CANTO DECIMOSEXTO
1
Magnanimo signor, ogni vostro atto
ho sempre con ragion laudato et laudo,
ben che col rozo stil duro et mal atto
gran parte de la gloria vi difraudo.
Ma più de l’altre, una virtù m’ha tratto,
a cui col core et con la lingua applaudo:
che s’ognun truova in voi ben grata udienza,
non vi truova perhò facil credenza.
2
Spesso in difesa del biasmato absente
indur vi sento imaginabil scusa,
o riserbargli almen (fin che presente
sua causa dica) l’altra orecchia chiusa;
et sempre, prima che dannar la gente,
vederla in faccia e udir la ragion ch’usa;
differir ancho giorni, mesi et anni
prima che giudicar ne l’altrui danni.
3
Se Norandino il simil fatto havesse,
fatto a Griphon non havria quel che fece:
a voi utile e honor sempre successe;
ei denigrò sua fama più che pece,
et si diè causa che sue genti messe
a morte furo; che Griphon in diece
colpi che trasse, pien d’ira et bizarro,
più di trenta ne uccise appresso il carro.
4
Li altri in rotta ne van pien di spavento,
chi qua chi là pei campi et per le strade;
tanta è la fretta a correr prima drento,
che ne la porta un sopra l’altro cade.
Griphon, sdegnato e pien di mal talento,
da sé quel dì bandita ogni pietade,
mena tra il volgo inerte il ferro intorno
et gran vendetta fa d’ogni suo scorno.
5
Di quei che primi son giunti alla porta,
che le piante a levarse hebbeno pronte,
parte, al bisogno suo molto più accorta
che de gli amici, alzò subito il ponte;
piangendo parte, o con la faccia smorta
fuggendo andò senza mai volger fronte,
et levò al grido per tutte le bande
de la città tumulto et rumor grande.
6
Griphon gagliardo dui ne piglia in quella
ch’el ponte si levò per lor sciagura:
sparge de l’uno al campo le cervella,
che lo percuote ad una cote dura;
l’altro piglia nel petto, et lo arrandella
in mezo la città sopra le mura.
Scórse per l’ossa a’ Damaschini il gelo
quando vider colui volar dal cielo.
7
Son molti c’hanno dubbio che Griphone
dentro la terra fatto habbia quel salto;
non vi sarebbe più confusïone
s’alle mura il Soldan desse l’assalto.
Un mover d’arme, un strido di persone,
de li Talacimanni un gridar d’alto,
un suon confuso de tamburi et trombe
el mondo assorda, et credo in ciel ribombe.
8
Ma voglio a un’altra volta differire
a raccontar ciò che di questo avenne;
che del Re Carlo mi convien seguire,
di cui di sopra vi lasciai che venne
l’audace Rodomonte ad assalire.
Io vi narrai che compagnia gli tenne
il gran Danese, Namo et Oliviero,
Avino, Avolio, Othone et Berlingiero.
9
Otto scontri di lance, che da forza
di tal otto guerrier cacciati fôro,
sostenne a un tempo la scagliosa scorza
di ch’era tutto armato il crudo Moro.
Come legno si drizza, poi che l’orza
lenta il nocchier che crescer sente il Coro,
così presto rizzossi Rodomonte
da i colpi che gettar deveano un monte.
10
Guido, Ranier, Ricardo et Salomone,
Ganelon traditor, Turpin fedele,
Angioliero, Angiolino, Ughetto, Ivone,
Marco et Mattheo dal pian di san Michele
et li otto di che dianzi io fei mentione,
son tutti intorno al Saracin crudele,
Arimanno e Odoardo d’Inghilterra
ch’entrati eran pur dianzi ne la terra.
11
Non così freme sul scoglio marino
di torre antiqua la grossa parete,
quando il furor di Borea o di Gherbino
svelle da i monti il frassino e l’abete;
come freme d’orgoglio il Saracino,
di sdegno acceso et di rabbiosa sete:
et come a un tempo il tuono et la saetta,
così de l’empio è l’ira et la vendetta.
12
Mena alla testa a quel che gli è più presso,
che gli è il misero Ughetto di Dordona:
lo pone in terra insino a’ denti fesso,
come che l’elmo era di tempra buona.
Percosso fu tutto in un tempo anch’esso
da molti colpi in tutta la persona;
che non fêr più ch’al saldo incude l’aco,
sì duro intorno havea il scaglioso draco.
13
Fur tutti li ripar, fu la cittade
d’intorno intorno abbandonata tutta;
che la gente alla piazza, dove accade
maggior bisogno, Carlo havea ridutta.
Corre alla piazza da tutte le strade
la turba, a chi ’l fuggir sì poco frutta:
la persona del Re sì i cori accende
che l’arme ognun, ognun l’animo prende.
14
Come, se dentro a ben rinchiusa gabbia
d’antiqua Leonessa usata in guerra,
perché haverne piacer il popul habbia,
talvolta il Tauro indomito si serra;
i Leoncin, che veggion per la sabbia
come altiero et muggendo animoso erra,
e veder sì gran corna non son usi,
stanno da parte timidi e confusi;
15
ma se la fiera madre a quel si lancia
et ne l’orecchio attacca il crudel dente,
vogliono anch’essi insanguinar la guancia
et vengono in soccorso arditamente;
chi morde il dosso al Tauro et chi la pancia:
così contra il Pagan fa quella gente.
Da tetti, da finestre et più d’appresso
sopra li piove un nembo d’arme et spesso.
16
D’huomini d’arme, arcieri et fantaria
tant’è la calca, che a pena vi cape;
e il popul che vi vien per ogni via
v’abbonda ad hor ad hor spesso come ape;
che quando, disarmato e nudo, sia
più facile a tagliar che torsi o rape,
nol potrà anchor, legato a monte a monte,
in venti giorni uccider Rodomonte.
17
Al Pagan, che non sa come ne possa
venir a capo, homai quel giuoco incresce;
per far di mille et più la terra rossa
poco la turba inanzi gli decresce.
Il fiato tuttavia pur se gl’ingrossa,
sì che comprende al fin che, se non esce
hor c’ha vigor e in tutto il corpo è sano,
vorrà da tempo uscir, che serà invano.
18
Rivolge gli occhi horribili, et pon mente
che d’ognintorno sta chiusa l’uscita;
ma con ruina d’infinita gente
l’aprirà presto, et la farà expedita.
Ecco, vibrando la spada tagliente,
venir quel empio ove il furor l’invita
ad assalir il nuovo stuol Britanno
che vi trasse Odoardo et Arimanno.
19
Chi vide in piazza mai romper steccato,
a cui la densa turba ondeggi intorno,
immansueto Tauro accaneggiato,
stimulato et percosso tutto il giorno;
ch’el popul se ne fugge ispaventato
et egli hor questo hor quel lieva sul corno:
pensi che tal o più terribil fosse
il crudel Aphrican quando se mosse.
20
Quindici o venti ne tagliò a traverso;
altritanti lasciò del capo tronchi,
ciascun d’un colpo sol dritto o riverso,
come finocchi o sian teneri gionchi.
Tutto di sangue il fier Pagano asperso,
di busti senza capo et bracci monchi,
di spalle et gambe et altre membra sparte
piena havendo la piazza, al fin si parte.
21
De la piazza si vede in guisa tôrre,
che non si può notar c’habbia paura;
ma tuttavolta col pensier discorre
dove habbia per uscir via più sicura.
Càpita al fin dove la Senna corre
di sotto all’Illa a uscir fuor de le mura;
et pur la gente d’arme e ’l popul drieto
lo stringe e incalza, e non lascia ir quïeto.
22
Qual per le selve Nomade et Massyle
cacciata va la generosa belva,
ch’anchor fuggendo mostra il cor gentile
et minacciosa et lenta se rinselva;
tal Rodomonte, in nessun atto vile,
da strana circondato et fiera selva
di lance et spiedi et di saette et dardi,
si tira al fiume a passi lunghi et tardi.
23
Et per tre volte sì l’ira il sospinse,
ch’essendone già fuor vi tornò in mezo,
ove di sangue la spada ritinse
et più di cento ne levò di mezo.
Ragion al fin in lui la rabbia vinse
di non far sì, che a Dio venisse il lezo;
et da la ripa, per miglior consiglio,
gettossi in l’acqua, e uscì di gran periglio.
24
Con tutte l’arme andò per mezo l’acque,
come se intorno havesse tante galle.
Aphrica, in te par a costui non nacque,
ben che di Anteo ti vanti e d’Hannibàlle.
Poi che fu giunto a proda, gli dispiacque,
che si vide restar drieto alle spalle
quella città che havea trascorsa tutta,
e non l’havea tutta arsa né distrutta.
25
Et sì lo rode la superbia et l’ira
che di tornarvi un’altra volta guarda,
et di profondo cor geme et suspira,
né vuolne uscir che non la spiani et arda.
Ma lungo il fiume, in questa furia, mira
venir chi l’odio extingue et l’ira tarda:
chi fusse vi farò ben presto udire;
ma prima un’altra cosa v’ho da dire.
26
Io v’ho da dir de la Discordia altiera,
a cui l’Angel Michele havea commesso
che a battaglia accendesse et lite fiera
quei che più forti havea Agramante appresso.
Uscì de’ frati la medesma sera,
havendo altrui l’ufficio suo commesso:
lasciò la Fraude a guerreggiare il luoco,
fin che tornasse, e mantenervi il fuoco.
27
Le parve che andaria con più possanza
se la Superbia anchor seco menasse;
et perché stava in la medesma stanza
non fu bisogno che a cercar l’andasse.
La Superbia v’andò, ma non che sanza
la sua vicaria il monastier lasciasse:
per pochi dì che credea starne absente
lasciò l’Hypocrisia luocotenente.
28
L’implacabil Discordia in compagnia
de la Superbia si messe in camino,
et ritrovò che la medesma via
facea, per ire al campo Saracino,
l’afflitta et sconsolata Gelosia;
et venìa seco un Nano piccolino,
il qual mandava Doralice bella
al Re di Sarza a dar di sé novella.
29
Quando ella venne a Mandricardo in mano,
che v’ho già raccontato et come et dove,
tacitamente havea commesso al Nano
che ne portasse a questo Re le nuove.
Ella sperò che nol saprebbe invano,
ma che far si vedria mirabil pruove
per rïhaverla con crudel vendetta
da quel ladron che gli l’havea intercetta.
30
La Gelosia quel Nano havea trovato;
et la cagion del suo venir compresa,
a caminar se gli era messa allato
parendo d’haver luogo a questa impresa.
Alla Discordia ritrovar fu grato
la Gelosia; ma più quando hebbe intesa
la causa del venir, che le potea
molto valere in quel che far volea.
31
D’inimicar con Rodomonte il figlio
del Re Agrican le par haver suggetto:
trovarà a sdegnar li altri altro consiglio;
a sdegnar questi dua questo è perfetto.
Col Nano se ne vien dove Marsiglio
col Re Agramante havea Parigi astretto;
a punto capitâr su quella riva
ove del fiume il Re di Sarza usciva.
32
Tosto che riconnobbe Rodomonte
costui de la sua Donna esser messaggio,
extinse ogni ira et serenò la fronte,
et si sentì brillar dentro il coraggio.
Può creder tutto, fuor che gli racconte
c’habbia alcun fatto lei sì grave oltraggio.
Va contra ’l Nano, et lieto gli dimanda:
– Che è de la Donna nostra? ove ti manda? –
33
Rispose il Nano: – Né più tua né mia
Donna dirò quella ch’è serva altrui.
Hieri scontrammo un cavallier per via,
che la ne tolse et la menò con lui. –
A quello annontio entrò la Gelosia,
fredda come Aspe, et abbracciò costui.
Séguita il Nano, et narragli in che guisa
un sol l’ha presa et la sua gente ha uccisa.
34
L’Acciaio allhora la Discordia prese
et la pietra focaia, et picchiò un puoco,
et l’esca sotto la Superbia stese,
et fu attaccato in un momento il fuoco;
et sì di questo l’anima s’accese
del Saracin, che non trovava luoco:
suspira et freme con sì horribil faccia,
che li elementi et tutto il ciel minaccia.
35
Come la Tigre, poi che invan discende
nel vuoto albergo, et per tutto s’aggira,
e il suo gran danno all’ultimo comprende,
che i dolci figli non vi sente o mira,
a tanta rabbia, a tal furor s’estende
ch’el crudel cor non può capir tanta ira;
né fiume o stagno o monte o notte affrena
l’odio che drieto al predator la mena:
36
con simil furia il Saracin bizarro
si volge al Nano, et dice: – Hor là t’invia; –
et non aspetta né destrier né carro,
né tol commiato da la compagnia.
Va con più fretta che non va il Ramarro,
quando il ciel arde, a traversar la via;
destrier non ha, ma il primo tôr disegna
(sia di chi vuol) ch’ad incontrar si vegna.
37
La Discordia ch’udì questo pensiero
guardò ridendo la Superbia, et disse
ch’ir volea inanzi a ritrovar destriero
che gli arrecasse altre contese et risse;
et far volea sgombrar tutto il sentiero,
ch’altro che quello in man non gli venisse:
et già pensato havea dove trovarlo.
Ma costei lascio, et torno a dir di Carlo.
38
Poi ch’al partir del Saracin s’extinse
Carlo d’intorno il periglioso fuoco,
tutte le genti all’ordine restrinse:
lascionne parte in qualche debil luoco;
adosso el resto a’ Saracini spinse
per dar lor scacco et guadagnarsi il giuoco,
et li mandò per ogni porta fuore,
da San Germano insino a San Vittore.
39
Et commandò che a porta San Marcello,
dove era gran spianata di campagna,
aspettasse l’un l’altro, e in un drapello
si ragunasse tutta la compagna.
Quindi animando ognuno a far macello
tal che sempre ricordo ne rimagna,
a-llor ordine andar fe’ le bandiere
et di battaglia dar segno alle schiere.
40
Il Re Agramante in questo tempo in sella,
mal grado de’ Christian, rimesso s’era,
et con lo inamorato d’Issabella
facea battaglia perigliosa et fiera;
col Re Sobrin Lurcanio si martella.
Rinaldo incontra havea tutta una schiera,
et con virtude et con fortuna molta
l’urta, l’apre, ruina et mette in volta.
41
Essendo la battaglia in questo stato,
l’Imperator assalse il retroguardo
dal canto ove Marsilio havea fermato
il fior di Spagna intorno al suo stendardo.
Con fanti in mezo et cavallieri al lato,
spinse il Re Carlo il suo popul gagliardo
con tal rumor de timpani et de trombe,
che tutto il mondo par che ne ribombe.
42
A quello assalto i Mori a spaventarsi
incominciaro, et ne fuggivan molti;
et iti ne serian spezzati et sparsi
sì che mai più non si serian raccolti,
se ’l Re Grandonio et Falsiron comparsi
(che già veduti havean più fieri volti)
non fusser quivi, et Serpentin feroce,
et Ferraù che lor dicea a gran voce:
43
– Ah (dicea) valenthuomini, ah compagni,
ah fratelli, tenete il luoco vostro.
Faranno li nemici opra de ragni
se non mancamo noi del dever nostro.
Guardate l’alto honor, li ampli guadagni
che Fortuna, vincendo, hoggi n’ha mostro;
guardate la vergogna e ’l danno estremo,
ch’essendo vinti, a patir sempre havremo. –
44
Tolto in quel tempo una gran lancia havea,
et contra Berlingier venne di botto,
che sopra l’Argaliffa combattea
e l’elmo ne la fronte gli havea rotto:
gettollo in terra, et con la spada rea
appresso lui ne fe’ cader forse otto;
per ogni botta almanco che diserra
cader fa sempre un cavallier in terra.
45
In altra parte ucciso havea Rinaldo
tanti pagan, ch’io non potrei contarli;
dinanzi a lui non stava ordine saldo:
vedreste piazza in tutto il campo farli.
Non men Zerbin, non men Lurcanio è caldo;
per modo fan che ognun sempre ne parli:
questo di punta havea Balastro ucciso,
e quello a Finadur l’elmo diviso.
46
L’exercito d’Alzerbe havea il primiero
che poco inanzi haver solea Tardocco;
l’altro tenea sopra le squadre impero
di Zamor et di Saffi et di Marocco.
– Non è fra li Aphricani un cavalliero
che di lancia ferir sappia o di stocco? –
mi si potrebbe dir; ma passo passo
nessun di gloria degno a drieto lasso.
47
Del Re de la Zumara non si scorda,
el nobil Dardinel figlio d’Aimonte,
che con la lancia Uberto di Mirforda,
Claudio dal Bosco et Lidulfin dal Monte,
et con la spada Anselmo da Stanforda,
et da Londra Raymondo e Pinamonte
getta per terra, et erano pur forti,
un stordito, un piagato, et quattro morti.
48
Ma con tutto il valor che di sé mostra
non può tener perhò ferma sua gente,
sì che aspettar voglia la gente nostra
di numero minor, ma più valente:
ha più ragion di spada et più di giostra
et d’ogni cosa a guerra appertinente.
Fugge la gente Maura et di Zumara,
di Setta, di Marocco et di Canara;
49
ma più de li altri fuggon quei d’Alzerbe,
a-ccui s’oppose il nobil giovinetto:
hor con gran prieghi, hor con parole acerbe
ripor lor cerca l’animo nel petto.
– S’Aimonte meritò ch’in voi si serbe
di lui memoria, hor ne vedrò l’effetto:
i’ vedrò (dicea lor) se me, suo figlio,
lasciar vorrete in così gran periglio.
50
State, ve priego per mia verde etade,
in cui solete haver sì larga speme:
deh non vogliate andar per fil di spade,
che in Aphrica non torni di noi seme.
Per tutto ne saran chiuse le strade
se non andiam ben còlti et stretti insieme:
troppo alto muro et troppo larga fossa
è il monte e il mar, pria che tornar si possa.
51
È meglio qui morir, ch’alli supplìci
darsi a discretïon di questi cani.
State saldi, per Dio, fedeli amici;
che tutti sono altri rimedii vani.
Non han di noi più vita li nemici;
più d’un’alma non han, più di due mani. –
Così dicendo, il Giovinetto forte
al conte d’Otonlei diede la morte.
52
El rimembrar Aimonte così accese
l’exercito Aphrican che fuggea prima,
che di più presto porre in sue difese
le braccia che le spalle fece stima.
Guglielmo da Burnich era uno Inglese
maggior di tutti, e Dardinello il cima
e lo pareggia agli altri; e appresso taglia
il capo ad Aramon di Cornovaglia.
53
Morto cadea questo Aramon a valle;
e v’accorse il fratel per dargli aiuto:
ma Dardinel questo altro da le spalle
tagliò fin dove il stomacho è forcuto;
poi forò il ventre a Boso da Vergalle
e lo mandò del debito assoluto:
havea promesso alla moglier fra sei
mesi (vivendo) di tornare a lei.
54
Vide non lungi Dardinel gagliardo
venir Lurcanio, c’havea in terra messo
Dorchin, passato ne la gola, e Gardo,
per mezo il capo insin a’ denti fesso;
e che Altheo fuggir vòlse, ma fu tardo,
Altheo ch’amò quanto il suo core istesso;
che drieto in la collottola gli mise
el fier Lurcanio un colpo che l’uccise.
55
Piglia una lancia et va per far vendetta,
dicendo al suo Machon, s’udir lo puote,
che se morto Lurcanio in terra getta
ne la moschea ne porrà l’arme vuote.
Poi traversando la campagna in fretta
con tanta forza il fianco gli percuote,
che tutto il passa sino all’altra banda;
et alli suoi, ch’el spoglino, commanda.
56
Non è da dimandarmi se dolere
se ne devesse Arïodante il frate;
se disïasse di sua man potere
por Dardinel fra l’anime dannate:
ma nol lascian le genti adito havere,
non men de l’infedel le battizate.
Pur vorria ritrovarlo, et con la spada
di qua et di là spianando va la strada:
57
urta, apre, caccia, atterra, taglia et fende
qualunque l’impedisce o gli contrasta.
E Dardinel, che tal disir intende,
a volerlo satiar già non sovrasta:
ma la gran moltitudine contende
con questo anchora, e i suoi disegni guasta.
Se i Mori uccide l’un, l’altro non manco
fa de li Scotti et campo Inglese et Franco.
58
Fortuna sempremai la via lor tolse,
che per tutto quel dì non s’accozzaro:
a più famosa man serbar l’un vòlse;
ch’el suo destin l’huom mai non fugge, o raro.
Ecco Rinaldo a questa strada volse
perché alla vita d’un non sia riparo;
ecco Rinaldo vien: Fortuna il guida
per dargli honor che Dardinel uccida.
59
Ma sia per questa volta detto assai
de’ glorïosi fatti di Ponente.
Ben tempo è di tornar dove lasciai
in Damasco Griphon, che d’ira ardente
facea, con più timor che havesse mai,
tumultuar la sbigottita gente.
Re Norandino a quel rumor corso era
con più di mille armati in una schiera.
60
Re Norandin con la sua corte armata,
vedendo tutto il populo fuggire,
venne alla porta in battaglia ordinata,
et quella fece alla sua giunta aprire.
Griphon intanto havendo già cacciata
da sé la turba sciocca et senza ardire,
la sprezzata armatura in sua difesa
(qualunque ella si fusse) haveasi presa;
61
Et presso a un tempio ben murato et forte,
che circondato era d’una alta fossa,
in capo un ponticel si fece forte
perché chiuderlo in mezo alcun non possa.
Ecco, gridando et minacciando forte,
che de la porta esce una squadra grossa:
l’animoso Griphon non muta luoco,
e fa sembiante che ne tema poco.
62
E poi ch’avicinar questo drapello
si vide, andò a trovarlo in su la strada;
e fattone crudel strage e macello
(che menava a duo man sempre la spada),
hebbe ricorso al stretto ponticello,
et quindi li tenea non troppo a bada:
di nuovo usciva et di nuovo tornava;
et sempre horribil segno vi lasciava.
63
Quando di dritto et quando di riverso
getta hor pedoni hor cavallieri in terra.
Il popul contra lui tutto converso
più et più sempre inaspera la guerra.
Teme Griphone al fin restar summerso,
sì cresce il mar che d’ognintorno il serra;
et ne la spalla et ne la coscia manca
è già ferito, et pur la lena manca.
64
Ma Virtù, che alli suoi spesso soccorre,
dinanzi al Re gli fe’ trovar perdono.
Il Re, mentre al tumulto in dubbio corre,
vede che morti già tanti ne sono;
vede le piaghe che di man di Hettorre
pareano uscite, in testimonio buono
che dianzi ello havea fatto indegnamente
vergogna a un cavallier molto excellente.
65
Poi, come fu più presso, et vide in fronte
quel che sua gente a morte havea condutta,
et fattosene inanzi horribil monte,
et di quel sangue il fosso et l’acqua brutta;
gli parve di veder proprio sul ponte
Horatio sol contra Thoscana tutta:
et per suo honor, et perché gli ne ’ncrebbe,
ritrasse i suoi, né gran fatica v’hebbe.
66
Et alzando la man nuda et senza arme,
antico segno di tregua o di pace,
disse a Griphon: – Non so, se non chiamarme
haver il torto et dir che me dispiace:
ma ’l mio poco giudicio, et l’instigarme
altrui, cader in tanto error mi face;
che quel ch’io mi pensai far al più vile
guerrier del mondo, ho fatto al più gentile.
67
Et se bene alla ingiuria, al scorno, all’onta
c’hoggi fatta ti fu per ignoranza,
l’honor che ti fai qui s’adegua et sconta,
o (per più vero dir) supera e avanza;
la satisfattïon ci serà pronta
a tutto mio saper et mia possanza,
quando io connosca di poter far quella
per oro, per cittadi o per castella.
68
Chiedimi la metà di questo regno,
ch’io son per fartene hoggi possessore;
che l’alta tua virtù non ti fa degno
di questo sol, ma ch’io ti doni il core:
et la tua mano in questo mezo, pegno
di fé, mi dona, et di perpetuo amore. –
Così dicendo, da caval discese
e vêr Griphon la destra mano stese.
69
Griphon, vedendo il Re fatto benigno
venirgli per gettar le braccia al collo,
lasciò la spada et l’animo maligno,
et sotto l’anche et humile abbracciollo.
Lo vide il Re di due piaghe sanguigno,
et tosto fe’ venir chi medicollo;
indi portarlo in la cittade adagio,
et riposar nel suo real palagio,
70
dove, ferito, alquanti giorni, inante
che si potesse armar, fece soggiorno.
Ma lascio lui, ch’al suo frate Aquilante
et ad Astolfo in Palestina torno.
Poi che Griphon lasciò le mura sante,
eglino il fêr cercar per più d’un giorno
in tutti i luochi in Solyma devoti,
e ’n molti anchor da la città remoti.
71
Hor né l’uno né l’altro era indivino
che di Griphon possa saper che sia;
ma venne lor quel Greco peregrino,
nel ragionar, a darne certa spia:
narrò da la città di Constantino,
per gire in Antïochia di Sorìa,
che levato Horrigille havea le some
con un di là, che havea Martano nome.
72
Dimandolli Aquilante se di questo
così notitia havea data a Griphone;
et come l’affermò, connobbe presto
il camin del fratello et la cagione:
che seguito ha Horrigille, è manifesto,
in Antïochia con intentïone
di levarla di man del suo rivale
con gran vendetta et memorabil male.
73
Non tolerò Aquilante ch’el fratello
solo et senza esso a quella impresa andasse;
et prese l’arme, et venne drieto a quello:
ma prima pregò il Duca che tardasse
di gire in Francia et al paterno hostello
fin ch’esso d’Antïochia ritornasse.
Scende al Zaffo et s’imbarca; che gli pare
et più breve et miglior la via del mare.
74
Hebbe un Ostro-Silocco allhor possente
tanto nel mar, et sì per lui disposto,
che la terra del Surro il dì seguente
vide et Saffetto, un dopo l’altro tosto;
passa Barutti e il Zibeletto, et sente
che da man manca gli è Cypro discosto;
a Tortosa da Tripoli, e alla Lizza
e al golfo di Laiazzo il camin drizza.
75
Quindi a Levante fe’ il nocchier la fronte
del naviglio voltar snello et veloce;
et a sorger n’andò sopra l’Oronte,
et colse il tempo, et ne pigliò la foce.
Gettar fece Aquilante in terra il ponte
e n’uscì armato sul destrier feroce;
et contra il fiume il camin dritto tenne,
tanto che in Antïochia se ne venne.
76
Quivi di quel Martano hebbe a informarse;
et udì che a Damasco se n’era ito
con Horrigille, ove una giostra farse
devea solenne per reale invito.
Ire a Damasco ad Aquilante parse,
certo ch’el frate habbia il rival seguito.
D’Antïochia quel giorno ancho si tolle;
ma già per mar più ritornar non volle.
77
Verso Lidia et Larissa il camin piega:
resta più sopra Aleppe ricca et piena.
Dio, per mostrar che anchor di qua non niega
mercede al bene, et al contrario pena,
Martano appresso a Mamuga una lega
ad incontrarsi in Aquilante mena.
Martano si facea con bella mostra
portar inanzi il pregio de la giostra.
78
Pensò Aquilante, al primo comparire,
che il suo fratello il vil Martano fosse;
che l’ingannaron l’arme et quel vestire
candido più che nevi anchor non mosse:
et con quel oh! che d’allegrezza dire
si suole, incominciò; ma poi cangiosse
tosto di faccia et di parlar, che appresso
meglio vide et trovò che non era esso.
79
Dubitò che per fraude di colei
ch’era con lui, Griphon gli havesse ucciso;
et: – Dimmi – gli gridò, – tu ch’esser déi
un ladro e un traditor, come n’hai viso,
onde hai queste arme havute? onde ti sei
sul buon caval del mio fratello assiso?
Dimmi se ’l mio fratello è morto o vivo;
come de l’arme et del caval l’hai privo. –
80
Come Horrigille udì l’irata voce,
a dietro il palafren per fuggir volse;
ma di lei fu Aquilante più veloce
et fecela fermar, vòlse o non vòlse.
Martano al minacciar tanto feroce
del Cavallier, che sì improviso il colse,
pallido trema come al vento fronda,
né sa quel che si faccia o si risponda.
81
Grida Aquilante, et fulminar non resta,
et la spada gli pon dritto alla strozza;
et giurando minaccia che la testa
ad Horrigille et lui rimarrà mozza
se tutto il fatto non gli manifesta.
El mal giunto Martano alquanto ingozza,
et tra sé volve se può sminuire
sua grave colpa, et poi comincia a dire:
82
– Sappi, signor, che mia sorella è questa,
nata di buona et virtüosa gente,
ben che tenuta in vita dishonesta
l’habbia Griphon obbrobrïosamente:
et tale infamia essendomi molesta,
né per forza sentendomi possente
di tôrla a sì grande huom, feci disegno
d’haverla per astutia et per ingegno.
83
Tenni modo con lei, che havea desire
di ritornar a più lodata vita,
che essendosi Griphon messo a dormire,
chetamente da lui fêsse partita.
Così fece ella, et perch’egli a seguire
non n’habbia et a turbar la tela ordita,
noi lo lasciammo disarmato a piedi;
et qua venuti siàn, come tu vedi. –
84
Poteasi dar di summa astutia vanto,
che Aquilante di facil gli credea;
e, fuor ch’en tôrgli arme et destrier et quanto
tenesse di Griphon, non gli nocea;
se non volea polir sua scusa tanto
che la facesse di menzogna rea:
buona era ogni altra parte, se non quella
che la femina a lui fusse sorella.
85
Havea Aquilante in Antïochia inteso
essergli concubina da più genti;
onde gridando, di furor acceso:
– Falsissimo ladron, tu te ne menti! –
un pugno gli tirò di tanto peso
che ne la gola gli cacciò duo denti:
et senza più contesa ambe le braccia
li volge dietro, et d’una fune allaccia;
86
et parimente fece ad Horrigille,
ben che in sua scusa ella dicesse assai.
Quindi li trasse per casali et ville,
né li lasciò fin a Damasco mai;
et de le miglia mille volte mille
tratti li havrebbe con pene e con guai
fin che havesse trovato il suo fratello,
per farne poi come piacesse a quello.
87
Fece Aquilante lor scudieri et some
seco tornar, et in Damasco venne;
et trovò di Griphon celebre il nome
per tutta la città batter le penne:
piccoli e grandi, ognun sapea già come
egli era chi sì ben corse l’antenne,
et che tolto gli fu con falsa mostra
dal compagno la gloria de la giostra.
88
Quivi il vil cavallier fu noto presto,
che l’un al altro il manifesta et scopre:
– Non è (dicean), non è Martano questo,
che si fa laude con l’altrui buon’opre?
et la virtù di chi non è ben desto
con la sua infamia et col suo obbrobrio copre?
Non è l’ingrata femina costei,
che tradisce li buoni e aiuta i rei? –
89
Altri dicean: – Come stan bene in coppia,
segnati ambi d’un marchio et d’una razza! –
Altri li maledice, altri raddoppia
con alta voce: – Appicca, abrucia, amazza! –
La turba per veder si preme et stroppia;
correno inanzi alle strade, alla piazza.
Venne la nuova al Re, che mostrò segno
d’haverla cara più che un altro regno.
90
Senza molti scudier drieto o dinante,
come se ritrovò, si mosse in fretta
et venne ad incontrarse in Aquilante,
che havea del suo Griphon fatto vendetta;
et quello honora con gentil sembiante,
seco l’invita et seco lo ricetta,
di suo consenso havendo fatto porre
li duo prigion in fondo d’una torre.
91
Andâr insieme ove del letto mosso
Griphon non s’era, poi che fu ferito,
che vedendo il fratel divenne rosso;
che ben stimò che havea il suo caso udito.
Et poi che motteggiando un poco adosso
gli andò Aquilante, messero a partito
come punir se havesser quelli dui
venuti in man de li aversarii sui.
92
Vuole Aquilante, vuol il Re che mille
stratii ne siano fatti; ma Griphone
(perché non osa dir sol d’Horrigille)
all’uno et l’altro vuol che si perdone.
Disse assai cose, et molto bene ordille;
fugli risposto; e la conclusïone
fu che si dia Martano in mano al boia,
c’habbia a scoparlo, et non perho che muoia.
93
Legar lo fanno, et non tra’ fior et l’herba,
et per tutto scopar l’altra matina.
Horrigille captiva si riserba
fin che ritorni la bella Lucina,
al cui saggio parer, o lieve o acerba,
rimetton quei signor la disciplina.
Quivi stette Aquilante a ricrearse,
fin ch’el fratel fu sano e puòte armarse.
94
Re Norandin, che temperato et saggio
divenuto era dopo un tanto errore,
non potea non haver sempre il coraggio
di penitentia pieno et di dolore
d’haver fatto a colui danno et oltraggio,
che di mercede degno era et di honore:
sì che dì e notte havea il pensiero intento
per farlo rimaner di sé contento.
95
Et statuì nel publico conspetto
de la città, di tanta ingiuria rea,
con quella maggior gloria che a perfetto
cavallier per un Re dar si potea,
restituirgli il premio che intercetto
con tanto inganno il traditor gli havea:
et per ciò fe’ bandir per quel paese
che faria un’altra giostra indi ad un mese.
96
Di che apparecchio fa tanto solenne
quanto a pompa real possibil sia:
onde la Fama con veloci penne
ne portò nuova per tutta Sorìa;
et in Phenicia e in Palestina venne,
et tanto che ad Astolfo ne diè spia,
il qual col Viceré deliberosse
che quella giostra senza lor non fosse.
97
Cavallier valoroso et di gran nome
l’antica fama Sansonetto vanta;
gli diè battesmo Orlando, et Carlo (come
v’ho detto) a governar la Terra Santa.
Astolfo con costui levò le some
per ritrovarsi ove la Fama canta
sì, che d’intorno n’ha pieno ogni orecchia
ch’in Damasco la giostra s’apparecchia.
98
Hor cavalcando per quelle contrade
con non lunghi vïaggi, ad agio et lenti,
per ritrovarsi freschi alla cittade
poi di Damasco el dì de’ torniamenti,
scontraro in una croce di due strade
persona ch’al vestir e a i movimenti
havea sembianza d’huomo, et femina era,
ne le battaglie oltra ogni creder fiera.
99
La vergine Marphisa si nomava,
di tal valor, che con la spada in mano
fece più volte al gran signor di Brava
sudar la fronte e a quel di Monte Albano;
e ’l dì et la notte armata sempre andava
di qua et di là cercando in monte e in piano
con cavallieri erranti riscontrarsi,
et immortale et glorïosa farsi.
100
Come ella vide Astolfo et Sansonetto
che appresso le venian con l’arme indosso,
prodi guerrier le parvero all’aspetto;
ch’erano amboduo grandi et di buon osso:
et perché di provarsi havria diletto,
a desfidarli havea il destrier già mosso;
quando, affisando l’occhio più vicino,
connosciuto hebbe il Duca paladino.
101
De la piacevolezza le sovenne
del cavallier, quando al Cathai seco era:
e lo chiamò per nome, e non si tenne
la man nel guanto, e alzossi la visera;
e con gran festa ad abbracciarlo venne,
come che sopra ogn’altra fusse altiera.
Non men da l’altra parte reverente
fu ’l paladino alla Donna excellente.
102
Tra lor si dimandaron di lor via:
et poi che Astolfo (che prima rispose)
narrò come a Damasco se ne gìa,
dove le genti in arme valorose
havea invitato il Re de la Sorìa
a dimostrar lor opre virtüose,
Marphisa, sempre a far gran prove accesa,
– Voglio esser con voi (disse) a questa impresa. –
103
Sommamente hebbe Astolfo grata questa
compagna d’arme, et così Sansonetto.
Furo a Damasco el dì nanzi la festa,
et di fuora nel borgo hebbon ricetto:
et sin all’hora che dal sonno desta
l’Aurora il vecchiarel già suo diletto,
quivi se riposâr con maggior agio
che se smontati fussero al palagio.
104
Et poi che ’l nuovo Sol lucido et chiaro
per tutto sparti hebbe i fulgenti raggi,
la bella Donna e’ duo guerrier s’armaro,
mandato havendo in la città messaggi;
che, come tempo fu, lor rapportaro
che per veder spezzar frassini et faggi
Re Norandin era venuto al luoco
che havea constituito al fiero giuoco.
105
Senza più indugio in la città ne vanno,
et per la via maestra in la gran piazza,
dove aspettando il real segno stanno
quinci et quindi i guerrier di buona razza.
Li premii che quel giorno si daranno
al vincitor è un stocco et una mazza
guarniti riccamente, e un destrier, quale
è convenevol dono a un signor tale.
106
Havendo Norandin fermo nel core
che, come il primo pregio, il secondo ancho
et d’ambedue le giostre il summo honore
devesse guadagnar Griphon il bianco;
per dargli tutto quel c’huom di valore
devrebbe haver et non può far con manco,
hor gli havea giunto in questo ultimo pregio
la mazza e ’l stocco et quel caval egregio.
107
Quella armatura, che in la giostra dianzi
debita era a Griphon ch’el tutto vinse,
et che usurpata havea con tristi avanzi
Martano che Griphon esser si finse,
quivi si fece il Re ponere inanzi,
e il ben guarnito stocco a quella cinse;
la mazza appresso e ’l buon destrier le messe
perché Griphon l’un pregio et l’altro havesse.
108
Ma che sua intentïone havesse effetto
vietò quella magnanima guerriera,
che con Astolfo et col buon Sansonetto
in piazza nuovamente venuta era.
Costei, vedendo l’arme ch’io v’ho detto,
subito n’hebbe connoscenza vera:
perhò che già sue furo, et l’hebbe care
quanto si suol le cose ottime et rare;
109
ben che per ira le gettò per strada
a quella volta che le fur d’impaccio,
quando per rïhaver sua buona spada
correa drieto a Brunel degno di laccio.
Questa historia non credo che mi accada
altrimenti narrar: perhò la taccio;
da me vi basti intendere a che guisa
quivi trovasse l’arme sue Marphisa.
110
Intenderete anchor, che come l’hebbe
riconnosciute a manifeste note,
per altro che sia al mondo non le harebbe
lasciate un dì di sua persona vuote.
Se più tenere un modo o un altro debbe
per racquistarle, ella pensar non puote:
ma come era a caval, la mano stese,
et senza altrui rispetto se le prese;
111
Et per la fretta ch’ella n’hebbe, avenne
di tôrne parte et mandar parte in terra.
Il Re, che troppo offeso se ne tenne,
con un mal sguardo sol le mosse guerra;
ch’el popul, che l’ingiuria non sostenne,
per vendicarlo et lance et spade afferra,
non ramentando ciò che i giorni inanti
nocque il dar noia a’ cavallieri erranti.
112
Né fra vermigli fiori, azurri et gialli
vago fanciul ne la stagion novella,
né mai se ritrovò tra suoni et balli
più volentieri ornata donna et bella,
che fra strepito d’arme et de cavalli
et fra punte di lance et di quadrella,
dove si sparga sangue e se dia morte,
costei si trovi, oltra ogni creder forte.
113
Spinge il cavallo, et ne la turba sciocca
con l’hasta bassa impetüosa fere;
et chi nel collo et chi nel petto imbrocca,
et fa con l’urto hor questo hor quel cadere:
poi con la spada un et un altro tocca,
et fa qual senza capo rimanere,
e qual con rotto, et qual passato al fianco,
et qual del braccio privo o destro o manco.
114
L’ardito Astolfo e ’l forte Sansonetto,
che havean con lei vestita piastra e maglia
(ben che non vener già per tal effetto),
pur, vedendo attaccata la battaglia,
abbassan la visera de l’elmetto
in favor d’essa, per quella canaglia;
prima con lancia, et vanno poi con spada
di qua et di là facendo lei far strada.
115
Li cavallier di natïon diverse
ch’erano per giostrar quivi ridutti,
vedendo l’arme in tal furor converse
et li aspettati giuochi in gravi lutti;
non sapendo che causa di dolerse
habbia la plebe, che non vider tutti
l’ingiuria che de l’arme al Re fu fatta,
stavan con dubbia mente et stupefatta.
116
Di ch’altri a favorir la turba venne,
che tardi poi non se ne fu a pentire;
altri, a cui la città più non attenne
che li stranieri, corse a dipartire;
altri, più saggio, in man la briglia tenne,
mirando dove questo havesse a uscire.
Di quelli fu Griphon et Aquilante,
che per vendicar l’arme andaro inante.
117
Essi, vedendo il Re che di veneno
havea le luci inebrïate et rosse,
et essendo da molti instrutti a pieno
de la cagion che la discordia mosse,
et parendo a Griphon che sua, non meno
che del Re Norandin, la ingiuria fosse;
se havean le lance fatte dar con fretta,
et venian fulminando alla vendetta.
118
Astolfo d’altra parte Rabicano
venìa spronando a tutti li altri inante,
con l’incantata lancia d’oro in mano
ch’al fiero scontro abbatte ogni giostrante.
Ferì con essa et lasciò steso al piano
prima Griphon, et poi trovò Aquilante;
et gli toccò ne l’orlo il scudo a pena
et lo gettò riverso in su l’arena.
119
Li cavallier di pregio et di gran pruova
vuotan le selle inanzi a Sansonetto.
L’uscita de la piazza il popul truova:
il Re ne arrabbia d’ira et di dispetto.
Con la prima corazza e con la nuova
Marphisa intanto, e l’uno e l’altro elmetto,
poi che si vide a tutti dar il tergo,
vincitrice venìa verso l’albergo.
120
Astolfo et Sansonetto non fur lenti
a seguitarla, et seco a ritornarsi,
fuggendo intorno a lor tutte le genti,
alle porte onde intraro, et là fermârsi.
Aquilante et Griphon, troppo dolenti
d’haver veduti a un scontro riversarsi,
tenean per gran vergogna il capo chino,
né ardian venire inanzi a Norandino.
121
Presi et montati c’hanno i lor cavalli,
spronano drieto alli nemici in fretta.
Li segue il Re con molti suoi vasalli,
tutti pronti alla morte o alla vendetta.
La sciocca turba grida: – Dàlli, dàlli! –
et sta lontana, et le novelle aspetta.
Griphon arriva ove volgean la fronte
li tre compagni, et havean preso il ponte.
122
E a prima giunta Astolfo raffigura,
che havea quelle medesime divise,
havea il cavallo, havea quella armatura
che hebbe dal dì che Horril fatale uccise.
Mirato non lo havea, né messo cura
quando in piazza a giostrar seco si mise:
quivi il connobbe et salutollo; et poi
gli dimandò de li compagni suoi;
123
et perché tratto havean quell’arme a terra
e havuto al Re sì poca reverenza.
Di suoi compagni il Duca d’Inghilterra
diede a Griphon non falsa connoscenza;
ma de la causa che Marphisa a guerra
mosse, rispose non haver scïenza:
et sol perché con lei v’era venuto,
dar le volea con Sansonetto aiuto.
124
Mentre parla Griphon col Paladino,
venne Aquilante, et riconnosce tosto
Astolfo, che parlar l’ode vicino;
et subito si muta di proposto.
Giungean molti di quei di Norandino,
ma troppo non ardian venire accosto;
et tanto più, vedendo i parlamenti,
stavano cheti et per udir intenti.
125
Alcun che intende quivi esser Marphisa
che tiene al mondo il vanto in esser forte,
volta il cavallo, et Norandin avisa
che s’hoggi non vuol perder la sua corte
proveggia, prima che sia tutta uccisa,
di man trarla a Tesiphone e alla Morte;
perché Marphisa veramente è stata
che l’armatura in piazza gli ha levata.
126
Come Re Norandin ode quel nome
così temuto per tutto Levante,
che facea a molti ancho arricciar le chiome,
ben che fusse da lor spesso distante;
è certo che ne debbia venir come
dice quel suo, se non provede inante;
perhò li suoi, che già mutata l’ira
hanno in timor, a sé richiama et tira.
127
Da l’altra parte i figli d’Oliviero
con Sansonetto et col figliuol d’Othone,
supplicando a Marphisa, tanto fêro
che se diè fine alla crudel tenzone.
Marphisa, giunta al Re, con viso altiero
disse: – Io non so, signor, con che ragione
vogli queste arme dar, che tue non sono,
al vincitor de le tue giostre in dono.
128
Mie sono l’arme, e in mezo de la via
che vien d’Armenia un giorno le lasciai,
perché seguir a piè mi convenia
un rubator che me havea offeso assai,
et a cavallo inanzi mi fuggìa:
e la mia insegna, se notitia n’hai,
vedi (e mostronne la corazza impressa), –
ch’era in tre parti una corona fessa.
129
– È ver (rispose il Re) che mi fur date
(son pochi dì) da un mercadante Armeno,
che disse haverle in terra ritrovate;
ma che poss’io saper che le tue sièno?
Et se ben a Griphon già l’ho donate,
ho tanta fede in lui, che nondimeno
a Marphisa ancho havrei potuto darle,
se si fusse degnata dimandarle.
130
Non bisogna allegar, per farmi fede
che sieno tue, che tengano tua insegna:
basti che tu mel dica; e ti si crede
più che a qual altro testimonio vegna.
Che l’arme tue sian tue te si concede
per tua virtù di maggior premio degna.
Togliti l’arme, et più non si contenda;
et Griphon maggior premio da me prenda. –
131
Griphon, che poco a cor havea quell’arme,
ma gran disio ch’el Re si satisfaccia,
– Non puoi (gli disse) meglio compensarme
che se mi fai saper ch’io ti compiaccia. –
Tra sé disse Marphisa: – Esser qui parme
l’honor mio in tutto; – et con benigna faccia
vòlse a Griphon de l’arme esser cortese;
e finalmente in don da lui le prese.
132
Ne la città con pace et con amore
tornaro, ove le feste raddoppiârsi.
Poi la giostra si fe’, di che l’honore
e il pregio fece Sansonetto darsi;
che Astolfo e i dua fratelli et la migliore
d’essi, Marphisa, non vi vuol provarsi,
cercando come amici et buon compagni
che Sansonetto il pregio ne guadagni.
133
Stati che sono in gran piacere et festa
con Norandin quivi otto giorni o diece,
perché l’amor di Francia li molesta,
che senza essi lasciar tanto non lece,
tolgon licentia; et Marphisa, che questa
via disïava, compagnia lor fece.
Marphisa havuto havea lungo disire
al paragon di paladin venire,
134
e far experïentia se l’effetto
si pareggiava a tanta nominanza.
Lasciò un altro in suo luoco Sansonetto,
che di Hierusalem resse la stanza.
Hor questi cinque in un drapello eletto,
che pochi pari haveano di possanza,
licentïati dal Re Norandino,
vanno a Tripoli e al mar indi vicino.
135
Et quivi una caracca ritrovaro
che per Ponente mercantie raguna;
per loro et per cavalli s’accordaro
con un vecchio padron, ch’era da Luna.
Mostrava d’ognintorno il tempo chiaro
che havrian per molti dì buona fortuna;
sciolser dal lito, havendo aria serena
e di buon vento ogni lor vela piena.
136
L’Isola sacra all’amorosa Dea
diede lor sotto un’aria il primo porto,
che (non che a offender gli huomini sia rea),
ma stempra il ferro, e quivi è il viver corto.
Cagion n’è un stagno: et certo non devea
Natura a Phamagosta far quel torto
d’appressarve Costanza acre et maligna,
quando al resto di Cypro è sì benigna.
137
El grave odor che la palude exhala
non lascia al legno far troppo soggiorno.
Quindi a un Greco-Levante spiega ogni ala
et vola da man destra a Cypro intorno,
et sorge a Papho, et pone in terra scala:
li naviganti uscîr nel lito adorno,
chi per merce levar, chi per vedere
la terra d’amor piena et di piacere.
138
Dal mar sei miglia o sette, a poco a poco
si va salendo inverso il colle ameno:
di Myrti, Cedri et di Naranci il luoco,
et di soavi altri arbuscelli è pieno;
Serpillo et Persa et Rose et Gigli et Croco
spargon da l’odorifero terreno
tanta suavità, che in mar sentire
la fa ogni vento che da terra spire.
139
De limpida fontana tutta quella
piaggia rigando va un ruscel fecondo.
Ben si può dir che sia di Vener bella
il luoco dilettevole et giocondo;
che v’è ogni donna affatto, ogni donzella
piacevol più che altrove sia nel mondo:
e fa la Dea che tutte ardon d’amore,
giovene et vecchie, insino all’ultime hore.
140
Quivi odono il medesimo ch’udito
di Lucina et de l’Orco hanno in Sorìa,
et come di tornare ella a marito
facea nuovo apparecchio in Nicosia.
Quindi il padron (essendosi expedito,
et spirando buon vento alla sua via)
l’ancore sarpa, et fa girar la proda
verso Ponente, et ogni vela snoda.
141
Al vento di Maestro alzò la nave
le vele all’orza, et allargossi in alto.
Un Ponente-Libecchio, che suave
parve a principio et fin ch’el sol stette alto,
et poi si fe’ verso la sera grave,
le lieva incontra il mar con fiero assalto,
con tanti tuoni et tanto ardor di lampi
che par ch’el ciel si spezzi et tutto avampi.
142
Stendon le nubi un tenebroso velo
che né Sole apparir lascia né stella;
di sotto il mar, di sopra mugge il cielo,
el vento d’ognintorno, et la procella
che di pioggia oscurissima et di gelo
li naviganti miseri flagella:
et la notte più sempre si diffonde
sopra l’irate et formidabil onde.
143
Li naviganti a dimostrar effetto
vanno de l’arte in che lodati sono;
nessun sta in otio: chi tolle il fraschetto,
et quanto altrui dee far, mostra col suono;
chi l’ancore apparecchia da rispetto,
et chi al mainar et chi alla scotta è buono;
chi el timone, chi l’arbore assicura,
chi la coperta a disgombrare ha cura.
144
Crebbe il tempo crudel tutta la notte,
caliginosa et più scura che inferno.
Tiene in l’alto il padron, dove men rotte
crede l’onde trovar, dritto il governo;
et volta ad hor ad hor contra le botte
del mar la proda, et del spietato verno,
non senza speme mai che, come aggiorni,
cessi fortuna, o più placabil torni.
145
Non cessa et non si placa, et più furore
mostra nel giorno, se pur giorno è questo,
che si connosce al numerar de l’hore,
non che per lume già sia manifesto.
Hor con minor speranza et più timore
si dà in poter del vento el padron mesto:
volta la poppa all’onde, e il mar crudele
scorrendo se ne va con humil vele.
146
Mentre Fortuna in mar questi travaglia,
né posar lascia ancho quelli altri in terra
che sono in Francia, ove s’uccide et taglia
coi Saracini il popul d’Inghilterra.
Quivi Rinaldo assale, apre et sbarraglia
le schiere averse, et lor bandiere atterra.
Dicea di lui ch’el suo destrier Baiardo
mosso havea contra Dardinel gagliardo.
147
Vide Rinaldo il segno del quartiero
di che superbo iva il figliuol d’Aimonte;
et lo stimò gagliardo et buon guerriero
che concorrer d’insegna ardia col Conte.
Venne più appresso, et più gli parbe vero;
c’havea d’intorno huomini uccisi a monte.
– Meglio è (gridò) che prima io svella et spenga
questo mal germe, che maggior divenga. –
148
Dovunque il viso drizza il Paladino
levasi ognuno, et gli dà larga strada;
né men sgombra il fedel ch’el saracino,
sì reverita è la famosa spada.
Rinaldo, fuor che Dardinel meschino,
non vede alcuno, et lui seguir non bada,
– Fanciul (gridando), gran briga ti diede
chi ti lasciò di quel bel scudo herede.
149
Vengo a te per provar, se tu me attendi,
come ben guardi il quartier rosso et bianco;
che s’hora contra me non lo difendi,
difender contra Orlando il potrai manco. –
Rispose Dardinel: – Hor chiaro apprendi
che s’io lo porto, il so difendere ancho;
et guadagnar più honor che briga posso
del paterno quartier candido et rosso.
150
Per vedermi fanciul, non creder farmi
perhò fuggir, o che ’l quartier ti dia:
la vita mi torrai, se mi toi l’armi;
ma spero in Dio ch’anzi il contrario fia.
Sia quel che vuol, non potrà alcun biasmarmi
che mai traligni alla progenie mia. –
Così dicendo, con la spada in mano
assalse il cavallier da Monte Albano.
151
De li Aphricani un tremor freddo oppresse
il sangue intorno al spaventato core,
come vider Rinaldo che si messe
con quella rabbia contra il lor signore,
con che andaria un leon ch’al prato havesse
visto un Torel che anchor non sente amore.
El primo che ferì fu il Saracino;
ma picchiò invan su l’elmo di Mambrino.
152
Rise Rinaldo, et disse: – Io vuo’ tu senta
s’io so meglio di te trovar la vena, –
et nel petto la spada gli appresenta;
spigne il cavallo et l’aspra punta mena:
la crudel spada non si piega o lenta;
che la punta n’appar fuor de la schiena.
Seco trasse, al tornar, l’anima e il sangue:
di sella il corpo uscì freddo et exangue.
153
Come purpureo fior languendo more,
ch’el vomere al passar tagliato lassa;
et come carco di superchio humore
il papavero in l’orto il capo abbassa:
così, giù de la faccia ogni colore
cadendo, Dardinel di vita passa;
passa di vita, et fa passar con lui
l’ardire et la virtù di tutti i sui.
154
Qual soglion l’acque per humano ingegno
star ingorgate alcuna volta et chiuse,
che quando lor vien poi rotto il sustegno
cascano, et van con gran rumor difuse;
tal li Aphrican, c’havean qualche ritegno
mentre lor Dardinel virtude infuse,
ne vanno hor sparti in questa parte e in quella,
che l’han veduto uscir morto di sella.
155
Chi vuol fuggir, Rinaldo fuggir lassa,
et attende a cacciar chi vuol star saldo.
Si cade ovunque Arïodante passa,
che molto va quel dì presso a Rinaldo.
Altri Lionetto, altri Zerbin fraccassa:
a gara ognuno a far gran prova è caldo.
Carlo fa il suo dever, fallo Oliviero,
Guido, Turpin e Salamone e Ugiero.
156
Li Mori fur quel giorno in gran periglio
che in Paganìa non ne tornasse testa;
ma il giuoco a tempo sa lasciar Marsiglio,
et se ne va con quel che in man gli resta.
Restar in danno tien miglior consiglio
che tutti i denar perdere et la vesta:
meglio è ritrarsi et salvar qualche schiera
che, stando, esser cagion ch’el tutto pèra.
157
Verso li alloggiamenti i segni invia,
ch’eron serrati d’argine et di fossa,
con Stordilan, col Re d’Andologia,
col Portughese in una squadra grossa.
Manda a pregar il Re di Barbaria
che si cerchi ritrar meglio che possa;
et se quel giorno la persona e ’l luoco
potrà salvar, non havrà fatto poco.
158
Quel Re che si tenea spacciato al tutto,
né mai credea più riveder Biserta,
che con viso sì horribile et sì brutto
unquancho non havea Fortuna experta,
s’allegrò che Marsilio havea ridutto
parte del campo in sicurezza certa:
et a ritrarsi cominciò, e dar volta
alle bandiere, et fe’ sonar raccolta.
159
Ma la più parte de la gente rotta
né tromba né tambur né segno ascolta:
tanta fu la viltà, tanta la dotta,
ch’in Senna se ne vide affogar molta.
Il Re Agramante vuol ridur la frotta:
seco ha Sobrino, et van scorrendo in volta;
et con lor s’affatica ogni buon Duca
che nei steccati il campo si riduca.
160
Ma né il Re, né Sobrin, né Duca ignuno
con prieghi, con minaccie et con affanno
ritrar può il terzo (io non vi dico ognuno)
dove l’insegne mal seguite vanno.
Morti et fuggiti ne son dua, per uno
che ne rimane, et quel non senza danno:
ferito è chi diretro et chi dinanti,
ma travagliati et lassi tutti quanti.
161
Et con gran tema sin dentro alle porte
de’ forti alloggiamenti hebbon la caccia:
et era lor quel luoco ancho mal forte,
con ogni proveder che vi si faccia;
che ben pigliar nel crin la buona sorte
Carlo sapea, quando volgea la faccia,
se non venìa la notte tenebrosa
che staccò il fatto, et acquetò ogni cosa;
162
dal Creator accelerata forse,
che de la sua fattura hebbe pietade.
Ondeggiò il sangue in la campagna, e corse
come un gran fiume, e dilagò le strade.
Ottanta mila corpi numerorse
che fur quel dì messi per fil di spade;
villani e lupi uscîr poi de le grotte
a dispogliarli e divorar la notte.
163
Carlo non torna più dentro alla terra,
ma contra li nemici fuor s’accampa,
et in assedio le lor tende serra,
et alti e spessi fuochi intorno avampa.
Il Pagan si provede, et cava terra,
fossi et ripari et bastïoni stampa;
va quinci et quindi, et tien le guardie deste,
né tutta notte mai l’arme si sveste.
164
Tutta la notte per li alloggiamenti
de’ mal sicuri Saracini oppressi
si versan pianti, gemiti et lamenti,
ma (quanto più si può) cheti et soppressi:
altri perché li amici hanno e parenti
lasciati morti, et altri per se stessi,
che son feriti e con disagio stanno;
ma più è la tema del futuro danno.
165
Duo Mori ivi fra li altri si trovaro,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta;
di cui l’historia (per exempio raro
di vero amor) è degna esser descritta.
Cloridano et Medor si nominaro,
c’havean ne la seconda et ne l’afflitta
fortuna sempre amato Dardinello,
et hor passato in Francia il mar con quello.
166
Cloridan, cacciator tutta sua vita,
di robusta persona era et isnella;
Medoro havea la guancia colorita
et bianca et grata ne l’età novella,
et fra la gente a quella impresa uscita
non v’era faccia più gioconda et bella:
li occhi havea negri, et chioma crespa e d’oro;
Angel parea di quei del summo choro.
167
Erano questi dui su li ripari
con molti altri a guardar li alloggiamenti,
quando la Notte fra distantie pari
mirava il ciel con li occhi sonnolenti.
Medoro quivi in tutti i suoi parlari
non può far ch’el signor suo non ramenti,
Dardinello d’Aimonte, et che non piagna
che senza honor si lasci in la campagna.
168
Volto al compagno, disse: – O Cloridano,
io non ti posso dir quanto me incresca
del mio signor, che sia rimaso al piano,
per lupi e corbi, ohimè! troppo degna esca.
A pensar come sempre mi fu humano,
mi par che quando anchor quest’anima esca
in honor di sua fama, io non compensi
né sciolga verso lui l’oblighi immensi.
169
Io voglio andar, perché non stia insepulto
in mezo la campagna, a ritrovarlo:
et forse Dio vorrà che andarò occulto
là dove tace il campo del Re Carlo.
Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
ch’io vi debba morir, potrai narrarlo;
che se Fortuna vieta sì bel’opra,
per fama almeno il mio buon cor si scopra. –
170
Stupisce Cloridan che tanto core,
tanto amor, tanta fede habbia un fanciullo,
et cerca assai (perché li porta amore)
di farli quel pensier irrito et nullo;
ma non gli val, ch’un sì grave dolore
non riceve conforto né transtullo:
è disposto Medoro o di morire
o ne la tomba il suo signor coprire.
171
Quando pur vede che nol piega o muove,
Cloridano gli dice: – E verrò anch’io;
anch’io vuo’ pormi a sì lodevol prove,
anch’io famosa morte amo et disio.
Qual cosa serà mai che più mi giove,
s’io resto senza te, Medoro mio?
Non è meglio morir teco, et con l’arme,
che poi di duol, vedendote mancarme? –
172
Così concordi, posero in quel luoco
le successive guardie, et se ne vanno;
lascian steccati et fossi, et dopo poco
tra’ nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, et tutto è spento il fuoco,
perché de li pagan dubbio non hanno;
tra l’arme e’ carïaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino a gli occhi immersi.
173
Fermossi alquanto Cloridano, et disse:
– Non son mai da lasciar l’occasïoni.
Di questo stuol ch’el mio signor trafisse
non debbio far, Medoro, occisïoni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
li occhi et l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra li nemici spatïosa strada. –
174
Così disse egli, et presto il parlar tenne
et entrò dove il dotto Alpheo dormia,
che l’anno dianzi in corte a Carlo venne,
medico et mago, et pien d’astrologia;
ma poco a questa volta gli sovenne,
anzi gli disse in tutto la bugia:
predetto egli s’havea che d’anni pieno
devea morir alla sua moglie in seno;
175
et hor gli ha messo il cauto Saracino
la punta de la spada ne la gola.
Quattro altri uccide appresso a l’indovino,
che non han tempo dire una parola:
mention de’ nomi lor non fa Turpino
e il lungo andar la lor notitia invola;
dopo essi Palidon di Monchaleri,
che sicuro dormia fra duo destrieri.
176
Poi se ne vien dove col capo giace
appoggiato al barile il miser Grillo:
havealo vuoto, e havea creduto in pace
godersi un sonno placido e tranquillo.
Troncolli il capo il Saracino audace:
esce col sangue il vin per uno spillo
di che n’ha in corpo più d’una bigoncia;
e ber sognava, e Cloridano il sconcia.
177
Et presso a Grillo, un Greco et un Tedesco
spenge in dui colpi, Androphilo e Conrado,
che de la notte havean goduto al fresco
la maggior parte con la tazza e ’l dado:
felici, se vegghiar sapeano a desco
fin che de l’Indo il Sol passassi il guado.
Ma non potrebbe in gli huomini il destino,
se del futuro ognun fusse indovino.
178
Come impasto Leone in stalla piena,
che lunga fame habbia smagrato e asciutto,
uccide, scanna, mangia, a straccio mena
l’infermo gregge in sua balìa condutto;
così il crudel Pagan nel sonno svena
la nostra gente, et fa macel per tutto.
La spada di Medoro ancho non hebe;
ma si sdegna ferir l’ignobil plebe.
179
Venuto era ove il Duca di Labretto
con una dama sua dormia abbracciato;
et l’un con l’altro si tenea sì stretto
che non serìa tra loro l’aere intrato.
Medoro ad ambi taglia il capo netto:
oh felice morire! oh dolce fato!
che come erano i corpi, ho così fede
che andasser l’alme a lor debita sede.
180
Malindo uccise e Ardalico il fratello,
che del Duca d’Olanda erano figli,
e l’uno et l’altro cavallier novello
fatto havea Carlo, et dato in l’arme i gigli,
perché il giorno amendui di hostil macello
vide coi stocchi a sé tornar vermigli:
e terre in Frisa havea promesso loro,
et date haria; ma lo vietò Medoro.
181
L’insidïosi ferri eran vicini
a’ padiglioni che tiraro in volta
al padiglion di Carlo i paladini,
facendo ognun la guardia la sua volta,
quando da l’empia strage i Saracini
trasser le spade, et diero a tempo volta;
ch’impossibil lor par, tra sì gran torma,
che non s’habbia a trovar un che non dorma;
182
et ben che possan tôr non poca preda,
par di salvar la vita amplo guadagno.
Dove più andar sicuramente creda
va Cloridano, et dietro ha il suo compagno.
Trovan la piazza più di sangue hereda
che molte volte non è d’acqua stagno,
dove poveri et ricchi, et Re et vassalli
giaccion sossopra, et huomini e cavalli.
183
Quivi de’ corpi l’horrida mistura,
che piene havean le gran campagne intorno,
potean far vaneggiar la fedel cura
de’ duo compagni insino al far del giorno,
se non trahea fuor d’una nube oscura,
a’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna li occhi, et così disse:
184
– O santa Dea, che da li antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
l’alta bellezza tua sotto più forme,
et ne le selve, di fere et di mostri
vai cacciatrice seguitando l’orme;
mostrami ove il Re mio giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi. –
185
La Luna a quel pregar la nube aperse,
o fusse caso o pur la tanta fede,
bella come fu allhor ch’ella se offerse
et nuda in braccio a Endimïon se diede.
Parigi a quel splendor si discoperse:
l’un campo e l’altro, e il monte e il pian si vede;
si videro i duo colli di lontano,
Martyre a destra, e Lerì all’altra mano.
186
Rifulse il gran splendor molto più chiaro
ove d’Aimonte giacea morto il figlio.
Medoro andò piangendo al signor caro;
che connobbe il quartier bianco et vermiglio:
et tutto il viso gli bagnò d’amaro
pianto, che n’havea un mar sotto ogni ciglio,
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che potea ad ascoltar fermare i venti;
187
ma con summessa voce a pena udita.
Non che riguardi a non se far sentire
perché habbia alcun pensier de la sua vita:
più presto l’odia et ne vorrebbe uscire;
ma per timor che non gli sia impedita
l’opera pia che quivi il fe’ venire.
Fu il morto Re su li homeri suspeso
di tramendua, tra lor partendo il peso.
188
Vanno affrettando i passi quanto ponno,
che poco lor l’amata soma ingombra.
Et già venìa chi de la luce è donno
le stelle a tôr del ciel, di terra l’ombra;
quando Zerbino, a cui del petto il sonno
l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra,
cacciato havendo tutta notte i Mori,
al campo si trahea ne i primi albóri.
189
Et seco alquanti cavallieri havea
che videro da lunge i duo compagni;
ciascun a quella parte si trahea
sperandovi trovar prede et guadagni.
– Frate, bisogna (Cloridan dicea)
gettar la soma, et adoprar calcagni;
che sarebbe pensier non troppo accorto
perder duo vivi per salvar un morto. –
190
Et gettò il carco, perché si pensava
ch’el suo Medoro il simil far devesse:
ma quel meschin, ch’el suo signor amava,
sopra le spalle sue tutto lo resse.
L’altro con molta fretta se n’andava,
come l’amico a paro o dietro havesse;
che se sapea lasciarlo a quella sorte,
mille aspettate havria, non che una morte.
191
Quei cavallier, che son tutti disposti
o di pigliarli o di farli morire,
alli passi, alle vie se sono opposti
onde ponno estimar c’habbiano a uscire;
altri lor vanno appresso, altri discosti.
Zerbin in frotta si messe a seguire;
che giudicò (vedendoli temere)
ch’esser devean de le nemiche schiere.
192
Era a quel tempo ivi una selva antica,
d’ombrose piante spessa et di virgulti,
che come labyrintho entro se intrica
di stretti calli, et sol da bestie culti:
speran d’haverla i dui Pagan sì amica
c’habbi a tenerli entro suoi rami occulti.
Ma chi del canto mio piglia diletto,
un’altra volta ad ascoltar lo aspetto.