biastemmia, ladroneccio, dolo,
usura et homicidio, e se v’è peggio,
raro, se non da li huomini, far veggio. –
85
Appresso alle ragioni havea il sincero
e giusto vecchio in pronto alcuno exempio
di donne, che né in fatto né in pensiero
mai di lor castità patiron scempio.
Ma ’l Saracin, che fuggìa udire il vero,
lo minacciò con viso crudo et empio,
sì che lo fece per timor tacere;
ma già non lo mutò di suo parere.
86
Posto c’hebbe alle liti e alle contese
termine il Re Pagan, lasciò la mensa;
indi nel letto per dormir si stese
fin al partir de l’aria scura e densa:
ma de la notte a suspirar l’offese
più de la donna, ch’a dormir, dispensa.
Quindi parte all’uscir del nuovo raggio,
e far disegna in nave il suo vïaggio.
87
Perhò c’havendo tutto quel rispetto
c’haver de’ a buon caval buon cavalliero,
a quel suo bello e buono, ch’a dispetto
tenea di Sacripante e di Ruggiero;
vedendo per dui giorni haverlo stretto
più che non si devria sì buon destriero,
lo pon, per riposarlo, e lo rassetta
in un naviglio, e per andar più in fretta.
88
Senza indugia al Nochier varar la barca,
e dar fa i remi all’acqua da la sponda.
Quella, non molto grande e poco carca,
se ne va per la Sonna giù a seconda.
Non fugge il suo pensier, non se ne scarca
Rodomonte per terra né per onda:
lo truova in su la proda e in su la poppa;
e se cavalca, il porta drieto in groppa.
89
Anzi nel capo, o sia nel cor, gli siede,
e di fuor caccia ogni conforto e serra.
Di ripararsi il misero non vede,
da poi che li nemici ha ne la terra;
non sa da chi sperar possa mercede
se gli fanno i domestici suoi guerra:
la notte e il giorno e sempre è combattuto
da quel crudel che devria dargli aiuto.
90
Naviga il giorno e la notte seguente
Rodomonte col cor d’affanni grave;
e non si può l’ingiuria tôr di mente,
che da la donna e dal suo Re havuto have;
e la pena e il dolor medesmo sente,
che sentiva a cavallo, anchora in nave:
né spegner può, per star nel’acqua, il fuoco,
né può stato mutar, per mutar luoco.
91
Come l’infermo, che dirotto e stanco
di febre ardente va cangiando lato,
o sia su l’uno o sia su l’altro fianco
spera haver, se si volge, miglior stato;
né sul destro riposa né sul manco,
e per tutto ugualmente è travagliato:
così il Pagano al male onde era infermo
mal truova in terra e mal in acqua schermo.
92
Non puòte in nave haver più patïenza,
e si fe’ porre in terra Rodomonte.
Passò Lione e Vienna, indi Valenza,
e vide in Avignone il ricco ponte;
che queste terre et altre ubidïenza,
che son tra il fiume e il Celtiberio monte,
rendean al Re Agramante e al Re di Spagna
dal dì che fur signor de la campagna.
93
Verso Acquamorta a man ritta si tenne
con animo in Algier passare in fretta;
e sopra un fiume ad una villa venne,
da Baccho insieme e Pallade diletta,
che restar, per l’ingiurie che sostenne
da li soldati, vuota fu constretta.
Quinci il mar vede, quindi ne l’apriche
valli ondeggiar le cereali spiche.
94
Quivi ritrova una piccola chiesa
di nuovo edificata su una mota,
che poi ch’intorno fu la guerra accesa
li sacerdoti havean lasciata vuota.
Per stanza fu da Rodomonte presa;
che per il sito e perché era remota
dai campi, onde havea in odio udir novella,
gli piacque sì, che lasciò Algier per quella.
95
Mutò d’andare in Aphrica pensiero,
sì commodo gli parve il luoco e bello.
Famigli e carrïaggi e il suo destriero
seco alloggiar fe’ nel medesmo hostello.
Vicino a poche leghe a Mompoliero
e ad alcun altro ricco e buon castello
siede il villaggio allato alla riviera;
sì che d’havervi ogni agio il modo v’era.
96
Standovi un giorno il Saracin pensoso
(come pur era il più del tempo usato),
vide venir per mezo un prato herboso,
che da un piccol sentiero era segnato,
una donzella di viso amoroso
in compagnia d’un monacho barbato;
e si traeano drieto un gran destriero
sotto una soma coperta di nero.
97
Chi la donzella, chi ’l monacho sia,
chi portin seco, vi debbe esser chiaro:
connoscere Issabella si devria,
ch’el corpo havea del suo Zerbino caro.
Lasciai che vêr Provenza ne venìa
sotto la scorta del vecchio preclaro,
che suaso le havea che tutto ’l resto
votasse a Dio del suo vivere honesto.
98
Come ch’in viso pallida e smarrita
sia la donzella, et habbia i crini inconti;
e facciano i suspir continua uscita
del petto acceso, e li occhi sien due fonti;
et altri testimoni d’una vita
misera e grave in lei si veggian pronti;
tanto perhò di bello ancho le avanza,
che con le Gratie Amor vi può haver stanza.
99
Tosto ch’el Saracin vide la bella
donna apparir, messe il pensier al fondo
c’havea di biasmar sempre e d’odiar quella
schiera gentil che pur adorna il mondo.
E ben gli par dignissima Issabella
in cui locar debbia il suo amor secondo,
e spenger totalmente il primo, a modo
che da l’asse si trahe chiodo con chiodo.
100
Incontra se le fece, e col più molle
parlar che seppe e col miglior sembiante,
di sua conditïone dimandolle:
et ella ogni pensier gli spiegò inante;
come era per lasciare il mondo folle
e farsi amica a Dio con opre sante.
Ride il Pagano altier, che in Dio non crede,
d’ogni legge inimico e d’ogni fede;
101
e chiama intentïone erronea e lieve,
e dice che per certo ella troppo erra;
né men biasmar che l’avaro si deve
ch’el suo ricco thesor mette sotterra:
alcuno util per sé non ne riceve,
e da l’uso de li altri humaini il serra.
Diensi chiuder leoni, orsi e serpenti,
ma non le cose belle et innocenti.
102
El Monacho, che a questo havea l’orecchia,
e per soccorrer la giovane incauta,
che ritratta non sia per la via vecchia,
sedea al governo qual pratico nauta,
quivi di spirtüal cibo apparecchia
presto una mensa sontüosa e lauta.
Ma ’l Saracin, che con mal gusto nacque,
non pur la saporì, che gli dispiacque;
103
e poi che invano il monacho interroppe
e non puoté mai far sì che tacesse,
e che di patïenza il freno roppe,
le mano adosso con furor gli messe.
Ma le parole mie parervi troppe
potriano homai, se più se ne dicesse:
sì che finirò il canto; e mi fia specchio
quel che per troppo dire accadde al vecchio.