CANTO PRIMO

1
Di donne e cavallier li antiqui amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Aphrica il mare, e in Francia nocquer tanto,
tratti da l’ire e giovenil furori
d’Agramante lor Re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra Re Carlo Imperator Romano.
2
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’huom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
ch’el poco ingegno ad hor ad hor mi lima,
me ne serà perhò tanto concesso,
che mi basti a compir quanto ho promesso.
3
Piacciavi, generosa Herculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Hippolyto, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’humil servo vostro.
Quel ch’io vi debbio posso di parole
pagare in parte, e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar tutto vi dono.
4
Voi sentirete, fra’ più degni Heroi
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier che fu di voi,
de li avi e maggior vostri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio
e vostri alti pensier cedeno un poco,
sì che tra lor miei versi habbiano luoco.
5
Orlando, che gran tempo inamorato
fu de la bella Angelica, e per lei
in India, in Media, in Tartaria lasciato
havea infiniti et immortal trophei,
in Ponente con essa era tornato,
dove sotto i gran monti Pyrenei
con la gente di Francia e d’Alemagna
Re Carlo era attendato alla campagna,
6
per fare al Re Marsiglio e al Re Agramante
battersi anchor del folle ardir la guancia
d’haver condotto, l’un, d’Aphrica quante
genti erano atte a portar spada e lancia;
l’altro, d’haver spinta la Spagna inante
a destruttion del bel regno di Francia.
E così Orlando arrivò quivi a punto,
ma presto si pentì d’esservi giunto;
7
perché vi perse la sua donna poi:
ecco il giudicio human come spesso erra!
Quella che da li Hesperii a i liti Eoi
havea difesa con sì lunga guerra
hor tolta gli è fra tanti amici suoi,
senza colpo di spada, e in la sua terra:
il savio Imperator, che extinguer vòlse
un grave incendio, fu che gli la tolse.
8
Nata pochi dì inanzi era una gara
tra ’l conte Orlando e il suo cugin Rinaldo,
che ambi havean per la bellezza rara
d’amoroso disio l’animo caldo.
Carlo che non havea tal lite cara,
che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
questa donzella che la causa n’era
tolse, e diè in mano al duca di Bavera,
9
in premio promettendola a quel d’essi
ch’in la dubbiosa pugna la giornata
de li infedeli in più copia uccidessi
e di sua man prestasse opra più grata.
Contrari a i voti poi furo i successi;
che in fuga andò la gente battizata,
et con molti altri fu il Duca prigione,
e restò abbandonato il padiglione;
10
dove, poi che rimase la donzella
ch’esser devea del vincitor mercede,
inanzi al caso era salita in sella
e quando bisognò le spalle diede,
presaga che quel giorno esser rubella
devea Fortuna alla christiana fede.
Entrò in un bosco e ne la stretta via
scontrossi un cavallier che a piè venìa.
11
La corazza havea indosso e l’elmo in testa,
cinta la spada, et imbracciato il scudo;
e più liggier correa per la foresta
ch’al palio rosso il villan mezo nudo.
Timida pastorella mai sì presta
non volse piede inanzi a serpe crudo,
come Angelica tosto il freno torse,
che del guerrier ch’a piè venìa s’accorse.
12
Era costui quel paladin gagliardo,
figliuol d’Amon, signor di Montalbano,
a cui pur dianzi il suo caval Baiardo
per strano caso uscito era di mano.
Come egli volse alla Donzella il sguardo
riconnobbe, quantunque di lontano,
l’angelico sembiante e quel bel volto
ch’alle amorose reti il tenea involto.
13
La Donna il palafreno a dietro volta
e per la selva a tutta briglia caccia;
né per la rara più che per la folta,
la più sicura e miglior via procaccia;
ma pallida, tremando, e di sé tolta,
lascia cura al caval che la via faccia.
Di su di giù, ne l’alta selva fiera
tanto vagò, che giunse a una rivera.
14
Su la rivera Ferraù trovosse,
di sudor pieno e tutto polveroso.
Da la battaglia dianzi lo rimosse
un gran disio di bere e di riposo;
e poi (mal grado suo) quivi fermosse
perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,
l’elmo nel fiume si lasciò cadere,
n’anchor l’havea potuto rïhavere.
15
Quanto potea più forte, ne veniva
gridando la donzella ispaventata.
A quella voce salta in su la riva
quel Saracino, e nel viso la guata,
e la connosce subito ch’arriva,
ben che turbata in faccia e scapigliata
e sien più dì che non udì novella,
che senza dubbio ella è Angelica bella.
16
E perché era cortese e n’havea forse
non men de i dui Cugini il petto caldo,
l’aiuto che potea tutto le porse,
pur come havesse l’elmo ardito e baldo:
trasse la spada, e minacciando corse
dove poco di lui temea Rinaldo.
Più volte s’eran già non pur veduti,
m’al paragon de l’arme connosciuti.
17
Cominciâr quivi una crudel battaglia,
come a piè si trovâr co i brandi ignudi:
non che le piastre e la minuta maglia,
ma a’ colpi lor non reggerian l’incudi.
Hor, mentre l’un con l’altro si travaglia,
bisogna al palafren ch’el passo studi;
che quanto può menar de le calcagna
colei lo caccia al bosco, alla campagna.
18
Poi che s’affaticâr gran pezzo invano
i dui guerrier per por l’un l’altro sotto,
quando non meno era con l’arme in mano
questo di quel, né quel di questo dotto,
fu primiero il signor di Montalbano
ch’al cavallier di Spagna fece motto,
sì come quel c’ha nel cor tanto fuoco,
che tutto n’arde e non ritruova luoco.
19
Disse al Pagan: – Me sol creduto havrai,
et havrai pur te stesso anchora offeso:
se questo avien perché i fulgenti rai
del nuovo Sol t’habbiano il petto acceso,
di farmi qui tardar che guadagno hai?
che quando anchor tu m’habbi morto o preso,
non perhò tua la bella donna fia,
che mentre noi tardiàn se ne va via.
20
Quanto fia meglio, amandola tu anchora,
che tu sia meco a traversar la strada,
sì che a costei si faccia far dimora
prima che più lontana se ne vada.
Come l’havremo in potestade, allhora
di che esser de’ si provi con la spada:
non so altrimente, dopo un lungo affanno,
che possa reuscire altro che danno. –
21
Al Pagan la proposta non dispiacque:
così fu differita la tenzone;
e tal tregua tra lor subito nacque,
sì l’odio e l’ira va in oblivïone,
ch’el Pagano al partir da le fresche acque
non lasciò a piedi il buon figliuol d’Amone:
con prieghi invita, et al fin tolle in groppa,
e per l’orme de Angelica galoppa.
22
Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e in tutta la persona i colpi iniqui
che s’havean dati anchor sentian dolersi;
et hor per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza suspetto haversi.
Da quattro sproni il caval punto arriva
dove una strada in due se dippartiva.
23
E come quei che non sapean se l’una
o l’altra via facesse la donzella,
perhò che senza differentia alcuna
apparia in amendue l’orma novella,
s’appresero ad arbitrio di Fortuna:
Rinaldo a questa e il Saracino a quella.
Pel bosco Ferraù molto s’avolse
e ritrovossi al fine onde si tolse.
24
Pur se ritruova anchor su la rivera,
là dove l’elmo gli cascò nel’onde.
Poi che la donna ritrovar non spera,
per haver l’elmo ch’el fiume gli asconde,
in quella parte onde caduto gli era
discende ne le estreme humide sponde;
ma quello era sì fitto ne la sabbia,
che molto havrà da far prima che l’habbia.
25
Con un gran ramo d’albero rimondo,
di che havea fatta una pertica lunga,
tenta il fiume e ricerca sino al fondo,
né luoco lascia ove non batta e punga.
Mentre con la maggior stizza del mondo
tanto l’indugia sua quivi prolunga,
di mezo ’l fiume vide un cavalliero
insino al petto uscir, di aspetto fiero.
26
Era, fuor che la testa, tutto armato
et havea un elmo ne la destra mano
(havea il medesimo elmo che cercato
da Ferraù fu lungamente invano).
A Ferraù parlò come adirato,
e disse: – Ah mancator di fé, Marano!
perché lasciarmi anchor l’elmo t’aggrevi,
che render già gran tempo me devevi?
27
Ricordati, Pagan, quando uccidesti
d’Angelica il fratel (che son quell’io),
drieto al’altre arme tu mi promettesti
fra pochi dì gettar l’elmo nel rio.
Hor se Fortuna, quel che non volesti
far tu, pone ad effetto il voler mio,
non ti turbar; e se turbar ti déi,
turbati che di fé mancato sei.
28
Ma se desir hai pur d’un elmo fino,
trovane un altro, et habbil con più honore:
un tal ne porta Orlando paladino,
un tal Rinaldo, e forse ancho migliore;
l’un fu d’Aimonte, e l’altro di Mambrino:
acquista un di quei dui col tuo valore;
e questo, c’hai già detto di lasciarmi,
lasciami, e non cercar più di levarmi. –
29
All’apparir che fece all’improviso
di l’acqua il spirto, ogni pelo arricciosse
e scolorosse al Saracino il viso;
la voce ch’era per uscir fermosse.
Udendo poi da l’Argalìa, che ucciso
quivi havea già (che l’Argalìa nomosse),
la rotta fede in faccia improverarse,
di scorno e d’ira, e dentro e di fuor arse.
30
Né tempo havendo a pensar altra scusa,
e connoscendo ben ch’el ver gli disse,
restò senza risposta a bocca chiusa;
ma la vergogna il cor sì gli traffisse,
che giurò per la vita di Lanfusa
non voler mai ch’altro elmo lo coprisse,
se non havea quel buon ch’in Aspramonte
trasse del capo Orlando al fiero Aimonte.
31
E servò meglio questo giuramento
che non havea quel altro fatto prima.
Quindi se parte tanto mal contento,
che molti giorni poi si rode e lima.
Sol di cercare è il Paladino intento
di qua e di là, dove trovarlo stima.
Altra aventura al buon Rinaldo accade,
che da costui tenea diverse strade.
32
Non molto va Rinaldo, che si vede
saltare inanzi il suo destrier feroce.
– Ferma, Baiardo mio, deh ferma il piede!
che l’esser senza te troppo mi nuoce. –
Per questo il destrier sordo a lui non riede,
anzi più se ne va sempre veloce.
Segue Rinaldo, e d’ira se distrugge:
ma seguitiamo Angelica che fugge.
33
Fugge tra selve spaventose e scure,
per luochi inhabitati, ermi e silvaggi.
El muover de le frondi e di verdure,
di cerri, d’olmi, abeti, pini e faggi,
fatto le havea, con sùbite paure,
trovar di qua e di là strani vïaggi;
che d’ogni ombra veduta, o in monte o in valle,
temea Rinaldo haver sempre alle spalle.
34
Qual pargoletta o damma o caprïola,
che tra le fronde del natio boschetto
alla madre veduta habbia la gola
stringer el pardo, e aprirle il fianco o il petto,
di selva in selva dal crudel s’invola
e di paura trema e di suspetto,
e ad ogni sterpo che passando tocca
esser si crede all’empia fiera in bocca.
35
Quel dì e la notte e mezo l’altro giorno
s’andò aggirando, e non sapeva dove.
Trovasi infine in un boschetto adorno
che lievemente la fresca aura muove.
Dui chiari rivi, mormorando intorno,
facean l’herbette tenerelle e nuove;
tra piccol sassi rotto, il correr lento
rendeva ad ascoltar dolce concento.
36
Quivi parendo a lei d’esser sicura
et lontana a Rinaldo mille miglia,
da la via stanca et da la estiva arsura,
di riposare alquanto si consiglia:
smonta tra’ fiori alla fresca verdura,
et al suo palafren lieva la briglia
e lo lascia nel margine de l’onde,
che di fresca herba havea piene le sponde.
37
Non men ch’al suo cavallo a sé provede,
e mira intorno ove più agiata pose.
Ecco non lungi un bel cespuglio vede,
di spin fiorito e di vermiglie rose,
ch’in modo di spelonca in sé conciede
ombroso albergo ne le parti ascose,
e la foglia con rami in modo è mista,
ch’el Sol non v’entra, non che minor vista.
38
Dentro letto vi fan tenere herbette
che invitano a posar chi s’appresenta.
La bella donna in mezo a quel si mette;
ivi si corca, et ivi se addormenta.
Ma non per lungo spatio così stette,
che par che calpistar pel bosco senta:
cheta si lieva, et oltra alla rivera
vede che all’acqua un cavallier giunto era.
39
Se l’è amico o nemico non comprende;
tema e speranza il dubbio cuor le scuote
e di quella aventura il fine attende,
né pur d’un sol sospir l’aria percuote.
Il cavalliero in ripa il fiume scende
sopra l’un braccio a riposar le guote;
e ’n un suo gran pensier tanto penètra,
che par cangiato in insensibil pietra.
40
Pensoso più d’una hora a capo basso
stette, Signore, il cavallier dolente;
poi cominciò in un suono afflitto e lasso
a lamentarsi sì suavemente,
c’havrebbe di pietà spezzato un sasso,
una tygre crudel fatta clemente.
Suspirando piangea, tal che un ruscello
parean le guancie, e il petto un Mongibello.
41
– Pensier (dicea) ch’el cor m’aggiacci et ardi,
e causi il duol che sempre il rode e lima,
che debbio far, poi che son giunto tardi
e truovo ch’altri il frutto ha colto prima?
Io non hebbi da lei mai se non sguardi;
hor truovo ch’altri n’ha la spoglia opima.
Se non ne tocca a me frutto né fiore,
perché affliger per lei vommi più il core?
42
La verginella è simile alla rosa
che ’n un chiuso horto in la nativa spina,
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor se le avicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina;
gioveni vaghi e donne inamorate
amano haverne e seni e tempie ornate.
43
Ma non sì tosto dal materno stelo
rimossa viene, e dal suo ceppo verde,
ch’el favor e de li huomini e del Cielo
e de’ Elementi e di Natura perde.
La vergine ch’el fior anzi ch'el melo
lascia ricôrre altrui, ch’un solo haver de’,
l’amor, la gratia, il pregio che havea inanti
perde nel cor di tutti li altri amanti.
44
Sia vile alli altri, e da quel solo amata
a cui di sé fece sì larga copia.
Ah Fortuna crudel, Fortuna ingrata!
triomphan li altri, e ne moro io di inopia.
Dunque esser può che non mi sia più grata?
dunque io potrò lasciar mia vita propia?
Ah, più presto hoggi manchino i dì miei
ch’io viva più, s’amar non debbo lei! –
45
Se mi dimanda alcun chi costui sia,
che versa sopra il rio lachryme tante,
io dirò ch’egli è il Re di Circassia,
quel d’amor travagliato Sacripante;
io dirò anchor che di sua pena ria
sia prima e sola causa esser amante,
e pur un de li amanti di costei:
e ben riconnosciuto fu da lei.
46
Appresso ove il Sol cade, per amore
di lei venìa dal capo d’Orïente;
che seppe in India con suo gran dolore
come seguito Orlando havea in Ponente;
poi seppe in Francia, che gli passò il core,
che tolta Carlo imperïosamente
l’havea, e promessa in premio a l’un di dui
che in la battaglia più fêsse per lui.
47
Stato era in campo, havea veduta quella,
quella rotta che dianzi hebbe Re Carlo;
cercò vestigio di Angelica bella,
né havea potuto anchora ritrovarlo.
Questa è dunque la trista e ria novella
che d’amorosa doglia fa penarlo,
affligger, lamentar, e dir parole
che di pietà potrian fermare il Sole.
48
Mentre costui così s’affligge e duole
e fa de li occhi suoi tepida fonte,
e dice queste e molte altre parole
che non mi par bisogno esser racconte,
l’aventurosa sua Fortuna vuole
che alle orecchie d’Angelica sien conte:
e così quel ne vien a un’hora, a un punto,
che ’n mille anni, o mai più, non è raggiunto.
49
Con molta attentïon la bella donna
al pianto, alle parole, al modo attende
di colui che in amarla non assonna,
né questo è ’l primo dì ch’ella l’intende;
ma dura e fredda più d’una colonna,
ad haverne pietà non perhò scende,
come colei c’ha tutto il mondo a sdegno
e non le par ch’alcun sia di lei degno.
50
Pur, tra quei boschi il ritrovarsi sola
le fa pensar di tuor costui per guida;
che chi nel’acqua sta fin alla gola
ben è ostinato se mercé non grida.
Se questa occasïone hor se l’invola,
non troverà mai più scorta sì fida;
ch’a lunga prova connosciuto inante
s’havea quel Re fedel sopra ogni amante.
51
Per ciò non pensa il dispiacer, la noia
in ch’ella vede il misero che l’ama,
di convertirli in quella somma gioia
ch’ogni amator da la sua donna brama;
m’alcuna fittïone, alcuna soia
di tenerlo in speranza ordisce e trama:
tanto ch’al suo bisogno se ne serva,
poi torni al uso suo dura e proterva.
52
E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco
fa di sé bella et improvisa mostra,
come talhor uscir di selva o speco
Dïana in scena o Cytherea si mostra;
e dice all’apparir: – Pace sia teco,
teco difenda Dio la fama nostra
e non comporti, contra ogni ragione,
c’habbi di me sì falsa opinïone. –
53
Non mai con tanto gaudio o stupor tanto
levò li occhi al figliuolo alcuna madre,
c’havea per morto suspirato e pianto
poi che senza esso udì tornar le squadre,
con quanto gaudio il Saracin, con quanto
stupor l’alta presenza e le liggiadre
maniere e vero angelico sembiante
improviso apparir si vide inante.
54
Pieno di dolce affetto e reverente,
alla sua donna, alla sua diva corse;
lo raccolse ella più cortesemente
che non faria se fusse in India forse.
Al regno di suo padre in Orïente,
seco havendo costui, l’animo torse:
subito in lei s’aviva la speranza
di presto riveder sua ricca stanza.
55
Angelica gli rese pienamente
conto di sé dal dì ch’esso da lei
a cercar fu mandato in Orïente
lontan soccorso alli suoi casi rei;
disse che Orlando da tutta la gente
ch’è tra li Franchi alberghi e i Nabattei
le havea servato il fior virgineo salvo
come ella sel portò dal materno alvo.
56
Forse era ver, ma non perhò credibile
a chi del senso suo fosse signore;
ma parve facilmente a lui possibile,
ch’era perduto in via più grave errore.
Quel che l’huom vede Amor gli fa invisibile,
e l’invisibil fa vedere Amore.
Questo creduto fu, ch’el miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.
57
– Se mal si seppe il cavallier d’Anglante
pigliar per sua sciocchezza il tempo buono,
il danno se n’havrà, che da qui inante
nol chiamerà Fortuna a sì gran dono
(tra sé tacito parla Sacripante);
ma io per imitarlo già non sono,
che lasci tanto ben che m’è concesso
e che a doler poi m’habbia di me stesso.
58
Corrò la fresca e matutina rosa
che, tardando, stagion perder potria.
So ben che a-ddonna non si può far cosa
che più soave e più piacevol sia,
anchor che se ne mostri disdegnosa
e talhor mesta e flebil se ne stia:
non starò per repulsa o finto sdegno
ch’io non adombri e incarni el mio disegno. –
59
Così dice egli; e mentre s’apparecchia
a dar l’assalto, un gran rumor che suona
dal vicin bosco l’introna l’orecchia,
sì che mal grado l’impresa abbandona;
e si pon l’elmo, c’havea usanza vecchia
di portar sempre armata la persona,
viene al destriero e gli repon la briglia,
rimonta in sella e la sua lancia piglia.
60
Ecco pel bosco un cavallier venire,
il cui sembiante è di huom gagliardo e fiero:
candido come neve è il suo vestire,
un bianco pennoncello ha per cimiero.
Re Sacripante, che non può patire
che quel con l’importuno suo sentiero
gli habbia interrotto el gran piacer c’havea,
con vista il guarda disdegnosa e rea.
61
Come è più appresso lo sfida a battaglia,
che crede ben fargli vuotar l’arcione.
Quel che di lui non stimo già che vaglia
un grano meno, e ne fa paragone,
l’orgogliose minaccie a mezo taglia,
sprona il destriero, e l’hasta al scudo pone.
Sacripante ritorna con tempesta,
e corronsi a ferir testa per testa.
62
Non si vanno i Leoni o i Tori in salto
a dar di petto e ad accozar sì crudi
come li dui guerrieri al fiero assalto,
che parimente si passaro i scudi.
Fece il scontro tremar dal basso a l’alto
l’herbose valli sino a i poggi ignudi;
e ben giovò che fur buoni e perfetti
li usbergi sì, che lor salvaro i petti.
63
Li dui cavalli con terribile urto
cozzaro insieme a guisa di montoni:
quel del guerrier Pagan morì di curto,
ch’era vivendo in numero de’ buoni;
quel altro cadde anchor, ma l’ha risurto
presto il suo cavallier con briglia e sproni;
ma quel del Saracin restò disteso
adosso il suo Signor con tutto il peso.
64
L’incognito campion che restò ritto
e vide l’altro col cavallo in terra,
stimando havere assai di quel conflitto,
non si curò di rinovar la guerra;
ma dove per la selva è il camin dritto
correndo a tutta briglia si disserra;
e prima che di briga esca il Pagano
un miglio o poco meno è già lontano.
65
Qual sbigottito e stupido aratore,
poi ch’è passato il fulmine, si lieva
di là dove l’altissimo fragore
presso alli morti buoi steso l’haveva;
che mira senza fronde e senza honore
il Pin che veder lungi si soleva:
tal si levò il Pagano a piè rimaso,
Angelica presente al duro caso.
66
Sospira e geme, non perché l’annoi
che piede o braccio s’habbia rotto o mosso,
ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi
né pria né dopo el viso hebbe sì rosso;
e più, ch’oltra il cader, sua donna poi
fu che gli tolse il gran peso da dosso.
Muto restava, mi cred’io, se quella
non gli rendea la voce e la favella.
67
– Deh! (disse ella) Signor, non vi rincresca!
che del cader non è la colpa vostra,
ma del cavallo, a cui riposo et esca
meglio si convenia che nuova giostra.
Né perciò quel guerrier sua gloria accresca;
che d’esser stato il perditor dimostra:
così per quel ch’io me ne sappia stimo,
quando a lasciar il campo è stato il primo. –
68
Mentre costei conforta il Saracino,
ecco col corno e con la tasca al fianco
galoppando venir sopra un ronzino
un messaggier che parea afflitto e stanco;
che come a Sacripante fu vicino
gli dimandò se quel dal scudo bianco,
che la bandiera candida havea in testa,
veduto havea passar per la foresta.
69
Rispose Sacripante: – Come vedi,
m’ha qui abbattuto, e se ne parte hor hora;
e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi
fa’ che per nome io lo connosca anchora. –
Et egli a lui: – Di quel che tu mi chiedi
io te satisfarò senza dimora:
hai da saper che ti levò di sella
l’alto valor d’una gentil donzella.
70
Ella è gagliarda, ma più bella è molto;
né ti vuo’ il nome suo tener secreto:
fu Bradamante quella che t’ha tolto
quanto honor acquistato hai per adrieto. –
Poi c’hebbe così detto, a freno sciolto
n’andò lasciando il Saracin non lieto,
che non sa che si dica o che si faccia,
tutto abbragiato di vergogna in faccia.
71
Poi che gran pezzo al caso intervenuto
hebbe pensato invano, e finalmente
da una donzella si trovò abbattuto,
che pensandolo più, più dolor sente;
montò l’altro caval tacito e muto,
e senza altra contesa, chetamente
tolse Angelica in groppa, e differilla
a più lieto uso, a stanza più tranquilla.
72
Non furo iti duo miglia, che sonare
odon la selva che li cingie intorno,
con tal rumor e strepito, che pare
che tremi la foresta d’ognintorno;
e poco dopo un gran destrier n’appare,
d’oro guarnito e riccamente adorno,
che salta macchie e rivi, et a fracasso
arbori mena e ciò che vieta il passo.
73
– Se l’intricati rami e l’aer fosco
(disse la donna) a gli occhi non contende,
Baiardo è quel destrier ch’in mezo ’l bosco
con tal rumor nanzi la via si fende.
Questo è certo Baiardo, io ’l riconnosco:
deh, come ben nostro bisogno intende!
che un sol caval per dui serìa mal atto,
e ne vien egli a satisfarne ratto. –
74
Smonta il Circasso et al destrier s’accosta,
e si pensava dar di mano al freno.
Colle groppe il destrier gli fa risposta,
che fu presto a voltar come un baleno;
ma non arriva dove i calci apposta:
misero il cavallier se giunge a pieno!
che ne’ calci tal possa havea il cavallo,
c’havria spezzato un monte de metallo.
75
Indi va mansueto alla donzella,
con humile sembiante e gesto humano,
come intorno al patrone il can saltella
che sia dui giorni o tre stato lontano.
Baiardo anchora havea memoria d’ella,
che ’n Albracca il servia già di sua mano
nel tempo che da lei tanto era amato
Rinaldo, alhor crudele, alhora ingrato.
76
Con la sinistra man prende la briglia,
con l’altra còme e palpa il collo e il petto:
quel destrier, c’havea ingegno a maraviglia,
a lei, come un agnel, si fa suggetto.
Intanto Sacripante il tempo piglia:
monta Baiardo, e l’urta, e lo tien stretto.
Del ronzin disgravato la donzella
lasciò la groppa, e ritornò in la sella.
77
Poi, rivolgendo a caso li occhi, mira
venir sonando d’arme un gran pedone.
Tutta s’avampa di dispetto e d’ira,
che connosce il figliuol del duca Amone.
Più che sua vita l’ama egli e desira;
l’odia e fugge ella più che grue falcone.
Già fu ch’esso odiò lei più che la morte;
ella amò lui: hor han cangiato sorte.
78
E questo hanno causato due fontane
che di diverso effetto hanno liquore,
ambe in Ardenna, e non sono lontane:
d’amoroso disio l’una empie il core;
chi bee de l’altra senza amor rimane
e volge tutto in odio il primo amore.
Rinaldo gustò d’una, e Amor lo strugge;
Angelica de l’altra, e l’odia e fugge.
79
Quel liquor di secreto venen misto,
che muta in odio l’amorosa cura,
fa che la donna che Rinaldo ha visto
ne’ sereni occhi subito se oscura;
e Sacripante con pallido e tristo
viso, e tremando, supplica e scongiura
che quel guerrier più presso non attenda,
ma che insieme con lei la fuga prenda.
80
– Son dunque (disse il Saracino), sono
dunque in sì poco credito con vui,
che me stimiate inutile e non buono
da potervi difender da costui?
Le battaglie d’Albracca già vi sono
di mente uscite? e la notte ch’io fui
per la salute vostra, solo e nudo
contra Agricane e tutto il campo, scudo? –
81
Non gli diè più risposta la donzella
perché Rinaldo hormai l’è troppo appresso,
che da lontano al Saracin favella
come vide il cavallo e connobbe esso,
e quella donna riconnobbe, quella
che l’amoroso incendio in cor gli ha messo:
quel che seguì tra questi dui superbi
vuo’ che per l’altro canto si riserbi.

CANTO SECONDO

1
Ingiustissimo Amor, perché sì raro
correspondenti fai nostri disiri?
onde, perfido, avien che t’è sì caro
il discorde voler che in dui cor miri?
Ir non mi lasci al facil guado e chiaro,
e nel più cieco e maggior fondo tiri;
da chi disia il mio amor tu mi richiami,
e chi m’ha in odio vuoi che adori et ami.
2
Fai che a Rinaldo Angelica par bella,
quando esso a lei brutto e spiacevol pare;
quando le parea bello e l’amava ella,
egli odiò lei quanto si può più odiare.
Hora s’afflige indarno e si flagella;
e così reso ben gli è pare a pare:
ella l’ha in odio, e l’odio è di tal sorte,
che più presto che lui vorria la morte.
3
Rinaldo a lui con ira e con orgoglio
gridò: – Scendi, ladron, del mio cavallo!
Che mi sia tolto il mio, patir non soglio,
ma ben fo a chi lo vuol caro costallo;
e levar questa donna ancho ti voglio,
che serebbe a lasciartela gran fallo:
sì perfetto destrier, donna sì degna
a un ladron non mi par che si convegna. –
4
– Tu te ne menti ben che ladro io sia
(rispose il Saracin non meno altiero):
chi dicesse a te ladro, lo diria
(per quanto n’è la fama) più con vero.
Che degno o indegno de la donna i’ sia,
non te n’ho a render conto di leggiero;
ma vuo’ ben dir, che se degno di lei
poco sono io, che tu nulla ne sei. –
5
Come soglion talhor dui can mordenti,
o per invidia o per altro odio mossi,
avicinarsi degrignando i denti,
con occhi bieci e più che bragia rossi;
indi a’ morsi venir di rabbia ardenti,
con aspri ronchi e rabuffati dossi:
così alle spade e da’ gridi e da l’onte
venne il Circasso e quel di Chiaramonte.
6
A piedi è l’un, l’altro a cavallo: hor quale
credete c’habbia il Saracin vantaggio?
Né ve n’ha perhò alcun, che così vale
forse anchor men ch’uno inexperto paggio:
ch’el destrier per instinto naturale
non volea fare al suo Signore oltraggio;
né con man né con spron puòte il Circasso
farlo a voluntà sua muover mai passo.
7
Quando crede cacciarlo, egli s’arresta;
e se tener lo vuole, o corre o trotta;
poi sotto il petto si caccia la testa,
giuoca di schiene e mena calci in frotta.
Vedendo il Saracin ch’a domar questa
furia bestial non v’era tempo allhotta,
ferma le man sul primo arcione e s’alza,
e dal sinistro fianco in piede sbalza.
8
Sciolto che fu el Pagan con leggier salto
da l’ostinatïon c’havea Baiardo,
si vide cominciar ben degno assalto
d’un par di cavallier tanto gagliardo.
Suona l’un brando e l’altro, hor basso hor alto:
il martel di Vulcano era più tardo
ne la spelonca affumicata, dove
battea all’incude e’ folgori di Giove.
9
Fanno hor con lunghi, hora con finti e scarsi
colpi veder che mastri son del giuoco:
hor li vedi ire altieri, hor ranicchiarsi;
hora coprirsi, hora mostrarsi un poco;
hora crescere inanzi, hora ritrarsi;
ribatter colpi, e spesso lor dar luoco;
girarsi intorno, e donde l’uno cede
l’altro haver posto immantinente il piede.
10
Ecco Rinaldo con la spada adosso
a Sacripante tutto se abandona;
quel porge il scudo inante, ch’era d’osso,
con la piastra d’acciar temprata e buona.
Taglial Fusberta, anchor che molto grosso;
ne geme la foresta e ne risuona:
l’osso e l’acciar ne va che par di giaccio
e lassa al Saracin stordito il braccio.
11
Come vide la timida donzella
dal fiero colpo uscir tanta ruina,
per gran timor cangiò la faccia bella,
quale il reo ch’al supplicio se avicina;
né le par che vi sia da tardar, s’ella
non vuol di quel Rinaldo esser rapina,
di quel Rinaldo ch’ella tanto odiava
quanto esso lei miseramente amava.
12
Volta il Cavallo, e ne la selva folta
il caccia per un aspro e stretto calle;
e spesso il smorto viso adietro volta,
che le par che Rinaldo habbia alle spalle.
Fuggendo non havea fatto via molta
che scontrò un Eremita in una valle,
c’havea lunga la barba a mezo il petto,
devoto e venerabile d’aspetto.
13
Da li anni e dal digiuno attenuato,
sopra un lento asinel se ne veniva;
e parea più che alcun fosse mai stato
di conscïenza scrupulosa e schiva.
Come egli vide il viso delicato
de la donzella che sopra gli arriva,
debil quantunque e mal gagliarda fosse,
tutta per charità se gli commosse.
14
La donna al fraticel chiede la via
che la conduca ad un porto di mare,
perché levar di Francia si vorria
per non udir Rinaldo nominare.
Il frate, che sapea negromantia,
non cessa la donzella confortare
che presto la trarrà d’ogni periglio;
et a una tasca sua diede di piglio.
15
Trassene un libro, e mostrò grande effetto;
che legger non finì la prima faccia,
ch’uscir fa un spirto in forma d’un valletto
e gli commanda quanto vuol ch’el faccia.
Quel se ne va, da la scrittura astretto,
dove i duo cavallieri a faccia a faccia
eran nel bosco, e non stavano al rezo;
fra’ quali intrò con grande audacia in mezo.
16
– Per cortesia (disse), un di voi mi mostre,
quando ancho occida l’altro, che gli vaglia:
che merto harete alle fatiche vostre,
finita che tra voi sia la battaglia,
se ’l conte Orlando, senza liti o giostre,
e senza pur haver rotta una maglia,
verso Parigi mena la donzella
che v’ha condotti a questa pugna fella?
17
Vicino un miglio ho ritrovato Orlando
che ne va con Angelica a Parigi,
di voi ridendo insieme e motteggiando
che senza frutto alcun siate in litigi.
Il meglio forse vi sarebbe (hor quando
non son più lungi) a seguir lor vestigi;
che s’in Parigi Orlando la può havere,
non ve la lascia mai più rivedere. –
18
Veduto hareste e’ cavallier turbarsi
a quel annontio, e mesti e sbigottiti
senza occhi e senza mente nominarsi
che sì li havesse il lor rival scherniti;
ma con suspir Rinaldo al caval trarsi,
con suspir che parean del foco usciti,
giurar di passïone e di furore,
se giunge Orlando, di cavargli il core.
19
E dove aspetta il suo Baiardo passa,
e sopra vi si lancia e via galoppa;
n’al Cavallier, ch’a piè nel bosco lassa,
pur dice adio, non che lo ’nviti in groppa.
L’animoso Cavallo urta e fracassa
(punto dal suo signor) ciò che gli ’ntoppa:
non ponno fosse o fiumi o sassi o spini
far che dal corso il corridor declini.
20
Signor, non voglio che vi paia strano
se Rinaldo hor sì presto il caval piglia
che già duo giorni ha seguitato invano,
né gli ha possuto mai toccar la briglia.
Fece il Destrier, c’havea intelletto humano,
non per vitio seguirsi tante miglia,
ma per guidar dove la donna giva
il suo signor, da chi bramar l’udiva.
21
Quando ella si fuggì dal padiglione,
la vide et osservolla il buon Destriero
che si trovava haver vuoto l’arcione,
perhò che n’era sceso il Cavalliero
per combatter di par con un Barone,
che men di lui non era in arme fiero;
e seguitonne l’orme di lontano,
bramoso porla al suo signore in mano.
22
Bramoso di ritrarlo ove fosse Ella,
per la gran selva inanzi se gli messe;
né lo volea lasciar montar in sella
perché ad altro camin non lo volgesse.
Per lui trovò Rinaldo la Donzella
una e dua volte, e mai non gli successe;
che fu da Feraù prima impedito,
poi dal Circasso, come haveti udito.
23
Hora, al demonio che mostrò a Rinaldo
de la donzella li falsi vestigi
credette il Caval ancho, e stette saldo
e mansueto a’ soliti servigi.
Rinaldo il caccia, d’ira e d’Amor caldo,
a tutta briglia, e sempre invêr Parigi;
e vola tanto col disio, che lento
(non che un destrier) ma gli parrebbe il vento.
24
La notte a pena di seguir rimane,
per affrontarsi col signor d’Anglante:
tanto ha creduto alle parole vane
del messaggier del cauto Negromante.
Non cessa cavalcar sera e dimane
che si vede apparir la terra inante,
dove Re Carlo, rotto e mal condotto,
con le reliquie sue s’era ridotto.
25
E perché dal Re d’Africa battaglia
et assedio v’aspetta, ogni sua cura
è di raccôrvi gente e vittuaglia,
far cavamenti e riparar le mura.
Ciò ch’a diffesa spera che gli vaglia
senza gran diferrir tutto procura:
pensa mandare in Inghilterra, e trarne
gente onde possa un nuovo campo farne;
26
che vuole uscir di nuovo alla campagna
e ritentar la sorte de la guerra.
Spaccia Rinaldo subito in Bertagna,
Bertagna che fu poi detta Inghilterra.
Ben de l’andata il paladin si lagna:
non c’habbia così in odio quella terra,
ma perché vuol che parta allhora allhora,
né pur lo lascia un giorno far dimora.
27
Rinaldo mai di ciò non fece meno
volentier cosa, poi che fu distolto
di gir cercando il bel viso sereno
che gli havea ’l cor di mezo ’l petto tolto:
ma per ubidir Carlo, nondimeno
a quella via si fu subito volto.
In pochi giorni si trovò a Calesse,
dove imbarcossi e per passar si messe.
28
Contra la volontà d’ogni nocchiero,
pel gran disir che di tornare havea,
intrò nel mar, ch’era turbato e fiero
e gran procella minacciar parea.
El Vento si sdegnò che da l’altiero
sprezzar si vide, e con tempesta rea
sollevò il mare intorno, e con tal rabbia,
che gli mandò a bagnar sino alla gabbia.
29
Calano presto i marinari accorti
le maggior vele, e pensano dar volta
e ritornarsi in li medesmi porti
donde in mal punto havean la nave sciolta.
– Non convien (dice il Vento) ch’io comporti
tanta licentia che v’haveti tolta; –
e soffia e grida e naufragio minaccia
s’altrove van che dove egli li caccia.
30
Hor a poppa, hor all’orza hanno ’l crudele,
che mai non cessa, e vien più ognhor crescendo:
essi di qua e di là con humil vele
vansi aggirando, e l’alto mar scorrendo.
Ma perché varie fila a varie tele
uopo mi son, che tutte ordire intendo,
lascio Rinaldo e l’agitata prua
e torno a dir di Bradamante sua.
31
Io parlo di quella inclyta Donzella
per cui Re Sacripante in terra giacque,
che, di questo signor degna sorella,
del Duca Amone e di Beatrice nacque.
La gran possanza e il molto ardir di quella
non meno a Carlo e tutta Francia piacque,
che più d’un paragon ne vide saldo,
ch’el lodato valor del bon Rinaldo.
32
La donna amata fu da un cavalliero
che d’Africa passò col Re Agramante,
che partorì del seme di Ruggiero
la disperata figlia d’Agolante:
e costei, che né d’orso né di fiero
leone uscì, non sdegnò tal amante,
ben che concesso anchor Fortuna trista
non l’ha più nanzi d’una dolce vista.
33
Quindi cercando Bradamante gìa
l’amator suo, c’havea ’l nome del padre,
così sicura, senza compagnia,
come havesse a sua guardia mille squadre:
e fatto c’hebbe il Re di Circassia
battere il volto de l’antiqua madre,
traversò un bosco, e dopo ’l bosco un monte,
tanto che giunse ad una bella fonte.
34
La fonte discorrea per mezo un prato
d’arbori antiqui e di bell’ombre adorno,
che li viandanti con mormorio grato
a ber invita e far seco soggiorno;
un culto monticel dal destro lato
le difende il calor del mezo giorno.
Quivi, come i begli occhi prima torse,
d’un cavallier la giovane s’accorse,
35
d’un cavaller, ch’all’ombra d’un boschetto,
nel margin verde e bianco e rosso e giallo
sedea pensoso, tacito e soletto,
sopra quel chiaro e liquido christallo.
Non lontan gli pendea ’l scudo e l’elmetto
dal faggio, ove legato era il cavallo;
et havea gli occhi molli e il viso basso,
e si mostrava addolorato e lasso.
36
Questo disir ch’a tutti sta nel core,
de’ fatti altrui sempre cercar novella,
fece a quel cavaller del suo dolore
la cagion dimandar da la donzella.
Egli l’aperse e tutta mostrò fuore,
dal cortese parlar mosso di quella
e dal sembiante altier, ch’al primo sguardo
gli sembrò di guerrer molto gagliardo.
37
E comminciò: – Signore, io conducea
pedoni e cavalleri, e venìa in campo
là dove Carlo Marsiglio attendea
per fargli al scender l’alpe haver inciampo;
e una giovane bella meco havea,
del cui fervido amor nel petto avampo:
e ritrovai presso a Rodonna armato
un che frenava un gran destrero alato.
38
Tosto ch’el ladro, o sia mortale, o sia
una de l’infernali anime horrende,
vede la bella e cara donna mia,
come falcon che per ferir discende,
cala e poggia in uno atimo, e tra via
getta le mani, e la smarrita prende:
anchor non m’era accorto de l’assalto,
che de la donna io senti’ il grido in alto.
39
Così il rapace Nibio furar suole
el misero pulcin presso alla chioccia,
che di sua inadvertenza si conduole
e vanamente poi drieto gli croccia.
Io non posso seguire un huom che vole,
chiuso tra l’alpi, a piè d’un’erta roccia:
stanco ho ’l destrer, che muta a pena i passi
ne l’aspre vie de’ faticosi sassi.
40
Ma, come quel che men curato harei
veder del petto erradicarmi il core,
lasciai lor via seguir quell’altri miei
senza mia guida e senza alcun rettore:
per li scoscesi poggi e manco rei
presi la via che mi mostrava Amore,
e dove mi parea che quel rapace
portassi il mio conforto e la mia pace.
41
Sei giorni me n’andai matino e sera
per balze e per pendici horride e strane,
dove non via, dove sentier non era,
dove non segno di vestigie humane;
tanto ch’io venni in una valle austera,
di ripe cinta e spaventose tane,
che nel mezo s’un sasso havea un castello
forte e ben posto, e a maraviglia bello.
42
Da lungi par che come fiamma lustri,
né sia di terra cotta, né di marmi.
Come più m’avicino ai muri illustri
l’opra più bella e più mirabil parmi;
e seppi poi che li demoni industri,
da suffumigi tratti e sacri carmi,
tutto d’azzaio cinsero il bel luoco,
temprato all’onda stigia, al stigio foco.
43
Di sì terso metal luce ogni torre,
ch’in tutto non appar sola una macchia.
Da quel castello il maledetto scorre
tutto ’l paese, e là dentro s’immacchia.
Dove giunge con man non vi s’ha a porre
scala né uncino, e ’ndarno se gli gracchia.
Quivi con molto altrui lo mio mi tiene,
che di mai ricovrar lascio ogni spene.
44
Ah lasso! che poss’io più che mirare
la ròcca lungi, ove il mio ben m’è chiuso?
come volpe, che ’l figlio ode gridare
dentro il nido de l’aquila di giuso,
s’aggira intorno, e non sa che si fare,
poi che l’ali non ha da gir là suso.
Tanto è quel sasso altier, tale è il castello,
che non vi può salir chi non è augello.
45
Mentre io tardavo quivi, ecco venire
duo cavallier c’havean per guida un Nano,
che la speranza giunsero al disire;
ma ben fu la speranza e il disir vano.
Ambi erano guerrier di summo ardire:
era Gradasso l’un, Re Sericano;
era l’altro Ruggier, giovene forte,
molto pregiato in l’Africana corte.
46
«Vengon» mi dicea il Nano «per far prova
di lor persona col sir del castello,
che per via strana, inusitata e nuova
cavalca armato il quadrupede augello».
«Deh, signor (dissi io lor), pietà vi mova
del duro caso mio spietato e fello!
Quando (come ho speranza) voi vinciate,
vi prego che mia donna mi rendiate».
47
E come mi fu tolta lor narrai,
con lachryme affermando il dolor mio.
Quei proferiro (lor mercede) assai,
e giù calaro il poggio alpestre e rio.
Di lontan la battaglia io riguardai,
pregando per la lor vittoria Dio.
Era sotto ’l castel tanto di piano
quanto in duo volte si può trar con mano.
48
Poi che fur giunti a piè de l’alta Ròcca,
l’uno e l’altro volea combatter prima;
pur a Gradasso (o fosse sorte) tocca,
o pur che non ne fe’ Ruggier più stima.
Quel Serican si pone il corno a bocca;
ribomba il sasso e la fortezza in cima:
ecco apparire il cavalliero armato
fuor de la porta, e sul caval alato.
49
Comminciò a poco a poco indi a levarse
come suol far la peregrina grue,
che correr prima, e poi si vede alzarse
alla terra vicina un braccio o due;
e quando tutte sono all’aria sparse,
velocissime mostra l’ale sue.
Sì ad alto il Negromante batte l’ale,
ch’a tanta altezza a pena Aquila sale.
50
Poi, come parve a lui, volse il destriero,
che chiuse i vanni e venne a terra a piombo,
come casca dal ciel falcon maniero
che levar veggia l’Anitra o il Colombo.
Con la lancia arrestata il cavalliero
l’aria fendendo vien d’horribil rombo;
Gradasso a pena del calar s’accorge
che giunto il vede, e a tempo il scudo porge.
51
Sopra Gradasso il Mago l’hasta roppe;
ferì Gradasso il vento e l’aria vana;
per questo il volator non interroppe
el batter l’ale, e quindi s’allontana.
El grave scontro fa chinar le groppe
sul verde prato alla gagliarda Alfana:
Gradasso havea un’Alfana, la più bella
e la miglior che mai portasse sella.
52
Sin nele stelle il volator trascorse;
indi girossi, e tornò in fretta al basso
e percosse Ruggier che non s’accorse,
Ruggier che tutto intento era a Gradasso.
Ruggier del grave colpo si distorse
e ’l suo destrier più rinculò d’un passo:
e quando si voltò per lui ferire,
da sé lontano il vide al ciel salire.
53
Hor su Gradasso, hor su Ruggier percuote
ne la fronte, nel petto e ne la schiena,
e le botte di quei lascia ognhor vuote,
perché è sì presto che si vede a pena.
Girando va con spatïose ruote
e quando all’uno accenna, all’altro mena:
et essi, per guardare onde li assaglia,
non batton gli occhi e il lume s’abbarbaglia.
54
Tra duo guerrieri in terra et uno in cielo
la battaglia durò sin a quell’hora
che, spiegando pel mondo oscuro velo,
tutte le belle cose discolora.
Fu quel ch’io dico, e non v’aggiungo un pelo:
io ’l vidi, io ’l so, né m’assicuro anchora
di dirlo altrui, che questa maraviglia
al falso più ch’al ver si rassimiglia.
55
D’un bel drappo di seta havea coperto
el scudo in braccio il cavallier celeste,
come havesse, non so, tanto sofferto
di tenerlo nascosto in quella veste;
ch’immantinente che lo mostra aperto,
forza è chi ’l mira abbarbagliato reste
e cada come corpo morto cade,
e vegna al Negromante in potestade.
56
Fiammeggia il scudo a guisa di piropo,
ma luce altra non è tanto lucente:
cader in terra a quel splendor fu uopo
con gli occhi abbacinati e senza mente.
Persi da lungi anch’io li sensi, e dopo
gran spatio mi rïhebbi finalmente;
né più i guerrieri, né più vidi il Nano,
ma vuoto il campo, e scuro il monte e il piano.
57
Pensai per questo che l’incantatore
havesse amendua colti a un tratto insieme
e tolto con la forza del splendore
a-llor la libertade, a me la speme.
Così a quel luoco che chiudea il mio core
dissi, partendo, le parole estreme:
hor giudicate s’altra pena ria
che causi Amor può pareggiar la mia. –
58
Ritornò il cavallier nel primo duolo,
poi che alla donna la ragion ne rese.
Questo era il conte Pinabel, figliuolo
d’Anselmo d’Altaripa, Maganzese,
che tra sua gente scelerata solo
leale esser non vòlse né cortese,
ma ne li vitii abominandi e brutti
non pur li altri uguagliò, ma passò tutti.
59
La bella Donna con diverso aspetto
stette, ascoltando il Maganzese, cheta,
che come prima di Ruggier fu detto
nel viso si mostrò più che mai lieta;
ma quando sentì poi ch’era in distretto
turbossi tutta d’amorosa pieta,
e per poterne me’ certificarse
duo volte e tre lo fece replicarse.
60
E poi ch’al fin le parve esserne chiara,
gli disse: – Cavallier, datti riposo,
che ben può la mia giunta esserti cara,
parerti questo giorno aventuroso.
Andiamo presto a quella stanza avara
che sì ricco thesor ne tiene ascoso;
né spesa serà invan questa fatica,
se Fortuna non m’è troppo nemica. –
61
Rispose il cavallier: – Tu vuoi ch’io passi
di nuovo i monti e mostrite la via?
A me molto non è perdere i passi,
perduta havendo ogni altra cosa mia;
ma tu per balzi e ruinosi sassi
cerchi intrar in pregione, e così sia:
non hai di che dolerti di me, poi
ch’io tel predìco, e tu pur gir vi vuoi. –
62
Così dice egli, e torna al suo destriero
e di quella animosa si fa guida,
che si mette a periglio, per Ruggiero,
che la pigli quel Mago o che la ancida.
In questo, ecco alle spalle il messaggiero
ch’ – Aspetta, aspetta! – a tutta voce grida,
quel che al Circasso havea fatto palese
che costei fu ch’in l’herba lo distese.
63
A Bradamante il messaggier novella
di Mompolier, Arli e Narbona porta,
che levato i stendardi di Castella
havean, con tutto il lito d’Acquamorta;
e che Marsiglia, non vi essendo quella
che la devea guardar, mal si conforta,
sì che il populo a lei si raccomanda
e il valor d’essa in suo favor dimanda.
64
L’Imperatore a questa bella figlia
del duca Amon, in c’ha speranza e fede
(perhò ch’el suo valor con maraviglia
riguardar suol quando armeggiar la vede),
havea dato il governo di Marsiglia;
et hor che Carlo ha volto in fuga il piede,
da la cittade a-ccui bisogna aiuto
a cercar lei quel messo era venuto.
65
Tra sì e no la giovane suspesa,
di voler ritornar dubita un poco:
quinci del stato il debito le pesa,
quindi l’incalza l’amoroso foco.
Fermasi al fin di seguitar l’impresa
e trar Ruggier de l’incantato loco;
e quando sua virtù non possa tanto,
almen restargli prigionera accanto.
66
E finge honesta scusa a quel messaggio,
sì che senza essa il fa tornar adrieto.
Indi gira la briglia al suo vïaggio
con Pinabel, che non ne parve lieto:
che seppe esser costei di quel lignaggio
che tanto ha in odio in publico e in secreto;
e già s’avisa le future angoscie
se lui per Maganzese ella connosce.
67
Tra casa di Maganza e Chiaramonte
era odio antico e inimicitia intensa,
e più volte s’havean rotta la fronte
e di lor sangue sparsa copia immensa:
e perhò nel suo cor l’iniquo Conte
tradir l’incauta Giovane si pensa;
o, come prima commodo gli accada,
lasciarla sola e trovar altra strada.
68
E tanto gli occupò la fantasia
il nativo odio, il dubbio e la paura,
che inavedutamente uscì di via
e ritrovossi in una selva oscura,
che nel mezo havea un monte che finia
la nuda cima in una pietra dura;
e la figlia del Duca di Dordona
gli è sempre drieto, e mai non l’abbandona.
69
Come si vide il Maganzese al bosco,
pensò tôrse la donna da le spalle.
Disse: – Prima ch’el ciel torni più fosco
verso uno albergo è meglio farsi il calle.
Oltra quel monte (s’io lo riconosco)
siede un ricco Castel giù ne la valle:
tu qui m’aspetta; che dal nudo scoglio
con gli occhi più certificar mi voglio. –
70
Così dicendo, alla cima superna
del solitario monte il destrier caccia,
mirando pur s’alcuna via discerna
di levarsi la donna da la traccia.
Ecco nel sasso trova una caverna
che si profonda più di trenta braccia:
tagliato a picchi et a scarpelli el sasso
scende in la roccia et ha una porta al basso.
71
Ha nel fondo una porta ampla e capace
che in maggior stanza largo adito dava,
e fuor n’uscia un splendor, come di face
ch’ardesse in mezo alla montana cava.
Mentre quivi il fellon suspeso tace,
Bradamante, che a lungi il sequitava
perché perderne l’orma si temea,
nanzi alla grotta gli sopragiungea.
72
Poi che si vide il traditore uscire
quel che havea prima disegnato invano,
o da sé tôrla o di farla morire
nuovo argumento imaginossi e strano.
Le si fe’ incontra, e su la fe’ salire
là dove il monte era forato e vano;
e le disse c’havea visto nel fondo
una donzella di viso giocondo,
73
ch’a’ bei sembianti et alla ricca vesta
esser parea di non ignobil grado;
ma quanto più potea turbata e mesta,
mostrava esservi chiusa suo mal grado;
e per saper la condition di questa,
c’havea già cominciato intrar il guado;
e che era uscito de la interna grotta
un che drento a furor l’havea ridotta.
74
Bradamante, che molto era animosa
et hor mal cauta, a Pinabel diè fede;
e d’aiutar la donna disïosa,
si pensa come por colagiù il piede.
Ecco d’un olmo alla cima frondosa
volgendo gli occhi, un lungo ramo vede,
e con la spada quel subito tronca
e lo declina giù ne la spelonca.
75
Dove è tagliato, in man lo raccomanda
a Pinabello, e poscia a quel s’appende:
prima giù e’ piedi ne la tana manda
e su le braccia tutta si suspende.
Sorride Pinabello, e le dimanda
come ella salti; e le man apre e stende,
dicendole: – Qui fusser teco insieme
tutti li tuoi, ch’io ne spegnessi il seme! –
76
Non come vòlse Pinabel avenne
de l’innocente giovane la sorte,
perché giù diroccando a ferir venne
prima nel fondo il ramo saldo e forte.
Ben si spezzò, ma tanto la sostenne
ch’el suo favor la liberò da morte.
Giacque stordita la donzella alquanto,
come vi seguirò ne l’altro canto.

CANTO TERZO

1
Chi mi darà la voce e le parole
convenïenti a sì nobil suggetto?
chi l’ale al verso prestarà, che vole
tanto ch’arrivi a l’alto mio concetto?
Molto maggior di quel furor che suole,
ben hor convien che mi riscaldi il petto;
che questa parte al mio signor si debbe,
che canta li avi onde l’origine hebbe,
2
di cui, fra tutti li signori illustri
dal ciel sortiti a governar la terra,
non vedi, o Phebo ch’el gran mondo lustri,
più glorïosa stirpe o in pace o in guerra,
né che sua nobiltade habbia più lustri
servata; e servarà, s’in me non erra
quel prophetico lume che m’inspiri,
fin che in l’un polo e in l’altro il ciel s’aggiri.
3
E volendone a pien dicer li honori,
bisogna non la mia, ma quella cetra
con che tu dopo i gigantei furori
rendesti gratia al regnator de l’Etra.
Se instrumenti harò mai da te migliori,
atti a sculpire in così fina pietra,
in queste belle imagini disegno
porre ogni mia fatica, ogni mio ingegno.
4
Intanto n’anderò le prime e rudi
scaglie levando col scarpello inetto,
forse ch’anchor con più solerti studi
poi ridurrò questo lavor perfetto.
Ma ritorniamo a chi corazze e scudi
non potrien mille assicurar il petto:
parlo di Pinabello di Maganza,
che d’occider la donna hebbe speranza.
5
El traditor pensò che la donzella
fusse ne l’alto precipitio morta;
e con pallida faccia lasciò quella
trista e per lui contaminata porta,
e tornò presto a rimontare in sella;
e come quel che d’ogni vitio torta
l’anima havea, per giunger fallo a fallo
di Bradamante ne menò il cavallo.
6
Lasciàn costui, che mentre all’altrui vita
ordisce inganno il suo morir procura,
e torniamo alla Donna che tradita
quasi hebbe a un tempo e morte e sepoltura.
Poi che ella si levò tutta smarrita,
c’havea percosso in su la pietra dura,
drento la porta andò, ch’adito dava
ne la seconda assai più larga cava.
7
La stanza, quadra e spatïosa, pare
una devota e venerabil chiesa,
che su colonne alabastrine e rare
con bella architettura era suspesa.
Sorgea nel mezo un ben locato altare
c’havea dinanzi una lampada accesa;
e quella d’un splendente e chiaro fuoco
rendea gran lume in l’uno e in l’altro luoco.
8
Di devota humiltà la donna tocca,
come si vide in luoco sacro e pio
incominciò col core e con la bocca
nanzi all’altare a mandar preghi a Dio.
Un piccol uscio intanto stride e crocca,
ch’era all’incontro, onde una donna uscìo
discinta e scalza, e sciolte havea le chiome,
che la Donzella salutò per nome.
9
E disse: – O generosa Bradamante,
non giunta qui senza voler divino,
di te più giorni m’ha predetto inante
el prophetico spirto di Merlino
che visitar le sue reliquie sante
devevi per insolito camino:
e qui son stata acciò ch’io ti riveli
quel c’han di te già statuito i cieli.
10
Questa è l’antiqua e memorabil grotta
ch’edificò Merlino, il savio mago
che forse ricordare odi talhotta,
dove ingannollo la Donna del Lago.
El sepolchro è qui giù, dove corrotta
giace la carne sua; dove egli, vago
di sodisfare a lei che gli ’l suase,
vivo corcossi, e morto vi rimase.
11
Col corpo morto il vivo spirto alberga,
sin ch’oda il suon de l’Angelica tromba
che dal ciel lo bandisca o che ve l’erga,
secondo che serà corvo o colomba.
Vive la voce, e come chiara emerga
udir potrai da la marmorea tomba,
che le passate e le future cose
a chi gli dimandò sempre rispose.
12
Più giorni son ch’in questo cimiterio
venni di remotissimo paese,
perché circa il mio studio alto mysterio
mi facesse Merlin meglio palese;
e perché hebbi vederti desiderio,
poi ci son stata oltra ’l disegno un mese;
che questo giorno al mio aspettarti meta
pose Merlino, infallibil propheta. –
13
Stassi d’Amon la sbigottita figlia
tacita e fissa al ragionar di questa,
et ha sì pieno il cor di maraviglia
che non sa s’ella dorma o s’ella è desta;
e con demesse e vergognose ciglia
(come quella che tutta era modesta)
rispose: – Di che merito sono io,
ch’antiveggan propheti el venir mio? –
14
E lieta de l’insolita aventura
drieto alla Maga subito fu mossa,
che la condusse a quella sepoltura
che chiudea di Merlin l’anima e l’ossa.
Era quella arca d’una pietra dura,
lucida e tersa e come fiamma rossa,
tal che in la stanza, ben che di sol priva,
facea dì sempre il lume che n’usciva.
15
O che natura sia d’alcuni marmi
che movan l’ombre a guisa di facelle,
o forza pur di suffumigi e carmi
e segni impressi all’osservate stelle,
come più questo verisimil parmi,
scopria il splendor mill’altre cose belle
e di scultura e di color, ch’intorno
il venerabil luogo haveano adorno.
16
A pena ha Bradamante da la soglia
levato il piede in la secreta cella,
ch’el vivo spirto de la morta spoglia
con chiarissima voce le favella:
– Favorisca Fortuna ogni tua voglia,
o casta e nobilissima Donzella,
del cui ventre uscirà ’l seme fecondo
che de’ honorar Italia e tutto ’l mondo.
17
L’antiquo sangue che venne da Troia,
per li duo miglior rivi in te commisto,
produrrà l’ornamento, il fior, la gioia
d’ogni lignaggio c’habbi ’l Sol mai visto
tra l’Indo e ’l Tago e il Nilo e la Danoia,
tra quanto è in mezo Antartico e Calisto:
ne la progenie tua fian sommi honori
di Re, Marchesi, Duci e Imperatori.
18
I Capitani, i Cavallier robusti
quindi usciran, che col ferro e col senno
recuperar tutti li honor vetusti
de l’arme invitte alla sua Italia denno.
Quindi terranno il scettro i signor giusti
che, come il savio Augusto e Numa fenno,
sotto el benigno e buon governo loro
ritorneran la prima età del oro.
19
Tu, per far dunque aventurosa incetta
a tanta aspettation, segui il sentiero
verso il castel d’acciar dove intercetta
la libertà fu dianzi al tuo Ruggiero,
quando il ciel che te gli ha per moglie eletta
aiuta l’animoso tuo pensiero;
che ti succederà di porre in terra
el predator che ’l tuo Ruggier ti serra. –
20
Tacque Merlino havendo così detto,
et agio all’opre de la Maga diede,
ch’a Bradamante dimostrar l’aspetto
si preparava di ciascun suo herede.
Havea de spirti un gran numero eletto,
non so se de l’inferno o di qual sede,
e tutti quelli in un luogo raccolti
sotto habiti diversi e varii volti.
21
Poi la Donzella a sé richiama in chiesa,
là dove prima havea tirato un cerchio
che la potea capir tutta distesa,
et havea un palmo anchora di superchio;
le fa (perché non sia da’ spirti offesa)
di segni e di pentacoli coperchio,
e le dice che taccia e stia a mirarla:
poi scioglie il libro, e con demoni parla.
22
Eccovi, fuor della prima spelonca,
che gente intorno al sacro cerchio ingrossa;
ma come vuole intrar la via l’è tronca,
come se cinto sia di muro e fossa.
In quella stanza, ove la bella conca
in sé chiudea del gran propheta l’ossa,
intravon l’ombre, poi che havean tre volte
fatto d’intorno lor debite volte.
23
– Se i nomi e i gesti di ciascun vo’ dirti –
dicea l’incantatrice a Bradamante,
– di questi c’hor per l’incantati spirti,
prima che nati sien, ne sono inante,
non so vedere in quanto habbia expedirti,
che non basta una notte a cose tante;
sì che te n’anderò scegliendo alcuno
secondo il tempo, e che serà opportuno.
24
Vedi quel primo che ti rasimiglia
ne’ bei sembianti e nel giocondo aspetto:
capo in Italia fia di tua famiglia,
del seme di Ruggiero in te concetto;
veder del sangue di Pontier vermiglia
per mano di costui la terra aspetto,
e vendicato il tradimento e il torto
contra quei che gli haranno il padre morto.
25
Per opra di costui serà deserto
con Longobardi il vecchio Desiderio,
e de li antiqui suoi per questo merto
il nobil stato havrà dal sommo imperio.
Quel che gli è drieto è il tuo nipote Uberto,
honor de l’arme e del paese Hesperio:
per costui contra Barbari difesa
più d’una volta fia la santa Chiesa.
26
Vedi qui Alberto, invitto capitano
che ornerà di trophei tanti delubri:
Ugo il figlio è con lui, che di Milano
farà l’acquisto e spiegherà i Colubri.
Azzo è quell’altro, a cui resterà in mano,
dopo il fratello, il regno de l’Insubri.
Ecco Albertazzo, il cui savio consiglio
torrà d’Italia Beringerio e il figlio,
27
e serà degno a cui Cesare Othone
Alda, sua figlia, in matrimonio giunga.
Vedi un altro Ugo: oh bella successione,
che dal patrio valor non si dislunga!
Costui serà che per giusta cagione
l’orgoglio alli Romani infidi emunga,
ch’el terzo Othone e il Pontifice tolga
de le man loro, e il grave assedio sciolga.
28
Quest’altro è il nobil Folco, ch’al germano
libero lascierà in Italia il stato,
e verrà in mezo l’imperio Germano
a posserdervi il più ricco Ducato;
darà alla casa di Sansogna mano,
che caduta serà tutta da un lato,
e per la linea de la madre herede
con la progenie sua la terrà in piede.
29
Questo c’hor a nui viene è il secondo Azzo,
di cortesia più che di guerre amico,
tra dui figli, Bertoldo et Albertazzo:
farà, quel da man manca, de l’aprico
campo di Parma un sanguinoso guazzo,
con rotta e fuga del secondo Henrico;
de l’altro la Contessa glorïosa,
saggia e casta Matilde serà sposa.
30
Virtù ’l farà di tal connubio degno;
ch’a quella età non poca laude estimo
quasi di meza Italia in dote il regno
e la nepote haver di Henrico primo.
Ecco di quel Bertoldo il caro pegno,
Rinaldo tuo, c’havrà l’honor opimo
d’haver la Chiesa dele man riscossa
del empio Federico Barbarossa.
31
Ecco un altro Azzo, et è quel che Verona
havrà in poter col suo bel territorio,
e serà detto Marchese d’Ancona
dal quarto Othone e dal secondo Honorio.
Lungo serà che d’ogni Duca expona
ch’el Gonfalon del sacro consistorio
deve spiegar, né mai senza vittoria,
e riportarne eterna fama e gloria.
32
Obizo vedi e Folco, altri Azzi, altr’Ughi,
ambi li Henrichi, il figlio al patre accanto;
duo Guelfi, di qua’ l’uno Umbria suggiughi
e vesta di Spoleti il ducal manto.
Ecco che ’l sangue e le gran piaghe asciughi
d’Italia afflitta, e volga in riso el pianto:
di costui parlo – e mostrolle Azzo quinto –
onde Ezellin fia rotto, preso, estinto.
33
Ezellino, immanissimo Tyranno
che fia creduto figlio del Demonio,
farà, troncando i sudditi, tal danno,
e destruggendo il bel paese Ausonio,
che pietosi apo lui stati seranno
Mario, Sylla, Neron, Gaio et Antonio.
E Federico Imperator secondo
fia per questo Azzo rotto e messo al fondo.
34
Terrà costui con più felice scettro
la bella terra che siede sul fiume
dove chiamò con lachrymoso plettro
Phebo il figluol c’havea mal retto ’l lume,
quando fu pianto il fabuloso elettro
e Cigno si vestì di bianche piume;
e questa di mille oblighi mercede
gli donerà l’Apostolica sede.
35
Dove lascio il fratel Aldrobandino?
che per dare al Pontifice soccorso
contra Othon quarto e il campo ghibellino
che serà presso al Campidoglio corso,
et havrà preso ogni luoco vicino
e posto agli Umbri e alli Piceni el morso;
né potendo prestarli aiuto senza
molto thesor, ne chiederà a Fiorenza;
36
né gioie havendo o che darle altri pegni,
per sicurtà le lascierà il germano:
spiegherà i suoi vittorïosi segni
e romperà l’exercito Germano;
ritornerà alla Chiesa il stato, e degni
darà supplicii a’ Conti di Celano;
et al servitio del sommo Pastore
finirà li anni suoi nel più bel fiore.
37
Et Azzo, il suo fratel, lascierà herede
del bel stato d’Ancona e di Pisauro,
d’ogni città che da Troento siede
tra ’l mare e l’Apenin sin al Isauro,
e di grandezza d’animo e di fede,
e di virtù, miglior che gemme et auro:
che dona e tolle ogni altro ben Fortuna;
sol in virtù non ha possanza alcuna.
38
Vedi Rinaldo, in cui non minor raggio
splenderà di valor, pur che non sia
a tanta exaltation del bel lignaggio
Morte o Fortuna invidïosa e ria
in ripa di Sebetho, ove in ostaggio
dato dal patre al Re di Puglia fia.
Hor Obizo ne vien, che giovinetto
dopo l’avo serà Principe eletto.
39
Al suo bel stato accrescerà costui
Reggio giocondo e Modena feroce;
tal serà il suo valor, che signor lui
dimanderanno i populi a una voce.
Vedi Azzo sesto, un de’ figliuoli sui,
Gonfalonier de la christiana croce:
havrà il Ducato d’Andria con la figlia
del secondo Re Carlo di Siciglia.
40
Vedi in un bello et amichevol groppo
de li principi illustri l’excellenza:
Obizo, Aldrobandin, Nicolò Zoppo,
Alberto, d’amor pieno e di clemenza.
I’ tacerò, per non tenerti troppo,
come al bel stato aggiungeran Favenza,
e con maggior fermezza Adria, che valse
da sé nomar l’indomite acque salse;
41
come la terra, il cui produr di rose
le diè piacevol nome in greche voci,
e la Città che siede in le piscose
Paludi, e del Po teme ambe le foci,
dove habitan le genti disïose
del mar turbato e de li venti atroci;
io tacerò di Argenta, Lugo e mille
altre castella e populose ville.
42
Ve’ Nicolò, che tenero fanciullo
el popul crea signor de la sua terra,
e di Tideo fa ’l pensier vano e nullo,
che contra lui le civil arme afferra:
serà di questo il pueril trastullo
sudar nel ferro e travagliarsi in guerra,
e dal bel studio del tempo primiero
el fior riuscirà d’ogni guerriero.
43
Farà de’ suoi ribelli uscire a vuoto
ogni disegno, e lor tornare in danno;
et ogni stratagema harà sì noto,
che serà duro il poter fargli inganno:
tardi di ciò s’avederà il Terzo Otho,
di Reggio e Parma asprissimo tyranno,
che da costui spogliato a un tempo fia
e del dominio e de la vita ria.
44
Havrà il bel stato poi sempre augumento
senza torcer mai piè dal camin dritto;
né ad alcuno farà mai nocumento,
da cui prima non sia d’ingiuria afflitto:
et è per questo il gran Motor contento
che non gli sia alcun termine prescritto,
ma duri prosperando in meglio sempre,
fin che si volga il ciel ne le sue tempre.
45
Vedi Lionello, e vedi il primo Duce,
fama de la sua età, l’inclyto Borso,
che siede in pace, e più triompho adduce
di quanti in l’altrui terre habbino corso:
chiuderà Marte ove non veggia luce,
e stringerà ’l Furor le mane al dorso;
di questo signor splendido ogni intento
serà ch’el popul suo viva contento.
46
Hercole hor vien, e nel venire impropera,
con questo passo debile e sciancato,
el piede che gli ha guasto per far l’opera
onde sia un grande exercito salvato;
ma non perch’esso indi a pochi anni còpera
di tende il Barco, e voglia tôrgli il stato:
questo è il signor de cui non so explicarme
se fia maggior la gloria in pace o in arme.
47
Terran Pugliesi, Calabri e Lucani
de’ gesti di costui lunga memoria,
là dove havrà dal Re de’ Cathallani
di pugna singular la prima gloria;
e nome tra l’invitti capitani
s’acquistarà con più d’una vittoria:
havrà per sua virtù la signoria,
più de trent’anni a lui debita pria.
48
E quanto più haver obligo si possa
a principe, sua terra havrà a costui:
non perché fia da le paludi mossa
tra campi fertilissimi da lui;
non perché la farà di muro e fossa
meglio capace a’ cittadini sui
e l’ornarà de tempii e de palagi,
piazze, theatri, fonti e publichi agi;
49
non perché da li artigli del audace
aligero Leon terrà difesa;
non perché, quando la Gallica face
per tutto havrà la bella Italia accesa,
si starà sola col bel stato in pace,
e dal timore e dai tributi illesa;
non sì per questi et altri benefici
seran sue genti ad Hercol debitrici,
50
quanto che darà lor l’inclyta prole,
el giusto Alphonso e Hippolyto benigno,
che seran quai l’antiqua fama suole
narrar de’ figli del Tindareo cigno,
ch’alternamente si privan del sole
per trar l’un l’altro de l’aer maligno:
serà ciascuno d’essi e pronto e forte
l’altro salvar con sua perpetua morte.
51
Che questa generosa coppia s’ame,
ne serà il popul suo via più sicuro
che se, per opra di Vulcan, di rame
gli havesse duplicato Hercole il muro.
Alphonso è quel primier, ch’el buono exame
giustarà sì, nel seculo futuro,
che creder si potrà ch’Astrea dal cielo
sia ritornata ove può ’l caldo e il gelo.
52
A grande uopo gli fia l’esser prudente
e di valor assimigliarsi al padre,
che se ritrovarà, con poca gente,
da un lato haver le Venetiane squadre,
colei da l’altro, che più giustamente
non so se devrà dir matrigna o madre;
ma se pur madre, a lui poco più pia
che Medea a’ figli o Progne stata sia.
53
E quante volte uscirà giorno o notte
con li fideli suoi fuor della terra,
tante sconfitte e memorabil rotte
darà a’ nimici per acqua e per terra.
Le genti de Romagna mal condotte
contra i vicini e lor già amici, in guerra,
se n’avedranno, insanguinando il suolo
che serra il Po, Santerno e Zannïolo.
54
Nei medesmi confini ancho saprallo
del gran pastore il mercennario Hispano,
che gl’havrà dopo con poco intervallo
la Bastìa tolta, e morto il castellano
quando l’havrà già preso; et per tal fallo
non fia, dal minor fante al Capitano,
che del ricovro e del presidio ucciso
a Roma riportar possa l’aviso.
55
Costui serà, col senno e con la lancia,
c’havrà nela pinifera campagna
gloria d’haver l’exercito di Francia
vincitor fatto contra Iulio e Spagna:
nuotaranno i destrier sin alla pancia
nel sangue humano, e i campi di Romagna
veranno a sepelire il popul manco,
Tedesco, Hispano, Greco, Itàlo e Franco.
56
Quel ch’in pontificale habito imprime
del purpureo capèl la sacra chioma
è il liberal, magnanimo, sublime,
gran Cardinal dela Chiesa di Roma
Hippolyto, ch’a prose, a versi, a rime
darà materia eterna in ogni idioma,
alla cui bella etade era più giusto
che nascesse Maron, che sotto Augusto.
57
Adornarà la sua progenie bella
come orna il Sol la machina del mondo
molto più dela luna e d’ogni stella,
ch’ogn’altro lume a lui sempre è secondo:
costui con pochi a piedi e meno in sella
veggio uscir mesto, e poi tornar iocondo,
che quindeci galee mena captive,
oltra mill’altri legni, alle sue rive.
58
Vedi poi l’uno e l’altro Sigismondo;
ma volendo io (come a principio dissi)
narrar del chiaro tuo seme fecondo
tutti quei che seran con gloria vissi
di tempo in tempo fin che duri il mondo,
i’ non so quando a fin me ne venissi;
et è ben hora homai, quando ti piaccia,
ch’io dia licentia al’ombre e ch’io mi taccia. –
59
Così con volontà dela Donzella
la dotta incantatrice il libro chiuse:
tutti i spiriti allhora ne la cella
spariro in fretta, ove eran l’ossa chiuse.
Qui Bradamante (poi che la favella
le fu concessa usar) la bocca schiuse,
e dimandò: – Chi son dua, che sì tristi
tra Hippolyto et Alphonso havemo visti?
60
Veniano suspirando, e gli occhi bassi
parean tener d’ogni baldanza privi;
e gir lontan da loro i’ vedea i passi
dei frati sì, che ne pareano schivi. –
Parve ch’a tal dimanda si cangiassi
la Maga in viso, e fe’ de gli occhi rivi,
e disse: – Ah sfortunati, a quanta pena
lungo instigar d’hòmini rei vi mena!
61
O bona prole, o degna d’Hercol bono,
non vinca il lor fallir vostra bontate:
di vostro sangue i miseri pur sono;
qui ceda la Iusticia alla pietate! –
Così parlò gridando, e poi con suono
più basso disse a Bradamante: – Andate
con questa bocca dolce, e non vi doglia
ch’amareggiar al fin non vi la voglia.
62
Tosto che spunti in ciel la prima luce
del giorno, pigliarete quella via
ch’al lucente castel dritta conduce,
dove Ruggier vive in altrui balìa.
Io tanto vi serò compagna e duce
che siate fuor de l’aspra selva ria;
v’insegnarò, poi che saren sul mare,
el camin sì, che non potrete errare. –
63
Quivi l’audace giovane rimase
tutta la notte, e gran pezzo ne spese
a parlar con Merlin, che le suase
rendersi presto al suo Ruggier cortese.
Lasciò da poi le sutterranee case,
che di nuovo splendor l’aria s’accese,
per un camin gran spatio oscuro e cieco,
havendo la spirtal femina seco.
64
E reusciro in un burrone ascoso
tra monti inaccessibili alle genti;
e tutto ’l dì, senza pigliar riposo,
saliron balze e traversâr torrenti.
E perché men l’andar fosse noioso,
di piacevoli e bei ragionamenti
di quel che fu più ’l conferir suave
l’aspro camin facean parer men grave;
65
de’ quali era perhò la maggior parte
ch’a Bradamante vien la dotta Maga
mostrando con che astutia, con qual arte
a regger s’ha, se di Ruggiero è vaga.
– Se tu fosse (dicea) Pallade o Marte,
e conducessi gente alla tua paga
più che non ha Re Carlo e il Re Agramante,
non duraresti contra il Negromante;
66
che, oltra che d’acciar murata sia
la Ròcca inexpugnabile, e tant’alta;
oltra ch’el suo caval si faccia via
per mezo l’aria, ove galoppa e salta;
ha quel scudo mortal, che come pria
si scopre, d’un splendor sì gli occhi assalta,
sì tol la vista e tanto occùpa i sensi,
che come morto rimaner conviensi.
67
E se forse ti pensi che ti vaglia
combattendo tener serrati gli occhi,
come potrai saper ne la battaglia
quando te schivi o l’aversario tocchi?
Ma per fuggire il lume ch’abbarbaglia
e li altri incanti di colui far sciocchi,
ti mostrarò un rimedio, una via presta,
né altra è in tutto ’l mondo se non questa.
68
Agramante Re d’Africa uno annello,
che fu rubato in India a una reina,
di tal virtù che chi nel dito ha quello
contra il mal de l’incanti ha medicina,
ha dato a un suo baron, detto Brunello,
che poche miglia inanzi ne camina,
che val d’ingegno e sa d’astutie quanto
colui che tien Ruggier sappia d’incanto.
69
Et costui così pratico et astuto
(come io ti dico) è dal suo Re mandato
acciò che col suo ingegno e con l’aiuto
di questo annello, in tal cose provato,
di quella Ròcca dove è ritenuto
tragga Ruggier, che così s’è vantato
et ha così promesso al suo signore,
ch’ama Ruggiero e più d’ogn’altro ha a core.
70
Ma perché il tuo Ruggiero a te sola habbia,
e non al Re Agramante, ad ubligarsi
che tratto sia de l’incantata gabbia,
t’insegnarò l’astutia che de’ usarsi.
Tu te n’andrai tre dì lungo la sabbia
del mar, ch’è horamai presso a dimostrarsi;
el terzo giorno in uno albergo teco
arrivarà costui c’ha l’annel seco.
71
La sua statura, acciò tu lo connosca,
non è sei palmi, et ha il capo ricciuto;
le chiome ha nere, et ha la pelle fosca,
pallido il viso, oltra il dover barbuto;
gli occhi gonfiati, e guardatura losca,
schiacciato il naso, e ne le ciglia hirsuto;
l’habito, acciò ch’io lo dipinga intiero,
è stretto e corto, e sembra di corriero.
72
Stando con lui, t’accaderà suggetto
di ragionar di quelli incanti strani:
mostra d’haver (come tu hara’ in effetto)
disio venir con quel Mago alle mani;
ma non mostrar che ti sia stato detto
di quel suo annel che fa l’incanti vani.
Egli t’offerirà mostrar la via
fin alla ròcca, e farti compagnia.
73
Tu gli va’ drieto, e come t’avicini
a quella ròcca sì ch’ella si scopra,
dàgli la morte, né pietà t’inchini
che tu non metta il mio consiglio in opra;
né far ch’egli il pensier tuo s’indovini
e c’habbia tempo che l’annel lo copra,
perché ti spariria da gli occhi, tosto
ch’in bocca il sacro annel s’havesse posto. –
74
Così parlando, giunsero sul mare
dove presso a Bordea mette Garonna:
quivi partì, non senza lachrymare,
la compagnia de l’una e l’altra donna.
La figliuola d’Amon, che per slegare
di pregione il suo amante non assonna,
caminò tanto, che venne una sera
ad uno albergo ove Brunel prima era.
75
Connosce ella Brunel come lo vede,
di cui la forma havea sculpita in mente:
onde ne viene, ove ne va gli chiede;
quel le risponde, e d’ogni cosa mente.
La Donna, già provista, non gli cede
in dir menzogne, e simula ugualmente
e patria e stirpe e setta e nome e sesso,
e gli volta alle man pur gli occhi spesso.
76
Spesso gli va gli occhi alle man voltando,
in dubbio sempre esser da lui rubata;
né lo lascia venir troppo accostando,
di sua conditïon bene informata.
Stavano insieme in questa guisa, quando
l’orecchia da un rumor lor fu intronata:
poi vi dirò, signor, chi ne fu causa,
c’havrò fatto al cantar debita pausa.

CANTO QUARTO

1
Quantunque il simular sia le più volte
ripreso, e dia di mala mente indici,
si trova pur in molte cose e molte
haver fatto evidenti benefici,
e danni e biasmi e morti haver già tolte;
che sempre non versiamo tra li amici
in questa assai più oscura che serena
vita mortal, tutta d’invidia piena.
2
Se dopo lunga prova a gran fatica
trovar si può chi ti sia amico vero,
et a chi senza alcun suspetto dica
e discoperto mostri il tuo pensiero,
che de’ far di Ruggier la bella amica
con quel Brunel, che non puro e sincero,
ma tutto simulato e tutto finto
la dotta Maga già le havea dipinto?
3
Simula e finge: e così far conviene
con esso lui, di fittïoni padre;
e come io dissi, spesso ella gli tiene
gli occhi alle man, ch’eran rapaci e ladre.
Ecco all’orecchie un gran rumor lor viene.
– O Re del cielo, o glorïosa Madre –
disse fra sé la Donna, – che fia questo? –
e dove era il rumor si trovò presto.
4
E vede l’hoste e tutta la famiglia,
e chi a finestre e chi fuor ne la via,
tener levati al ciel gli occhi e le ciglia,
come l’Ecclisse o la Cometa sia.
Mira la Donna, e vede maraviglia
che di leggier creduta non serìa:
vede passar un gran destriero alato
che porta in aria un cavallier armato.
5
Grandi eran l’ale, e di color diverso,
e lor sedea nel mezo un cavalliero
armato di metal lucido e terso,
e vêr ponente havea dritto ’l sentiero;
calossi, e fu tra le montagne immerso:
e per quel che narrò quivi l’hostiero,
quel era un Negromante, e facea spesso
quel varco hor più da lungi, hor più da presso.
6
Volando, talhor s’alza ne le stelle,
e poi quasi talhor la terra rade;
e ne porta con lui tutte le belle
ch’egli ritrova per quelle contrade,
talmente che le misere donzelle
c’habbiano o haver si credano beltade,
come tutte involar costui le deggia,
non ardisceno uscir ch’el Sol le veggia.
7
– Egli sul Pyreneo tiene un castello
(narrava l’hoste) fatto per incanto,
tutto d’acciaio e sì lucente e bello
ch’altro al mondo non è mirabil tanto.
Già molti cavallier sono iti a quello,
n’alcun d’esser tornato si dà vanto,
sì che i’ penso, signor, e temo forte
o che sian presi, o sian condotti a morte. –
8
La donna il tutto ascolta, e le ne giova,
credendo far, come farà per certo,
con l’annello mirabile tal prova
che ne fia il Mago e il suo castel deserto;
e dice al hoste: – Hor un di tuoi mi trova
che più di me sia del vïaggio experto,
ch’io non posso durar, tanto ho il cor vago
di far battaglia contra a questo Mago. –
9
– Non ti mancarà guida – le rispose
Brunello allhora, – e ne verrò teco io:
meco ho la strada in scritto, et altre cose
che ti faran piacere il venir mio. –
Vòlse dir de l’annel, ma non l’expose,
né chiarì più, per non pagarne il fio.
– Grato mi fia (disse ella) il venir tuo, –
volendo dir ch’indi l’annel fia suo.
10
Quel ch’era utile a dir disse, e quel tacque
che nuocer le potea col Saracino.
Havea l’hoste un destrier ch’a costei piacque,
ch’era buon da battaglia e da camino:
comparollo, e partissi come nacque
del bel giorno seguente il matutino;
prese la via per una stretta valle
con Brunello hora inanzi, hora alle spalle.
11
Di monte in monte e d’uno in altro bosco
giunsero ove l’altezza di Pyrene
può dimostrar (se non è l’aer fosco)
e Francia e Spagna e due diverse arene,
come Apennin scopre ’l mar Schiavo e il Thosco
dal giogo onde a Camaldoli si viene:
quindi per aspro e faticoso calle
si discendea ne la profonda valle.
12
Vi sorge in mezo un sasso che la cima
d’un bel muro d’acciar tutta si fascia,
e quella tanto inverso il ciel sublima
che quanto ha intorno inferïor si lascia:
non faccia (chi non vola) andarvi stima,
che spesa indarno vi serìa ogni ambascia.
Brunel disse: – Ecco dove prigioneri
il Mago tien le dame e i cavallieri. –
13
Da quattro canti era tagliato, e tale
che parea dritto a fil de la senopia;
da nessun lato né sentier né scale
v’eran che di salir facesser copia;
e ben appar che d’animal c’habbia ale
sia quella stanza nido e tana propia:
quivi la Donna esser connosce l’hora
di tôr l’annello e far che Brunel mora.
14
Ma le par atto vile a insanguinarsi
d’un huom senza arme e di sì ignobil sorte,
perché può ben posseditrice farsi
del ricco annel, né Brunel porre a morte.
Brunel non havea mente a riguardarsi;
sì ch’ella il prese, e quivi il legò forte
ad uno abete ch’alta havea la cima;
ma di dito l’annel gli trasse prima.
15
Né per lachryme, gemiti o lamenti
che facesse Brunel lo vòlse sciorre.
Smontò de la montagna a passi lenti,
tanto che fu nel pian sotto la torre;
e perché alla battaglia s’appresenti
el Negromante, al corno suo ricorre;
e dopo il suon, con minacciose grida
lo chiama al campo, et alla pugna il sfida.
16
Non stette molto a uscir fuor de la porta
l’Incantator, ch’udì ’l suono e la voce:
l’alato corridor per l’aria il porta
contra Costei, che sembra huomo feroce.
La Donna da principio si conforta,
che vede che colui poco le nuoce:
el non ha lancia né spada né mazza
ch’a forar l’habbia o romper la corazza.
17
Da la sinistra solo un scudo havea,
tutto coperto di seta vermiglia;
ne la man destra un libro, onde facea
nascer, leggendo, l’alta maraviglia:
che la lancia talhor correr parea,
e fatto havea a più d’un batter le ciglia;
talhor parea ferir con mazza o stocco,
e lontano era, e non havea alcun tocco.
18
Non è finto il caval, ma naturale,
ch’una giumenta generò d’un Grypho:
simile al padre havea la piuma e l’ale,
li piedi anterïori, il capo e il grifo;
in tutte l’altre membra parea quale
era la madre, e chiamasi Hippogrypho;
che ne’ monti Rhiphei vengon, ma rari,
nati ne’ scogli oltra i gelati mari.
19
Quivi tratto l’havea sol con incanto
costui che molti giorni gli fu drieto;
e con fatica e studio operò tanto
ch’a briglia e sella il fece mansueto,
così ch’in terra e in aria e in ogni canto
lo facea volteggiar senza diveto:
non fittïon d’incanto, come il resto,
ma vero e natural si vedea questo.
20
Del Mago ogn’altra cosa era figmento,
che comparir facea pel rosso il giallo;
ma con la Donna non fu di momento,
che per l’annel non può veder in fallo.
Più colpi tuttavia diserra al vento
e quinci e quindi spinge il suo cavallo,
e si dibatte e si travaglia tutta
come era, inanzi che venisse, instrutta.
21
E poi che exercitata si fu alquanto
da cavallier, smontar vòlse ancho a piede
per poter meglio a fin venir di quanto
la cauta Maga instruttïon le diede.
Il Mago vien per far l’estremo incanto,
che del fatto ripar né sa né crede:
discopre il scudo, e certo si prosume
farla cader con l’incantato lume.
22
Potea così scoprirlo al primo tratto
senza tener i cavallieri a bada;
ma gli piacea veder qualche bel tratto
di correr l’hasta o di arruotar la spada,
come si vede che all’astuto gatto
scherzar col topo alcuna volta aggrada,
e poi che quel trastul gli viene a noia
dargli di morso e al fin voler che muoia.
23
Dico che ’l Mago il gatto e li altri il topo
erano parsi in le battaglie dianzi;
ma non era così per parer dopo
che con l’annel si fe’ la Donna inanzi:
attenta e fissa stava a quel che era uopo,
acciò che nulla seco il Mago avanzi,
e come vide ch’el scudo scoperse
chiuse gli occhi e lasciò presto caderse.
24
Non ch’el splendor del lucido metallo,
come soleva agli altri, le nocesse;
ma così fece acciò che dal cavallo
contra sé il vano incantator scendesse;
né parte andò del suo disegno in fallo,
che tosto ch’ella il capo in terra messe,
accelerando il volator le penne,
con larghe ruote in terra a porsi venne.
25
Lascia il scudo all’arcion, che già riposto
havea ne la coperta, e a piè discende
verso la Donna che, come reposto
Lupo in la macchia il Caprïolo, attende.
Senza più soggiornar si leva tosto
che se lo vede sopra, e stretto il prende:
havea lasciato quel misero in terra
il libro che facea tutta la guerra,
26
e con una cathena ne correa
che solea portar cinta a simil uso,
perché non men legar colei credea
che per adrieto altri legar era uso.
La Donna in terra posto già l’havea:
se quel non si difese, io ben l’escuso,
che troppo era la cosa differente
tra un debil vecchio e lei tanto possente.
27
La Donna, che gli vuol toglier la testa,
alza la man vittorïosa in fretta;
ma poi ch’el viso mira il colpo arresta,
quasi sdegnando sì bassa vendetta:
un venerabil Vecchio in faccia mesta
vede esser quel ch’ella ha giunto alla stretta,
che mostra al viso crespo, al pelo bianco
età di settanta anni o poco manco.
28
– Tommi la vita, Giovene, per Dio
(dicea il vecchio, pien d’ira e di dispetto); –
ma quella a tôrla havea sì il cor restio,
come quel di lasciarla havria diletto.
La Donna di saper hebbe disio
chi fusse il Negromante, et a che effetto
edificasse in quel luogo silvaggio
la Ròcca, e faccia a tutto ’l mondo oltraggio.
29
– Né per maligna intentïone (ahi lasso!)
(disse piangendo il vecchio incantatore)
feci il castel che tu vedi sul sasso,
né per avidità son rubatore;
ma per ritrar sol dal estremo passo
un cavallier gentil mi mosse Amore,
che, come il ciel mi mostra, in tempo breve
morir christiano a tradimento deve.
30
Non vede il Sol tra questo e il polo Austrino
un giovene sì bello o sì prestante:
Ruggier ha nome, il qual da piccolino
da me nutrito fu, che i’ sono Atlante.
Disio d’honore e suo fiero destino
l’han tratto in Francia dietro al Re Agramante;
et io che l’amai sempre più che figlio
lo cerco trar di Francia e di periglio.
31
La bella Ròcca solo edificai
per tenervi Ruggier sicuramente,
che preso fu da me come sperai
che fussi hoggi tu preso similmente;
e donne e cavallier, che tu vedrai,
v’ho poi ridotti, et altra nobil gente,
acciò che quando a voglia sua non esca,
havendo compagnia, men gli rincresca.
32
Pur ch’uscir di là su non se dimande,
d’ogn’altro gaudio lor cura mi tocca,
che quanto haverne da tutte le bande
si può del mondo, è tutto in quella Ròcca:
suoni, canti, vestir, giuochi, vivande,
quanto può cor pensar, può chieder bocca.
Ben seminato havea, ben cogliea il frutto;
ma tu se’ giunto a disturbarmi il tutto.
33
Se tu non hai del viso il cor men bello,
non impedir il mio consiglio honesto!
Togli quel scudo (ch’io tel dono) e quello
destrier, che va per l’aria così presto,
e non t’impacciar oltra nel castello,
o tranne uno o duo amici, e lascia il resto;
o tranne tutti li altri, e più non chero,
se non che tu mi lasci el mio Ruggiero.
34
E se disposto sei volermil tôrre,
deh, prima almen che tu ’l ritorni in Francia,
piacciati questa afflitta anima sciorre
da la sua scorza, hormai putida e rancia! –
Rispose la Donzella: – Lui vuo’ porre
in libertà; tu, se sai, gracchia e ciancia;
né m’offerir di dar quel scudo in dono
o quel caval che miei, non più tuoi, sono;
35
e quando stesse a te di tôrre e darli,
non mi parria ch’el cambio convenisse.
Tu di’ che Ruggier tieni per vietarli
il male influsso di sue stelle fisse:
o che non puoi saperlo, o non schivarli
(sapendol) ciò ch’el ciel di lui prescrisse;
ma s’el mal tuo c’hai sì vicin non vedi,
peggio l’altrui c’ha da venir prevedi.
36
Non pregar ch’io te uccida, che i tuoi preghi
seriano indarno; e se pur vuoi la morte,
(anchor che tutto il mondo dar la nieghi)
da sé puolla haver sempre animo forte:
ma pria ch’el spirto da la carne sleghi,
a tutti i tuoi prigioni apri le porte. –
Così dice la Donna, e tuttavia
il Mago preso incontra il sasso invia.
37
Legato de la sua propria cathena
andava Atlante, e la Donzella drieto,
che così anchor se ne fidava a pena,
quantunque rasembrasse humìle e cheto.
Atlante seco la Donzella mena
dentro un pertugio, e trovano il secreto
de li scaglioni onde si monta in giro,
fin che alla porta del castel saliro.
38
Di su la soglia Atlante un sasso tolle,
di charatteri e strani segni insculto;
piene d’herbe vi son sotto alcune olle
che fuman sempre, e stassi il fuoco occulto:
l’Incantator le spezza, e a un tratto il colle
riman deserto, inhospite et inculto;
né mur, né torre appare in alcun lato,
come se mai castel non vi sia stato.
39
Sbrigossi da la Donna il Mago allhora
come fa spesso il tordo da la ragna,
e con lui sparve il suo castello a un’hora
e lasciò in libertà quella compagna.
Le donne e i cavallier si trovâr fuora
de le superbe stanze alla campagna;
e d’esse furon molte a chi ne dolse,
che tal franchezza un gran piacer lor tolse.
40
Quivi è Gradasso e quivi è Sacripante,
quivi è Prasildo, il nobil cavalliero
che con Rinaldo venne di Levante,
e seco Iroldo, il par di amici vero.
Al fin trovò la bella Bradamante
quivi il desiderato suo Ruggiero,
che poi che n’hebbe certa connoscenza
le fe’ buona e gratissima accoglienza,
41
come a colei che più che gli occhi sui,
più che ’l suo cor, più che la propria vita
Ruggiero amò dal dì che essa per lui
si trasse l’elmo, onde ne fu ferita.
Lungo serebbe a dir come e da cui
e quanto invan s’andâr per la romita
selva la notte e tutto il giorno chiaro
dapoi cercando, e mai non si trovaro.
42
Hor che la vede quivi e sa ben ch’ella
è stata sola la sua redentrice,
di tanto gaudio ha pieno il cor, ch’appella
sè fortunato et unico felice.
Scesero il monte e dismontaro in quella
valle, ove la Donzella vincitrice
preso havea il Mago, e quivi trovaro ancho
star l’Hippogrypho, c’havea il scudo al fianco.
43
La Donna va per prenderlo nel freno,
e quel l’attende fin che se gli accosta;
poi spiega l’ale per l’aer sereno
e si ripon non lungi a meza costa;
ella lo segue, e quel né più né meno
si leva in aria, e non troppo si scosta,
come fa la cornacchia in secca arena
che drieto il cane hor qua, hor là si mena.
44
Ruggier, Gradasso, Sacripante e tutti
quei cavallier che scesi erano insieme,
chi di su, chi di giù, se son ridutti
dove che torni il volator han speme.
Quel, poi che li altri invano hebbe condutti
più volte e sopra le cime supreme
e ne gli humidi fondi tra que’ sassi,
presso a Ruggiero al fin ritenne i passi.
45
E questa opera fu del vecchio Atlante,
di cui non cessa la pietosa voglia
di trar Ruggier del gran periglio instante;
di ciò sol pensa e di ciò solo ha doglia:
perhò gli manda hor l’Hippogrypho inante,
perché di Francia con questa arte il toglia.
Ruggier lo piglia a man per drieto trarlo,
ma quel s’arretra e non vuol seguitarlo.
46
Hor di Frontin Ruggiero audace smonta
(Frontino era nomato il suo destriero),
e sopra quel che gìa per l’aria monta,
e gli sveglia col spron l’animo altiero;
quel corre alquanto, et indi i piedi ponta
e sale verso il ciel via più liggiero
ch’el Giriphalco, a cui leva il capèllo
el mastro a tempo e fa veder l’augello.
47
La bella Donna, che sì in alto vede
e con tanto periglio il suo Ruggiero,
resta attonita in modo, che non riede
quel dì né l’altro al sentimento vero:
ciò che già inteso havea di Ganimede,
ch’al ciel fu assunto dal paterno impero,
dubita assai che non accada a quello,
non men gentil di Ganimede e bello.
48
Con gli occhi fissi al ciel lo segue quanto
basta il veder; ma poi che se dilegua
sì, che la vista non può correr tanto,
lascia che sempre l’animo lo segua;
tuttavia con suspir, gemito e pianto
non ha, né vuol haver pace né triegua.
Poi che Ruggier di vista se le tolse,
al bon destrier Frontin gli occhi rivolse:
49
e si deliberò di non lasciarlo
che fosse in preda a chi venisse prima,
ma di condurlo seco e di poi darlo
(se mai Ruggier può ritrovar) fe’ stima.
Va l’Hippogrypho al cielo, e rifrenarlo
Ruggier non può: vede la excelsa cima
di sotto rimanersi humìle e bassa
del Pyreneo, che gli altri gioghi passa.
50
Poi che sì ad alto vien ch’un piccol punto
lo può stimar chi da la terra il mira,
prende la via verso ove cade a punto
il Sol quando col Granchio si raggira,
e per l’aria ne va come legno unto
a cui nel mar propitio vento spira:
lasciànlo andar, che farà bon camino,
e torniamo a Rinaldo paladino.
51
Rinaldo l’altro e l’altro giorno scórse,
spinto dal vento, gran spatio di mare
quando a ponente e quando contra l’Orse,
che notte e dì non cessa mai soffiare.
Sopra la Scotia ultimamente sorse,
dove la selva Calydonia appare,
che spesso fra li antiqui ombrosi cerri
s’ode suonar di bellicosi ferri.
52
Vanno per quella i cavallieri erranti,
inclyti in arme, di tutta Bertagna,
e de’ proximi luoghi e de’ distanti,
di Francia, Danismarca e di Lamagna:
chi non ha gran valor non vada inanti,
che dove cerca honor morte guadagna.
Gran cose in essa già fece Tristano,
Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano,
53
et altri cavallieri e de la nuova
e de la vecchia Tavola famosi:
restano anchor di più d’una lor prova
li monumenti e li trophei pomposi.
L’arme Rinaldo e il suo Baiardo trova,
e presto si fa por ne’ liti ombrosi,
et al Nocchier commanda che si spicche
e lo vada aspettare a Beroicche.
54
Senza scudiero e senza compagnia
va il cavallier per quella selva immensa,
facendo hor una et hor un’altra via
dove più haver strane aventure pensa.
Capitò il primo giorno a una Abbadia,
che buona parte del suo haver dispensa
in honorar nel suo cenobio adorno
le donne e i cavallier che vanno intorno.
55
Bella accoglienza i monachi e l’Abbate
fêro a Rinaldo, il quale intrò con loro
a parlar (poi che con vivande grate
fu dato a’ corpi il debito ristoro)
come sian spesso aventure trovate
da cavallieri per quel territoro,
dove si possa in qualche fatto egregio
l’huom dimostrar se merta biasmo o pregio.
56
Risposongli che errando in quelli boschi
trovar potria molte aventure e strane;
ma come i luoghi, i fatti anchor son foschi,
che spesso cognition non ne rimane.
– Cerca (diceano) andar dove connoschi
che mill’occhi ti mirino alle mane,
acciò drieto il periglio e la fatica
segua la fama, e il debito ne dica.
57
E se del tuo valor cerchi far prova,
t’è preparata la più degna impresa
che ne l’antiqua etade o ne la nuova
giamai da cavallier sia stata presa.
La figlia del Re nostro hor se ritrova
bisognosa d’aiuto e di difesa
contra un baron che Lurcanio se chiama,
che tôr le cerca la vita e la fama.
58
Questo Lurcanio al padre l’ha accusata
(forse per odio più che per ragione)
haverla a meza notte ritrovata
trar un suo amante a sé sopra un verone.
Per le leggi del Regno condennata
al fuoco fia, se non trova campione
fra un mese, che hoggimai presso è a finire,
che questo accusator faccia mentire.
59
L’aspra legge di Scotia, empia e severa,
vuol ch’ogni donna o d’alta o bassa sorte
ch’ad huom si giunga e non gli sia mogliera,
s’accusata ne viene, habbia la morte;
né riparar si può ch’ella non pèra,
quando per lei non venga un guerrier forte
che toglia la difesa, e che sostegna
che sia innocente e di morir indegna.
60
Il Re dolente per Ginevra bella
(che così nominata è la sua figlia)
ha publicato per città e castella
che, s’alcun la difesa d’essa piglia
e che l’estingua la calumnia fella
(pur che sia nato di nobil famiglia),
gli la darà per moglie e un stato, quale
fia convenevol dote a donna tale.
61
Ma se fra un mese alcun per lei non viene,
o venendo non vince, ella fia uccisa.
Simil impresa meglio ti conviene
ch’andar pei boschi errando a questa guisa:
oltra c’honor e fama te n’aviene
ch’in eterno da te non fia divisa,
guadagni il fior di quante belle donne
dal Indo sono all’Atlantee colonne;
62
e con la Donna una ricchezza, un stato
che sempre far ti può viver contento;
e la gratia del Re, se suscitato
per te gli fia il suo honor, che quasi è spento.
Poi per cavalleria tu se’ ubligato
a vendicar di tanto tradimento
costei, che per commune opinïone
era di pudicitia un paragone. –
63
Pensò Rinaldo alquanto, e poi rispose:
– Adunque una donzella de’ morire
perc’ha voluto in le braccia amorose
d’un suo amator sfogar tanto disire?
Sia maledetto chi tal legge pose,
e maledetto chi la può patire!
Una crudel debitamente muore,
non chi dà vita al suo fido amatore.
64
Sia vero o falso che Ginevra tolto
s’habbia il suo amante, io non riguardo a questo:
d’haverlo fatto la lodarei molto
pur che non fusse stato manifesto.
Ho in sua difesa ogni pensier rivolto:
dato mi sia pur una guida presto,
ch’ove è il villano accusator mi mene,
ch’io spero in Dio Ginevra trar di pene.
65
Non vuo’ già dir ch’ella non l’habbia fatto,
che no ’l sapendo, il falso dir potrei:
dirò ben che non de’ per simil atto
alcuna punition cader in lei;
e voglio sostener ch’ingiusto o matto
quel primo fu che fe’ i statuti rei;
e come iniqui rivocar si denno,
e nuova legge far con miglior senno.
66
S’un medesimo ardor, s’un disir pare
inchina e sforza l’uno e l’altro sesso
a quel suave fin d’amor, che pare
al ignorante vulgo un grave excesso,
perché si de’ punir donna o biasmare,
s’ella ha con uno o dui o tre commesso
quel che l’hom fa con quante n’ha appetito,
e lodato ne va, non che impunito?
67
Sono fatti in questa legge disuguale
veramente alle donne espressi torti,
e spero in Dio mostrar che gli è gran male
che tanto lungamente si comporti. –
Rinaldo hebbe il consenso universale
che fur li antiqui ingiusti e male accorti
che consentiro a così iniqua legge,
e mal fa il Re, che può, né la corregge.
68
Poi che la luce candida e vermiglia
de l’altro giorno aperse l’Hemispero,
Rinaldo l’arme e ’l suo Baiardo piglia,
e di quella Abbadia tolse un scudiero
che con lui vien a molte leghe e miglia,
sempre nel bosco horribilmente fiero,
verso la terra ove la lite nuova
de la donzella de’ venir in prova.
69
Havean (cercando abbrevïar camino)
lasciato pel sentier la maggior via,
quando un gran pianto udîr suonar vicino,
che la foresta d’ognintorno empìa.
Baiardo spinse l’un, l’altro il Ronzino
verso una valle onde quel grido uscia:
e fra tre mascalzoni una donzella
vider, che di lontan parea assai bella,
70
ma lachrymosa e lamentevol quanto
donna o donzella o mai persona fosse.
Eranle dui col ferro nudo accanto
per farle far l’herbe di sangue rosse;
ella con prieghi differendo alquanto
giva il morir, fin che pietà si mosse:
venne Rinaldo; e come se n’accorse,
con alti gridi e gran minaccie accorse.
71
Voltaro i malandrin tosto le spalle,
che ’l soccorso lontan vider venire,
e s’appiattâr ne la profonda valle.
Il paladin non curò lor seguire:
venne alla donna, e qual gran colpa dàlle
tanta punitïon cerca d’udire;
e per tempo avanzar fa ch’el scudiero
la tolle in groppa, e torna al suo sentiero.
72
E cavalcando poi meglio la guata
molto esser bella e di manier accorte,
anchor che fosse tutta spaventata
per la paura c’hebbe de la morte.
Poi ch’ella fu di nuovo dimandata
chi l’havea tratta a sì infelice sorte,
incominciò con humil voce a dire
quel ch’io vuo’ all’altro canto differire.

CANTO QUINTO

1
Tutti li altri animal che sono in terra,
o che vivon quïeti e stanno in pace,
o se vengono a rissa e si fan guerra,
alla femina il maschio non la face:
sicura dal Leon per li boschi erra
la Leonessa, e presso al Orso giace
l’Orsa, col Lupo è la Lupa sicura,
né la Iuvenca ha del Torel paura.
2
Ch’abominevol peste, che Megera
è venuta a turbar li humani petti?
che si sente il marito e la mogliera
sempre garrir d’ingiurïosi detti,
stracciar i crini e far livida e nera
la faccia, e spesso i genïali letti
di lachryme bagnar; e l’ira stolta
li ha di sangue bagnati alcuna volta.
3
Parmi non sol gran mal, ma che l’huom faccia
contra natura e sia di Dio ribello,
che s’induce a percuotere la faccia
di bella donna o romperle un capello;
ma chi le dà veneno o chi le caccia
l’alma del corpo con laccio o coltello,
c’huomo sia quel non crederò in eterno,
ma in vista humana un spirto de l’inferno.
4
Cotali esser devean que’ duo ladroni
che Rinaldo cacciò da la Donzella,
da lor condotta in quei scuri valloni
perché non se ne udisse più novella.
Io lasciai ch’ella render le cagioni
s’apparecchiava di sua sorte fella
al Paladin, che le fu buono amico:
hor, seguendo l’historia, così dico
5
che quella incominciò: – Tu intenderai
la maggior crudeltade e la più expressa
che fosse a Thebe, Argo o Micena mai,
o in altro più crudel luoco commessa;
e se ruotando il Sole i chiari rai
qui men che all’altre regïon s’appressa,
credo che a noi mal volentieri arrivi,
perché veder sì crudel gente schivi.
6
Ch’a gli nemici li huomini sian crudi,
in ogni età se n’è veduto essempio;
ma a chi il ben tuo sempre procuri e studi,
voler dar morte è troppo ingiusto et empio;
e acciò che meglio il vero io te denudi,
perché costor volessero far scempio
de li verdi anni miei contra ragione,
te dirò da principio ogni cagione.
7
Voglio che sappi, signor mio, che essendo
tenera anchora, alli servigi venni
de la figlia del Re, con cui crescendo
bon luogo in corte et honorato tenni.
Crudel Amor, al mio stato invidendo,
fe’ che seguace (ahi lassa!) gli divenni:
fe’ d’ogni cavallier, d’ogni donzello
parermi il Duca di Albania più bello.
8
Perché egli mostrò amarmi più che molto,
io ad amar lui con tutto il cor mi mossi;
ben s’ode il ragionar, si vede il volto,
ma dentro il petto mal giudicar possi.
Credendo, amando, io non cessai che tolto
me l’hebbi in letto, e non guardai ch’io fossi
di tutte le real camere in quella
che più secreta havea Ginevra bella,
9
dove tenea le sue cose più care
e dove le più volte ella dormia.
Si può di quella in s’un verone intrare
che fuor del muro al discoperto uscia:
io facea il mio amator quivi montare,
e la scala di corde onde salia
io stessa dal veron giù gli mandai
qual volta meco haver lo desïai;
10
che tante volte ve lo fei venire
quanto Ginevra me ne diede l’agio,
che solea mutar letto hor per fuggire
il tempo ardente, hor il brumal malvagio.
Non fu veduto d’alcun mai salire,
perhò che quella parte del palagio
risponde verso alcune case rotte,
dove nessun mai passa giorno o notte.
11
Continuò per molti giorni e mesi
tra noi secreto l’amoroso gioco:
sempre crebbe l’amore, e sì m’accesi,
che tutta dentro io mi sentia di foco;
e cieca ne fui sì, ch’io non compresi
che egli fingeva molto e amava poco,
anchor che li suoi inganni discoperti
esser deveanmi a mille segni certi.
12
Dopo alcun dì si mostrò nuovo amante
de la bella Ginevra; io non so appunto
s’allhora cominciasse, o pur inante
de l’amor mio n’havesse il cor già punto:
vedi s’in me venuto era arrogante,
s’imperio nel mio cor s’haveva assunto;
che mi scoperse, e non hebbe rossore
chiedermi aiuto in questo nuovo amore.
13
Ben mi dicea che ugual al mio non era,
né vero amor quel ch’egli havea a costei;
ma simulando esserne acceso, spera
celebrarne legitimi hymenei;
dal Re ottenerla fia cosa leggiera,
qualhor vi sia la volontà di lei;
che di stato e riccheza in tutto il regno
di lui non era appresso il Re il più degno.
14
Mi persuade, se per opra mia
poteva del suo Re genero farsi
(che veder posso che se ne alzaria
a quanto appresso ’l Re possa huom alzarsi),
che me n’havrà bon merto e non saria
mai tanto beneficio per scordarsi;
e che alla moglie et ad ogn’altro inante
me ponerebbe in sempre essermi amante.
15
Io ch’ero tutta a satisfargli intenta,
né seppi o vòlsi contradirgli mai
e sol quei giorni io mi vidi contenta
c’haverlo compiacciuto mi trovai,
piglio l’occasïon che s’appresenta
di parlar d’esso e di lodarlo assai;
et ogni industria adopro, ogni fatica
per far del mio amator Ginevra amica.
16
Feci col cor e con l’effetto tutto
quel che si puoté fare, e sallo Idio;
né con Ginevra mai potei far frutto,
ch’io le ponessi in gratia il Duca mio:
e questo, che ad amar haveva indutto
tutto il pensier e tutto il suo desio
un gentil cavallier, bello e cortese,
venuto in Scotia di lontan paese,
17
che con un suo fratel ben giovinetto
venne d’Italia a star in questa corte;
si fe’ nel’arme poi tanto perfetto,
che la Bertagna non havea il più forte.
Il Re l’amava, e ne mostrò l’effetto;
che gli donò di non piccola sorte
castella e ville e iuriditïoni,
e lo fe’ grande tra i primi baroni.
18
Grato era ’l Re; più grato era alla figlia
quel cavallier, nomato Arïodante,
per esser valoroso a maraviglia;
ma più, ch’ella sapea che l’era amante:
né Vesuvio, né il monte di Siciglia,
né Troia avampò mai di fiamme tante,
quante ella connoscea che per suo amore
Arïodante ardean per tutto ’l core.
19
L’amar che dunque ella facea colui
con cor sincero e con perfetta fede
fe’ che pel Duca mal udita fui;
né mai risposta da sperar mi diede:
anzi quanto io pregava più per lui
e gli studiava di impetrar mercede,
ella, biasmandol sempre e dispregiando,
se gli venìa più sempre inimicando.
20
Io confortai l’amator mio sovente
che volesse lasciar la vana impresa,
né si sperasse mai volger la mente
di costei, troppo ad altro amore intesa;
e gli feci connoscer chiaramente
come era sì d’Arïodante accesa,
che quanta acqua è nel mar, piccola dramma
non spegneria de la sua immensa fiamma.
21
Questo da me più volte Polinesso
(che così nome ha il Duca) havendo udito,
e ben compreso e visto per se stesso
che molto male era il suo amor gradito;
non pur di tanto amor si fu rimesso,
ma di vederse un altro preferito,
come superbo, così mal sofferse
che tutto in ira e in odio si converse.
22
E tra Ginevra e l’amator suo pensa
tanta discordia e tanta lite porre,
e farvi inimicitia così intensa,
che mai più non si possano comporre;
e por Ginevra in ignominia immensa
da non se ne poter di facil tôrre;
né di questo pensier ragiona meco,
né con altrui, ma sol tacito seco.
23
E simulando altro di fuor, mi dice:
«Dalinda mia», che così son nomata,
«pianta d’Amor che fatto habia radice
tornar non cessa, se vien ben tagliata:
ben che successo non troppo felice
mi veggio haver, la mente mia ostinata
non perhò cessa di voler venire
in qualche parte al fin del suo desire.
24
Né questo bramo tanto per diletto,
quanto perché vorrei vincer la prova;
e non possendo farlo con effetto,
s’io ’l faccio imaginando, ancho mi giova:
voglio, qual volta tu mi dài ricetto,
quando allhora Ginevra se ritrova
spogliata in letto, che pigli ogni vesta
ch’ella post’habbia, e tutta te ne vesta.
25
Come ella s’orna e come il crin dispone
studia imitarla, e cerca il più che sai
di parer essa, e poi sopra il verone
a mandar giù la scala ne verrai.
Io verrò a te con imaginatione
che quella sii, di cui li panni harai:
e così spero, me stesso ingannando,
venir in breve il mio desir scemando».
26
Questo mi disse il Duca; et io ch’ero ebra
tanto de l’amor suo, non posi mente
che quel fosse uno aguato, una latebra,
a chi havea gli occhi pur troppo evidente;
e dal veron, coi panni di Ginebra,
mandai la scala ond’ei salì sovente;
e non m’accorsi prima de lo ’nganno,
che n’era già tutto accaduto il danno.
27
Fatto in quel tempo con Arïodante
il Duca havea queste parole o tali,
che grandi amici erano stati inante
che per Ginevra se fessin rivali:
«Mi maraviglio (incominciò il mio amante),
c’havendoti io fra tutti li mie’ uguali
sempre havuto in rispetto e sempre amato,
ch’io sia da te sì mal remunerato.
28
Io son ben certo che comprendi e sai
di Ginevra e di me l’antiquo amore,
e per sposa legitima hoggimai
per impetrarla son dal mio signore.
Perché mi turbi tu? perché pur vai
senza frutto in costei ponendo il core?
Io ben a te rispetto harei, per Dio,
s’io nel tuo grado fussi e tu nel mio».
29
«Et io (rispose Arïodante a lui)
di te mi maraviglio maggiormente:
che di lei prima inamorato fui
che tu v’havessi posto anchora mente;
e so che sai quanto è l’amor tra nui,
ch’esser non può, di quel che sia, più ardente,
e sol d’essermi moglie intende e brama;
e so che certo sai ch’ella non t’ama.
30
Perché non hai tu adunque a me il rispetto
per l’amicitia nostra, che dimande
che a te haver debbia, e ch’io t’hare’ in effetto
se tu fussi con lei di me più grande?
Né men di te per moglie haverla aspetto:
se ben tu sei più ricco in queste bande,
io non son meno al Re, che tu sia, grato,
ma più di te da la sua figlia amato».
31
«Oh (disse il Duca a lui), grande è cotesto
errore a che t’ha il folle Amor condutto!
Tu credi esser più amato; io credo questo
medesmo: ma si può veder al frutto.
Tu fammi ciò c’hai seco manifesto,
et io ’l secreto mio t’aprirò tutto;
e quel di nui che manco haver si veggia,
ceda a chi vince, e d’altro si proveggia.
32
E serò pronto, se tu vuoi ch’io giuri,
di non dir cosa mai che mi riveli:
così voglio anchor tu che m’assicuri
che quel ch’io te dirò sempre mi celi».
Furon d’accordo e vennero a’ scongiuri,
ponendo ambe le man sul’Evangeli;
e poi che di tacer fede si diero,
Arïodante incominciò primiero,
33
e disse per il giusto e per il dritto
come tra sé e Ginevra era la cosa:
ch’ella gli havea giurato, a bocca e in scritto,
che mai non serì’ ad altri ch’a-llui sposa;
e se dal Re le venìa contraditto,
gli havea promesso sempre esser ritrosa
da tutti gli altri maritaggi poi,
e viver sola in tutti i giorni suoi;
34
e ch’esso era in speranza, pel valore
c’havea mostrato in arme a più d’un segno
et era per mostrare a laude, a honore,
a beneficio del Re e del suo regno,
di crescer tanto in gratia al suo signore,
che serebbe da lui stimato degno
che la figliola sua (poi che intendesse
che a-llei piacea così) per moglie avesse.
35
Poi disse: «A questo termine son io,
né credo già che alcun mi vegna apresso:
questo mi basta, né cerco o desio
de l’amor d’essa haver segno più expresso;
né più vorrei, se non quanto da Dio
per connubio legitimo è concesso;
oltra che fôra invan, non che fatica,
ottener più da lei, tanto è pudica».
36
Poi c’hebbe il vero Arïodante exposto
de la mercé che del suo amore havea,
Polinesso, che già s’havea proposto
di far Ginevra apo il suo amante rea,
incominciò: «Tu sei molto discosto
dal grado mio: di te più assai mi bea
la mia bella Ginevra e fa felice,
et è menzogna ciò che teco dice.
37
Finge ella teco, e non t’ama né prezza,
che te pasce di speme e di parole;
oltra questo, il tuo amor sempre a sciocchezza
(quando meco ragiona) imputar suole.
Io ben d’esserle caro altra certezza
veduto n’ho, che di promesse e fole;
e tel dirò sotto la fé in secreto,
ben che farei più ’l debito a star cheto.
38
Non passa mese che tre, quattro e sei
e talhor diece notti io non mi trovi
nudo abbracciato in gran piacer con lei,
senza temer ch’alcun me vi ritrovi:
sì che tu puoi veder s’a’ piacer miei
son da uguagliar le ciance che tu provi.
Cedimi dunque, e d’altro ti provedi,
poi che sì inferïor da me ti vedi».
39
«Non ti vuo’ creder questo» gli rispose
Arïodante, «e certo so che menti;
e composto fra te t’hai queste cose
acciò che da la impresa io mi spaventi:
ma perché troppo son vituperose
alla mia donna, sustener convienti
il detto tuo, ch’io vuo’ provarti adesso
che sei bugiardo e traditor espresso».
40
Suggiunse il Duca: «Non sarebbe honesto
che noi volesson la battaglia tôrre
di quel che t’offerisco manifesto
(quando ti piaccia) inanzi a gli occhi porre».
Restò smarrito Arïodante a questo,
e per l’ossa un tremor freddo gli scorre;
e se creduto ben gli havesse a pieno,
venìa sua vita allhora allhora a meno.
41
Con cor trafitto et con pallida faccia,
et con voce tremante e bocca amara,
rispose: «Quando sia che tu mi faccia
veder questa aventura tua sì rara,
prometto di costei lasciar la traccia,
a te sì liberale, a me sì avara:
ma ch’io tel voglia creder non far stima,
s’io non lo veggio con questi occhi prima».
42
«Quando ne serà ’l tempo, avisarotti»
suggiunse Polinesso, e dipartisse.
Non credo che passâr più di due notti,
che ordine fu ch’il Duca a me venisse:
per scoccar dunque i lacci che condotti
havea sì cheti, andò al rivale, e disse
che se ascondesse la notte seguente
tra quelle case ove non sta mai gente:
43
et dimostrògli un luogo a dirimpetto
di quel veron, ove solea salire.
Arïodante havea preso suspetto
che lo cercasse far quivi venire
come in un luogo dove havesse eletto
poner li aguati, et farvelo morire
sotto pretesto di voler mostrargli
quel di Ginevra ch’impossibil pargli.
44
Di volerli venir prese partito;
ma in guisa che di lui non sia men forte,
perché accadendo che fosse assalito
si trovi sì, che non tema di morte.
Un suo fratello havea saggio et ardito,
il più famoso in arme de la corte,
detto Lurcanio; e havea più cor con esso
che se diece altri havesse havuto appresso.
45
Seco chiamollo, e vòlse che prendesse
l’arme; e la notte lo menò con lui:
non che ’l secreto suo già gli dicesse,
né l’havria detto ad esso né ad altrui.
Da sé lontan un trar di pietra il messe:
«Se mi senti chiamar, vien (disse) a nui;
ma se non senti prima ch’io ti chiami,
non te partir di qui, frate, se m’ami».
46
«Va’ pur, né dubitar (disse ’l fratello)»;
e così venne Arïodante cheto,
et se celò nel solitario hostello
ch’era di contro al mio veron secreto.
Vien d’altra parte il fraudolente e fello,
che d’infamar Ginevra era sì lieto;
e fa ’l segno, tra noi solito inante,
a me che de l’inganno era ignorante.
47
Et io con veste candida, et fregiata
per mezo a liste d’oro e d’ognintorno,
et con rete pur d’or, tutta adombrata
di bei fiocchi vermigli al capo intorno,
foggia che sol fu da Ginevra usata,
non d’alcun’altra; udito ’l segno, torno
sopra ’l veron, che in modo era locato
che nanzi mi scopria, drieto e da lato.
48
Lurcanio in questo mezo dubitando
ch’el fratello a pericolo non vada,
o (come è pur commun disio) cercando
di spiar sempre ciò che ad altri accada,
l’era pian pian venuto seguitando,
tenendo l’ombre e la più oscura strada;
e a men che diece passi a lui discosto,
nel medesimo tetto era riposto.
49
Non sapend’io di questo cosa alcuna,
venni al veron nel habito c’ho detto,
sì come già venuta ero più d’una
et più di due fïate a buono effetto.
Le vesti si vedean chiare alla Luna;
n’essendo anche io dissimile d’aspetto
né di persona da Ginevra molto,
puoté parere un per un altro il volto;
50
e tanto più, ch’era gran spatio in mezo
fra dove io venni et quelle inculte case,
ai duo fratelli, che stavano al rezo,
il Duca agevolmente persuase
quel ch’era falso: hor pensa in che ribrezo
Arïodante, in che dolor rimase.
Vien Polinesso, e alla scala s’appoggia
che giù manda’gli, et monta in su la loggia.
51
A prima giunta io gli getto le braccia
al collo, ch’io non penso esser veduta;
lo bacio in bocca e per tutta la faccia,
come far soglio ad ogni sua venuta;
egli più de l’usato si procaccia
d’accarezzarmi, e la sua fraude aiuta.
Quell’altro al rio spettacolo condutto,
misero sta lontano e vede il tutto:
52
cade in tanto dolor, che si dispone
allhora allhora di voler morire;
e ’l pomo de la spada in terra pone,
che su la punta si volea ferire.
Lurcanio che con grande ammiratione
havea mirato ’l Duca a me salire,
ma non già connosciuto chi si fosse,
veduto l’atto del fratel, si mosse,
53
et gli vietò che con la propria mano
non si passasse in quel furor il petto:
s’era più tardo o poco più lontano,
non giugnea a tempo, e non faceva effetto.
«Ah misero fratel, fratel insano
(gridò), perc’hai perduto l’intelletto,
che una femina a morte trar ti deggia?
Che maledetta sia tutta lor greggia!
54
Cerca far morir lei, che morir merta,
e serva a più tuo honor tu la tua morte.
Fu d’amar lei, quando non t’era aperta
la fraude sua: hor è da odiar ben forte,
poi che con gli occhi tuoi tu vedi certa
quanto sia meretrice, e di che sorte.
Serba quest’arme che volti in te stesso
a far dinanzi al Re tal fallo expresso».
55
Quando si vede Arïodante giunto
sopra ’l fratel, la dura impresa lascia;
ma la sua intentïon, da quel ch’assunto
havea già di morir, nulla s’accascia.
Quindi si leva, e porta non che punto,
ma trappassato ’l cor d’estrema ambascia;
pur finge col fratel che quel furore
che dianzi fu non gli sia più nel core.
56
Il seguente matin, senza far motto
al suo fratello o ad altri, in via si messe
da la mortal desperation condotto;
né di lui per più dì fu chi sapesse.
Era, fuor ch’el fratello, ogn’altro indòtto,
et fuor ch’el Duca, chi mosso l’havesse
a dipartirsi: onde di lui diversi
ragionamenti in tutta Scotia fêrsi.
57
In corte, in capo d’otto giorni o diece,
venne inanzi a Ginevra un vïandante,
che con gran duol di lei noto le fece
che s’era in mar sommerso Arïodante
di sua spontanea e voluntaria nece,
non per colpa di Borea o di Levante:
d’un sasso che sul mar sporgea molt’alto
havea col capo in giù preso un gran salto.
58
Colui dicea: «Pria che venisse a questo,
a me, che a caso riscontrò per via,
disse: “Vien meco, acciò che manifesto
per te a Ginevra il mio successo sia;
et dille poi che la cagion del resto
che tu vedrai di me, che adesso fia,
è stato sol perc’ho troppo veduto:
felice, se senza occhi io fossi suto!”
59
Eramo noi di sopra Capobasso,
che verso Irlanda alquanto sporge in mare.
Così dicendo, di cima d’un sasso
lo vidi a capo in giù sott’acqua andare.
Io lo lasciai nel mar, et a gran passo
ti son venuto la nuova a portare».
Ginevra sbigottita e ’n viso smorta
rimase a quello anontio, e meza morta.
60
Oh Dio, che disse e fece, poi che sola
si ritrovò nel suo fidato letto!
Percosse il seno e si stracciò la stola,
et fece all’aureo crin danno e dispetto,
ripetendo sovente la parola
ch’Arïodante havea in estremo detto:
che la cagion del suo caso empio e tristo
tutta venìa per aver troppo visto.
61
Il rumor scórse di costui per tutto,
che per dolor s’havea dato la morte.
Di questo il Re non tenne il viso asciutto,
né cavallier né donna de la corte;
di tutti il suo fratel mostrò più lutto,
et se sommerse nel dolor sì forte,
che ad exempio di lui, contra se stesso
voltò quasi la man per irli appresso.
62
Et molte volte ripetendo seco
che Ginevra havea morto il suo fratello,
per l’atto che di lei sordido et bieco
contra ogni sua credenza vide quello,
di voler punir lei venne sì cieco
et sì lo spinse il dolor empio et fello,
che di perder la gratia vilipese,
et haver l’odio del Re e del paese.
63
Et nanzi al Re (quando era più di gente
la sala piena) se ne venne, e disse:
«Sappi, signor, che di levar la mente
al mio fratel, sì ch’a morir ne gisse,
è stata sol la tua figlia nocente;
ch’a lui tanto dolor l’alma traffisse
d’haver veduta lei poco pudica,
che più che vita hebbe la morte amica.
64
Erane amante, et perché le sue voglie
dishoneste non fur, nol vuo’ coprire:
per virtù meritarla haver per moglie
da te sperava, et per fedel servire;
ma mentre ’l lasso ad odorar le foglie
stava lontano, altrui vide salire
su ’l riserbato suo ginebro, et tutto
essergli tolto il disïato frutto».
65
Et seguitò come egli havea veduto
venir Ginevra sul verone, et come
mandò la scala onde era a lei venuto
un drudo suo, di chi egli non sa ’l nome,
che se havea (per non esser connosciuto)
cambiati i panni et nascose le chiome.
Suggiunse che con l’arme egli volea
provar tutto esser ver ciò che dicea.
66
Tu puoi pensar se ’l padre addolorato
riman, quando accusar sente la figlia;
sì perché ode di lei quel che pensato
non havea unquancho, et n’ha gran maraviglia;
sì perché sa che fia necessitato,
se la difesa alcun guerrer non piglia
il qual Lurcanio possa far mentire,
di condennarla et di farla morire.
67
Io non credo, signor, che te sia nuova
la legge nostra che condanna a morte
ogni donna et donzella che si prova
di sé far copia altrui che al suo consorte:
morta ne vien, se in un mese non trova
in sua difesa un cavallier sì forte,
ch’entri armato nel campo et che sostegna
che sia innocente et di morir indegna.
68
Ha fatto il Re bandir, per liberarla
(che pur gli par che a torto sia accusata),
che vuol per moglie e con gran dote darla
a-cchi torrà l’infamia che l’è data.
Che sia per lei comparso non si parla
guerriero anchora, anzi l’un l’altro guata;
che quel Lurcanio in arme è così fiero
che par che di lui tema ogni guerriero.
69
Atteso ha l’empia sorte, che Zerbino,
fratel di lei, nel regno non si trove;
che va già molti mesi peregrino
mostrando di sé in arme inclyte prove:
che quando si trovasse più vicino
quel cavallier gagliardo, o in luogo dove
potesse haver a tempo la novella,
so che verria in aiuto alla sorella.
70
Il Re, che intanto cerca di sapere
per altra prova, che per arme, anchora
se queste imputation son false o vere,
se giusto o torto è che sua figlia mora,
ha fatto prender certe cameriere
che lo devrian saper, se vero fôra:
ond’io previdi che se presa era io,
troppo periglio era del Duca e mio.
71
Et la notte medesima mi trassi
fuor de la corte e al Duca mi condussi;
et gli feci veder quanto importassi
al capo d’amendua, se presa i’ fussi.
Lodò ’l consiglio, et che io non dubitassi
mi disse; a’ suoi conforti io poi m’indussi
venir ad una ròcca sua qui presso,
in compagnia di dui che mi diede esso.
72
Hai sentito, signor, con quanti effetti
de l’amor mio fei Polinesso certo;
et s’era debitor per tai rispetti
d’havermi cara o non, tu ’l vedi aperto.
Hor senti ’l guidardon che io ricevetti,
vedi la gran mercé del mio gran merto;
vedi se deve per amare assai
donna sperar d’esser amata mai:
73
che questo ingrato, perfido e crudele,
de la mia fede ha preso dubbio al fine;
venuto è in suspition che io non rivele
al lungo andar le fraudi sue volpine.
Ha finto (acciò che io m’allontani e cele
fin che l’ira e il furor del Re decline)
voler mandarmi ad un suo luogo forte;
et mi volea mandar dritto alla morte:
74
che di secreto ha commesso alla guida
che, come m’habbia in queste selve tratta,
per degno premio di mia fé m’uccida.
Così l’intentïon gli venìa fatta,
se tu non eri appresso alle mie grida:
ve’ come Amor ben chi lui segue tratta! –
Così narrò Dalinda al paladino,
seguendo tuttavolta il lor camino.
75
Rinaldo sopra ogni aventura grata
hebbe d’haver trovata la donzella,
che gli havea tutta l’historia narrata
de l’innocentia di Ginevra bella.
Et se sperato havea (quando accusata
anchor fosse a ragion) d’aiutar quella,
via con maggior baldanza hor viene in prova,
poi che evidente la calumnia trova.
76
Et verso la città di santo Andrea
(dove era il Re con tutta la famiglia,
et la battaglia singular devea
esser de la querela de la figlia),
quanto più forte cavalcar potea,
venne Rinaldo, fin che a poche miglia
giunse vicino alla cittade, dove
trovò un scudier c’havea più fresche nuove:
77
ch’un cavallier istrano era venuto,
che a difender Ginevra s’havea tolto,
con non usate insegne, e sconnosciuto,
perhò che sempre ascoso andava molto;
et che dopo che v’era, anchor veduto
non gli havea alcuno al discoperto il volto;
et che ’l proprio scudier che gli servia
dicea giurando: – Io non so dir chi sia. –
78
Non cavalcaro molto, ch’alle mura
si trovâr de la Terra, e ’n su la porta.
Dalinda andar più inanzi havea paura;
pur va, poi che Rinaldo la conforta.
La porta è chiusa, et a chi n’havea cura
Rinaldo dimandò: – Questo ch’importa? –
Et fugli detto: perch’el popul tutto
a veder la battaglia era ridutto,
79
che tra Lurcanio e un cavallier istrano
si facea in l’altro capo de la terra,
ove era un prato spatïoso et piano;
et che già cominciata era la guerra.
Aperto fu al signor di Monte Albano,
et presto il portinar dietro gli serra.
Per la vuota città Rinaldo passa;
ma la Donzella al primo albergo lassa,
80
et dice che sicura ivi si stia
fin che ritorni a-llei, che serà tosto;
et verso il campo poi ratto s’invia
dove gli dui guerrier dato et risposto
molto s’haveano, et davan tuttavia:
stava Lurcanio di mal cor disposto
contra Ginevra; et l’altro in sua difesa
ben sostenea la favorita impresa.
81
Sei cavallier con lor dentro al steccato
erano a piedi, armati di corazza,
col Duca d’Albania, ch’era montato
s’un possente corsier di buona razza.
Come a gran contestabile, a lui dato
la guardia fu del campo et de la piazza;
et di veder Ginevra in gran periglio
havea ’l cor lieto, et orgoglioso il ciglio.
82
Rinaldo se ne va tra gente et gente;
fassi far largo il buon destrier Baiardo:
chi la tempesta del suo venir sente
a dargli via non par zoppo né tardo.
Rinaldo vi compar sopra eminente,
et ben rassembra il fior d’ogni gagliardo;
poi se ferma all’incontro ove ’l Re siede:
ognun s’accosta per udir che chiede.
83
Rinaldo disse al Re: – Magno signore,
non lasciar la battaglia più seguire;
perché di questi dua qualunque more,
sappi che a torto tu ’l lasci morire:
l’un crede haver ragion, et è in errore
et dice il falso, et non sa di mentire,
ma quel medesmo error ch’el suo germano
a morir trasse, a lui pon l’arme in mano;
84
l’altro non sa se s’habbia dritto o torto,
ma sol da pietà mosso et gentilezza
in pericol s’ha posto d’esser morto,
perché morta non sia tanta bellezza.
Io la salute di tua figlia apporto
et de la falsa accusa ogni chiarezza;
ma, per Dio, questa pugna prima parti,
poi mi da’ udienza a quel ch’io vuo’ narrarti. –
85
Fu da l’authorità d’un huom sì degno,
come Rinaldo gli parea al sembiante,
sì mosso il Re, che disse et fece segno
che non andasse più la pugna inante.
Poi nanzi a lui, nanzi ai baron del regno,
donne e donzelle et altre turbe tante
Rinaldo fe’ l’inganno in tutto expresso,
c’havea ordito a Ginevra Polinesso.
86
Indi s’offerse di voler provare
coll’arme ch’era ver quel c’havea detto.
Chiamasi Polinesso; et ei compare,
ma tutto conturbato ne l’aspetto:
pur con audacia cominciò a negare.
Disse Rinaldo: – Hor noi vedrem l’effetto. –
L’uno e l’altro era armato, il campo fatto,
sì che senza indugiar vengono al fatto.
87
Oh quanto ha ’l Re, quanto ha ’l suo popul caro
che Ginevra a-pprovar s’habbi innocente!
Tutti han speranza che Dio mostri chiaro
ch’impudica era detta ingiustamente.
Cruel, superbo, et reputato avaro
fu Polinesso, iniquo et fraudolente;
sì che ad alcun miracolo non fia
che l’inganno da lui tramato sia.
88
Sta Polinesso con la faccia mesta,
col cor tremante et con pallida guancia,
e al terzo suon mette la lancia in resta;
così Rinaldo inverso lui si lancia,
che disïoso di finir la festa
mira a passargli il petto con la lancia:
né discorde al disir seguì l’effetto,
che meza l’hasta gli cacciò nel petto.
89
Fisso nel tronco lo transporta in terra,
lontan dal suo destrier più di sei braccia.
Rinaldo smonta subito et gli afferra
l’elmo, pria che si levi, e gli lo slaccia:
ma quel, che non può far più troppa guerra,
gli dimanda mercé con humil faccia,
et gli confessa, udendo il Re et la corte,
la fraude sua che l’ha condutto a morte.
90
Non finì il tutto, e in mezo la parola
et la voce et la vita l’abbandona.
Il Re, che liberata la figliuola
vede da morte et da fama non buona,
più s’allegra, gioisce et raconsola,
che s’havendo perduta la corona
ripor se la vedesse allhora allhora;
sì che Rinaldo unicamente honora.
91
Et poi ch’al trar de l’elmo connosciuto
l’hebbe, perché altre volte l’havea visto,
levò le man a Dio, che d’uno aiuto
(qual era quel) gli havea sì ben provisto.
Quel altro cavallier che, sconnosciuto,
per soccorer Ginevra al caso tristo
contra l’accusator s’era condutto,
stato da parte era a veder il tutto.
92
Dal Re pregato fu di dire il nome,
o di lasciarsi almen veder scoperto,
acciò da lui fusse premiato, come
di sua buona intention chiedeva il merto.
Quel, dopo lunghi prieghi, da le chiome
si levò l’elmo, et fe’ palese et certo
quel che ne l’altro canto ho da seguire,
se grata vi serà l’historia udire.

CANTO SEXTO

1
Miser chi mal oprando si confida
ch’ognhor star debba il maleficio occulto;
che quando ogn’altro taccia, intorno grida
l’aria et la terra istessa in ch’è sepulto;
e Dio fa spesso ch’el peccato guida
il peccator, poi che alcun dì gli ha indulto,
che se medesmo, senza altrui richiesta,
inavedutamente manifesta.
2
Havea creduto il miser Polinesso
totalmente il delitto suo coprire,
Dalinda consapevole d’apresso
levandosi, che sola il potea dire;
et giungendo il secondo al primo excesso
affrettò il mal che potea differire;
e potea differire, e schivar forse,
ma se stesso spronando, a morir corse.
3
A un tempo e vita e stato e amici perse;
perse l’honor, che fu più grave danno.
Dissi di sopra che assai prieghi fêrse
a quel campion, ch’anchor chi sia non sanno.
Al fin si trasse l’elmo et discoperse
il viso, che più volte veduto hanno:
et dimostrò com’era Arïodante,
per tutta Scotia lachrymato inante,
4
Arïodante, che Ginevra pianto
havea per morto, e ’l fratel pianto havea,
il Re, la corte, il popul tutto quanto;
di tal bontà, di tal valor splendea.
Adunque il peregrin mentir di quanto
dianzi di lui narrò, quivi apparea;
e fu pur ver che dal scoglio marino
gettarsi in mar lo vide a capo chino.
5
Ma come aviene a un disperato spesso,
che da lontan brama et disia la morte
et l’odia poi che se la vede appresso,
tanto gli par il passo acerbo et forte;
Arïodante, poi che in mar fu messo,
si pentì di morir, et come forte
ch’egli era e destro, et più d’ogn’altr’ardito,
si messe a nuoto et ritornòsi al lito.
6
E dispregiando e nominando folle
il desir c’hebbe di lasciar la vita,
si messe a caminar bagnato et molle
et capitò al hostel d’un Eremita;
quivi secretamente indugiar volle
tanto, che la novella havesse udita,
se del caso Ginevra s’allegrasse
o pur mesta e pietosa ne restasse.
7
Intese prima che per gran dolore
ella era stata a rischio di morire;
la fama andò di questo in modo fuore,
che ne fu in tutta l’isola che dire,
contrario effetto a quel che per errore
credea haver visto con suo gran martìre;
intese poi come Lurcanio havea
fatta Ginevra appresso ’l padre rea.
8
Contra il fratel d’ira minor non arse
che per Ginevra già d’amor ardesse;
che troppo empio et crudel atto gli parse,
anchora che per lui fatto l’havesse.
Sentendo poi che per lei non comparse
cavallier che difender la volesse;
che sì Lurcanio forte era et gagliardo,
ch’ognun d’andargli contra havea riguardo,
9
et chi n’havea noticia il reputava
tanto discreto, et sì saggio et accorto,
che se non fusse ver quel che narrava
non si porrebbe a risco d’esser morto;
per questo la più parte dubitava
di non pigliar questa difesa a torto;
Arïodante dopo gran discorsi
pensò all’accusa del fratello opporsi.
10
– Ah lasso! io non potrei (seco dicea)
sentir per mia cagion perir costei:
troppo mia morte fôra acerba e rea,
s’inanzi a me morir vedessi lei.
Ell’è pur la mia donna et la mia dea,
quest’è la luce pur de gli occhi miei:
convien ch’a dritto o torto per suo scampo
pigli l’impresa, et resti morto in campo.
11
So ch’io m’appiglio al torto; e al torto sia,
et ne morrò; né questo mi sconforta,
se non che io so che per la morte mia
sì bella donna ha da restar poi morta.
Un sol conforto nel morir mi fia:
che s’el suo Polinesso amor le porta
chiaramente veder harà possuto,
che non s’è mosso anchor per darle aiuto;
12
et me, che tanto expressamente ha offeso,
vedrà, per lei salvar, a morir giunto.
Di mio frate, oltra questo, il quale acceso
tanto fuoco ha, vendicarommi a un punto;
ch’io lo farò doler, poi che compreso
il fine harà, del suo crudele assunto:
creduto vendicar harà il germano,
et gli harà dato morte di sua mano. –
13
Concluso c’hebbe questo nel pensiero,
nuove arme ritrovò, nuovo cavallo;
le sopraveste nere e ’l scudo nero
portò, fregiato a color verdegiallo.
Per aventura si trovò un scudiero
ignoto in quel paese, e menato hallo;
e sconnosciuto (come ho già narrato)
s’appresentò contra il fratello armato.
14
Narrato v’ho come il fatto successe,
come fu connosciuto Arïodante.
Non minor gaudio n’hebbe il Re, c’havesse
de la figliuola liberata inante;
seco pensò che mai non si potesse
trovar un più fedele et vero amante,
che dopo tanta ingiuria, ancho in difesa
contra il proprio fratel se l’havea presa.
15
Et per sua inclination (che assai l’amava)
et per li preghi di tutta la corte,
et di Rinaldo che più d’altri instava,
de la bella figliuola il fe’ consorte.
La duchea d’Albania, che al Re tornava
dopo che Polinesso hebbe la morte,
in miglior tempo discader non puòte,
poi che la diede alla sua figlia in dote.
16
Rinaldo per Dalinda impetrò gratia,
che se n’andò di tanto errore exente;
la qual per voto, et perché molto satia
era del mondo, a Dio volse la mente:
monacha s’andò a render sin in Datia,
et si levò di Scotia inmantinente.
Ma tempo è homai di ritrovar Ruggiero,
che scorre il ciel su l’animal liggiero.
17
Ben che Ruggier sia d’animo constante,
né cangiato habbia il solito colore,
io non gli voglio creder che tremante
non habbia dentro più che foglia il core.
Lasciato havea di gran spatio distante
tutta l’Europa, et era uscito fuore
per molto spatio il segno che prescritto
havea già a’ naviganti Hercole invitto.
18
Quello Hippogrypho, grande et strano augello,
lo porta via con tal prestezza d’ale,
che di lungo interval lasciaria quello
celer ministro del fulmineo strale.
Non va per l’aria altro animal sì snello,
che di velocità gli fusse uguale:
credo ch’a pena il tuono e la saetta
venga in terra dal ciel con maggior fretta.
19
Poi che l’augel trascorso hebbe gran spatio
per linea dritta, et senza mai piegarsi,
con larghe ruote (homai de l’aria satio)
cominciò sopra una isola a calarsi,
maggior di quella, u’ dopo lungo stratio
far del suo amante, e lungo a lui celarsi,
la vergine Arethusa passò invano
di sotto ’l mar per camin cieco e strano.
20
Non vide né più bel né più giocondo
da tutta l’aria ove le penne stese;
né se tutto cercato havesse il mondo
veduto harebbe il più gentil paese
di questo, u’ dopo un gran girarsi a tondo
con Ruggier seco, il grande augel discese:
culte pianure et delicati colli,
chiare acque, ombrose ripe et prati molli.
21
Vaghi boschetti di suavi allori,
di Palme et d’amenissime Mortelle,
Cedri et Naranci, c’havean frutti et fiori
contesti in varie forme et tutte belle,
facean riparo a’ fervidi calori
de’ giorni estivi con lor spesse ombrelle;
e tra li rami con sicuri voli,
cantando se ne gìan li Rosignuoli.
22
Tra le purpuree rose e’ bianchi gigli,
che tepida aura freschi ognhora serba,
sicuri se ne gìan Lepri et Conigli,
et Cervi con la fronte alta et superba,
senza temer che alcun li fera o pigli,
pascano o stiansi rominando l’herba;
saltano i Danni e’ Capri isnelli et destri,
che sono in copia in quei luochi campestri.
23
Come sì presso è l’Hippogrypho a terra
che esser ne può men periglioso il salto,
Ruggier con fretta de l’arcion si sferra,
et si ritrova in su l’herboso smalto;
tuttavia in man le redine si serra,
che non vuol ch’el destrier più vada in alto;
poi lo lega nel margine marino
a un verde Mirto, in mezo un lauro e un pino.
24
Et quivi appresso ove surgea una fonte
cinta di Cedri et di feconde Palme,
di braccio il scudo, et l’elmo da la fronte
si trasse, et disarmossi ambe le palme;
et hora alla marina et hora al monte,
volgea la faccia all’aure fresche et alme
che l’alte cime, con mormorii lieti,
fan tremolar dei Faggi et de li Abeti.
25
E talhor bagna in la chiara onda frescha
l’asciutte labbia, et con le man diguazza
acciò che de le vene il calor esca
che gl’ha acceso il portar de la corazza;
né maraviglia è già ch’ella gli ’ncresca,
che non è stato un far vedersi in piazza,
ma senza mai posarsi, tutto armato
tre mila miglia ognhor correndo è andato.
26
Quivi stando, il destrier c’havea lasciato
tra le più dense frasche alla fresca ombra,
per fuggir si rivolta, spaventato
di non so che, che dentro il bosco adombra;
e fa crollar sì il Mirto, ove è legato,
che de le frondi intorno il piè gli ingombra:
crollar fa ’l Mirto, e fa cader la foglia;
né succede perhò che se ne scioglia.
27
Come ceppo talhor, che le medolle
rare et vuote habbia et posto al fuoco sia,
poi che per gran calor quell’aria molle
resta consunta ch’in mezo l’empìa,
dentro risuona, et con strepito bolle
tanto che quel furor trovi la via,
così mormora et stride et si coruccia
quel Mirto offeso, e al fin apre la buccia.
28
Onde con mesta et flebil voce uscìo
expedita et chiarissima favella,
e disse: – Se tu sei cortese et pio,
come dimostri alla presenza bella,
leva questo animal da l’arbor mio:
basti ch’el mio mal proprio mi flagella
senza altra pena, senz’altro dolore
che a tormentarmi anchor venga di fuore. –
29
Al primo suon di quella voce torse
Ruggiero il viso, et subito rizzosse;
et poi che uscir de l’arbore s’accorse,
stupefatto restò più che mai fosse.
A levarne ’l destrier subito corse,
et in sua excusa assai parole mosse:
– Qual che tu sia, perdonami (dicea),
o spirto humano, o boscareccia Dea.
30
Il non pensar che in l’arbori s’asconda
sotto ruvida scorza affabil spirto
m’ha lasciato turbar la bella fronda,
et far ingiuria al tuo vivace Mirto:
ma non restar perhò che non responda
chi tu ti sia, che in corpo horrido et hirto
con voce e rational anima vivi;
se da grandine il ciel sempre ti schivi.
31
Et s’io potrò con qualche util effetto
hor questo danno, o mai, ricompensarte,
per quella bella donna ti prometto,
quella che di me tien la miglior parte,
ch’io farò (pur che ’l modo mi sia detto)
che con ragion potrai di me lodarte. –
Come Ruggier al suo parlar fin diede,
tremò quel Mirto da la cima al piede.
32
Poi si vide sudar su per la scorza
come legno dal bosco allhora tratto,
che del fuoco venir sente la forza
poscia ch’invano ogni ripar gli ha fatto;
et cominciò: – Tua cortesia mi sforza
a discoprirti in un medesmo tratto
ch’io fussi prima, et chi converso m’haggia
in questo Mirto in su l’amena spiaggia.
33
Il nome mio fu Astolfo, et paladino
ero di Francia, assai temuto in guerra;
d’Orlando et di Rinaldo ero cugino,
la cui fama alcun termine non serra;
e si spettava a me tutto ’l domìno,
dopo ’l mio padre Othon, de l’Inghilterra:
liggiadro et bel fui sì, che accesi et cocqui
più d’una donna, e al fin sol a me nocqui.
34
Ritornand’io da quelle isole estreme
che da Levante il mar Indico lava,
u’ con Rinaldo et con Dudon insieme
più dì fui chiuso in parte oscura et cava,
et onde liberate le supreme
forze n’havean del cavallier di Brava,
vêr Ponente venìa, lungo la sabbia
che del Settentrïon sente la rabbia.
35
Et come la via nostra e ’l duro et fello
destin ne trasse, uscimmo una matina
sopra la bella spiaggia, ove un castello
siede sul mar de la possente Alcina.
Trovammo lei che uscita era di quello,
et stava sola in ripa alla marina;
et senza rete et senza hamo trahea
tutti li pesci al lito che volea.
36
Corron veloci i scrignuti Delphini,
a bocca aperta segue il grosso Tonno;
li Capidogli e li Vécchi marini
vengon turbati dal lor pigro sonno;
Muli, Salpe, Salmoni e Coracini
vengono a schiere in più fretta che ponno;
Pistrici, Phisiteri, Orche et Balene
escon del mar con monstrüose schiene.
37
Vedemo una Balena, la maggiore
che mai per tutto ’l mar veduta fosse:
undece passi e più dimostra fuore
de l’onde salse le spallaccie grosse.
Mi fa pigliar con li compagni errore
vederla ferma et che mai non si scosse:
ch’ella sia una isoletta si credemo,
così distante ha l’un da l’altro estremo.
38
Alcina i pesci uscir facea de l’acque
con semplici parole et puri incanti.
Con la fata Morgana Alcina nacque,
io non so dir s’a un parto o dopo o inanti.
Guardommi Alcina, et subito le piacque
l’aspetto mio, come mostrò a’ sembianti;
et pensò con astutia et con ingegno
tôrme a’ compagni, et riuscì ’l disegno.
39
Ne venne incontra con allegra faccia,
con modi gratïosi et reverenti,
et disse: «Cavallier, quando vi piaccia
far hoggi meco i vostri alloggiamenti,
io vi farò veder ne la mia caccia
di tutti i pesci sorti differenti:
chi scaglioso, chi molle et chi col pelo;
et saran più che non ha stelle il cielo.
40
Et se veder volesse una Sirena
che col suo dolce canto accheta ’l mare,
passiàn di qui fin su quell’altra arena,
dove a quest’hora suol sempre tornare»;
et ne mostrò quella maggior Balena
(che come io dissi) una isoletta pare.
Io che sempre fui troppo (et me n’incresce)
volontaroso, andai sopra quel pesce.
41
Rinaldo mi cennava, et similmente
Dudon, ch’io non ve andassi, et poco valse:
la fata Alcina con faccia ridente,
lasciando l’altri dua, drieto mi salse;
la Balena, all’ufficio diligente,
nuotando se n’andò per l’onde salse.
Di mia sciochezza fui presto pentito,
ma troppo mi trovai lungi dal lito.
42
Rinaldo si cacciò ne l’acqua a nuoto
per aiutarmi, et la fatica perse,
perché levossi un furïoso Noto
che d’ombra il cielo e ’l pelago coperse:
quel che di lui seguisse poi, m’è ignoto.
Alcina a confortarmi si converse;
et quel dì tutto et la notte che venne
sopra quel Mostro in mezo ’l mar mi tenne;
43
fin che venimmo a questa isola bella,
di cui gran parte Alcina ne possiede,
et l’ha usurpata ad una sua sorella
ch’el padre lor lasciò del tutto herede,
perché sola legitima havea quella;
e come alcuno information mi diede,
che pienamente instrutto era di questo,
sono quest’altre due nate di incesto.
44
E come sono inique e scelerate
et piene d’ogni vitio infame et brutto,
così quella, vivendo in castitate,
ha posto in le virtuti il suo cor tutto.
Contra lei queste dua son congiurate,
et già più d’uno exercito hanno instrutto
per cacciarla de l’isola, e ’n più volte
più di cento castella l’hanno tolte;
45
né già vi teneria spanna di terra
colei che Logistilla è nominata,
se non che quinci un fiume il passo serra
et quindi una montagna inhabitata,
sì come tien la Scotia et l’Inghilterra
il monte et la riviera separata;
né perhò Alcina né Morgana resta
che non le voglia tôr ciò che le resta.
46
Perché di vitii è questa coppia rea,
odia colei, perché è pudica et santa.
Ma per tornarti a quel ch’io ti dicea
et seguir poi com’io divenni pianta,
Alcina in gran delitie mi tenea
et del mio amor ardeva tutta quanta;
né minor fiamma nel mio cor accese
il veder lei sì bella et sì cortese.
47
Io mi godea le delicate membra:
pareami haver qui tutto il ben raccolto
che fra’ mortali in più parti si smembra,
a chi più et a chi meno e a nessun molto,
né di Francia né di altro mi rimembra;
stavami sempre a contemplar quel volto:
ogni pensiero, ogni mio bel disegno
venìa sin qui, né giva oltra quel segno.
48
Io da lei altrotanto o più amato ero:
Alcina più non si curava d’altri;
havea lasciato ogni amator primiero,
che nanzi a me ben ve ne fur de li altri.
Me suo compagno, et me suo consigliero,
et me fe’ quel che commandava a gli altri;
a me credeva, a me si riportava,
né notte o dì con altri mai parlava.
49
Deh! perché vo le mie piaghe toccando
senza speranza poi di medicina?
perché l’havuto ben vo rimembrando
quando io patisco estrema disciplina?
Quando credetti esser felice, e quando
sperai che amar più me devesse Alcina,
el cor che m’havea dato si ritolse,
e ad altro nuovo amor tutta si volse.
50
Connobbi tardi il suo mobil ingegno,
usato amar et disamar a un punto.
Non ero stato oltra duo mesi in regno
che un nuovo amante al luoco mio fu assunto.
Da sé cacciommi la fata con sdegno,
et da la gratia sua m’hebbe disgiunto:
et seppi poi che tratti a simil porto
havea mill’altri amanti, et tutti a torto.
51
Et perché essi non vadano pel mondo
di lei narrando la vita lasciva,
chi qua chi là, per lo terren fecondo
li muta, altri in Abete, altri in Oliva,
altri in Palma, altri in Cedro, altri (secondo
che vedi me) su questa verde riva,
altri in liquido fonte, alcuni in fera,
come più aggrada a quella fata altiera.
52
Hor tu che sei per non usata via,
signor, venuto al’Isola fatale,
acciò che alcun amante per te sia
converso in pietra o in onda, o fatto tale;
tu harai d’Alcina scettro et signoria,
et serai lieto sopra ogni mortale:
ma pensa et certo sii giungere al passo
d’entrar in fera o in fonte o in legno o in sasso.
53
Io te n’ho dato volentieri aviso;
non ch’io mi creda che debbia giovarte;
pur meglio fia che non vadi improviso
et de’ costumi suoi tu sappia parte;
che forse, come è differente il viso,
è differente anchor l’ingegno et l’arte.
Tu saprai forse riparar al danno,
quel che saputo mill’altri non hanno. –
54
Ruggier, che connosciuto havea per fama
il duca Astolfo, et che sapea com’era
cugin di quella donna che tant’ama,
si dolve assai vedendo in che maniera
mutato havesse in steril pianta et grama,
per gran malìa, l’humana forma vera;
et dato aiuto volentier gli harebbe
se sapea come, tanto gli ne ’ncrebbe.
55
Gli rese molte gratie, et dimandolli
se strada v’era ch’al regno guidassi
di Logistilla, o per piano o per colli,
sì che per quel d’Alcina non andassi.
Che ve n’era una, da quel Mirto folli
risposto, lunga et piena d’aspri sassi,
s’andando un poco inanzi alla man destra,
salisse il poggio invêr la cima alpestra;
56
ma che non pensi già che seguir possa
il suo camin per quella strada troppo:
incontro havrà di gente ardita, grossa
et fiera compagnia, con duro intoppo;
Alcina ve li tien per muro et fossa
a chi volesse uscir fuor del suo groppo.
Ruggier quel Mirto ringratiò del tutto,
poi da lui si partì dotto et instrutto.
57
Venne al cavallo, et lo disciolse et prese
per le redine, et drieto se lo trasse;
né come fece prima più l’ascese,
perché mal grado suo non lo portasse.
Seco pensava come nel paese
di Logistilla a salvamento andasse;
era disposto et fermo usar ogni opra
che non gli havesse imperio Alcina sopra.
58
Pensò di rimontar su ’l suo cavallo
et per l’aria spronarlo a nuovo corso;
ma dubitò di far poi maggior fallo,
che troppo mal quel gli ubidiva al morso.
– Io passarò per forza, s’io non fallo
(dicea tra sé), – ma vano era il discorso.
Non fu duo miglia lungi alla marina,
che la bella città vide d’Alcina.
59
Lontan si vide una muraglia lunga
che gira intorno, et gran paese serra;
et par che la sua altezza al ciel s’aggiunga
e d’oro sia da l’alta cima a terra.
Alcun dal mio parer qui si dilunga
et dice che gli è alchimia; et forse ch’erra,
et ancho forse meglio di me intende:
a me par oro, poi che sì risplende.
60
Come fu presso alle sì ricche mura,
che ’l mondo altre non ha de la lor sorte,
lasciò la strada che per la pianura
ampla e diritta andava alle gran porte;
et a man destra, a quella più sicura
ch’al monte gìa, piegossi il guerrier forte:
ma presto ritrovò l’iniqua frotta,
dal cui furor gli fu turbata et rotta.
61
Non fu veduta mai più strana torma,
più monstrüosi volti et peggio fatti:
alcun’ dal collo in giù d’huomini han forma
col viso poi di can, di simie o gatti;
stampano alcun’ co piè caprigni l’orma,
alcuni son centauri agili et atti;
son gioveni impudenti et vecchi stolti,
chi nudi et chi di strane pelli involti.
62
Chi senza freno s’un caval galoppa,
chi lento va con l’asino o col bue;
altri salisce ad un centauro in groppa,
molti hanno sotto aquile, struzzi et grue;
ponsi altri a bocca il corno, altri la coppa;
chi femina è, chi maschio, e chi amendue;
chi porta uncino, chi scala di corda,
chi pal di ferro et chi una lima sorda.
63
Di questi il capitano si vedea
c’havea gonfiato il ventre, e ’l viso grasso;
et sopra una testugine sedea
che con gran tardità mutava il passo.
Havea di qua e di là chi lo reggea,
perché egli era ebro et tenea ’l ciglio basso;
altri la fronte gli sciugava e ’l mento,
altri i panni scuotea per fargli vento.
64
Un, c’havea come noi da’ piedi al ventre
et tutto ’l resto simile ad un cane,
contra Ruggier abaia, acciò che egli entre
ne la città che a dietro gli rimane.
Rispose il cavallier: – Nol farò, mentre
ch’io possa sostener la spada in mane! –
et usò ’l brando a un tempo e le parole
contra colui ch’oltraggio far gli vuole.
65
Quel Monstro lui ferir vuol d’una lancia,
ma Ruggier presto se gli aventa adosso:
una stoccata gli trasse alla pancia
et fe’ la punta riuscir pel dosso.
Il scudo imbraccia, et qua et là si lancia,
ma troppo è il stuol de li aversarii grosso:
l’un quinci il punge, et l’altro quindi afferra;
egli s’arrosta, et fa lor aspra guerra.
66
L’un sin a’ denti, et l’altro sin al petto
partendo va di quella iniqua razza;
ch’alla sua spada non s’oppone elmetto
né scudo, né panciera, né corazza:
ma da tutte le parti è così astretto
ch’uopo sarebbe, a voler farsi piazza
et tener da sé largo il popul reo,
haver più braccia et man che Brïareo.
67
Se di scoprir havesse havuto aviso
il scudo che già fu del Negromante,
io dico quel che abbarbagliava il viso,
quel che all’arcione havea lasciato Atlante,
subito haria quel brutto stuol conquiso
et fattosel cader cieco dinante;
et forse ben, che desprezzò quel modo,
perché virtude usar vòlse, et non frodo.
68
Sia quel che può, più presto vuol morire
che rendersi prigion a sì vil gente.
Eccoti intanto dala porta uscire
del muro, ch’io dicea d’oro lucente,
due giovane ch’a’ gesti et al vestire
non eran da stimar nate humilmente,
né da pastor nodrite con disagi,
ma in le delitie di real palagi.
69
L’una et l’altra sedea s’un Lïocorno
candido più che candido Armelino;
l’una et l’altra era bella et di sì adorno
habito, et modo tanto pellegrino,
che riguardando et contemplando intorno
bisognariase havere occhio divino
a far tra lor giudicio; et tal saria
Beltà, s’havesse forma, et Liggiadria.
70
L’una et l’altra n’andò dove nel prato
Ruggier oppresso era dal stuol villano.
Tutta la turba si levò da lato;
et quelle al cavallier porser la mano,
che tinto in viso di color rosato
le donne ringratiò de l’atto humano:
et fu contento (compiacendo loro)
di ritornarsi a quella porta d’oro.
71
L’adornamento che s’aggira sopra
la bella porta, et sporge un poco inante,
parte non ha che tutta non si copra
de le più rare gemme di Levante.
Da quattro parti si riposa sopra
grosse colonne d’integro Diamante:
o vero o falso ch’all’occhio risponda,
non è cosa più bella o più gioconda.
72
Su per la soglia et fuor per le colonne
correan scherzando lascive Donzelle
che, se i rispetti debiti alle donne
servassen più, sarian forse più belle.
Tutte vestite eran di verdi gonne
et coronate di frondi novelle:
queste, con molte offerte et con buon viso,
Ruggier fecero intrar nel paradiso:
73
che si può ben così nomar quel luoco
ove mi credo che nascesse Amore.
Non vi si sta se non in danza e ’n giuoco,
e tutte in festa vi si spendon l’hore:
pensier canuto né molto né poco
si può quivi albergare in alcun core;
non entra quivi disagio né inopia,
ma vi sta ognhor col corno pien la Copia.
74
Qui, dove con serena et lieta fronte
par ch’ognhor rida il gratïoso Aprile,
gioveni et donne son: qual presso a fonte
canta con dolce e dilettevol stile;
qual d’un arbor all’ombra e qual d’un monte
o giuoca o danza o fa cosa non vile;
et qual, lungi da li altri, a un suo fedele
discopre l’amorose sue querele.
75
Per le cime de i Pini e de li Allori,
de l’alti Faggi e de l’hirsuti Abeti,
volan scherzando i pargoletti Amori,
de lor vittorie altri godendo lieti,
altri pigliando, a saettare i cori,
la mira quindi, altri tendendo reti;
chi tempra i strali ad un ruscel più basso
e chi li agguzza ad un volubil sasso.
76
Quivi a Ruggier un gran corsier fu dato,
forte et gagliardo, et tutto di pel sauro,
c’havea ’l bel guarnimento riccamato
di pretïose gemme et lucido auro;
et fu lasciato in guardia quel alato,
quel che solea ubidire al vecchio Mauro,
a un giovene che drieto lo menassi
al buon Ruggier con men frettosi passi.
77
Quelle due belle giovane amorose
c’havean Ruggier da l’empio stuol diffeso,
da l’empio stuol che dianzi se gli oppose
su quel camin c’havea a man destra preso,
gli dissero: – Signor, le virtüose
opere vostre che già habbiamo inteso
ne fanno ardite, che l’aiuto vostro
vi chiederemo a beneficio nostro.
78
Noi trovaren tra via presto una lama,
che fa due parti di questa pianura.
Una crudel, che Eriphilla si chiama,
difende il ponte, et sforza e inganna et fura
chiunque andar ne l’altra ripa brama;
et ella è gigantessa di statura,
li denti ha lunghi et venenoso il morso,
acute l’ugne, et graffia come un Orso.
79
Oltra che sempre ne turbi il camino,
che libero serìa se non fusse ella,
spesso, scorrendo per tutto il giardino,
va disturbando hor questa cosa hor quella.
Sappiate che del populo assassino
che v’assalì inanzi alla porta bella
molti suoi figli son, tutti seguaci,
empii, com’ella, inhospiti et rapaci. –
80
Ruggier rispose: – Non ch’una battaglia,
ma per voi serò pronto a farne cento:
di mia persona (in tutto quel che vaglia)
fatene voi secondo il vostro intento;
che la cagion ch’io vesto piastre e maglia
non è per guadagnar terre né ariento,
ma sol per farne beneficio altrui,
tanto più a belle donne come vui. –
81
Le gentil donne gratie referiro
degne d’un cavallier, come quell’era:
et così ragionando ne veniro
dove videro il ponte et la rivera;
et di Smiraldo ornata et di Zafiro
su l’arme d’or, vider la donna altiera.
Ma dirvi in l’altro canto differisco
come Ruggier con lei si pose al risco.

CANTO SETTIMO

1
Chi va lontan da la sua patria vede
cose, da quel che già credea, lontane,
che narrandole poi non se gli crede
et stimato bugiardo ne rimane;
che ’l sciocco vulgo non vuol mai dar fede
a cose che non veggia et habbia in mane:
per questo io so che l’inexperïenza
farà al mio canto dar poca credenza.
2
Poca o molta ch’io v’habbia, non bisogna
ch’io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro:
basta ch’a voi non parerà menzogna,
che ’l lume del discorso havete chiaro;
et a voi soli ogni mio intento agogna
che ’l frutto sia di mie fatiche caro.
Io vi lasciai ch’el ponte et la rivera
vider, ch’in guardia havea Eriphilla altiera.
3
Quell’era armata del più fin metallo,
et quel di varie gemme havea distinto:
di rubin rosso e chrysolitho giallo,
verde smeraldo et di flavo hiacyntho.
Era montata, ma non a cavallo,
e ’n vece di cavallo ella havea spinto
un lupo al ponte ove si passa il fiume,
c’havea la sella fuor d’ogni costume.
4
Non credo ch’un sì grande Apulia n’habbia:
egli era grosso et alto più d’un bue;
non gli facea spiumar con freno labbia,
né so come lo tegna a voglie sue.
La sopravesta di color di sabbia
su l’arme havea la maledetta lue:
fuor che ’l color, quasi era de la sorte
ch’usan prelati in la Romana corte;
5
et portava nel scudo et sul cimero
una gonfiata et venenosa botta.
Le donne la mostraro al cavalliero,
che già di qua dal ponte era ridotta
per far lor onta e rompere il sentiero,
come ad alcuni usata era talhotta.
Ella a Ruggier, che torni adietro, grida;
quel piglia un’hasta et la minaccia et sfida.
6
La Gigantessa a speronar è presta
l’horribil Lupo, et ne l’arcion si serra;
da l’altra parte, con la lancia in resta,
ne vien Ruggier et fa tremar la terra.
La lancia di Eriphilla in pezzi resta;
il buon Ruggier lei sotto l’elmo afferra,
e de l’arcion con tal furor la caccia
che la riporta indietro oltra sei braccia.
7
Et già (tratta la spada c’havea cinta)
venìa a levarne la testa superba:
et ben lo potea far, che come estinta
Eriphilla giacea tra’ fiori e l’herba;
ma le donne gridâr: – Basti sia vinta,
senza pigliarne altra vendetta acerba.
Ripon, cortese cavallier, la spada;
passiamo il ponte et seguitiàn la strada. –
8
Alquanto malagevole et aspretta
per mezo un bosco presero la via,
che oltra che sassosa fusse et stretta,
non poco ratta alla collina gìa.
Ma poi che furo ascesi in su la vetta,
usciro in spatïosa prateria,
dove il più bel palazzo e ’l più giocondo
vider che mai fusse veduto al mondo.
9
La bella Alcina venne un pezzo inante
verso Ruggier fuor de le prime porte,
et lo raccolse in signoril sembiante
in mezo bella et honorata corte.
Da tutti li altri tanto honore et tante
reverentie fur fatte al guerrier forte,
che non ne potrian far più se tra loro
fusse Dio sceso dal superno choro.
10
Non tanto il bel palazzo era excellente
perché vincesse ogn’altro di ricchezza,
quanto che richiudea piacevol gente
dotata di costumi et gentilezza.
Poco era l’un da l’altro differente
de la fiorita età, de la bellezza:
sola di tutti Alcina assai più bella
splendea, come più il Sol fa d’ogni stella.
11
Di persona era tanto ben formata,
quanto me’ pinger san pittori industri,
con bionda chioma lunga et annodata:
oro non è che più risplenda et lustri.
Spargeasi per la guancia delicata
misto color di rose et di ligustri;
di terso avorio era la fronte lieta,
che finia il spatio suo con giusta meta.
12
Sotto duo negri et sottilissimi archi
son duo negri occhi, anzi duo chiari Soli,
pietosi a riguardar, a mover parchi,
intorno cui par ch’Amor scherzi et voli,
et ch’indi tutta la pharetra scarchi
et che visibilmente i cori involi;
quindi il naso per mezo il viso scende,
che non ritrova Invidia ove l’emende.
13
Sotto quel sta, quasi fra due vallette,
la bocca sparsa di natio ginabro;
quivi duo filze son di perle elette
che chiude et apre un bello et dolce labro:
quindi escon le cortesi parolette
da render molle ogni cor rozo et scabro;
quivi si forma quel suave riso,
ch’apre a sua posta in terra il paradiso.
14
Bianca neve è ’l bel collo, e ’l petto latte;
il collo è tondo, il petto colmo et largo:
duo pome acerbe, et pur d’avorio fatte,
vengono et van come onda al primo margo
quando piacevol aura il mar combatte;
non potria l’altre parti veder Argo:
non che di fuor perhò il giudicio manchi,
ch’in mezo è stretta, et rilevata a’ fianchi.
15
Come le braccia habbian lunghezza giusta,
et la candida man, spesso si vede:
lunghetta alquanto et di larghezza angusta,
dove né nodo appar, né vena excede;
si vede al fin de la persona augusta
il piccolino et ritondetto piede.
Li angelici sembianti nati in cielo
non si ponno celar sotto alcun velo.
16
Havea in ogni sua parte un laccio teso,
o parli o rida o canti o passo muova:
né maraviglia è se Ruggier n’è preso,
che tanto a sé benigna la ritrova.
Quel che di lei già havea dal Mirto inteso,
quant’è perfida et ria, poco gli giova;
ch’inganno o tradimento non gli è aviso
che possa star con sì suave riso.
17
Anzi pur creder vuol che da costei
fusse converso Astolfo in su l’arena
per suoi deportamenti ingrati e rei,
et sia degno di questa et di più pena:
et tutto quel ch’udito havea di lei
stima esser falso; et che vendetta mena,
et mena astio et invidia lo dolente
a biasmar lei, di quel che tutto mente.
18
La bella donna che cotanto amava
novellamente gl’è dal cor partita;
che per incanto Alcina gli lo lava
d’ogni antica amorosa sua ferita,
et di lei sola et del suo amor lo grava;
in quello essa riman sola sculpita:
sì che scusar il buon Ruggier si deve
se si mostrò qui mal constante et leve.
19
Nanzi alla mensa Cìthare, Arpe et Lyre,
et diversi altri dilettevol suoni
faceano intorno l’aria tintinire
d’harmonia dolce et di concenti buoni;
non vi mancava chi, cantando, dire
d’Amor sapesse gaudi et passïoni,
o con inventïoni et poesie
rappresentasse grate fantasie.
20
Qual mensa triomphante et suntüosa
di qual si voglia successor di Nino,
o qual mai tanto celebre et famosa
di Cleopatra al vincitor latino,
si potrebbe uguagliare in ogni cosa
a questa, ove s’honora il paladino?
Tal non cred’io che s’apparecchi dove
ministra Ganymede inanzi a Giove.
21
Tolte che fur le mense et le vivande,
facean (sedendo in cerchio) un giuoco lieto:
che ne l’orecchio l’un l’altro dimande
(come gli piace più) qualche secreto;
il che a gli amanti fu commodo grande
ragionar del suo amor senza divieto:
e furon lor conclusïoni estreme
di ritrovarsi quella notte insieme.
22
Finîr quel giuoco presto, et molto inanzi
che non solea là dentro esser costume;
con torchi allhora i paggi, entrati inanzi,
le tenebre cacciâr con molto lume:
tra bella compagnia dietro e dinanzi
andò Ruggiero a ritrovar le piume
in una adorna et frescha cameretta,
per la miglior di tutte l’altre eletta.
23
Et poi che di confetti et di buon vini
di nuovo fatti fur debiti inviti,
et partîr li altri, riverenti et chini,
et alle stanze lor tutti son iti,
Ruggier entrò ne’ profumati lini,
che pareano di man d’Arachne usciti,
tenendo tuttavia l’orecchie attente
s’anchor venir la bella donna sente.
24
Ad ogni piccol moto ch’egli udiva
(sperando che fusse ella) il capo alzava:
sentir credeasi, e spesso non sentiva;
poi, del suo errore accorto, sospirava;
talvolta uscia del letto et l’uscio apriva,
guatava fuori, et nulla vi trovava:
et maledì ben mille volte l’hora
che facea al trappassar tanta dimora.
25
Tra sé dicea sovente: – Hor si parte ella; –
et cominciava a noverar i passi
ch’esser potean da la sua stanza a quella
donde aspettando sta che Alcina passi;
e questi et altri (prima che la bella
donna vi sia) vani disegni fassi;
teme di qualche impedimento spesso,
che tra ’l frutto et la man non gli sia messo.
26
Alcina, poi ch’a’ pretïosi odori
dopo gran spatio pose alcuna meta,
venuto ’l tempo che più non dimori,
hormai ch’in casa era ogni cosa cheta,
de la camera sua sola uscì fuori;
et tacita n’andò per via secreta
dove Ruggier, con palpitante core,
aspettata l’havea forse quattro hore.
27
Come se vide il successor d’Astolfo
sopra apparir quelle ridenti stelle,
come habbia ne le vene acceso solfo,
non par che capir possa ne la pelle.
Hor sin agli occhi ben nuota nel golfo
de le delitie et de le cose belle:
salta del letto e ’n braccio la raccoglie,
né può tanto aspettar ch’ella si spoglie,
28
ben che né gonna né faldiglia havesse;
che venne avolta in un liggier zondado
che sopra una camicia ella si messe,
suttilissima et bianca al summo grado.
Come Ruggier abbracciò lei, gli cesse
il manto, et restò ’l vel suttile et rado,
che più non la copria dinanzi e dietro,
che rosa o giglio un bel vaso di vetro.
29
Né così strettamente Hedera preme
pianta ove intorno abbarbicata s’habbia,
come si stringon li duo amanti insieme,
cogliendo il fior del spirto su le labbia,
che più suave non esce di seme
ch’India nutrisca in l’odorata sabbia:
del gran piacer c’havean, lor dicer tocca,
che spesso havean più d’una lingua in bocca.
30
Queste cose là dentro eran secrete,
o se pur non secrete, almen tacciute;
che raro fu tener le labbia chete
biasmo ad alcun, ma ben spesso virtute.
Tutte proferte et accoglienze liete
fanno a Ruggier quelle persone astute:
ognun lo reverisce et se gl’inchina,
che così vuol l’innamorata Alcina.
31
Non è diletto alcun che di fuor reste:
anzi son tutti in l’amorosa stanza;
e due e tre volte il dì mutano veste,
fatte hor ad una, hora ad un’altra usanza.
Spesso in conviti, et sempre stanno in feste,
in giostre, lotte, scene, in bagno, in danza.
Hor presso ai fonti, all’ombre de’ poggetti,
leggon d’antiqui l’amorosi detti;
32
hor per l’ombrose valli et lieti colli
vanno cacciando le paurose lepri;
hor con sagaci cani i fagian folli
con strepito uscir fan di stoppie e vepri;
hor a’ tordi lacciuoli, hor veschi molli
tendon tra li odoriferi ginepri;
hor con hami inescati et hor con reti
turbano a’ pesci i grati lor secreti.
33
Stava Ruggier in tanta gioia et festa
mentre Carlo in travaglio et Agramante,
di cui l’historia io non vorrei per questa
porre in oblio, né lasciar Bradamante,
che con travaglio e con pena molesta
pianse più giorni il disïato amante,
c’havea per strade disusate et nuove
veduto portar via, né sapea dove.
34
Di costei prima che de l’altri dico,
che molti giorni andò cercando invano
pei boschi ombrosi et per lo campo aprico,
per ville, per città, per monte e piano;
né mai puoté saper del caro amico,
che di tanto intervallo era lontano.
Ne l’hoste saracin spesso venìa,
né mai del suo Ruggier puoté haver spia.
35
Ogni dì ne dimanda a più di cento,
né trova alcun che mai ne le ragioni.
D’alloggiamento va in alloggiamento,
cercandone e trabacche et padiglioni:
et lo può far; che senza impedimento
passa tra cavallieri et tra pedoni,
mercé all’annel che fuor d’ogni human uso
la fa sparir quando l’è in bocca chiuso.
36
Né può né creder vuol che morto sia,
perché di sì grande huom l’alta ruina
da l’onde Idaspe udita si saria
fin dove il Sol a riposar declina.
Non sa s’è in cielo o ’n terra, né che via
possa tener: et pur sera et matina
lo va cercando, et per compagni mena
suspiri et pianti et ogni acerba pena.
37
Pensossi al fin tornar alla spelonca
dove eran l’ossa di Merlin propheta,
et gridar tanto intorno alla sua conca
che ’l freddo marmo si movesse a pieta;
che se vivea Ruggiero, o gli havea tronca
l’alta necessità la vita lieta,
si sapria quindi: et poi si appigliarebbe
a quel miglior consiglio che n’harebbe.
38
Con questa intentïon prese il camino
verso li monti prossimi a Pontiero,
dove la vocal tomba di Merlino
era nascosa in luoco alpestro et fiero.
Ma quella Maga, che sempre vicino
tenuto a Bradamante havea ’l pensiero,
quella vi dico, che in la bella grotta
l’havea de la sua stirpe instrutta e dotta;
39
quella benigna et saggia incantatrice
che sempre tenea cura di costei,
sapendo che devea progenitrice
esser di gran signori et semidei,
ciascun dì vuol saper che fa, che dice,
et getta ciascun dì sorte per lei:
di Ruggier liberato e poi perduto,
e dove in India andò, tutto ha saputo.
40
Veduto l’havea ben su quel cavallo
che regger non potea, ch’era sfrenato,
scostarse di lunghissimo intervallo
per sentier periglioso e non usato;
e ben sapea che stava in giuoco e ’n ballo,
e in cibo e in otio molle e delicato,
né più memoria havea del suo signore,
né de la donna sua, né del suo honore.
41
E così il fior de li belli anni suoi
in lunga inertia haver potria consunto
sì gentil cavallier, per dever poi
perdere il corpo e l’anima in un punto;
e quel odor, che sol riman di noi
poscia ch’el resto fragile è defunto,
che tra’ l’huom di sepolchro e ’n vita serba,
gli serìa stato o tronco o svelto in herba.
42
Ma quella gentil Maga, che più cura
n’havea ch’egli medesmo di se stesso,
pensò di trarlo per via alpestre e dura
alla vera virtù, mal grado d’esso:
come excellente medico, che cura
con ferro e fuoco e con veneno spesso,
che se ben molto da principio offende,
poi giova al fine, e gratia se gli rende.
43
Ella non gli era facile e indulgente,
né fattane orba di superchio amore
sì come Atlante, a cui tollea la mente
l’esserne troppo tenero di core:
più presto egli volea che lungamente
vivesse e senza fama e senza honore,
che con tutta la laude che sia al mondo
mancasse un anno al suo viver giocondo.
44
L’havea mandato all’isola d’Alcina,
perché oblïasse l’arme in quella corte;
e come Mago di summa dottrina
ch’usar sapea l’incanti in ogni sorte,
havea il cor stretto di quella Regina
ne l’amor d’esso d’un laccio sì forte,
ch’ella nol serà mai per poter sciorre
s’invecchiasse Ruggier più di Nestorre.
45
Hor tornando a colei ch’era presaga
di quanto de’ avenir, dico che tenne
la dritta via dove in l’errante et vaga
figlia d’Amone ad incontrar si venne;
che tosto che connobbe la sua Maga,
tutta la pena che prima sostenne
mutò in speranza: e quella tutto il vero
le disse, ove condotto era Ruggiero.
46
La Giovane rimase quasi morta,
quando udì ch’el suo amante era sì lunge;
e più, che nel suo amor periglio porta
se gran rimedio e subito non giunge:
ma la benigna Maga la conforta,
e presto pon l’impiastro ove il duol punge;
e le promette e giura in pochi giorni
far che Ruggiero a riveder lei torni.
47
– Da che, Donna (dicea), l’annel hai teco
che val contra ogni magica fattura,
io non ho dubbio alcun, che s’io l’arreco
là dove Alcina ogni tuo ben ti fura,
ch’io non le rompa il suo disegno, e meco
non ti rimeni la tua dolce cura:
questa sera andarò ne la prima hora,
e serò in India anchor nanzi alla aurora. –
48
E seguitando, del modo narrolle
che disegnato havea d’adoperarlo
per trar del regno effeminato e molle
il suo amatore, e in Francia ritornarlo.
Bradamante l’annel del dito tolle;
né solamente havria voluto darlo,
ma dato il core e dato havria la vita
pur che n’havesse il suo Ruggiero aita.
49
Le dà l’annello e se le raccomanda,
e più le raccomanda il suo Ruggiero
a cui per lei mille saluti manda;
poi prese vêr Provenza altro sentiero.
Andò l’Incantatrice a un’altra banda;
e per porre in effetto il suo pensiero
un palafren fece apparir la sera,
c’havea un piè rosso e l’altra parte nera.
50
Credo fusse un Alchino o un Farfarello
che da l’inferno in quella forma trasse;
e scinta e scalza montò sopra quello
a chiome sciolte e horribilmente passe:
ma ben di dito si levò l’annello,
perché l’incanti suoi non le vietasse;
poi con tal fretta andò, che la matina
se ritrovò ne l’isola d’Alcina.
51
Quivi mirabilmente trammutosse,
che quasi un palmo alzò la sua statura,
e fe’ le membra a proportion più grosse;
e restò a punto di quella misura
che si pensò ch’el Negromante fosse,
quel che nutrì Ruggier con sì gran cura;
vestì di lunga barba le mascelle,
rugò la fronte e s’increspò la pelle.
52
Di faccia, di parole e di sembiante
sì lo seppe imitar, che totalmente
potea parer l’incantator Atlante.
Poi si nascose, e tanto pose mente
che vide da Ruggier la vigilante
e sollicita guardia farsi absente:
io dico Alcina, che di stare o gire
senz’esso un’hora potea mal patire.
53
Soletto lo trovò, come lo volle,
che si godea il matin fresco e sereno
lungo un bel rio che discorrea d’un colle
verso un laghetto limpido et ameno.
Il suo vestir delitïoso e molle
tutto era d’otio e di lascivia pieno,
che di sua man gli havea di seta e d’oro
tessuto Alcina con sottil lavoro.
54
Di ricche gemme un splendido monile
gli discendea dal collo in mezo il petto;
in l’uno e in l’altro già tanto virile
braccio girava un lucido cerchietto;
gli havea forato un fil d’oro sottile
ambe l’orecchi, in forma d’annelletto;
e due gran perle pendevano quindi,
qual mai non hebbon li Arabi né l’Indi.
55
Humide havea le ben nodate chiome
de i più suavi odor che sieno in prezzo;
tutto ne’ gesti era amoroso, come
fusse in Valenza a servir donne avezzo;
non era in lui di sano altro ch’el nome,
corrotto tutto il resto, e più che mézzo:
così Ruggier fu ritrovato, tanto
da l’esser suo mutato per incanto.
56
Ne la forma d’Atlante se gli affaccia
colei, che la sembianza ne tenea,
con quella grave e venerabil faccia
che Ruggier sempre reverir solea,
con quel sguardo pien d’ira e di minaccia
che spesso da fanciul temuto havea,
dicendo: – È questo dunque il frutto ch’io
lungamente atteso ho del sudor mio?
57
Di medolle di Tigri e di Leoni
ti porsi io dunque li primi alimenti;
t’ho per caverne et horridi buroni
fanciullo avezzo a strangolar serpenti,
e trovar l’Orse entro le sue magioni
et a vivi Cingial trar spesso e’ denti,
acciò che dopo tanta disciplina
tu sii l’Adone o l’Atyde d’Alcina?
58
È questo quel che l’infallibil stelle,
le sacre fibre e li accoppiati punti,
responsi, augùri, sogni e tutte quelle
sorti, ove troppo ho i studii miei consunti,
di te promesso sin da le mammelle
m’havean, come quest’anni fusser giunti:
ch’in arme l’opre tue così preclare
esser devean, che serian senza pare?
59
Quest’è ben veramente alto principio
onde si può sperar che serai presto
un Pyrrho, un Alexandro, un Iulio, un Scipio!
Chi potea, ohimè! di te mai creder questo,
che ti facessi d’Alcina mancipio?
E perché ognun lo veggia manifesto,
al collo et alle braccia hai la catena
di ch’ella a voglia sua preso ti mena.
60
Se non ti movon le tue proprie laudi
e l’opre excelse a che t’ha ’l cielo eletto,
la tua successïon perché defraudi
del ben che mille volte i’ t’ho predetto?
Deh, perch’el ventre eternamente claudi
di quella in ch’el ciel vuol che sia concetto
del seme tuo la glorïosa prole,
ch’esser de’ al mondo più chiara ch’el Sole?
61
Non divietar che le più nobil alme
che sian formate ne l’eterne idee
di tempo in tempo habbian corporee salme
dal ceppo che radice in te haver dee!
Non divietar mille triomphi e palme
con che, dopo aspri danni e piaghe ree,
tuoi figli, tuoi nipoti e successori
Italia tornaran ne i primi honori!
62
Non ch’a piegarti a questo tante e tante
anime belle haver devesson pondo,
che chiare, illustri, inclyte, invitte e sante
son per fiorir da l’arbor tuo fecondo;
ma una sol coppia esser devria bastante:
Hippolyto e il fratel; che pochi il mondo
ha tali havuti anchor sin al dì d’hoggi
per tutti i gradi onde a virtù si poggi.
63
Io solea più di questi dui narrarte
ch’i’ non facea di tutti li altri insieme;
sì perché essi terran soli più parte
che tutto il resto in le virtù supreme;
sì perché al dir di lor mi vedea darte
più attentïon che d’altri del tuo seme:
vedea goderti che sì chiari heroi
esser devean de li nipoti tuoi.
64
Che ha costei che t’hai fatto regina,
che non habbian mill’altre meretrici?
costei che di tant’altri è concubina,
ch’al fin sai ben s’ella suol far felici!
Ma perché tu connosca chi sia Alcina
levatone le fraudi e li artifici,
tien questo annello in dito et torna ad ella,
ch’aveder ti potrai come sia bella. –
65
Ruggier si stava vergognoso e muto
mirando in terra, e mal sapea che dire;
a cui la Maga nel dito minuto
pose l’annello, e lo fe’ risentire.
Come Ruggier in sé fu rivenuto,
di tanto scorno si vide assalire,
ch’esser vorria sotterra mille braccia,
ch’alcun veder non lo potesse in faccia.
66
Ne la sua prima forma in un instante,
così parlando, la Maga rivenne;
né bisognava più quella d’Atlante,
seguitone l’effetto per che venne.
Per dirvi quel ch’io non vi dissi inante,
costei Melissa nominata venne
c’hor diè a Ruggier di sé notitia vera,
et dissegli a che effetto venuta era;
67
mandata da colei, che d’amor piena
non potea più patir sì lunga absentia,
per liberarlo da quella catena
di che lo cinse magica violenza:
e preso havea d’Atlante di Carena
la forma per trovar meglio credenza;
ma poi che a sanità l’ha homai ridutto,
gli vuol aprir e far che veggia il tutto.
68
– Quella donna gentil che t’ama tanto,
quella che del tuo amor degna sarebbe,
a cui (se non ti scorda) tu sai quanto
tua libertà, da lei servata, debbe,
questo annel che ripara ad ogni incanto
ti manda: e così il cor mandato havrebbe,
s’havesse havuto il cor così virtute,
come l’annello, atta alla tua salute. –
69
E seguitò narrandogli l’amore
che Bradamante gli ha portato e porta;
di quella insieme commendò il valore,
in quanto il vero e affettïon comporta;
et usò modo e termine migliore
che si convenga a messaggiera accorta:
et in quel odio Alcina a Ruggier pose,
in che soglionse haver l’horribil cose.
70
In odio gli la pose, anchor che tanto
l’amasse dianzi: e non vi paia strano
quando ’l suo amor per forza era d’incanto,
che essendovi l’annel, rimase vano.
Fece l’annel palese anchor, che quanto
di beltà Alcina havea, tutto era extrano;
extrano havea, e non suo, dal piè alla treccia:
el bel ne sparve, e le restò la feccia.
71
Come fanciul che corruttibil frutto
ripone, e poi si scorda u’ l’ha riposto,
e dopo molti giorni è ricondutto
là dove truova a caso il suo deposto,
si maraviglia a rivederlo tutto
putrido e guasto, e non come fu posto;
e dove amarlo e caro haver solia,
l’odia, sprezza, n’ha schivo, e getta via:
72
così Ruggier, poi che Melissa fece
ch’a riveder se ne tornò la fata
con quel annello inanzi a cui non lece
(quando s’ha in dito) usar opra incantata,
ritrova, contra ogni sua stima, invece
de la bella, che dianzi havea lasciata,
donna sì laida, che la terra tutta
né la più vecchia havea né la più brutta.
73
Pallido, crespo et macilente havea
Alcina il viso, el crin raro et canuto;
sua statura a sei palmi non giungea,
ogni dente di bocca era caduto;
che più di Hecuba et più de la Cumea,
et havea più d’ogn’altra mai vivuto:
ma sì usò l’arti al nostro tempo ignote,
che bella et giovinetta parer puòte.
74
Giovane et bella si facea con arte,
sì che molti ingannò come Ruggiero;
ma l’annel venne a interpetrar le charte,
che già molti anni havean celato il vero:
miracol non è dunque se si parte
de l’animo a Ruggier ogni pensiero
c’havea d’amar Alcina, hor che la trova
in guisa che sua fraude non le giova.
75
Ma (come l’avisò Melissa) stette
senza mutar il solito sembiante
fin che de l’arme sue (più dì neglette)
si fu vestito dal capo alle piante;
et per non farle ad Alcina suspette
finse provar s’in esse era aiutante;
finse provar se gli era fatto grosso,
dopo alcun dì che non l’ha havute indosso.
76
Et Balisarda poi si messe al fianco
(che così nome la sua spada havea);
et quel scudo mirabile tolse ancho,
che non pur gli occhi abbarbagliar solea,
ma l’anima facea sì venir manco,
che del corpo exhalata esser parea;
lo tolse et col zondado in che trovollo,
che tutto lo copria, sel misse al collo.
77
Venne alla stalla, e fece briglia e sella
porre a un caval più che la pece nero:
così Melissa l’havea instrutto, ch’ella
sapea quanto nel corso era liggiero.
Chi lo connosce, Rabican l’appella;
et è quel proprio che col cavalliero
di cui li venti hor presso al mar fan giuoco
portò già la Balena in questo luoco.
78
Potea haver l’Hippogrypho similmente,
che presso a Rabicano era legato;
ma gli havea detto la Maga: – Habbi mente,
ch’egli è (come tu sai) troppo sfrenato. –
E gli diede intention ch’el dì seguente
lo condurebbe a-llui fuor di quel stato,
là dove ad agio poi sarebbe instrutto
come frenarlo e farlo gir per tutto;
79
né suspetto darà, se non lo tolle,
de la tacita fuga ch’apparecchia.
Fece Ruggier come Melissa volle,
ch’invisibil ognhor gli era all’orecchia:
così fingendo, del lascivo e molle
Palazzo uscì de la puttana vecchia,
e si venne accostando ad una porta
donde è la via ch’a Logistilla porta.
80
Assaltò li guardiani all’improviso
e si cacciò tra lor col ferro in mano,
e qual lasciò ferito, et qual ucciso;
e corse fuor del ponte a mano a mano:
e prima che n’havesse Alcina aviso,
di molto spatio fu Ruggier lontano.
Dirò nel altro canto che via tenne;
poi come a Logistilla se ne venne.

CANTO OTTAVO

1
Oh quante sono incantatrici! oh quanti
incantator tra noi, che non si sanno!
che con loro arti huomini e donne amanti
di sé (cangiando i visi lor) fatto hanno.
Non con spirti constretti tali incanti,
né con osservation di stelle fanno;
ma con simulation, menzogne e frodi
legano i cor d’indisolubil nodi.
2
Chi l’annello d’Angelica, o più presto
c’havesse quel de la ragion, potria
veder il proprio viso manifesto,
rimossi e fuchi e fittïon, qual sia;
e tal par bello e buon, ch’in tutto a questo
o contrario o dissimile parria.
Fu gran ventura quella di Ruggiero,
c’hebbe l’annel che gli scoperse il vero.
3
Ruggier (come io dicea) dissimulando,
su Rabican venne alla porta armato:
trovò le guardie sprovedute, e quando
tra lor fu, il brando si cacciò da lato.
Chi morto e chi a mal termine lasciando,
esce del ponte, e come havea imparato
prende al bosco la via; ma poco corre,
ch’ad un de’ servi de la fata occorre.
4
Il servo in pugno havea un augel griphagno
che volar con piacer facea ogni giorno,
hora a campagna, hora a un vicino stagno,
dove era sempre da far preda intorno;
havea da lato il can fido compagno;
cavalcava un roncin non troppo adorno:
ben pensò che Ruggier devea fuggire,
quando lo vide in tal fretta venire.
5
Et gli si fece incontra, e con altiero
sembiante dimandògli ove ne gisse.
Risponder non gli vòlse il buon Ruggiero;
perciò colui, più certo che fuggisse,
di volerlo arrestar fece pensiero,
e distendendo il braccio manco, disse:
– Che dirai tu, se subito ti giugno? –
e gli spinse l’augel ch’egli havea in pugno.
6
Quel augel vien con tal prestezza d’ale,
che non l’avanza Rabican di corso.
Del palafreno il cacciator giù sale,
e tutto a un tempo hagli levato il morso:
quel par da l’arco uno aventato strale,
di calci formidabile e di morso;
e ’l servo drieto sì veloce viene,
che par che ’l vento, anzi che ’l fuoco il mene.
7
Non vuol parere il can d’esser più tardo,
ma segue Rabican con quella fretta
con che seguir suol caprïoli il Pardo:
vergogna a Ruggier par, se non aspetta.
Voltasi a quel che vien sì a piè gagliardo,
né gli vede arme, fuor che una bacchetta,
quella con che ubidire al cane insegna:
Ruggier di trar la spada si disdegna.
8
Quel se gli appressa, et forte lo percuote;
lo morde a un tempo il can nel piede manco;
el sfrenato caval la groppa scuote
tre volte e più, né falla il destro fianco.
Gira l’augello e gli fa mille ruote,
e con l’ugna sovente il ferisce ancho;
e ’l destrier col stridor sì impaurisce,
che né alla man né al spron troppo ubidisce.
9
Ruggiero, al fin constretto, il ferro caccia;
e perché tal molestia se ne vada,
di taglio e punta quel villan minaccia,
hor li animali, e fa fischiar la spada.
Più l’importuna turba ognhor l’impaccia;
presa ha chi qua chi là tutta la strada:
vede Ruggiero il dishonore e il danno
che gli averrà, se più tardar lo fanno.
10
Sa ch’ogni poco più ch’ivi rimane,
Alcina havrà col populo alle spalle:
di trombe, di tamburi e di campane
già il strepito ribomba in ogni valle.
Gli par che se s’insanguina le mane
d’un servo disarmato troppo falle:
meglio e più breve è dunque che gli scopra
el scudo che d’Atlante era stato opra.
11
El drappo levò dunque in che coperto
(già molti giorni) il bel scudo si tenne.
Fece l’effetto mille volte experto
il lume, ove a ferir ne gli occhi venne:
resta da i sensi il cacciator deserto,
cade il cane e il ronzin, cadon le penne
ch’in aria sostener l’augel non ponno.
Lieto Ruggier li lascia in preda al sonno.
12
Alcina, c’havea intanto havuto aviso
di Ruggier, che sforzato havea la porta
e de la guardia buon numero ucciso,
fu, vinta dal dolor, per restar morta:
squarciossi i panni e si percosse il viso,
e sciocca nominosse e mal accorta;
e fece dar all’arme immantinente
e ’ntorno a sé racôr tutta sua gente.
13
E poi ne fa due parti, e manda l’una
per quella strada ove Ruggier camina;
al porto l’altra subito raguna
e imbarca, et uscir fa ne la marina:
sotto le vele aperte il mar s’imbruna.
Con questi va la disperata Alcina
che ’l desiderio di Ruggier sì rode,
che lascia sua città senza custode.
14
Non lascia alcuno a guardia del palagio:
il che a Melissa, che stava alla posta
per liberar di quel regno malvagio
la gente che in miseria v’era posta,
diede facilità, diede grande agio
di gir cercando ogni cosa a sua posta,
imagini abbruciar, sugelli tôrre,
e nodi e rombi e turbini disciorre.
15
Indi pei campi accelerando i passi,
l’antiqui amanti ch’erano a gran torma
conversi in fonti, in fere, in legni, in sassi,
ritornar fece in loro humana forma;
e quei (poi che allargati furo i passi)
tutti del buon Ruggier seguiron l’orma:
a Logistilla si salvaro, et indi
tornaro a Scythi, a Persi, a Greci, ad Indi.
16
Melissa tornò tutti in suo paese
con obligo da mai non esser sciolto.
Prima di tutti l’altri il Duca Inglese
fu per lei ritornato in human volto:
e così fe’ perché Ruggier cortese
la n’havea di buon cor pregata molto;
e lasciato l’havea l’annello anchora,
che sì a lui, per fuggir, stato util fôra.
17
A’ prieghi dunque di Ruggier, rifatto
fu ’l paladin ne la sua prima faccia.
Nulla par a Melissa d’haver fatto,
quando ricovrar l’arme non gli faccia
e quella lancia d’or, ch’al primo tratto
di sella al scontro i cavallieri caccia:
de l’Argalìa, poi fu d’Astolfo lancia,
e molto honor fe’ a l’uno e a l’altro in Francia.
18
Trovò Melissa questa lancia d’oro,
ch’Alcina havea reposta nel palagio,
e tutte l’arme che del Duca fôro
et gli fur tolte nel hostel malvagio.
Montò ’l destrier del Negromante Moro,
e Astolfo in groppa fe’ montare ad agio;
e quindi a Logistilla si condusse
d’un’hora prima che Ruggier vi fusse.
19
Tra duri sassi e folti spini gìa
Ruggiero intanto invêr la fata saggia,
di balzo in balzo e d’una in altra via
aspra, solinga, inhospita e selvaggia;
tanto che a gran fatica reuscia
su la fervida nona in una spiaggia
tra il mar e il monte, al mezodì scoperta,
arsiccia, nuda, sterile e deserta.
20
Il Sol percuote in la sponda del colle,
e del calor che si reflette adietro
in modo l’aria e l’arena ne bolle,
che saria troppo a far liquido il vetro.
Stassi cheto ogni augello all’ombra molle;
sol la cicada col noioso metro
fra i densi rami del fronzuto stelo
e valli e monti assorda, e il mare e il cielo.
21
Quivi il caldo, la sete e la fatica
che era di gir per quella via arenosa
fanno dietro alla spiaggia erma et aprica
a Ruggier compagnia grave e noiosa.
Ma perché non convien che sempre io dica,
né ch’io v’occùpi sempre in una cosa,
io lascierò Ruggiero in questo caldo
e girò in Scotia a ritrovar Rinaldo.
22
Era Rinaldo molto ben veduto
dal Re, da la figliuola e dal paese.
Poi la cagion che quivi era venuto,
più ad agio il paladin fece palese:
ch’in nome del suo Re chiedeva aiuto
e dal regno di Scotia e dal Inglese;
suggiunse, dopo li prieghi di Carlo,
al Re giuste cagion che devea farlo.
23
Dal Re, senza indugiar, gli fu risposto
che di quanto sua forza si estendea,
per utile et honor sempre disposto
di Carlo e del Imperio esser volea,
e che fra pochi dì gli harebbe posto
più cavallieri in punto che potea;
e se non ch’esso era hoggimai pur vecchio,
capitano verria del suo apparecchio.
24
Né tal rispetto anchor gli parria degno
farlo restar, se ’l figlio non havesse
che di forza, di ardire e più d’ingegno,
dignissimo era a chi ’l governo desse,
ben che non si trovasse allhor nel regno;
ma che sperava che venir devesse
mentre ch’insieme adunarebbe il stuolo,
e saria in punto al giunger del figliuolo.
25
Così mandò per tutta la sua terra
suoi thesoreri a far cavalli e gente;
navi apparecchia e munition da guerra,
vittuaglia e denar maturamente.
Venne intanto Rinaldo in Inghilterra,
e il Re nel suo partir cortesemente
insino a Beroicche accompagnollo;
e visto pianger fu quando lasciollo.
26
Spirando il vento prospero alla poppa,
monta Rinaldo, et adio dice a tutti:
la fune indi al vïaggio il nocchier sgroppa,
tanto che giunge ove, in li salsi flutti
del mar, Tamigi amareggiando intoppa;
e prese il porto, onde da lui condutti
li naviganti per camin sicuro
a vela e remi insino a Londra furo.
27
Rinaldo havea da Carlo e dal Re Othone,
che con Carlo in Parigi era assediato,
al principe di Valia commissione
per contrasegni e letere portato,
che ciò che potea far la regïone
di fanti e cavallier per ogni lato
devesse traghittar tutto a Calesse,
sì che Francia aiutar se ne potesse.
28
El principe (ch’io dico), ch’era in vece
d’Othon rimaso nel seggio reale,
a Rinaldo d’Amon tanto honor fece,
che non l’havrebbe al suo Re fatto uguale:
indi alle sue dimande satisfece;
perché a tutta la gente martïale
e di Bertagna e de l’Isole intorno
di ritrovarse al mar prefisse il giorno.
29
Signor, far mi convien come fa il buono
sonator sopra il suo instromento arguto,
che spesso muta corda e varia suono,
ricercando hor lo grave, hora l’acuto.
Mentre a dir di Rinaldo attento sono,
d’Angelica gentil m’è sovenuto,
di che lasciai ch’era da lui fuggita
e che havea riscontrato uno Eremita:
30
alquanto la sua historia vuo’ seguire.
Dissi che dimandava con gran cura
come potesse alla marina gire;
che di Rinaldo havea tanta paura,
che, non passando il mar, credea morire,
né in tutta Europa se tenea sicura;
ma l’Eremita a bada la tenea,
per gran piacer che star con essa havea.
31
Quella rara bellezza il cor gli accese
e gli scaldò le frigide medolle;
ma poi che vide che puoco gli attese
e ch’oltra soggiornar seco non volle,
di cento punte l’asinello offese,
né di sua tardità perhò lo tolle:
et poco va di passo e men di trotto,
né stender vi si vuol la bestia sotto.
32
E perché molto già slungata s’era,
l’incantator n’havea perduta l’orma;
sì che ricorse alla spelonca nera
e di demoni uscir fece una torma:
et ne sceglie uno di tutta la schiera
e del bisogno suo prima l’informa;
poi lo fa intrare adosso al corridore
che via gli porta con la donna il core.
33
E qual sagace can, nel monte usato
a volpi o lepri dar spesso la caccia,
che se la fera andar vede da un lato
ne va da un altro e par sprezzi la traccia;
tu ’l senti al varco poi, che gli è arrivato
con quella a un tempo, e la pelle le straccia:
tal l’Eremita per diversa strada
aggiugnerà la donna ovunque vada.
34
Che sia il disegno suo, ben io comprendo:
e dirollo ancho a voi, ma in altro luoco.
Angelica di ciò nulla temendo,
cavalcava a giornate, hor molto hor poco.
El demon nel caval se iva coprendo
come s’asconde alcuna volta il fuoco,
che con sì grave incendio poscia avampa,
che non s’extingue, e a pena se ne scampa.
35
Poi che la donna preso hebbe il sentiero
dietro il gran mar che li Guasconi lava,
tenendo appresso a l’onde il suo destriero
dove l’humor la via più ferma dava,
trasse il caval nel’acqua il demon fiero,
tanto che tutto dentro vi nuotava:
non sa che far la misera donzella,
se non tenersi ferma in su la sella.
36
Per tirar briglia, non gli può dar volta:
più e più sempre quel si caccia in l’alto.
Ella tenea la veste in su raccolta
per non bagnarla, e trahea i piedi in alto;
per le spalle la chioma iva disciolta
e l’aura le facea lascivo assalto;
stavano cheti tutti i maggior venti,
forse a tanta beltà, col mar, attenti.
37
Ella volgea i begli occhi a terra invano,
che bagnavan di pianto il viso e il seno,
e vedea il lito andar sempre lontano
e decrescer più sempre e venir meno.
Il destrier, che nuotava a destra mano,
dopo un gran giro la portò al terreno
tra scuri sassi e spaventose grotte,
già cominciando ad oscurar la notte.
38
Quando si vide sola in quel deserto,
che a riguardarlo sol mettea paura,
ne l’hora che nel mar Phebo coperto
lasciato havea ciascuna cosa oscura,
fermosse in atto c’havria fatto incerto
chiunque havesse vista sua figura,
s’ella era donna sensitiva e vera
o sasso colorito in tal maniera.
39
Stupida e fissa nella incerta sabbia,
con li capelli sciolti e rabuffati,
con le man giunte e con l’immote labbia,
li languidi occhi al ciel tenea levati,
come accusando il gran Motor che l’habbia
tutti inclinati nel suo danno i fati:
immota e come attonita ste’ alquanto;
poi sciolse al duol la lingua, e gli occhi al pianto.
40
Dicea: – Fortuna, che più a far ti resta
perché di me ti satii e ti disfami?
che dar ti posso homai più, se non questa
misera vita? ma tu non la brami;
c’hora a trarla del mar sei stata presta,
quando potea finir suoi giorni grami:
perché t’è parso di voler più anchora
vedermi tormentar prima ch’io mora.
41
Ma che mi possa nocere non veggio,
più di quel che sin qui nocciuto m’hai:
per te cacciata son del Real seggio,
dove più ritornar non spero mai;
ho perduto l’honor, ch’è stato peggio;
che, se ben con effetto io non peccai,
io do perhò materia ch’ognun dica
ch’essendo peregrina, io sia impudica.
42
C’haver può donna al mondo più di buono,
a cui la castità levata sia?
Mi nòce (ahimè!) ch’io son giovane, e sono
tenuta bella, o sia vero o bugia.
Già non ringratio il ciel di questo dono;
che di qui nasce ogni ruina mia:
morto per questo fu Argalìa mio frate,
che poco gli giovâr l’arme incantate;
43
per questo il Re di Tartaria Agricane
disfece il genitor mio Galaphrone,
che in India del Cataio era gran Cane;
onde io son giunta a tal conditïone,
che muto albergo da sera a dimane.
S’in l’haver, s’in l’honor, s’in le persone
il peggio fatto m’hai che far mi puoi,
a che più doglia ancho servar mi vuoi?
44
Se l’affogarmi in mar morte non era
a tuo senno crudel, pur ch’io ti satii
non recuso che mandi alcuna fera
che mi divori e non mi tenga in stratii.
D’ogni martìr che sia, pur ch’io ne pèra
esser non può ch’assai non te ringratii. –
Così dicea la donna con gran pianto,
quando le apparve l’Eremita accanto.
45
Havea mirato da la estrema cima
d’un rilevato sasso l’Eremita
la donna, che arrivata era nel’ima
parte del scoglio, afflitta e sbigottita.
Era sei giorni esso venuto prima;
ch’un spirto lo portò per via non trita:
e venne a lei fingendo devotione,
quanta havesse mai Paulo o Hilarïone.
46
Come la Donna il cominciò a vedere,
prese (non connoscendolo) conforto;
e cessò a poco a poco il suo temere,
ben ch’ella havesse anchora il viso smorto.
Come fu presso, disse: – Miserere,
patre, di me, che son giunta a mal porto; –
e con voce interrotta dal singulto
gli disse quel ch’a lui non era occulto.
47
Comincia l’Eremita a confortarla
con alquante ragion belle e devote;
e pon l’audaci man (mentre che parla)
hor per il seno, hor per l’humide guote:
poi più sicuro va per abbracciarla;
et ella sdegnosetta lo percuote
con una man nel petto, e lo rispinge,
e d’honesto rossor tutta si tinge.
48
Ei, c’havea allato una taschetta, aprilla,
e trassene una ampolla di liquore;
e ne gli occhi possenti, onde sfavilla
la più cocente face c’habbia Amore,
spruzzò di quel liggiermente una stilla,
che di farla dormir hebbe valore:
già resupina ne l’arena giace
a tutte voglie del vecchio rapace.
49
Egli l’abbraccia et a piaccer la tocca,
et ella dorme e non può far ischermo;
hor le bacia il bel petto, hora la bocca:
non è chi ’l veggia in quel luogo aspro et ermo.
Ma ne l’incontro il suo destrier trabocca;
ch’al disio non risponde il corpo infermo:
era mal atto perché havea troppo anni;
e potrà peggio, quanto più l’affanni.
50
Tutte le vie, tutti li modi tenta,
ma quel pigro rozzon non perhò salta;
indarno il fren gli scuote e lo tormenta,
e non può far che tenga la testa alta.
Al fin presso alla donna s’addormenta,
e nuova altra sciagura ancho l’assalta:
non comincia Fortuna mai per poco,
quando un mortal si piglia a scherno e giuoco.
51
Bisogna, prima ch’io vi narri il caso,
ch’un poco dal sentier dritto mi torca.
Oltra la Irlanda, e più verso l’Occaso
e Tramontana, una Isola si corca;
il popul suo rarissimo è rimaso,
poi che l’horribil Phoca e la brutta Orca
e l’altro marin gregge la destrusse,
ch’in sua vendetta Proteo vi condusse.
52
Narran l’antique historie, o vere o false,
che tenne già quel luogo un Re possente,
c’hebbe una figlia in cui bellezza valse
e gratia sì, che puòte agevolmente,
poi che mostrossi in su l’arene salse,
Proteo lasciare in mezo l’acqua ardente;
e quello (un dì che sola ritrovolla)
compresse, e di sé gravida lasciolla.
53
La cosa fu gravissima e molesta
al patre, più d’ogn’altro empio e severo;
né per iscusa o per pietà, la testa
le perdonò: sì puote il sdegno fiero;
né per vederla gravida si resta
di subito exequire il crudo impero:
e ’l Nipotin, che non havea peccato,
prima fece morir che fusse nato.
54
Proteo marin, che pasce il fiero armento
di Neptuno che l’onda tutta regge,
sente de la sua donna aspro tormento,
e per grande ira rompe ordine e legge;
sì che a ponere in terra non è lento
l’Orche e le Phoche e tutto ’l marin gregge,
che destroggon non sol pecore e buoi,
ma ville e borghi e li cultori suoi:
55
e spesso vanno alle città murate
e d’ognintorno lor mettono assedio.
Notte e dì stanno le persone armate
con gran timore e dispiacevol tedio:
tutte hanno le campagne abbandonate;
e per trovarvi al fin qualche rimedio,
andârsi a consigliar di queste cose
con l’Oracol, che lor così rispose:
56
che trovar bisognava una donzella
che fusse all’altra di bellezza pare,
et a Proteo sdegnato offerir quella,
in cambio de la morta, in lito al mare;
s’a sua satisfattion gli parrà bella,
se la terrà, né li verrà a sturbare:
se per questo non sta, se gli appresenti
una et un’altra, fin che si contenti.
57
E così cominciò la dura sorte,
tra quelle che più grate eran di faccia,
ch’a Proteo ciascun giorno una si porte,
fin che trovino donna che gli piaccia.
La prima e tutte l’altre hebbono morte;
che tutte giù pel ventre se le caccia
una Orca, che restò presso alla foce
poi ch’el resto partì del gregge atroce.
58
O vera o falsa che fusse la cosa
di Proteo, ch’io non so ch’io me ne dica,
servosse in quella terra, con tal chiosa,
contra le donne una empia legge antica:
che di lor carni l’Orca monstrüosa
(che vène ogni dì al lito) si notrica.
Ben che esser donna sia in tutte le bande
danno e sciagura, quivi era pur grande.
59
Oh misere donzelle che trasporte
Fortuna ingiurïosa al lito infausto!
dove le genti stan sul mar accorte
per far de le stranere empio holocausto;
che, come più di fuor ne sono morte,
el numer de le loro è meno exhausto:
ma perché il vento ognhor preda non mena,
ricercando ne van per ogni arena.
60
Van discorrendo tutta la marina
con Fuste e Grippi et altri legni loro,
e da lontana parte e da vicina
portan sollevamento al lor martoro.
Molte donne han per forza e per rapina,
alcune per lusinghe, altre per oro;
e sempre da diverse regïoni
n’hanno piene le torri e le pregioni.
61
Passando una lor Fusta a terra a terra
nanzi all’inculta e solitaria riva,
dove fra sterpi in su l’herbosa terra
la sfortunata Angelica dormiva,
smontaro alquanti galeotti in terra
per riportarne e legna et acqua viva;
e di quante mai fur belle e liggiadre
trovaro il fiore in braccio al santo padre.
62
Oh troppo degna, oh troppo excelsa preda
che venir debbia a quei corsari in mane!
O Fortuna crudel, chi fia ch’il creda
che versi per tal via le cose humane,
che per cibo d’un mostro tu conceda
la gran beltà, che in India il Re Agricane
fece venir da le Caucasee porte
con meza Scythia a guadagnar la morte?
63
La gran beltà, che fu da Sacripante
posta nanti al suo honor, nanti al suo regno;
la gran beltà, che al gran signor d’Anglante
macchiò la chiara fama e l’alto ingegno;
la gran beltà, che fe’ tutto Levante
sottosopra voltarsi e star al segno,
hora non ha (così è rimasa sola)
chi le dia aiuto pur d’una parola.
64
La bella donna, di gran sonno oppressa,
incatenata fu prima che desta;
portaro il frate incantator con essa
nel legno pien di turba afflitta e mesta.
La vela, in cima l’arbore rimessa,
spinse il naviglio a l’Isola funesta,
dove chiuser la donna in ròcca forte
sin a quel dì ch’a lei toccò la sorte.
65
Ma puòte sì (per esser tanto bella)
la fiera gente movere a pietade,
che molti dì le differiro quella
morte, e serbârla a gran necessitade;
e fin c’hebber di fuore altra donzella,
perdonaro all’angelica beltade.
Al Mostro fu condutta finalmente,
piangendo drieto a lei tutta la gente.
66
Chi narrerà l’angoscie e’ pianti e’ gridi,
l’alta querela che nel ciel penètra?
Maraviglia ho che non s’apriro i lidi
quando fu posta in su la fredda pietra,
dove in catena, priva di sussidi,
attendea morte abominosa e tetra.
Io nol dirò, che sì il dolor mi move
che mi sforza voltar le rime altrove,
67
e trovar versi non tanto lugùbri,
sin ch’el mio spirto stanco se rïhabbia;
che né leon né i squalidi colubri,
né l’orba tigre accesa in maggior rabbia,
né ciò che da l’Atlante ai liti Rubri
venenoso erra per la calda sabbia
si potria imaginar senza cordoglio,
Angelica legata al nudo scoglio.
68
Oh se l’havesse il suo Orlando saputo,
ch’era per ritrovarla ito a Parigi;
o li dua ch’ingannò quel vecchio astuto
col messo che venìa da i luoghi stygi!
fra mille morti, per donarle aiuto,
cercato harian l’angelici vestigi:
ma che farian, se ben n’havesson spia,
poi che distanti son di tanta via?
69
Parigi intanto havea l’assedio intorno
dal famoso figliuol del Re Troiano;
et venne a tanta estremitade un giorno,
che n’andò quasi al suo nemico in mano:
e se non che li voti il ciel placorno,
che dilagò di pioggia oscura il piano,
cadea quel dì per l’Africana lancia
el santo Imperio e il gran nome di Francia.
70
Il sommo Creator gli occhi rivolse
al giusto lamentar del vecchio Carlo,
e con sùbita pioggia il fuoco tolse:
né forse human saper potea smorzarlo.
Savio chiunque a Dio sempre si volse;
ch’altri non puoté mai meglio aiutarlo:
ben dal devoto Re fu connosciuto
ch’el si salvò per il divino aiuto.
71
La notte Orlando in le noiose piume
del veloce pensier fa parte assai:
hor quinci hor quindi il volta, hora l’assume
tutto in un luoco, e non l’afferma mai,
qual d’acqua chiara il tremolante lume,
dal Sol percossa o da’ notturni rai,
per l’ampli tetti va con lungo salto
hor a destra hor sinistra, hor basso hor alto.
72
La donna sua, che gli ritorna a mente,
anzi che mai non era indi partita,
gli raccende nel core e fa più ardente
la fiamma che nel dì parea sopita.
Costei venuta seco era in Ponente
sin dal Chataio; e qui l’havea smarrita,
né ritrovato poi vestigio d’ella
che Carlo rotto fu presso Bordella.
73
Di questo Orlando havea gran doglia, e seco
indarno a sua sciocchezza ripensava:
– Cor mio (dicea), come vilmente teco
mi son portato! Ohimè, quanto mi grava
che potendoti haver notte e dì meco,
quando la tua bontà non m’el negava,
t’habbia lasciato in man di Namo porre
per non sapermi a tanta ingiuria opporre!
74
Non havevo ragione io di scusarme?
e Carlo non m’haria forse disdetto:
se pur disdetto, e chi potea sforzarme?
chi ti mi volea tôrre al mio dispetto?
non potevo venir più presto all’arme?
lasciar più presto trarmi il cor del petto?
Ma né Carlo né tutta la sua gente
levarmiti per forza era possente.
75
Almen l’havesse posta in guardia buona
dentro a Parigi o in qualche ròcca forte;
che l’habbia data a Namo mi consuona,
sol perché a perder l’habbia a questa sorte.
Chi la devea guardar meglio persona
di me? ch’io devea farlo sino a morte;
guardarla più che ’l cor, che gli occhi miei:
e devi’ e potei farlo, e pur nol fei.
76
Deh, dove senza me, dolce mia vita,
rimasa sei sì giovane e sì bella?
come, poi che la luce è disparita,
riman tra’ boschi la smarrita agnella
che dal pastor sperando esser udita
si va languendo in questa parte e in quella;
tanto che ’l lupo l’ode di lontano,
e il misero pastor ne piagne invano.
77
Dove, speranza mia, dove hora sei?
vai tu soletta forse anchora errando?
o pur t’hanno trovata i lupi rei
senza la guardia del tuo fido Orlando?
e il fior ch’in ciel potea porme fra i dèi,
el fior ch’io m’iva intatto riserbando
per non turbarti (ohimè!) l’animo casto,
ohimè! per forza haranno colto e guasto.
78
Oh infelice! oh misero! che chero
se non morir, se ’l mio bel fior colto hanno?
O sommo Idio, più presto ch’el sia vero,
famme patir ogn’altro grave danno:
se gli è vero, io son morto, io mi dispero,
me stesso uccido, all’inferno mi danno. –
Così, piangendo forte e suspirando,
seco dicea l’addolorato Orlando.
79
Già in ogni parte li animanti lassi
davan riposo a’ travagliati spirti,
chi su le piume e chi su’ duri sassi,
e chi su l’herbe e chi su faggi e mirti:
tu le palpèbre, Orlando, a pena abbassi,
punto da’ tuoi pensieri acuti et hirti;
né quel sì breve e fuggitivo sonno
goder in pace ancho lasciar ti ponno.
80
Parea ad Orlando, s’una verde riva
d’odoriferi fior tutta dipinta,
mirare il bello avorio e la nativa
purpura c’havea Amor di sua man tinta,
e le due chiare stelle onde notriva
l’anima già gran tempo in laccio avinta:
io parlo de’ begli occhi e del bel volto
che gli hanno il cor di mezo il petto tolto.
81
Sentia il maggior piacer, la maggior festa
che sentir possa alcun felice amante.
Ma ecco intanto uscir una tempesta
che struggea i fiori et abbattea le piante:
non se ne suol veder simile a questa
quando giostra Aquilone, Austro e Levante.
Parea che per trovar qualche coperto
andasse errando invan per lo deserto.
82
Intanto l’infelice (e non sa come)
perde la donna sua per l’aer fosco;
onde di qua e di là del suo bel nome
fa risonare ogni campagna e bosco.
E mentre dice indarno: – Misero me!
chi ha cangiata mia dolcezza in tòsco? –
ode la donna sua che gli dimanda,
piangendo, aiuto, e se gli raccomanda.
83
Onde par ch’esca il grido, va veloce,
e quinci e quindi s’affatica assai.
Oh quanto è il suo dolor aspro et atroce,
che non può rivedere i dolci rai!
Ecco che altronde ode da un’altra voce:
– Non sperar più gioirne in terra mai! –
A questo horribil grido risvegliosse,
e tutto pien di lachrime trovosse.
84
Senza pensar che sian l’imagin false
quando per tema o per disio si sogna,
de la donzella per modo gli calse,
che stimò giunta a danno od a vergogna,
che fulminando fuor del letto salse:
di piastra e maglia, quanto ne bisogna,
tutto guarnissi, e Brigliadoro tolse;
né di scudiero alcun servigio vòlse.
85
E per potere intrar ogni sentiero,
che la sua dignità macchia non pigli,
non l’honorata insegna del quartiero
distinta di color bianchi e vermigli,
ma portar vòlse un paramento nero;
e forse acciò ch’al suo dolor simigli:
e quello havea già tolto a uno Amostante
ch’uccise di sua man pochi anni inante.
86
Da meza notte tacito si parte,
né salutò né fece motto al Cio;
né al fido suo compagno Brandimarte
(che tanto amar solea) pur disse a dio.
Ma poi ch’el Sol con l’auree chiome sparte
del ricco albergo di Tithone uscìo,
e discacciando l’ombra oscura e nera
fece apparir ciò che nascoso v’era,
87
con suo gran dispiacer s’avide Carlo
che partito la notte era il Nipote,
quando esser devea seco e più aiutarlo;
e contener la còlera non puòte,
ch’a lamentarsi d’esso et aggravarlo
non cominciassi di biasmevol note;
e minacciar, se non tornava, e dire
che lo faria di tanto error pentire.
88
Brandimarte, ch’Orlando amava a pare
di se medesmo, non fece soggiorno,
o che sperassi farlo ritornare,
o sdegno havesse udirne biasmo e scorno;
e vòlse a pena tanto dimorare,
ch’uscissi fuor nel oscurar del giorno.
A Fiordeligi sua nulla ne disse,
perché el disegno suo non gli impedisse.
89
Era questa una donna che fu molto
da lui diletta, e ne gìa raro senza;
di costumi, di gratia e di bel volto
dotata, e d’accortezza e di prudenza:
et se congedo hor non n’haveva tolto,
fu che sperò tornarle alla presenza
el dì medesmo; ma gli accàde poi
che lo tardò più de i disegni suoi.
90
Et ella, poi che l’hebbe quasi un mese
atteso invano, e che tornar no ’l vide,
di desiderio sì di lui s’accese,
che se partì senza compagni o guide;
e cercandone andò molto paese,
come l’historia al luoco suo dicide:
di questi dua non vi dico hor più inante,
che più m’importa il cavallier d’Anglante.
91
Poi c’hebbe Orlando le spoglie d’Aimonte
mutate in vestir nero, andò alla porta,
e disse nel orecchio: – Io sono il Conte –
a un capitan che vi facea la scorta;
e quel gli fe’ abbassar subito il ponte.
Il conte Orlando, per la via che porta
all’inimici, se n’andò diritto:
quel che seguì ne l’altro canto è scritto.

CANTO NONO

1
Che non può far d’un cor c’habbia suggetto
questo crudele e traditor Amore,
poi che ad Orlando può levar del petto
la tanta fé che deve al suo signore?
Già savio e pieno fu d’ogni rispetto,
e de la santa Chiesa difensore:
hor né Carlo né sé né cura Christo,
per far d’una pagana un breve acquisto.
2
Ma lo scuso io pur troppo, e mi rallegro
nel mio difetto haver compagno tale;
ch’anch’io son al mio ben languido et egro,
sano e gagliardo a seguitare il male.
Quel si partì tutto vestito a negro,
né a Carlo né agli amici disse: Vale;
e passò dove d’Africa e di Spagna
la gente era attendata alla campagna:
3
anzi non attendata, perché sotto
li alberi l’ha fatta ritrar la pioggia
a dieci, a venti, a quattro, a sette, ad otto;
chi più distante e chi più presso alloggia.
Ciascuno dorme travagliato e rotto,
chi steso in terra e chi sul braccio appoggia:
dormeno, e il conte uccider ponne assai,
né perhò trasse Durindana mai.
4
Di tanto core è il generoso Orlando
che non degna ferir gente che dorma;
hor questo e quando quel luogo cercando
va, per spiar de la sua donna l’orma.
Se trova alcun che vegghi, suspirando
di lei dipinge l’habito e la forma,
e poi lo prega che per cortesia
l’insegni andar in parte ove ella sia.
5
E poi che venne il dì chiaro e lucente,
tutto cercò l’exercito Moresco:
e questo puoté far sicuramente,
havendo indosso l’habito Arabesco;
et aiutollo in questo parimente
che sapeva altro idioma ch’el Francesco,
e l’Africano tanto havea expedito
che parea nato a Tripoli e notrito.
6
Quivi il tutto cercò, dove dimora
fece tre giorni, e non per altro effetto;
poi dentro alle cittadi e a’ borghi fuora
non sol spiò per Francia e suo distretto,
ma per Uvernia e per Guascogna anchora
rivide insino all’ultimo borghetto;
e cercò da Provenza alla Bertagna,
e dai Picardi a’ termini di Spagna.
7
Tra il fin d’Ottobre e il capo di Novembre,
ne la stagion che la frondosa vesta
vede levarsi e discoprir le membre
trepida pianta insin che nuda resta,
e van li augelli a strette schiere insembre,
si pose Orlando in l’amorosa inchesta;
né tutto il verno appresso lasciò quella,
né la lasciò ne la stagion novella.
8
In questo mezo ben puoté far cose
che fôran degne da tenerne conto;
ma fur sin a quel tempo sì nascose,
che non è colpa mia s’hor non le conto:
perché Orlando a far l’opre virtüose,
più che narrarle poi, sempre era pronto;
né mai fu alcun de li suoi fatti expresso,
se non quando hebbe i testimoni apresso.
9
Quella invernata trappassò sì cheto,
che di lui non si seppe cosa vera:
ma poi ch’el Sol, ne l’animal discreto
che portò Phryxo, illuminò la sphera,
e Zephyro tornò suave e lieto
a rimenar la dolce primavera,
d’Orlando usciron le mirabil prove
coi vaghi fiori e con l’herbette nove.
10
Di piano in monte, e di campagna in lido,
pien di travaglio e di dolor ne gìa,
quando all’intrar d’un bosco un lungo grido,
un alto duol l’orecchie gli ferìa.
Spinge il cavallo e piglia il brando fido,
e donde vène il suon, ratto s’invia:
non molto va, che sopra un gran destriero
trottar si vede inanzi un cavalliero,
11
che porta in braccio e su l’arcion dinante
per forza una mestissima donzella.
Piange ella e se dibatte, e fa sembiante
di gran dolore; e di soccorso appella
il valoroso Principe d’Anglante;
che come mira alla giovane bella,
gli pare esser colei che molti giorni
havea cercato invan per quei contorni.
12
Non dico ch’ella fusse, ma parea
Angelica gentil ch’egli tanto ama.
Egli, che la sua donna e la sua dea
vede portar sì dolorosa e grama,
spinto da l’ira e da la furia rea,
con voce horrenda il cavallier richiama;
richiama il cavalliero et lo minaccia,
e Brigliadoro a tutta briglia caccia.
13
Non resta quel fellon, né gli risponde,
all’alta preda, al gran guadagno intento;
e sì ratto ne va per quelle fronde,
che saria tardi a seguitarlo il vento:
l’un fugge, e l’altro caccia; e in le profonde
selve risuona il feminil lamento.
Correndo, usciro in un gran prato; e quello
havea nel mezo un grande e ricco hostello.
14
Di vari marmi con sottil lavoro
edificato era il palagio altiero.
Corse dentro alla porta messa d’oro
con la donzella in braccio il cavalliero;
dopo non molto giunse Brigliadoro,
che Orlando porta disdegnoso e fiero:
Orlando, come è dentro, gli occhi aggira,
né più il guerrier, né la donzella mira.
15
Subito smonta, e fulminando passa
dove più adentro il bel tetto s’alloggia:
di qua e di là gir e tornar non lassa
che rivede ogni camera e ogni loggia.
Poi che i secreti d’ogni stanza bassa
ha cerco invan, su per le scale poggia;
e non men perde a ricercar di sopra,
che perdesse di sotto, e il tempo e l’opra.
16
D’oro e di seta i letti ornati vede;
nulla de muri appar né de pareti,
che quelle e il suolo ove si pone il piede
son da coltrine ascose e da tapeti.
Di su e di giù va il conte Orlando e riede;
né può per questo far mai gli occhi lieti
che riveggiano Angelica, o quel ladro
che n’ha portato il bel viso liggiadro.
17
E mentre hor quinci hor quindi invano il passo
movea pien di travaglio e di pensieri,
Ferraù, Brandimarte, il Re Gradasso,
Re Sacripante et altri cavallieri
vi ritrovò ch’andavan d’alto a basso,
né men facean di lui vani sentieri;
e si ramaricavon del malvagio
invisibil signor di quel palagio.
18
Tutti cercando il van, tutti li dànno
colpa di furto alcun che lor fatto habbia:
del caval che gli ha tolto, altri è in affanno;
che perduta habbia altri la donna, arrabbia;
altri d’altro l’accusa: e così stanno,
che non si san partir di quella gabbia;
e vi son molti, a questo inganno presi,
che già stati vi son più di tre mesi.
19
Orlando, poi che quattro volte e sei
tutto cercato hebbe il palazzo istrano,
disse fra sé: – Qui dimorar potrei,
gettare il tempo e la fatica invano,
e questo ladro haver tratta costei
da un’altra uscita, e molto esser lontano. –
Con tal pensiero uscì nel verde prato
da cui tutto il palazzo era aggirato.
20
Mentre circonda la casa silvestra,
tenendo pur a terra il viso chino
per veder s’orma appare, o da man destra
o da sinistra, di nuovo camino,
si sente richiamar da una finestra:
e leva gli occhi; e quel parlar divino
gli pare udir, e par che miri il viso
che l’ha, da quel che fu, tanto diviso.
21
Pargli Angelica udir, che supplicando
e piangendo gli dica: – Aita, aita!
la mia virginità ti raccomando
più che l’anima mia, più che la vita.
Dunque in presenza del mio caro Orlando
da questo ladro mi serà rapita?
Più presto di tua man dammi la morte,
che venir lasci a sì infelice sorte. –
22
Queste parole un’altra e un’altra volta
tornar Orlando fan per ogni stanza
con passïone e con fatica molta,
ma temperata pur d’alta speranza.
Talhor si ferma, e chetamente ascolta
la voce che di Angelica ha sembianza,
e s’egli è da una parte, suona altronde,
che chieggia aiuto, e non sa trovar donde.
23
Restisi Orlando qui mentre io ritorno,
per voler di Ruggier pur dicere ancho,
che nel più intenso ardor del mezo giorno
cavalca il lito, affaticato e stanco.
Percuote il Sol nel colle e fa ritorno;
bolle di sotto il sabbion trito e bianco:
mancava all’arme c’havea indosso poco
ad esser, qual fur già, tratte del foco.
24
Mentre la sete, e de l’andar fatica
per l’alta sabbia, e la solinga via
facea a Ruggier, lungo la spiaggia aprica,
noiosa e dispiacevol compagnia,
trovò che all’ombra d’una torre antica,
che fuor de l’onde appresso il lito uscia,
de la corte d’Alcina eran tre donne,
che le connobbe a’ gesti et alle gonne.
25
Corcate su tapeti Alessandrini
godeansi il fresco rezo in gran diletto,
fra molti vasi di diversi vini
et ogni buona sorte di confetto.
Presso alla spiaggia, con flutti marini
scherzando, attendea lor un suo legnetto
fin che la vela impiesse agevol òra;
ch’un fiato pur non ne spirava allhora.
26
Queste, che andar per la non ferma sabbia
vider Ruggiero al suo vïaggio dritto,
che sculta havea la sete in su le labbia,
sudorosa la fronte e il viso afflitto,
gli cominciaro a dir che sì non habbia
il cor volontaroso e al camin fitto,
ch’alla fresca e dolce ombra non si pieghi
e ristorare il stanco corpo nieghi.
27
E di loro una s’accostò al cavallo
per la staffa tener, che ne scendesse;
l’altra, con una coppa di crystallo
di vin spumante, più sete gli messe:
ma Ruggiero a quel suon non intrò in ballo;
perché, d’ogni tardar che fatto havesse,
tempo di giunger dato haria ad Alcina,
che venìa dietro et era homai vicina.
28
Non così fin Salnitrio e Solfo puro,
tocco dal fuoco, subito s’avampa;
né così freme il mar quando l’oscuro
turbo discende e in mezo lui s’accampa;
come, vedendo che Ruggier sicuro
al suo dritto camin l’arena stampa
e sprezza lor che se teneano belle,
d’ira arse et di furor la terza d’elle.
29
– Tu non sei né gentil né cavalliero
(dice gridando quanto può più forte),
et hai rubate l’arme; e quel destriero
non serìa tuo per verun’altra sorte;
e così, come ben m’appongo il vero,
ti vedessi punir di degna morte:
che fussi fatto in quarti, arso o impiccato,
brutto ladron, villan, superbo, ingrato. –
30
Oltra queste e molt’altre ingiurïose
parole che gli usò la donna altiera,
anchor che mai Ruggier non le rispose,
che di sì vil tenzon poco honor spera;
con le sorelle presto ella si pose
sul legno in mar, ch’al lor servigio v’era:
et affrettando i remi, lo seguiva,
vedendol tuttavia drieto alla riva.
31
Minaccia sempre, maledice e incarca
(che l’onte sa trovar per ogni punto).
Intanto al piccol fiume, onde si varca
alla fata più bella, è Ruggier giunto.
All’altra ripa una commoda barca,
ad uso di portar nel lito sgiunto,
vede, e grida, e fa cenno; et il nocchiero
presto si scioglie, e vien dritto a Ruggiero.
32
Scioglie il nocchier come venir lo vede,
di trasportarlo a miglior ripa lieto;
che se la faccia può del cor dar fede,
tutto benigno e tutto era discreto.
Pose Ruggier sopra il naviglio il piede,
Dio ringratiando; e per lo mar quïeto
ragionando venìa col Galeotto,
saggio e di lunga esperïenza dotto.
33
Quel lodava Ruggier, che sì s’havesse
saputo a tempo tôr d’Alcina, e inanti
che ’l calice incantato ella gli desse,
che havea al fin dato a tutti li altri amanti;
e poi, che a Logistilla si trahesse,
dove veder potria costumi santi,
bellezza eterna et infinita gratia
ch’el cor notrisce e pasce, e mai non satia.
34
– Costei (dicea) stupore e riverenza
induce all’alma, ove si scopre prima.
Contempla meglio poi l’alta presenza:
ogn’altro ben ti par di poca stima.
El suo amor ha da li altri differenza:
speme o timore in li altri il cor ti lima;
in questo il desiderio più non chiede,
e contento riman come la vede.
35
Ella t’insegnarà studii più grati
che suoni o danze, odori, bagni o cibi;
ma come i spirti tuoi meglio formati
poggin più ad alto che per l’aria i Nibi,
e come de la gloria de’ beati
nel mortal corpo parte se delibi. –
Così parlando il marinar veniva,
lontano anchora alla sicura riva;
36
quando vide scoprire alla marina
molti navigli, e tutti alla sua volta.
Con quei ne vien l’ingiurïata Alcina;
e di sua gente molto v’ha raccolta
per porre il stato e se stessa in ruina,
o racquistar la cara cosa tolta:
e bene è Amor di ciò cagion non leve,
ma l’ingiuria assai più, che ne riceve.
37
Quindi contra Ruggier tal rabbia nacque,
ch’anchor da lunge è chi sel straccia e rode;
tanto de’ remi è l’affrettar per l’acque,
che la spuma ne sparge ambe le prode.
Al gran rumor né mar né ripa tacque,
et Eccho risonar per tutto s’ode.
– Scopri el scudo, Ruggier, ch’el te bisogna;
se non, sei morto o preso con vergogna. –
38
Così disse il nocchier di Logistilla;
et oltra il detto, egli medesmo prese
la coperta del scudo e dipartilla,
e fe’ il lume di quel chiaro e palese.
Il mirabil splendor che ne sfavilla,
gli occhi de li aversari così offese,
che li fe’ restar ciechi allhora allhora,
e cader chi da poppa e chi da prora.
39
Un, ch’era alla vedetta in su la ròcca,
de l’armata d’Alcina si fu accorto,
e la campana martellando tocca,
onde il soccorso vien subito al porto.
L’artigliaria (come tempesta) fiocca
contra chi vuole al buon Ruggier far torto:
sì che gli venne e quinci e quindi aita,
tal che salvò la libertà e la vita.
40
Giunte son quattro donne in su la spiaggia,
che subito ha mandato Logistilla:
la valorosa Andronica e la saggia
Phronesia e l’honestissima Dicilla
e Sophrosina casta, che, come haggia
quivi a far più che l’altre, arde e sfavilla.
L’exercito, ch’al mondo è senza pare,
del castello esce, e si distende al mare.
41
Sotto le mura, in la tranquilla foce,
di molti e grossi legni era una armata,
ad un botto di squilla, ad una voce
giorno e notte a battaglia apparecchiata.
E così fu la pugna aspra et atroce,
e per acqua e per terra incomminciata;
per cui fu il stato sottosopra volto,
c’havea già Alcina alla sorella tolto.
42
Oh di quante battaglie il fin successe
diverso a quel che si credette inante!
Non sol che Alcina allhor non rïhavesse
(come stimossi) il fuggitivo amante;
ma de sue navi che pur dianzi spesse
fur sì, che a pena il mar ne capia tante,
fuor de la fiamma, che tutt’altre avampa,
con un legnetto sol misera scampa.
43
Fuggesi Alcina, e sua misera gente
arsa e presa riman, rotta e sommersa.
D’haver Ruggier perduto ella si sente
via più doler che d’altra cosa adversa:
notte e dì per lui geme amaramente,
e lachryme per lui da gli occhi versa;
e per dar fine a tanto aspro martìre
spesso si duol di non poter morire.
44
Morir non puote alcuna fata mai
fin ch’el sol gira, o il ciel non muta stilo.
Se ciò non fosse, era il dolor assai
per mover Cloto ad inasparle il filo;
o qual Didon finia col ferro i guai;
o la Regina splendida del Nilo
havria imitata con mortifer sonno:
ma le fate morir sempre non ponno.
45
Torniamo a quel d’eterna gloria degno
Ruggiero, e stiasi Alcina in la sua pena:
dico di lui, che poi che fuor del legno
si fu condutto in più sicura arena,
Dio ringratiando che tutto il disegno
gli era successo, al mar voltò la schiena;
et affrettando per l’asciutto il piede,
alla ròcca n’andò che quivi siede.
46
Né la più forte mai, né la più bella
veder puòte occhio human prima né dopo:
son di più prezzo le mura di quella
che di Rubin, Diamante o di Piropo.
Di tai gemme qua giù non si favella;
et a chi vuol notitia haverne, è uopo
che vada quivi, che non credo altrove
(se non forse su al ciel) se ne ritrove.
47
Quel che più fa che se l’inclina e cede
ogn’altra gemma, è che, mirando in esse,
l’huom sin in mezo all’anima si vede;
vede suoi vitii e sue virtudi expresse,
sì che a lusinghe poi di sé non crede,
n’a chi a torto dar biasmo gli volesse:
fassi, mirando in quel specchio lucente
se stesso, connoscendose, prudente.
48
Il chiaro lume lor, ch’imita il Sole,
splendor fiammeggia in tanta copia intorno,
che chi l’ha, ovunque sia, sempre che vuole,
Phebo (mal grado tuo), si può far giorno.
Né qui mirabil son le pietre sole;
ma la materia e l’artificio adorno
contendon sì, che mal giudicar possi
qual de le due excellenze maggior fossi.
49
Su li altissimi vòlti, che puntelli
parean che del ciel fussero a vederli,
eran giardin sì spatïosi e belli,
che fôra al basso ancho fatica haverli:
verdeggiar li odoriferi arbuscelli
si puon veder fra i luminosi merli,
che adorni son l’estate e il verno tutti
di vaghi fiori e di maturi frutti.
50
Di così nobili arbori non suole
produrse fuor di questi bei giardini,
né di tai Rose o di simil Vïole,
di Gigli, di Amaranti o di Gesmini.
Altrove appar come a un medesmo Sole
e nasca e viva, e morto il capo inchini,
e come lasci vedovo il suo stelo
el fior suggetto al varïar del cielo:
51
ma quivi era perpetua la verdura,
perpetua la beltà de’ fiori eterni;
non che benignità de la natura
sì temperatamente li governi,
ma Logistilla con gran studio e cura,
senza bisogno de’ moti superni
(quel che a gli altri impossibile parea),
sua primavera ognhor ferma tenea.
52
Logistilla mostrò molto haver grato
ch’a lei venisse un sì gentil signore,
e commandò che fusse accarezzato
e che studiasse ognun di fargli honore.
Gran pezzo inanzi Astolfo era arrivato,
che visto da Ruggier fu di buon core;
fra pochi giorni venner li altri tutti,
ch’a l’esser lor Melissa havea ridutti.
53
Poi che si fur posati un giorno e dui,
venne Ruggiero alla fata prudente
col duca Astolfo, che non men di lui
havea desir tornarsene in Ponente.
Melissa le parlò per amendui;
e pregò quella, e supplicò humilmente,
che per sua cortesia desse favore
di tornar l’uno e l’altro al suo signore.
54
Disse la fata tôrsene pensiero,
e che serian per l’altro dì espediti.
Discorre poi tra sé come Ruggiero
e, dopo lui, come quel Duca aiti:
conchiude infin che ’l volator destriero
ritorni il primo in li Aquitani liti;
ma prima vuol che se gli faccia un morso,
con che lo volga et gli raffreni il corso.
55
E mostra a lui come habbia a far, se vuole
che poggi in alto, e come a far che cali;
e come, se vorrà che in giro vole,
o vada presto, o che se stia su l’ali:
e quali effetti il cavallier far suole
di buon destriero in piana terra, tali
facea Ruggier che mastro ne divenne,
per l’aria, del destrier c’havea le penne.
56
Poi che Ruggier fu d’ogni cosa in punto
(havendo già debite gratie rese
a quelle donne, a-ccui sempre congiunto
col cor rimase), uscì di quel paese.
Prima di lui che se n’andò in buon punto,
e poi dirò come il guerriero Inglese
tornasse con più tempo e più fatica
al magno Carlo et alla corte amica.
57
Quindi partì Ruggier, ma non rivenne
per quella via che fe’ già suo mal grado;
ch’el sfrenato destrier sempre lo tenne
sopra il gran mare, e vide terra rado:
ma potendoli hor far batter le penne
di qua e di là dove più andar fu a grado,
vòlse al ritorno far nuovo sentiero,
come, schivando Herode, i Magi fêro.
58
Al venir quivi era, lasciando Spagna,
venuto India a trovar per dritta riga
là dove il mar orïental la bagna,
dove una fata havea con l’altra briga.
Hor veder si dispose altra campagna
che quella ove li venti Eölo instiga,
e finir tutto il comminciato tondo
per haver (come il Sol) girato il mondo.
59
Quinci il Chataio, e quindi Mangïana
sopra il gran Quinsaì vide passando:
volò sopra l’Imavo, e Sericana
lasciò a man destra; e sempre declinando
da l’Hyperborei Scyti a l’onda Hircana,
giunse in l’ulterïor Sarmatia; e quando
fu dove Asia da Europa si divide,
Rossi e Pruteni e la Pomeria vide.
60
Ben che havesse Ruggier prima disire
di ritornarsi a Bradamante presto,
pur, veduto il piacer ch’era di gire
cercando il mondo, non restò per questo
ch’alli Pollacchi e all’Ungari venire
non volesse ancho, e alli Germani, e al resto
di quella boreal horrida terra;
e venne al fine in l’ultima Inghilterra.
61
Non crediate, signor, che perhò stia
per sì lungo camin sempre su l’ale:
ogni sera all’albergo se ne gìa,
schivando a suo poter d’alloggiar male.
E spese giorni e mesi in questa via,
sì di veder la terra e il mar gli cale.
Hor presso a Londra giunto una matina,
sopra Tamigi il volator declina,
62
dove nei prati alla città vicini
vide adunati huomini d’arme e fanti,
ch’altri di trombe, altri di tamburini
condutti al suon, veniano a squadre inanti.
Quivi è Rinaldo, honor de’ paladini,
del qual, se vi racorda, io dissi inanti
che mandato da Carlo era venuto
in queste parti a ricercare aiuto.
63
Giunse a punto Ruggier, che si facea
la bella mostra fuor di quella terra;
e per saper il tutto, ne chiedea
un cavallier, ma scese prima in terra:
e quel, ch’affabil era, gli dicea
che di Scotia e di Irlanda e d’Inghilterra
e de l’Isole intorno eran le schiere
che quivi alzate havean tante bandiere;
64
e finita la mostra che faceano,
alla marina se distenderanno,
dove aspettati per solcar l’Oceano
son dai navigli che nel porto stanno:
li Franceschi assediati si recreano,
sperando in questi che a salvar li vanno.
– E perché pienamente io te ne informe,
ti mostrerò (dicea) tutte le torme.
65
Tu vedi ben quella bandiera grande,
che con la Fiordeligi ha giunto i Pardi:
quella il gran Capitano all’aria spande,
e ne dà segno a tutti altri stendardi.
Il suo nome, famoso in queste bande,
è Leonetto, il fior de li gagliardi,
di consiglio e d’ardire in guerra mastro,
del Re nipote e duca di Lincastro.
66
La prima appresso il gonfalon reale,
ch’el vento tremolar fa verso il monte
e tien nel campo verde tre bianche ale,
porta Ricardo, di Varvecia conte.
Del duca di Glocestra è quel segnale
c’ha duo corna di Cervio e meza fronte.
Del duca di Chiarenza è quella face;
quel arbore è del duca d’Eborace.
67
Vedi in tre pezzi una spezzata lancia:
è ’l gonfalon del Duca di Northfocia.
La fulgure è del buon conte di Cancia;
il Gryphone è del conte di Pembrocia;
il duca di Sufolcia ha la bilancia.
Vedi quel giogo che due Serpi associa:
è del conte d’Exenia; e la ghirlanda
in campo azurro ha quel di Norbelanda.
68
El conte d’Arindelia è quel c’ha messo
in mar quella barchetta che s’affonda.
Vedi il marchese di Barchlei, e apresso
di Marchia il conte e il conte di Rithmonda:
il primo porta in bianco un monte fesso,
l’altro la palma, il terzo un giunco in l’onda.
Quel di Dorsetia è conte, e quel d’Antona,
che l’uno ha il carro, e l’altro la corona.
69
El Falcon che sul nido i vanni inchina
porta Raimondo, il conte di Devonia.
Il giallo e negro ha quel di Vigorina,
il Can quel di Erbia, un Orso quel d’Oxonia.
La croce che là vedi, crystallina,
è del ricco prelato di Battonia.
Vedi nel bigio una spezzata sedia:
è del duca Ariman da Sormosedia.
70
Li huomini d’arme e li arcieri a cavallo
di quarantadua mila numer fanno:
sono duotanti, e di cento non fallo,
quelli ch’a piedi in la battaglia vanno.
Mira que’ segni, un nero, un verde, un giallo,
e di bigio e morel listato un panno:
Gaufredo, Henrigo, Ermante et Odoardo
guidan pedoni, ognun col suo stendardo.
71
Duca di Bocchingamia è quel dinante;
Henrigo ha la contea di Sarisberia;
signoreggia Burgenia il vecchio Ermante;
quel Odoardo è conte di Croisberia.
Questi alloggiati più verso Levante
sono l’Inglesi: hor vòlgeti alla Hesperia,
dove si veggon trenta mila Scotti,
da Zerbin, figlio del lor Re, condotti.
72
Vedi tra duo unicorni il gran Leone,
che la spada d’ariento ha ne la zampa:
quel è del Re di Scotia il gonfalone;
il suo figliol Zerbino ivi s’accampa.
Non è un sì bello in tante altre persone:
Natura il fece, e poi ruppe la stampa.
Non è in cui tal virtù, tal gratia luca
o tal possanza: et è di Roscia duca.
73
Vedi in azurro una dorata sbarra:
del conte d’Ottonlei quel è il stendardo;
l’altra bandiera è del duca di Marra,
che nel travaglio porta il Leopardo.
Di color tanti e tanti augei bizarra
mira l’insegna d’Alcabrun gagliardo,
che non è duca, conte, né marchese,
ma primo nel salvatico paese.
74
Del duca di Trasfordia è quella insegna
dove è l’augel ch’al Sol tien gli occhi franchi.
Lurcanio conte, ch’in Angoscia regna,
porta quel Tauro c’ha duo veltri a i fianchi.
Vede là il duca d’Albania, che segna
il campo di colori azurri e bianchi.
Quel Avoltor, ch’un drago verde lania,
è l’insegna del conte di Boccania.
75
Signoreggia Forbesse il forte Armano,
che di bianco e di nero ha la bandiera;
et ha il conte d’Erelia a destra mano,
che porta in campo verde una lumiera.
Hor guarda l’Hibernesi appresso il piano:
sono duo squadre; e il conte di Childera
mena la prima, e il conte di Desmonda
da feri monti ha tratta la seconda.
76
El primo ha nel stendardo un pino ardente,
l’altro nel bianco una vermiglia banda.
Non dà soccorso a Carlo solamente
la terra Inglese e la Scotia e la Irlanda,
ma vien di Svetia e di Norvega gente,
da Tile, e sin da la remota Islanda:
da ogni terra, in somma, che là giace,
nimica naturalmente di pace.
77
Sedice mila sono, o poco manco,
de le spelonche usciti e de le selve;
hanno piloso il viso, il petto e il fianco,
e dossi e braccia e gambe, come belve.
Intorno a quel stendardo tutto bianco
par che quel pian di lor lance s’inselve:
così Moratto il porta, il capo loro,
che vuol pingerlo poi col sangue Moro. –
78
Mentre Ruggier di quella gente bella,
che per soccorrer Francia si prepara,
mira le varie insegne, e ne favella
con quel da cui per ordine l’impara,
uno et un altro a lui, per mirar quella
bestia sopra cui sede, unica o rara,
maraviglioso corre e stupefatto;
e presto un cerchio intorno gli fu fatto.
79
Sì che per dar anchor più maraviglia
e per pigliarne il buon Ruggier più giuoco,
al volante Corsier scuote la briglia
e con li sproni ai fianchi il tocca un poco:
quel verso il ciel per l’aria il camin piglia,
e lascia ognuno attonito in quel luoco.
Quindi Ruggier (poi che di banda in banda
vide l’Inglesi) andò verso l’Irlanda.
80
E vide Hibernia fabulosa, dove
il santo vecchiarel fece la cava
in che tanta mercé par che si trove,
che l’huom vi purga ogni sua colpa prava.
Quindi poi sopra il mar il destrier move
là dove la minor Bertagna lava:
e nel passar vide, mirando a basso,
Angelica legata al nudo sasso.
81
Al nudo sasso, in l’Isola del pianto;
che l’Isola del pianto era nomata
quella che da crudele e fera tanto
et inhumana gente era habitata,
che (come io vi dicea sopra nel canto)
per varii liti sparsa iva in armata
tutte le belle donne depredando,
per farne a un Mostro poi cibo nefando.
82
Vi fu legata pur quella matina,
dove venìa per trangugiarla viva
quel smisurato Mostro, Orca marina,
che d’abhorrevole esca si nutriva.
Dissi di sopra come fu rapina
di quei che la trovaro in su la riva
dormire al vecchio incantatore a canto,
ch’ivi l’havea tirata per incanto.
83
La fiera gente inhospitale e cruda
alla bestia crudel nel lito expose
la bellissima donna, così ignuda
come Natura prima la compose:
un velo non ha pur in che richiuda
i bianchi gigli e le vermiglie rose,
da non cader per Luglio o per Decembre,
di che son sparse le polite membre.
84
Creduto havria che fusse statua finta
o d’Alabastro o marmori più illustri
Ruggiero, e su quel scoglio così avinta
per artificio di Scultori industri,
se non vedea la lachrima distinta
tra fresche rose e candidi ligustri
far rugiadose le crudette poma,
e l’aura sventilar l’aurata chioma.
85
E come ne’ begli occhi gli occhi affisse,
de la sua Bradamante gli sovenne:
Pietade e Amor a un tempo lo traffisse,
e di pianger a pena si ritenne;
e dolcemente alla donzella disse
(poi che del suo caval frenò le penne):
– O donna, degna sol de la catena
con che i suoi servi Amor legati mena,
86
e ben di questa, e d’ogni mal indegna,
chi è quel crudel che con voler perverso
d’importuno livor stringendo segna
di queste belle man l’avorio terso? –
Forza è ch’a quel parlar ella divegna
qual di molto ostro un bianco avorio asperso,
di sé vedendo quelle parti ignude,
ch’anchor che belle sian, vergogna chiude.
87
E coperto con man s’harebbe il volto,
se non eran legate al nudo sasso;
ma del pianto, ch’almen non l’era tolto,
lo sparse, e più che puòte il tenne basso.
E dopo alcun’ signiozzi il parlar sciolto,
incominciò con fioco suono e lasso:
ma non seguì, che dentro il fe’ restare
il gran rumor che si sentì nel mare.
88
Ecco apparire il smisurato Mostro
mezo ascoso nel’onda e mezo sorto.
Come sospinto suol da Borea o d’Ostro
venir lungo naviglio a pigliar porto,
così ne viene al cibo che l’è mostro
la bestia horrenda; e l’intervallo è corto.
La donna è meza morta di paura,
né per conforto altrui si rassicura.
89
Tenea Ruggier la lancia non in resta,
ma sopra mano, e percuoteva l’Orca.
Altro non so che s’assimigli a questa,
ch’una gran massa che s’aggiri e torca;
né forma ha d’animal fuor che la testa,
c’ha gli occhi e i denti fuor, come di porca.
Ruggier in fronte la fere tra gli occhi,
ma par che un ferro o un duro sasso tocchi.
90
Poi che la prima botta poco vale,
ritorna per far meglio la seconda.
L’Orca, che vede sotto le grandi ale
l’ombra di qua e di là correr su l’onda,
lascia la preda certa litorale,
e quella vana segue furibonda;
drieto quella si volve e si raggira:
Ruggier giù cala, e spessi colpi tira.
91
Come d’alto venendo Aquila suole,
c’habbia veduto in l’herbe errar la biscia
o starsi sopra un nudo sasso al sole,
dove le spoglie d’oro abbella e liscia;
non assalir da quel lato la vuole
onde la velenosa e soffia e striscia,
ma da tergo la adugna, e batte i vanni
onde essa non si volga e non la azanni:
92
così Ruggier con l’hasta e con la spada,
non dove era de denti armato il muso,
ma vuol ch’el colpo hor tra l’orecchie cada,
hor su le schiene, hor ne la coda giuso.
Se la fera si volta, ei muta strada,
et a tempo giù cala, e poggia in suso:
ma come sempre giunga in un dïaspro,
non può tagliar il scoglio duro et aspro.
93
Simil battaglia fa la mosca audace
contra il mastin nel polveroso Agosto,
o nel mese dinanzi o nel seguace,
l’uno di spiche e l’altro pien di mosto:
lo punge in gli occhi o nel grifo mordace;
volagli intorno e gli sta sempre accosto;
e quel suonar fa spesso i denti a sciutto:
ma un tratto che l’arrivi appaga il tutto.
94
Sì forte ella nel mar batte la coda,
che fa vicino al ciel l’acqua inalzare;
tal che non sa se l’ale in aria snoda
il suo cavallo, o pur nuota nel mare.
È spesso che disia trovarsi a proda;
c’havendo il sprazzo in tal modo a durare,
teme sì l’ale inaffi al Hippogrypho,
che brami invano haver la ciucca o il schifo.
95
Prese nuovo consiglio, e fu il migliore,
di vincer con altr’arme il mostro crudo:
d’abbarbagliarlo col mortal splendore
ch’era incantato nel coperto scudo.
Vola nel lito, e per non fare errore,
alla donna legata al scoglio nudo
lascia nel minor dito de la mano
l’annel che solea far l’incanto vano:
96
dico l’annel che Bradamante havea,
per liberar Ruggier, tolto a Brunello,
poi, per trarlo di man d’Alcina rea,
mandato in India per Melissa a quello.
Melissa (come dianzi io vi dicea)
in ben di molti adoperò l’annello;
ma poi l’havea a Ruggier restituito,
che sempre poi l’havea portato in dito.
97
Lo dà ad Angelica hora, perché teme
che del suo scudo il folgorar non viete,
e perché a lei ne sian diffesi insieme
gli occhi, che già l’havean preso alla rete.
Hor viene al lito, e sotto il ventre preme
ben mezo ’l mar la smisurata Cete:
sta Ruggiero alla posta e lieva il velo;
e par che giunga un altro Sol al cielo.
98
Ferì ne gli occhi l’incantato lume
di quella fera, e fece al modo usato:
come Trota boccheggia in piccol fiume
c’habbia con calce il montanar turbato,
così vedeasi in le marine schiume
el Mostro horribilmente riversciato.
Di qua di là Ruggier percuote assai,
ma di ferirlo via non trova mai.
99
La bella Donna tuttavolta prega
ch’invan la dura squamma oltra non pesti.
– Torna, per dio, Signor: prima mi slega
(dicea piangendo) che l’Orca si desti;
portami teco, e in mezo ’l mar me annega:
non far ch’in ventre al brutto pesce io resti. –
Ruggier, commosso dunque al giusto grido,
slegò la Donna e la levò dal lido.
100
Il destrier, punto, ponta i piè in l’arena
e sbalza in aria, e per il ciel galoppa;
e porta il cavalliero in su la schiena,
e la donzella drieto in su la groppa.
Così privò la fiera de la cena
per lei suave e delicata troppa.
Ruggier si va volgendo, e mille baci
figge nel petto e ne gli occhi vivaci.
101
Non più tenne la via, come propose
prima tra sé, di circundar la Spagna;
ma nel propinquo lito il caval pose,
dove entra in mar più la minor Bertagna.
Sul lito un bosco era di querce ombrose,
dove ognhor par che Philomena piagna;
c’havea in mezo un pratel con una fonte
e quinci e quindi un solitario monte.
102
Giunto qui sopra, il cavallier ritenne
l’audace corso, e nel pratel discese;
e fe’ racôrre al suo destrier le penne,
ma non a tal che più l’havea distese.
Del caval sceso, a pena se ritenne
di salir altri; ma tennel l’arnese:
l’arnese el tenne, che bisognò trarre,
e contra il suo disir messe le sbarre.
103
Frettoloso, hor da questo hor da quel canto
confusamente l’arme si levava:
non gli parve altra volta mai star tanto;
che s’un laccio scioglea, duo ne annodava.
Ma troppo è lungo hormai, signore, il canto,
e forse ben che l’ascoltar vi grava:
sì ch’io differirò l’historia mia
a una altra volta che più grata sia.

CANTO DECIMO

1
Quantunque debil freno a mezo il corso
animoso caval spesso raccolga,
raro è perhò che di ragione il morso
libidinosa furia a dietro volga
quando il piacere ha in pronto; a guisa d’Orso
che dal mel non di facile si tolga,
poi che gli n’è venuto odore al naso
o qualche stilla ne gustò sul vaso.
2
Qual ragion fia ch’el bon Ruggier raffrene,
sì che non voglia hora pigliar diletto
d’Angelica gentil che nuda tiene
nel solitario e commodo boschetto?
Di Bradamante più non gli soviene,
che tanto haver solea fissa nel petto;
e se gli ne sovien pur come prima,
pazzo è se questa anchor non prezza e stima:
3
con lei non fuôra l’ostinato e crudo
Zenocrate di lui più continente.
Gittato havea Ruggier la lancia e il scudo,
e si trahea l’altre arme impatïente;
quando abbassando pel bel corpo ignudo
la donna gli occhi vergognosamente,
si vide in dito il pretïoso annello
che già le tolse ad Albraca Brunello.
4
Questo è l’annel che ella portò già in Francia
la prima volta che fe’ quel camino
col fratel suo, che v’arrecò la lancia,
la qual fu poi d’Astolfo paladino.
Con questo fe’ l’incanti uscire in ciancia
di Malagigi al petron di Merlino;
con questo Orlando et altri una matina
tolse di servitù di Dragontina;
5
con questo uscì invisibil de la torre
dove l’havea richiusa un vecchio rio:
a che voglio io tutte sue prove acôrre,
se le sapete voi così come io?
Brunel sin nel giron lel venne a tôrre,
che Agramante di haverlo hebbe disio;
da indi in qua tutte le cose averse
furo a costei, tanto che ’l Regno perse.
6
Hor che sel vide, come ho detto, in mano,
fu di stupore et allegrezza piena;
e quasi dubbia di sognarsi invano,
agli occhi, alla man sua credette a pena.
Del dito se lo trasse, e a mano a mano
sel chiuse in bocca: e in men che non balena,
così da gli occhi di Ruggier si cela,
come fa il Sol quando la nube il vela.
7
Ruggier pur d’ognintorno riguardava,
e s’aggirava a cerco come un matto;
ma poi che de l’annel si ricordava,
scornato vi rimase e stupefatto:
e la sua inadvertenza biastemmiava,
e la donna accusava di quello atto.
– Dunque questa mercé mi serà resa
d’haverti dal marin Mostro diffesa?
8
Ingrata damigella, è questo quello
guiderdone (dicea) che tu mi rendi?
che più presto involar vogli l’annello,
che haverlo in don. Perché da me nol prendi?
che non pur quel, ma il scudo e il destrier snello
e me ti dono, e come vuoi mi spendi;
sol che ’l bel viso tuo non mi nascondi.
Io so, crudel, che m’odi e non rispondi. –
9
Così dicendo, intorno alla fontana
brancolando n’andava come cieco.
Oh quante volte abbracciò l’aria vana,
sperando la donzella abbracciar sieco!
Quella, che s’era già fatta lontana,
mai non cessò d’andar, che giunse a un speco
che sotto un monte era capace e grande,
dove al bisogno suo trovò vivande.
10
Quivi un vecchio pastor, che di cavalle
un grande armento havea, facea soggiorno.
Le iumente pascean giù per la valle
le tener herbe a’ freschi rivi intorno;
di qua di là da l’antro erano stalle,
dove fuggìano il Sol del mezo giorno.
Angelica quel dì lunga dimora
là dentro fe’, né fu veduta anchora.
11
E circa il vespro, poi che rifrescossi
e le fu aviso esser posata assai,
in certi drappi rozi aviluppossi,
dissimil troppo a’ portamenti gai,
che verdi, gialli, persi, azurri e rossi
hebbe, e di quante foggie furon mai;
non le può tôr perhò tanto humil gonna,
che bella non rassembri e nobil donna.
12
Taccia chi loda Phyllide o Neera
o Amarylli o Galatea fugace;
che d’esse alcuna sì bella non era,
Tityro e Melibeo, con vostra pace.
La bella donna tol fuor de la schiera
de le iumente una che più le piace;
allhora allhora se le fece inante
un pensier di tornarsene in Levante.
13
Ruggiero intanto, poi c’hebbe gran pezzo
indarno atteso se la si scopriva,
e che s’avide del suo error da sezzo,
che non era vicina, e non l’udiva;
dove lasciato havea il cavallo, avezzo
in cielo e in terra, a rimontar veniva:
e ritrovò che s’havea tratto il morso,
e gìa per l’aria a più libero corso.
14
Fu grave e mala giunta all’altro danno
vederse ancho restar senza l’augello.
Questo, non men che ’l feminil inganno,
gli preme al cor; ma più che questo e quello,
gli preme e fa sentir noioso affanno
l’haver perduto il pretïoso annello,
per le virtù non tanto che vi sono,
quanto che fu de la sua donna dono.
15
Oltramodo dolente se ripose
indosso l’arme, e col scudo alle spalle
dal mar slungosse; e per le piaggie herbose
prese el camin verso una larga valle,
dove per mezo all’alte selve ombrose
vide il più lato e più segnato calle.
Non molto va, ch’a destra, ove più folta
è quella selva, un gran strepito ascolta.
16
Strepito ascolta e spaventevol suono
d’arme percosse insieme; onde s’affretta
tra pianta e pianta, e trova dui, che sono
a gran battaglia in poca piazza e stretta.
Non s’hanno alcun riguardo né perdono,
per far (non so di che) dura vendetta:
l’uno è gigante alla sembianza fiero,
e l’altro è ardito e franco cavalliero.
17
Il cavallier col scudo e cola spada,
saltando e quinci e quindi, si difende
perché la mazza sopra non gli cada,
con che il Gigante a duo man sempre offende;
giace del cavallier in su la strada
morto il caval. Ruggier, ch’al fatto attende,
subito inchina l’animo, e disia
che vincitor il cavallier ne sia.
18
Non che per questo gli dia alcuno aiuto;
ma se tira da parte, e sta a vedere.
Ecco col baston grave il più membruto
sopra l’elmo a duo man del minor fere.
De la percossa è il cavallier caduto;
l’altro, ch’el vide attonito giacere,
per darli morte l’elmo gli dislaccia;
e fa sì che Ruggier lo vede in faccia.
19
Vede Ruggier de la sua dolce e bella
e carissima donna Bradamante
scoperto il viso; e lei vede esser quella
a chi dar morte vuol l’empio Gigante:
sì che a battaglia subito l’appella,
e con la spada nuda si fa inante;
ma quel, che nuova pugna non attende,
la donna tramortita in braccio prende,
20
e se l’arreca in spalla, e via la porta
come lupo talhor piccolo agnello,
o l’Aquila portar ne l’ugna torta
suole o Colombo o simile altro augello.
Vede Ruggier quanto il suo aiuto importa,
e vien correndo a più poter; ma quello
con tanta fretta i lunghi passi mena,
che con gli occhi Ruggier lo segue a pena.
21
Così correndo l’uno e seguitando
l’altro, per un sentier ombroso e fosco,
che sempre si venìa più dilatando,
in un gran prato uscîr fuor di quel bosco
verso un palazzo, quel proprio ove Orlando
dianzi arrivò, se ben lo riconnosco.
Dentro alla porta il gran Gigante passa;
dopo arriva Ruggier, né seguir lassa.
22
Tosto che pon dentro alla soglia il piede,
per la gran corte e per le loggie mira;
né più il gigante o più la donna vede,
e gli occhi indarno hor quinci hor quindi aggira.
Di su di giù va molte volte e riede,
né gli succede mai quel che disira;
né si sa imaginar dove sì tosto
con la donna il fellon si sia nascosto.
23
Poi che cercato ha quattro volte e cinque
di su e di giù camere e loggie e sale,
pur di nuovo ritorna, e non relinque
cercar dal tetto fin sotto le scale.
Uscia al fin per veder se in le propinque
selve la trovi: ma una voce, quale
richiamò Orlando, lui chiamò non manco;
e nel palazzo il fe’ ritornare ancho.
24
Una voce medesma, una persona
ch’al buono Orlando Angelica era parsa,
parve a Ruggier la donna di Dordona
che gli ha d’amor l’anima accesa et arsa.
Se con Gradasso o con altrui ragiona
di quei signor di che la stanza è sparsa,
a tutti par che quella cosa sia
che più ciascun per sé brama e disia.
25
Questo era un nuovo e disusato incanto
c’havea composto Atlante di Carena,
perché Ruggier fusse occupato tanto
in quel travaglio, in quella dolce pena,
ch’el mal influsso n’andasse da canto,
l’influsso che a morir giovene il mena.
Dopo il castel d’acciar, che nulla giova,
e dopo Alcina, Atlante anchor fa prova.
26
Non pur costui, ma tutti li altri anchora
che di valor in Francia han maggior fama,
acciò che di lor man Ruggier non mora,
condurre Atlante in questo incanto trama.
E mentre fa lor far quivi dimora,
perché di cibo e nutrimento brama
non habbiano a patire, havea il palagio
fornito sì, che vi si sta con agio.
27
Ma torniamo ad Angelica, che seco
havendo quello annel mirabil tanto,
che quando è chiuso in bocca ognun fa cieco
in veder lei, nel dito tol l’incanto;
e ritrovato nel montano speco
cibo havendo e cavalla e veste e quanto
le fu bisogno, havea fatto disegno
in India ritornarsene al suo regno.
28
Orlando volentier o Sacripante
voluto havrebbe in compagnia: non ch’ella
più caro havesse l’un che l’altro amante;
anzi di par fu a-llor disii ribella.
Ma devendo, per girsene in Levante,
passar tante città, tante castella,
di compagnia l’era bisogno e guida,
né potea haver con altri la più fida.
29
Hor l’uno hor l’altro andò molto cercando,
prima che indicio ne trovasse o spia,
quando in cittadi, e quando in ville, e quando
in alti boschi, e quando in altra via.
Fortuna al fin là dove il conte Orlando,
Ferraù e Sacripante era, l’invia,
con Ruggier, con Gradasso et altri molti
che ve havea Atlante in strano intrico avolti.
30
Quivi ella intrò che non la vide il Mago,
e cercò il tutto (ascosa dal suo annello);
e vide Orlando e Sacripante vago
di lei cercare invan per quello hostello;
e s’accorse che Atlante con l’imago
d’essa gran fraude usava a questo e a quello.
Di questi dua vuole un per guida tôrsi,
ma qual più presto non sapea risciorsi.
31
Non sa per scorta sua qual sia migliore,
o il conte Orlando o il Re de li Circassi.
Orlando la potrà con più valore
meglio salvar nei perigliosi passi:
ma se sua guida il fa, lo fa signore;
né sa veder da poi come l’abbassi,
qualunque volta, di lui satia, farlo
voglia minor, o in Francia rimandarlo.
32
Ma il Circasso depor quando le piaccia
potrà, se ben l’havesse posto in cielo:
questa sola ragion vuol ch’ella il faccia
sua scorta e mostri havergli fede e zelo.
L’annel trasse di bocca, e di sua faccia
levò da gli occhi a Sacripante il velo:
credette a lui sol dimostrarsi, e avenne
ch’Orlando e Ferraù le sopravenne.
33
Le sopravenne Ferraù et Orlando;
che l’uno e l’altro parimente giva
di su di giù, dentro e di fuor cercando
del gran palazzo lei, ch’era lor diva.
Corser di par tutti alla donna, quando
nessuno incantamento l’impediva:
perché l’annel ch’ella si pose in mano
fece d’Atlante ogni disegno vano.
34
L’usbergo indosso haveano e l’elmo in testa
dui di questi guerrier, di chi vi canto;
né notte o dì, dopo ch’intraro in questa
stanza, l’haveano mai messo da canto;
che facile a portar come la vesta
era lor, perché in uso l’havean tanto.
Ferraù il terzo era ancho armato, excetto
che non havea, né volea haver elmetto,
35
fin che quel non havea, ch’el paladino
tolse Orlando al fratel del Re Troiano;
ch’allhora lo giurò, che l’elmo fino
cercò de l’Argalìa nel fiume invano;
e se ben quivi Orlando hebbe vicino,
né fu perhò con lui di ciò alle mano:
avenne che connoscersi tra loro
non si potêr, mentre là dentro fôro.
36
Era così incantato quello albergo,
ch’insieme riconnoscer non poteansi;
né notte mai né dì, spada né usbergo
né scudo pur dal braccio rimoveansi.
Li lor cavalli con la sella al tergo,
pendendo i morsi dal arcion, pasceansi
in una stanza, che presso all’uscita
d’orzo e di paglia sempre era fornita.
37
Non seppe Atlante riparar, né puòte,
che non montasser quei tre cavallieri
per correr dietro alle vermiglie gote,
all’auree chiome et a’ belli occhi neri
de la donzella, ch’in fuga percuote
la sua iumenta, perché volentieri
non vide li tre amanti in compagnia,
che forse tolti un dopo l’altro havria.
38
E poi che dilungati dal palagio
li hebbe sì, che temer più non devea
che contra lor l’Incantator malvagio
potesse oprar la sua fallacia rea,
l’annel, che le schivò più d’un disagio,
tra le rosate labra si chiudea:
donde lor sparve subito da gli occhi,
e li lasciò come insensati e sciocchi.
39
Tutto che havesse già fatto disegno
di voler seco Orlando o Sacripante,
ch’a ritornar l’havessero nel regno
di Galaphrone in l’ultimo Levante,
le vennero amendua subito a sdegno,
e si mutò di voglia in uno instante:
e senza più ubligarsi o a questo o a quello,
pensò bastar per amendua el suo annello.
40
Volgon pel bosco hor quinci hor quindi in fretta
quelli scherniti la stupida faccia,
come il cane talhor, se gli è intercetta
Lepore o Volpe a cui dava la caccia,
che d’improviso in qualche tana stretta
o in densa macchia o in un fosso si caccia.
Di lor si ride Angelica proterva,
che non è vista, e lor progresso osserva.
41
Per mezo il bosco appar sola una strada:
credeno i cavallier che la donzella
inanzi a-llor per quella se ne vada;
che non se ne può andar se non per quella.
Orlando corre e Ferraù non bada,
né Sacripante men sprona e puntella.
Angelica la briglia più ritene,
e dietro lor con minor fretta vène.
42
Giunti che fur, correndo, ove i sentieri
a perder si venian ne la foresta,
e cominciâr per l’herba i cavallieri
a riguardar se vi trovavan pésta,
Ferraù, che potea, fra quanti altieri
mai fusser, gir con la corona in testa,
si volse con mal viso agli altri dui
e gridò lor: – Dove venite vui?
43
Tornate a dietro, o pigliate altra via,
se non volete rimaner qui morti:
né in amar né in seguir la donna mia
si creda alcun che compagnia comporti. –
Disse Orlando al Circasso: – Che potria
più dir costui, s’ambi n’havesse scorti
per due più vili e timide puttane
che da connocchie mai trahesser lane? –
44
Poi volto a Ferraù, disse: – Huom bestiale,
s’io non guardassi che senza elmo sei,
di quel c’hai detto, s’hai ben detto o male,
senza altra indugia accorger ti farei. –
Disse il Spagnol: – Di quel ch’a me non cale,
perché pigliarne tu cura ti déi?
Io sol contra ambedui per far son buono
quel che detto ho, senz’elmo come sono. –
45
– Deh (disse Orlando al Re di Circasia),
in mio servigio a costui l’elmo presta,
tanto ch’io gli habbia tratta la pazzia;
ch’altra non vidi mai simile a questa. –
Rispose il Re: – Chi più pazzo saria?
Ma se ti par pur la dimanda honesta,
prestagli il tuo; ch’io non serò men atto,
che tu sia forse, a castigare un matto. –
46
Suggiunse Ferraù: – Sciocchi voi, quasi
che, se mi fusse il portar elmo a-ggrado,
voi senza non ne fuste già rimasi;
che tolti i vostri harei vostro mal grado.
Ma per narrarvi in parte li miei casi,
per voto così senza me ne vado,
et anderò fin ch’io non ho quel fino
che porta in capo Orlando paladino. –
47
– Dunque – rispose sorridendo il Conte –
ti pensi a capo nudo esser bastante
far ad Orlando quel che in Aspramonte
egli già fece al figlio d’Agolante?
Anzi credo io, se tel vedessi a fronte,
che tremaresti dal capo alle piante;
non che volessi l’elmo, ma daresti
l’altre arme a lui di patto, che tu vesti. –
48
El vantator Spagnol disse: – Già molte
fïate e molte ho così Orlando astretto,
che facilmente l’arme gli harei tolte,
quante indosso n’havea, non che l’elmetto;
e s’io nol feci, occorrono alle volte
pensier che prima non s’haveano in petto:
non n’hebbi, già fu, voglia; hor l’haggio, e spero
che mi potrà succeder di liggiero. –
49
Non puòte haver più patïentia Orlando,
e gridò: – Mentitor, brutto Marano,
in che paese ti trovasti, e quando,
a poter più di me con l’arme in mano?
Quel paladin di che ti vai vantando
sono io, che ti pensavi esser lontano:
hor vedi se tu pòi l’elmo levarme,
o s’io son buon per tôrre a te l’altre arme;
50
né da te voglio un minimo vantaggio. –
Così dicendo, l’elmo si disciolse
e lo suspese a un ramuscel di faggio;
e quasi a un tempo Durindana tolse.
Di ciò non perse Ferraù il coraggio:
trasse la spada, e in atto si raccolse,
onde con essa e col levato scudo
potesse ricoprirsi il capo nudo.
51
Così li duo guerrieri incominciaro,
lor cavalli aggirando, a volteggiarsi,
e dove l’arme si giungeano, e raro
era più il ferro, col ferro tentarsi.
Non era in tutto il mondo un altro paro
che più di questo havessi ad accoppiarsi:
pari eran di vigor, pari d’ardire;
né l’un né l’altro si potea ferire.
52
C’habbiate, signor mio, già inteso estimo
che Ferraù per tutto era fatato,
fuor che là dove l’alimento primo
piglia il fanciul nel ventre anchor serrato:
e fin che del sepolchro il tetro limo
la faccia gli coprì, quel luogo armato
usò portar, dov’era il dubbio, sempre
di sette piastre fatte a buone tempre.
53
Era ugualmente il principe d’Anglante
tutto fatato, fuor che in una parte:
ferito esser potea sotto le piante,
ma le guardò con ogni studio et arte.
Duro era il resto lor più di diamante
(se la fama dal ver non si dipparte);
e l’uno e l’altro gìa più per ornato,
che per bisogno, in le sue imprese armato.
54
S’incrudelisce e inaspra la battaglia,
d’horrore in vista e di spavento piena:
Ferraù quando punge e quando taglia,
né mena botta che non vada piena;
ogni colpo d’Orlando o piastra o maglia
dischioda, rompe et apre e a straccio mena.
Angelica invisibil lor pon mente,
che sola a tal spettacolo è presente.
55
Intanto il Re di Circasia, stimando
che Angelica dinanzi gli corresse,
poi che attaccati Ferraù et Orlando
vide restar, per quella via si messe
che si credea che la donzella, quando
da lor disparve, seguitata havesse:
sì che a quella battaglia la figliuola
di Galafron fu testimonia sola.
56
Poi che, horribil come era e spaventosa,
l’hebbe da parte ella mirata alquanto,
e che le parve assai pericolosa
così da l’un come da l’altro canto;
di veder novità volontarosa,
disegnò l’elmo tôr, per mirar quanto
fariano i duo guerrier, vistosel tolto;
ben con pensier di non tenerlo molto.
57
Havea di darlo al Conte intentïone,
ma di lui prima volea tôrse giuoco.
Viene e tol l’elmo, e in gremio se lo pone,
e sta a mirar i cavallieri un poco;
indi si parte, e non fa lor sermone;
e lontana era un pezzo da quel luoco
prima che i cavallier v’havesser mente:
sì l’uno e l’altro era ne l’ira ardente.
58
Ma Ferraù, che prima v’hebbe gli occhi,
si ritrasse da Orlando, e disse a lui:
– Deh come n’ha da male accorti e sciocchi
trattati il cavallier che era con nui!
Che premio fia ch’al vincitor più tocchi,
se ’l bel elmo involato n’ha costui? –
Ritrassi Orlando, e gli occhi al ramo gira:
non vede l’elmo, e tutto avampa in ira.
59
E nel parer di Ferraù concorse,
ch’el cavallier che dianzi era con loro
se lo portasse; onde la briglia torse
e fe’ sentire i sproni a Brigliadoro.
Ferraù, che del campo il vide tôrse,
gli venne dietro; e poi che giunti fôro
dove in l’herba apparea l’orma novella
c’havea fatto il Circasso e la donzella,
60
el sentier prese alla sinistra il Conte
verso una valle, ove il Circasso era ito;
si tenne Ferraù più presso al monte,
dove il sentiero Angelica havea trito.
Angelica in quel mezo ad una fonte
giunt’era, ombrosa e di giocondo sito,
ch’ognun che passa alle fresche ombre invita,
né senza ber mai lascia far partita.
61
Angelica si ferma alle chiare onde,
non pensando ch’alcun le sopravegna;
e per il sacro annel che la nasconde
non può temer che caso rio le avegna.
A prima giunta in su l’herbose sponde
del rivo, l’elmo a un ramuscel consegna;
poi cerca, ove nel bosco è miglior frasca,
la iumenta legar, sì che si pasca.
62
Il cavallier di Spagna, che venuto
era per l’orme, alla fontana giunge.
Non l’ha sì presto Angelica veduto,
che gli dispare, e la cavalla punge:
l’elmo, che sopra l’herba era caduto,
ritor non può, che troppo resta lunge.
Come il Pagan d’Angelica s’accorse,
tosto vêr lei pien di leticia corse.
63
Gli sparve (come io dico) ella dinante,
come fantasma al dipartir del sonno.
Cercando egli la va per quelle piante,
né i miseri occhi più veder la ponno.
Biastemmiando Machone e Trivigante,
e di sua legge ogni maestro e donno,
ritornò Ferraù verso la fonte,
dove in l’herba giacea l’elmo del Conte.
64
Lo riconnobbe, tosto che mirollo,
per letere che havea scritte nel orlo,
che dicean dove Orlando guadagnollo,
e come e quando, et a chi fe’ deporlo.
Armossene il Pagano il capo e il collo;
che non lasciò, pel duol c’havea, di tôrlo,
pel duol c’havea di quella che gli sparve
come sparir soglion notturne larve.
65
Poi che allacciato s’ha il buon elmo in testa,
aviso gli è che a contentarsi a pieno
sol ritrovare Angelica gli resta,
che gli appar e dispar come baleno.
Per lei tutta cercò l’alta foresta:
e poi ch’ogni speranza venne a meno
di più poterne ritrovar vestigi,
tornò al campo spagnol presso a Parigi,
66
temperando il dolor che gli ardea il petto,
di non haver sì gran disir sfogato,
col refrigerio di portar l’elmetto
che fu d’Orlando, come havea giurato.
Dal Conte (poi che ’l certo gli fu detto)
fu lungamente Ferraù cercato;
né fin quel dì dal capo gli lo sciolse,
che fra duo ponti la vita gli tolse.
67
Angelica invisibile e soletta
via se ne va, ma con turbata fronte;
che de l’elmo le dòl, che troppa fretta
le havea fatto lasciar presso alla fonte.
– Per voler far quel ch’a me far non spetta
(tra sé dicea), levato ho l’elmo al Conte:
questo, pel primo merito, è assai buono
di quanto a lui pur ubligata sono.
68
Con buona intentïone (e sallo Idio),
(ben che diverso e tristo effetto segua)
io levai l’elmo: e solo il pensier mio
fu di ridur quella battaglia a triegua;
e non che per mio mezo il suo disio
questo brutto Spagnolo hoggi consegua. –
Così di sé s’andava lamentando
d’haver de l’elmo suo privato Orlando.
69
Sdegnata e mal contenta, la via prese
che le parea miglior verso Orïente.
Più volte ascosa andò, talhor palese,
secondo era opportuno, infra la gente.
Dopo molto veder molto paese,
giunse in un bosco, dove iniquamente
fra duo compagni morti un giovinetto
trovò, che era ferito in mezo ’l petto.
70
Ma non dirò d’Angelica più inante,
che molte cose ho da narrarvi prima;
né sono a Ferraù né a Sacripante
sin a gran pezzo per donar più rima.
Mi tol da tutti il principe d’Anglante,
che di sé vuol che nanzi alli altri exprima
le fatiche e li affanni che sostenne
nel gran disio, di che a fin mai non venne.
71
Alla prima città ch’egli ritrova
(perché d’andare occulto havea gran cura)
si pone in capo una barbuta nuova
senza mirar s’ha debil tempra o dura:
sia qual si vol, poco gli nuoce o giova;
tanto in la fatagion si rassicura.
Così coperto, séguita l’inchiesta;
né notte o dì, né pioggia o sol l’arresta.
72
Era ne l’hora che trahea i cavalli
Phebo del mar con rugiadoso pelo,
e l’Aurora di fior vermigli e gialli
iva spargendo d’ognintorno il cielo;
e lasciato le stelle haveano i balli,
e per celarsi postosi già il velo;
quando appresso a Parigi, un dì passando,
mostrò di sua virtù gran segno Orlando.
73
Vi s’incontrò due squadre: e Manilardo
ne reggea l’una, il Saracin canuto,
Re di Noricia, già fero e gagliardo,
hor miglior di consiglio che d’aiuto;
guidava l’altra sotto il suo stendardo
el Re di Tremisen, ch’era tenuto
tra li Africani cavallier perfetto:
Alzirdo fu (da chi ’l connobbe) detto.
74
Questi con l’altro exercito pagano
quella invernata havean fatto soggiorno,
chi presso alla città, chi più lontano,
tutti in le ville o in le castella intorno:
c’havendo speso il Re Agramante invano
(per expugnar Parigi) più d’un giorno,
vòlse tentar l’assedio finalmente,
poi che pigliar non lo potea altrimente.
75
E per far questo havea gente infinita;
che oltra quella che con lui giunta era,
e quella che di Spagna havea seguita
del Re Marsilio la real bandiera,
molta di Francia n’havea al soldo unita;
che da Parigi insino alla rivera
d’Arli, con parte di Guascogna (excetto
alcune ròcche), havea tutto suggetto.
76
Hor cominciando i trepidi ruscelli
a sciorre il freddo giaccio in tepide onde,
e prati di nuove herbe, e li arbuscelli
a rivestirsi di tenera fronde,
ragunò il Re Agramante tutti quelli
che seguian le fortune sue seconde,
per farse rassegnar tutta la torma;
indi alle cose sue dar miglior forma.
77
A questo effetto il Re di Tremisenne
con quel de la Noritia ne venìa,
per là giungere a tempo, ove si tenne
poi conto d’ogni squadra o buona o ria.
Orlando a caso ad incontrar si venne
(come io v’ho detto) in questa compagnia,
cercando pur colei, come egli era uso,
ch’in la pregion d’Amor lo tenea chiuso.
78
Come Alzirdo appressar vide quel Conte
che di valor non havea par al mondo,
in tal sembiante, in sì superba fronte
ch’el Dio de l’arme a lui parea secondo,
restò stupito alle fattezze conte,
al fiero sguardo, al viso furibondo,
e lo stimò guerrier d’alta prodezza:
ma hebbe del provar troppa vaghezza.
79
Era giovene Alzirdo, et arrogante
per molta forza, e per gran cor pregiato.
Per giostrar spinse il suo cavallo inante:
meglio per lui se fusse in schiera stato;
perché nel scontro il principe d’Anglante
lo fe’ cader, per mezo ’l cor passato.
Giva in fuga il destrier di timor pieno;
che su non v’era chi reggesse il freno.
80
Levasi un grido sùbito et horrendo,
che d’ognintorno n’ha l’aria ripiena,
come si vede il giovene, cadendo,
spicciar il sangue di sì larga vena.
La turba verso il Conte vien fremendo
disordinata, e tagli e punte mena;
ma quella è più, che con pennuti dardi
da lungi infesta il fior de li gagliardi.
81
Con quel rumor che la setosa frotta
correr da monti suole o da campagne,
s’el Lupo uscito di nascosa grotta
o l’Orso sceso alle minor montagne
un tener porco preso habbia talhotta,
che con alto grugnir molto si lagne;
il barbarico stuolo erasi mosso
verso il Conte, gridando: – Adosso, adosso! –
82
Saette, lance e mazze hebbe in l’usbergo
mille ad un tempo, e nel scudo altretante:
chi gli percuote con la spada il tergo,
chi minaccia da lato, e chi davante.
Ma quel, ch’al timor mai non diede albergo,
estima la vil turba e l’arme tante
quel ch’in la grassa mandra, al aer cupo,
il numer de l’agnelle faccia il Lupo.
83
Nuda havea in man quella fulminea spada
che posti ha tanti Saracini a morte:
dunque chi vuol di quanta turba cada
tenere il conto, ha impresa dura e forte.
Rossa di sangue già correa la strada,
capace a pena a tante genti morte;
perché né targa né capèl difende
la fatal Durindana, ove discende,
84
né vesta piena di cottone, o tele
che circondino il capo in mille vòlti.
Non pur per l’aria gemiti e querele,
ma volan braccia e spalle e capi sciolti.
Pel campo errando va Morte crudele
in molti varii, e tutti horribil volti;
e tra sé dice: – In man d’Orlando valci
Durindana per cento de mie falci. –
85
Una percossa a pena l’altra aspetta.
Al fin gli cominciâr nanzi a fuggire;
e quando prima ne veniano in fretta,
perché era sol, credeanselo ingiottire,
non è chi per levarsi de la stretta
l’amico attenda, e cerchi insieme gire:
chi fugge a piedi qua, chi colà sprona;
nessun dimanda se la strada è buona.
86
Virtude andava intorno con un speglio
che fa veder nel’anima ogni ruga:
nessun vi si mirò, se non un veglio
a cui ’l sangue l’età, non l’ardir, sciuga.
Vide costui quanto il morir sia meglio,
che con suo dishonor mettersi in fuga:
dico il Re di Noricia, onde la lancia
arrestò contra il paladin di Francia.
87
L’hasta si ruppe alla penna del scudo
del fiero Conte, che nulla si mosse.
Egli che havea alla posta il brando nudo,
Re Manilardo al trappassar percosse.
Fortuna l’aiutò; ch’el ferro crudo
in man d’Orlando al venir giù voltosse:
tirar i colpi a filo ognhor non lece;
ma pur di sella tramazzare il fece.
88
Stordito de l’arcion quel Re tramazza:
non si rivolge Orlando a rivederlo;
che li altri taglia, tronca, fende, amazza:
a tutti pare in su le spalle haverlo.
Come stornelli in arïosa piazza
fuggeno nanzi da Falcone o Smerlo,
così di quella squadra homai disfatta
altri cade, altri fugge, altri s’appiatta.
89
Non cessò pria la sanguinosa spada
che fu di viva gente il campo vuoto.
Orlando è in dubbio a ripigliar la strada,
ben che gli sia tutto il paese noto.
O da man destra o da sinistra vada,
el pensier da l’andar sempre è remoto:
teme che la sua donna in quella parte
si resti, onde esso errando più si parte.
90
El suo camin (di lei chiedendo spesso)
hor per li campi, hor per le selve tenne:
e (sì come era uscito di se stesso)
uscì di strada; e a piè d’un monte venne,
dove la notte fuor d’un sasso fesso
vide un piccol splendor batter le penne.
El Conte presto a quel sasso s’accosta,
sperando in esso Angelica reposta.
91
Come nel bosco del humìl Ginepre,
o ne la stoppia alla campagna aperta,
quando si cerca la paurosa Lepre
per traversati solchi e per via incerta,
vassi ad ogni cespuglio, ad ogni vepre,
se per ventura vi fusse coperta;
così cercava Orlando con gran pena
la donna sua, dove speranza il mena.
92
Verso quel raggio andò con fretta il Conte,
e giunse onde in la selva se diffonde
dal angusto spiraglio di quel monte,
ch’una capace grotta in sé nasconde;
e trova nanzi, ne la prima fronte,
spini e virgulti, come mura e sponde
per celar quei ch’in la spelonca stanno
da chi cercasse lor, per lor far danno.
93
Di giorno ritrovata non sarebbe,
ma la facea di notte il lume aperta.
Orlando pensa ben quel ch’esser debbe;
pur vuol saper la cosa ancho più certa.
Poi che legato fuor Brigliadoro hebbe,
tacito viene alla grotta coperta;
e fra li spessi rami intra in la buca,
senza chiamar di fuor chi l’introduca.
94
Scende la tomba molti gradi al basso,
in che la viva gente sta sepolta:
era non poco spatïoso il sasso
tagliato a punte di scarpelli in volta;
né di luce dïurna in tutto casso,
ben che l’intrata non ne dava molta;
ma ve ne venìa assai da una finestra
che sporgea in un pertugio da man destra.
95
In mezo la spelonca, presso a un fuoco,
era una donna di giocondo viso:
quindece anni passar devea di poco,
quanto fu al Conte, al primo sguardo, aviso;
et era bella sì, che facea il luoco
salvatico parere un paradiso,
ben che havea gli occhi di lachrime pregni,
del cor dolente manifesti segni.
96
V’era una vecchia; e facean gran contese
(come uso feminil spesso esser suole),
ma come il Conte ne la grotta scese,
finiron le dispùte e le parole.
Orlando a salutarle fu cortese
(come con donne sempre esser si vuole),
et elle si levaro immantinente,
e lui risalutâr benignamente.
97
È ver che si smarriro in faccia alquanto
come improviso udiron quella voce,
et ad un tempo armato tutto quanto
videro intrar un huom tanto feroce.
Orlando dimandò qual fusse tanto
scortese, ingiusto, barbaro et atroce,
ch’in la caverna tenesse sepolto
un sì gentile et amoroso volto.
98
La vergine a fatica gli rispose,
interrotta da fervidi signiozzi,
che da coralli e perle pretïose
faceano i dolci accenti venir mozzi.
Le lachrime scendean tra gigli e rose,
là dove avien ch’alcuna se n’ingozzi.
Piacciave in l’altro canto udire il resto,
signor, ch’è tempo homai di finir questo.

CANTO UNDECIMO

1
Ben furo aventurosi i cavallieri
di quella età, che in li horridi valloni,
in le scure spelonche e boschi fieri,
tane di Serpi, d’Orsi e di Leoni,
trovavan quel che ne i palazzi altieri
a pena hor trovar puon giudici buoni:
donne, che in lor più lieta e fresca etade
sian degne d’haver titol di beltade.
2
Di sopra vi narrai che ne la grotta
havea trovato Orlando una donzella,
e che le dimandò ch’ivi condotta
l’havesse: hor seguitando dico ch’ella,
poi che d’alcun’ signiozzi fu interrotta,
con dolce e suavissima favella
le sue fortune al Conte fece note
con quella brevità che meglio puòte.
3
– Ben che io sia certa (disse), cavalliero,
ch’io portarò del mio parlar supplicio,
perché a colui che qui m’ha chiusa spero
che costei ne darà subito indicio,
io son disposta non celarti el vero;
poi me n’avenga qual si voglia exicio.
E che attender posso io da lui più gioia,
ch’el si dispona un dì voler ch’io muoia?
4
Issabella sono io, che figlia fui
del Re mal fortunato di Gallitia.
Ben dissi fui; c’hor non son più di lui,
ma di dolor, d’affanno e di mestitia.
Colpa d’Amor: ch’io non saprei di cui
dolermi più che de la sua nequitia;
che dolcemente ne i principii applaude,
e tesse di nascosto inganno e fraude.
5
Già mi vivea di mia sorte felice,
gentil, giovane, ricca, honesta e bella:
vile e povera hor sono, hor infelice;
e s’altra è peggior sorte, io son in quella.
Ma voglio sappi la prima radice
che produsse quel mal che mi flaggella;
e ben che aiuto poi da te non esca,
poco non mi parrà che te n’incresca.
6
Fece in Baiona il patre mio una giostra
(esser denno hoggimai dodice mesi).
Trasse la fama ne la terra nostra
a giostrar cavallier di più paesi;
fra li altri, o sia che Amor così mi mostra,
o che virtù pur se stessa palesi,
mi parve da lodar Zerbino solo,
che del gran Re di Scotia era figliuolo.
7
Il qual poi che far prove in campo vidi
miracolose di cavalleria,
fui presa del suo amore; e non m’avidi,
ch’io mi connobbi più non esser mia.
E pur (ben ch’el suo amor così mi guidi)
mi giova sempre havere in fantasia
ch’io non misi il mio core in luoco immondo,
ma nel più degno e bel c’hoggi sia al mondo.
8
Zerbino di bellezza e di valore
sopra tutti e’ signori era eminente.
Mostrommi, e credo mi portasse amore,
e che di me non fusse meno ardente.
Non ci mancò chi del commune ardore
interprete fra noi fosse sovente,
così poi che di vista fummo sgiunti,
ben che li animi ognhor stesser congiunti.
9
Perhò che dato fine alla gran festa,
il mio Zerbino in Scotia fe’ ritorno.
Se sai che cosa è Amor, ben sai che mesta
restai, di lui pensando notte e giorno;
et ero certa che non men molesta
fiamma intorno il suo cor facea soggiorno.
Egli non fece al suo disio più schermi,
se non che cercò via di seco havermi.
10
E perché vieta la diversa fede
(essendo egli christiano, io saracina)
ch’al mio padre per moglie non mi chiede,
per furto indi levarmi si destina.
Fuor de la ricca mia patria, che siede
tra verdi campi allato alla marina,
havevo un bel giardin sopra una riva,
che colli intorno e tutto il mar scopriva.
11
Gli parve il luoco a fornir ciò disposto
che la diversità de leggi vieta;
e mi fa saper l’ordine che posto
havea di far la nostra vita lieta.
Appresso a Santa Marta havea nascosto
con gente armata una Galea secreta;
n’havea guardia Odorico di Biscaglia,
in mare e in terra mastro di battaglia.
12
Né potendo in persona far l’effetto
(perché egli allhora era dal padre antico
a dar soccorso al Re di Francia astretto),
mandaria in vece sua questo Odorico,
che tra tutti i fedeli amici eletto
s’havea pel più fedele e lo più amico:
e bene esser devea, se i benefici
sempre hanno forza d’acquistar li amici.
13
Verria costui sopra un naviglio armato
al terminato tempo indi a levarmi.
E così venne il giorno disïato,
che dentro il mio giardin lasciai trovarmi.
Odorico la notte, acompagnato
di gente valorosa all’acqua e all’armi,
smontò ad un fiume alla città vicino
e venne chetamente al mio giardino.
14
Quindi fui tratta alla galea spalmata
prima che la città n’havesse avisi.
De la famiglia ignuda e disarmata
altri fuggiro, altri restaro uccisi,
parte captiva meco fu menata.
Così da la mia terra io mi divisi,
con quanto gaudio non ti potrei dire,
sperando in breve il mio Zerbin fruire.
15
Voltati sopra Mongia eramo a pena,
quando n’assalse alla sinistra sponda
un vento che turbò l’aria serena,
e turbò il mare e al ciel gli levò l’onda.
Salta un Maestro ch’a traverso mena,
e cresce ad hora ad hora e soprabonda;
e cresce e soprabonda con tal forza,
che val poco alternar poggia con orza.
16
Non giova calar vele e l’arbor sopra
corsia legar, né ruinar castella,
che si veggiàn (mal grado) portar sopra
acuti scogli appresso alla Rocella:
se non ne aiuta quel che sta di sopra,
ne spinge in terra la crudel procella.
El vento rio ne caccia in maggior fretta
che d’arco mai non s’aventò saetta.
17
Vide il periglio il Biscaglino, e a quello
usò un remedio che fallir suol spesso:
hebbe ricorso subito al battello;
calossi, e me calar fece con esso.
Sceser dui altri, e ne scendea un drapello
se i primi scesi l’havesser concesso;
ma con le spade li téner discosto:
tagliâr la fune, e s’allargaron tosto.
18
Fummo gettati a salvamento al lito
noi che nel palaschermo eramo scesi;
periron li altri col legno sdruscito;
in preda al mare andâr tutti li arnesi.
All’eterna Bontade, all’infinito
Amor, con le man giunte gratie io resi
che non m’havessi dal furor marino
lasciato tôr d’ancho veder Zerbino.
19
Come ch’io havessi sopra il legno e vesti
lasciato e gioie et altre cose care,
pur che la speme di Zerbin mi resti,
contenta son che s’habbi il resto il mare.
Non sono, ove scendemo, i liti pesti
d’alcun sentier, né intorno albergo appare,
ma solo il monte, a cui mai sempre fiede
l’ombroso capo il vento, e il mare il piede.
20
Quivi il crudel tyranno Amor, che sempre
d’ogni promessa sua fu disleale,
e sempre guarda come involva e stempre
ogni nostro disegno rationale,
mutò con triste e dishoneste tempre
mio conforto in dolor, mio bene in male;
che quel amico, in chi Zerbin sì crede,
di disire arse, et aggiacciò di fede.
21
O che m’havesse in mar bramata anchora,
né fusse stato a dimostrarlo ardito,
o comminciassi il desiderio allhora
che l’agio v’hebbe dal solingo lito;
disegnò quivi senza più dimora
condurre a fin l’ingordo suo appetito,
ma prima da sé tòrre un de li dui
che nel battel campati eran con nui.
22
Quell’era homo di Scotia, Almonio detto,
che mostrava a Zerbin portar gran fede,
e commendato per Guerrier perfetto
da lui fu, quando ad Odorico il diede.
Disse a costui che biasmo era e difetto
se mi traheano alla Rocella a piede,
e lo pregò ch’inanti volesse ire
a farmi contra alcun ronzin venire.
23
Almonio, che di ciò nulla temea,
innanzi immantinente il camin piglia
alla città, che ’l bosco n’ascondea
e non era lontana oltra sei miglia.
Odorico scoprir sua voglia rea
all’altro finalmente si consiglia,
sì perché tòr non se lo sa d’appresso,
parte che havea gran confidentia in esso.
24
Era Corebo di Bilbao nomato
quel di ch’io parlo, che con noi rimase,
che da piccol fanciul s’era allevato
con Odorico in le medesme case.
Poter con lui communicar l’ingrato
pensiero il Traditor si persuase,
sperando che devesse amar più presto
el piacer del amico, che l’honesto.
25
Corebo, che gentile era e cortese,
non lo puoté ascoltar senza gran sdegno:
lo chiamò traditore, e gli contese
con parole e con fatti il rio disegno.
Grande ira all’uno e all’altro il cor accese,
e con le spade nude ne fêr segno;
al trar de’ ferri, i’ fui da la paura
volta a fuggir per l’alta selva oscura.
26
Odorico, che mastro era di guerra,
in pochi colpi a tal vantaggio venne,
che per morto lasciò Corebo in terra,
e per le mie vestigie il camin tenne.
Prestògli Amor (se ’l mio creder non erra),
acciò potesse giungermi, le penne;
e l’insegnò molte lusinghe e prieghi
con che ad amarlo e compiacer mi pieghi.
27
Ma tutto è indarno; che fermata e certa
più presto ero a morir che a satisfarli.
Poi ch’ogni priego, ogni lusinga experta
hebbe e minaccie, e non potean giovarli,
si ridusse alla forza a faccia aperta.
Nulla mi val che supplicando parli
de la fé c’havea in lui Zerbino havuta,
e ch’io ne le sue man m’ero creduta.
28
Poi che gettar mi vidi i prieghi invano,
né mi sperar altronde altro soccorso,
e che più sempre cupido e villano
a me venìa come famelico Orso,
io mi difesi co piedi e con mano,
et adopra’vi sin al’ugna e il morso:
pela’gli il mento e gli graffiai la pelle,
con stridi che n’andavano alle stelle.
29
Non so se fusse caso, o li miei gridi
(che si deveano udir lungi una lega),
o pur ch’usati sien correre a i lidi
come naviglio alcun si rompe o annega;
sopra il monte una turba apparir vidi,
che dove al mare eramo noi si piega.
Come li vide il Biscaglin venire,
lasciò l’impresa, e comminciò a fuggire.
30
Contra quel disleal mi fu aiutrice
la turba; ma, signore, a quella image
che sovente in proverbio il volgo dice:
cader de la padella ne le brage.
È ver ch’io non son stata sì ’nfelice,
né le lor menti anchor tanto malvage
c’habbiano vïolata mia persona:
non che sia in lor virtù, né cosa buona;
31
ma perché se mi serban, come io sono,
vergine, speran vendermi più molto.
Finito è il mese ottavo e viene il nono
che fu il mio vivo corpo qui sepolto.
Del mio Zerbino ogni speme abbandono;
che già, per quanto ho da lor detti accolto,
m’han promessa e venduta a un mercadante
che portare al Soldan me de’ in Levante. –
32
Così parlava la gentil Donzella;
e spesso con signiozzi e con sospiri
interrompea l’angelica favella,
da movere a pietade Aspidi e Tiri.
Mentre sua doglia così rinovella,
o forse disacerba i suoi martìri,
intraron più di venti in la spelonca,
armati chi di spiedo e chi di ronca.
33
El primo d’essi, huom di spietato viso,
ha sol un occhio, e sguardo scuro e bieco;
l’altro, da un colpo che gli havea reciso
el naso e la mascella, è fatto cieco.
Costui vedendo il cavalliero assiso
con la vergine bella in mezo ’l speco,
volto a’ compagni, disse: – Ecco augel nuovo,
a cui non tesi, e ne la rete il trovo. –
34
Poi disse al Conte: – Huomo non vidi mai
più commodo di te, né più opportuno.
Non so se ti se’ apposto, o se lo sai
perché te l’habbia referito alcuno,
che sì bell’arme desïavo assai
et un sì vago portamento bruno:
venuto a tempo veramente sei
per riparar alli bisogni miei. –
35
Sorrise amaramente, in piè salito,
Orlando, e fe’ risposta al maschalzone:
– Io ti venderò l’arme ad un partito
che non ha mercadante in sua ragione. –
Del fuoco, c’havea appresso, indi rapito
havendo un grave e torrido tizzone,
trasse e percosse el malandrino a caso
dove confina con le ciglia il naso.
36
L’una e l’altra palpèbra il stizzo colse;
ma fece maggior danno in la sinistra,
che quella parte misera gli tolse
che de la luce sola era ministra.
Né d’acciecarlo contentar si vòlse
il colpo fier, s’anchor non lo registra
tra i spirti rei che ne i bollenti stagni
guarda Chiron con li altri suoi compagni.
37
Una gran mensa in la spelonca siede
grossa dua palmi, e spatïosa in quadro,
che sopra un grosso e mal dolato piede
cape con tutta la famiglia il ladro.
Con quell’agevolezza che si vede
gettar la canna alcun Spagnol liggiadro,
Orlando il grave desco da sé scaglia
dove ristretta insieme è la canaglia.
38
A chi giugne nel petto, a chi alla testa,
ne le gambe, ne’ fianchi e ne la faccia;
chi morto al tutto, chi stroppiato resta,
chi meno è offeso di fuggir procaccia;
come, s’el vïandante alla foresta,
con grave sasso, sbarrando le braccia,
fere una turba d’implicate biscie
che dopo il verno al sol si goda e liscie,
39
nascono casi ch’io non so dir quanti:
more una, e l’altra parte senza coda,
un’altra non si può mover dinanti
e il deretano indarno aggira e snoda;
altra, ch’in ciel forse ha propicii i santi,
striscia fra l’herbe e va serpendo a proda.
Il colpo horribil fu, ma non mirando,
poi che lo fece il valoroso Orlando.
40
Quei che la mensa o nulla o poco offese
(e Turpin scrive a punto che fur sette)
a i piedi raccomandan sue difese:
ma ne l’uscita il Paladin si mette;
e poi che presi li ha senza contese,
le man lor lega con la fune istrette,
con una fune al suo bisogno destra,
che ritrovò ne la casa silvestra.
41
Poi li strassina fuor de la spelonca
dove facea grand’ombra un vecchio sorbo.
Orlando con la spada i rami tronca
e quelli attacca per vivanda al corbo.
Non bisognò catena in capo adonca;
che per purgar il mondo di quel morbo
l’arbor medesmo li uncini prestolli,
con che pel mento Orlando ivi attaccolli.
42
La donna vecchia, amica a’ malandrini,
poi che restar tutti li vide extinti,
fuggì piangendo e stracciandosi i crini
per selve et boscarecci labyrinthi.
Subito, dopo aspri et malagevoli camini,
a gravi passi e dal timor sospinti,
in ripa a un fiume un cavallier scontrosse:
ma differisco a ricontar chi fosse;
43
e torno all’altra, che si raccomanda
al Paladin che non la lasci sola,
e dice di seguirlo in ogni banda.
Cortesemente Orlando la consola;
e quindi, poi ch’uscì con la ghirlanda
di rose adorna e di purpurea stola
la bianca Aurora al solito camino,
partì con Issabella il Paladino.
44
Senza trovar cosa che degna sia
d’historia, molti giorni insieme andaro;
e finalmente un cavallier per via,
che prigione era tratto, si scontraro:
chi fusse dirò poi; c’hor me ne svia
tal, di ch’udir non vi serà men caro.
La figliuola d’Amon io vi lasciai
languida dianzi in amorosi guai.
45
La bella donna, disïando invano
ch’a lei facesse il suo Ruggier ritorno,
stava a Marsiglia, et quindi era alle mano
con la gente infedel quasi ogni giorno,
che discorrea, rubando in monte e in piano,
per Linguadoca et per Provenza intorno;
e facea con gran laude ufficio vero
di savio duca e d’ottimo guerriero.
46
Standosi quivi, e di gran spatio essendo
passato ’l tempo che tornar a lei
il suo Ruggier devea, né lo vedendo,
vivea in timor di mille casi rei.
Un dì fra gli altri, che di ciò piangendo
stava solinga, le arrivò colei
ch’a Ruggier sanò ’l cor con medicina
sol d’un annello, ove ferillo Alcina.
47
Come a sé ritornar senza il suo amante
dopo sì lungo termine la vede,
resta pallida e smorta, e sì tremante
che non ha forza sostenersi in piede:
ma la Maga gentil se le fa inante
ridendo (poi che del timor s’avede);
e con viso giocondo la conforta,
qual haver suol chi buone nuove apporta.
48
– Non temer (disse) di Ruggier, Donzella,
che è vivo e sano, e t’ama, et è qui presso;
ma non già in libertà: che pur gli ha quella
tolta colui che gli la tol sì spesso.
A te convien, per lui slegar, che in sella
ne monti, et che me siegui adesso adesso;
ch’io ti darò (se m’ubidisci) via
che ’l tuo Ruggier per te libero fia. –
49
E seguitò narrandole di quello
magico error che gli havea ordito Atlante:
che simulando d’essa il viso bello,
che captiva parea del rio Gigante,
tratto l’havea nel incantato hostello,
dove sparito poi gli era dinante;
e come tarda con simile inganno
tutti li cavallier che di là vanno.
50
A tutti par, l’incantator mirando,
mirar quel che per sé brama ciascuno:
donna, scudier, compagno, amico; quando
il desiderio human non è tutto uno.
Quindi ’l Palagio van tutti cercando
con lungo affanno, e senza frutto alcuno;
e tanta è la speranza e il gran disire
del ritrovar, che non ne san partire.
51
– Come tu giungi (disse) in quella parte
che giace presso all’incantata stanza,
verrà l’incantatore a ritrovarte,
che terrà di Ruggier ogni sembianza;
e ti farà parer con sua mal’arte
ch’ivi lo vinca alcun di più possanza,
acciò che tu per aiutarlo vada
dove con li altri poi te tenga a bada.
52
Per non cader dunque in l’error de tanti,
ti convien esser cauta et avertita:
se ben del tuo Ruggier viso e sembianti
ti parrà di veder, che chieda aita,
non gli creder perhò; ma, come inanti
ti vien, fagli lasciar l’indegna vita;
né dubitar per ciò che Ruggier muoia,
ma ben colui che ti dà tanta noia.
53
Ti parrà duro assai (ch’io lo connosco)
uccider un che sembri il tuo Ruggiero:
pur non dar fede all’occhio tuo, che losco
farà l’incanto, e celaragli ’l vero.
Férmati, pria ch’io te conduca al bosco,
sì che poi non si cangi il tuo pensiero;
che sempre di Ruggier rimarai priva
se lasci per viltà che ’l Mago viva. –
54
La valorosa giovane, con questa
intentïon, ch’el fraudolento uccida,
a pigliar l’arme et a seguir è presta
Melissa; che sa ben quanto l’è fida.
Quella, hor per terren culto, hor per foresta,
a gran giornate e in gran fretta la guida,
cercando allevïarle tuttavia
con parlar grato la noiosa via.
55
E più di tutti i bei ragionamenti,
spesso le repetea ch’uscir di lei
e di Ruggier deveano li excellenti
Principi e glorïosi Semidei.
Come a Melissa fossero presenti
tutti i secreti de li eterni dèi,
tutte le cose ella sapea predire
c’havean per molti seculi a venire.
56
– Deh, come, o prudentissima mia scorta
(dicea alla Maga l’inclyta Donzella),
molti anni prima tu m’hai fatto accorta
di tanta mia viril progenie bella,
così d’alcuna donna mi conforta
che di mia stirpe sia, s’alcuna in quella
poner si può tra belle e virtüose. –
E la cortese Maga le rispose:
57
– Da te uscir veggio le pudiche donne,
matri de l’alti Imperatori e Regi,
reparatrici et solide colonne
de le gran case et de li stati egregi;
e non seran men degne in le lor gonne,
ch’in arme i cavallier, di summi pregi,
di pietà, di grand’animo e prudenza,
splendore, et senza par di continenza.
58
E s’havrò da narrarti di ciascuna
che ne la stirpe tua sia d’honor degna,
troppo serà; che non ne veggio alcuna
che passar con silentio mi convegna.
Ma ti farò, tra mille, eletta d’una
o di due coppie, acciò ch’a fin ne venga.
Duolmi che in la spelonca nol dicesti;
che l’imagini anchor veduto haresti.
59
De la tua chiara stirpe uscirà quella
d’opere illustri e de bei studii amica,
che non so ben se più leggiadra o bella
mi debba dir, o più saggia o pudica,
liberal e magnanima Issabella,
che del bel lume suo dì e notte aprica
farà la terra che sul Mincio siede,
a-ccui la madre d’Ocno il nome diede:
60
dove honorato e splendido certame
havrà col suo dignissimo consorte
chi di lor più le virtù prezzi et ame,
ch’apra di lor più a cortesia le porte.
S’un narrerà ch’al Tarro e nel Reame
fu a liberar da’ Galli Italia forte,
l’altra dirà: «Sol perché casta visse,
Penelope non fu minor d’Ulysse».
61
Gran cose e molte in brevi detti accolgo
di questa donna, e più drieto ne lasso,
ch’in quelli dì ch’io m’absentai dal volgo
mi fe’ chiare Merlin dal cavo sasso.
E s’in questo gran mar la vela sciolgo,
di lunga Tiphy in navigar trappasso:
conchiudo in summa ch’ella havrà, per dono
del cielo e sua virtù, ciò ch’è di buono.
62
Seco havrà la sorella Bëatrice,
a-ccui se converrà tal nome a punto:
ch’essa non sol del ben che qua giù lice,
per quel che viverà, toccherà il punto;
ma havrà possanza far seco felice,
tra tutti i ricchi duci, il suo congiunto;
il qual, com’ella poi lascierà il mondo,
così del’infelici anderà al fondo.
63
E Moro e Sforza e Vescontei colubri
(lei viva) formidabili saranno
da l’Hyperboree nevi a i lidi Rubri,
dal Indo a’ monti ch’al tuo mar via dànno;
(lei morta) andran col regno de l’Insubri,
e con grave di tutta Italia danno,
in servitude; et fia stimata, senza
costei, ventura la summa prudenza.
64
Vi saranno altre c’haveranno il nome
medesmo, et nasceran molti anni prima:
di ch’una s’ornerà le sacre chiome
de la corona di Pannonia opima;
un’altra, poi che le terrene some
lasciate havrà, fia nel Ausonio clima
collocata nel numer de le Dive,
et havrà incensi e imagini votive.
65
De l’altre tacerò; che come ho detto
lungo sarebbe a ragionar di tante,
ben che per sé ciascuna habbia suggetto
degno c’heroica e chiara tuba cante.
Le Bianche, le Lucretie io terrò in petto,
e Ginevre e Costanze, che di quante
splendide case Italia reggeranno,
reparatrici e madri ad essere hanno.
66
Più ch’altre fusser mai, le tue famiglie
saran ne le lor donne aventurose;
non dico in quella più de le lor figlie,
quanto ne la honestà de le lor spose.
E perché anchora tu notitia piglie
di questa parte che Merlin mi espose,
forse perch’io il devesse a te ridire,
ho di parlarne non poco disire.
67
E dirò prima di Ricciarda, degno
exempio di fortezza e di honestade:
vedova rimarrà, giovane, a sdegno
di Fortuna, il che spesso a’ buoni accade;
i figli, privi del paterno regno,
exuli andar vedrà in strane contrade,
fanciulli in man de li aversari loro;
ma infine havrà il suo male amplo ristoro.
68
Del nobil sangue d’Aragon non deggio
tacer la pudicissima Regina,
di cui la più magnanima non veggio
historia celebrar greca o latina;
né la più fortunata, quando seggio
scelto sarà da la Bontà divina
il ventre suo d’Hippolyto e Issabella,
d’Alfonso e de la prole inclyta e bella.
69
Costei sarà la saggia Leonora,
che nel tuo felice arbore se inesta.
Che ti dirò de la seconda nora,
succeditrice prossima di questa?
Lucretia Borgia, di cui d’hora in hora
la beltà, la virtù, la fama honesta
e la fortuna crescerà, non meno
che giovin pianta in morbido terreno.
70
Qual il stagno al ariento, il rame al oro,
il campestre papavero a la rosa,
il scialbo salce al sempre verde alloro,
dipinto vetro a gemma pretïosa;
tal a costei, ch’anchor non nata honoro,
sará ciascuna insino a qui famosa
di beltà, di grande animo e prudentia,
e d’ogni altra lodevole excellentia.
71
Lungo serà che di Alda di Sansogna
narri, o de la Contessa di Celano,
o di Bianca Maria di Catalogna,
o de la figlia del Re Siciliano,
o de la bella Lippa da Bologna,
e d’altre; che s’i’ vuo’ di mano in mano
venirti predicando le gran lode,
mi caccio in alto mar che non ha prode. –
72
Poi che le raccontò la maggior parte
de la futura stirpe a suo grande agio,
più volte e più le replicò del’arte
c’havea tratto Ruggier dentro al palagio.
Melissa si fermò, poi che fu in parte
vicina al luogo del vecchio malvagio;
e non le parve di venir più inante,
acciò veduta non fusse d’Atlante.
73
E la Donzella di nuovo consiglia
di quel che mille volte hormai le ha detto.
Sola la lascia; e quella oltra dua miglia
non cavalcò per un sentiero istretto,
che vede quel ch’al suo Ruggier simiglia;
e dua Giganti di crudele aspetto
intorno havea, che lo stringean sì forte,
ch’era vicino esser condutto a morte.
74
Come la Donna in tal periglio vede
colui c’ha di Ruggier tutti li segni,
subito cangia in suspition la fede,
subito oblia tutti li bei disegni:
che sia in odio a Melissa Ruggier crede,
per nuova ingiuria e non intesi sdegni,
e cerchi far con disusata trama
che sia morto da lei che così l’ama.
75
Seco dicea: – Non è Ruggier costui,
che col cor sempre, et hor con gli occhi veggio?
e s’hor non veggio e non connosco lui,
che mai veder o mai connoscer deggio?
Perché voglio io de la credenza altrui
che la veduta mia giudichi peggio?
che dato che io nol veggia, per se stesso
connoscerà il mio cor che gli è qui appresso. –
76
Mentre che così pensa, ode la voce,
che le par di Ruggier, chieder soccorso;
e vede quello a un tempo, che veloce
sprona il cavallo e gli rallenta il morso,
e l’uno e l’altro predator feroce,
che lo segue e lo caccia a tutto corso.
Di lor seguir la Donna non rimase,
che fu condutta all’incantate case;
77
di cui la soglia non intrò più presto
che fu sommersa nel commune errore.
Cercando andò, come faceva il resto,
invan di su e di giù, drento e di fuore:
e stette molti e molti giorni in questo
carcere, e tanto fa l’incantatore,
che tutto ’l dì Ruggier vede, e favella,
né Ruggier lei, né lui riconnosce ella.
78
Ma lascio Bradamante, e non v’incresca
udir che così resti in quello incanto;
che quando sarà ’l tempo ch’ella n’esca,
la farò uscire, e Ruggier altrotanto.
Come raccende il gusto il mutar esca,
così mi par che la mia historia, quanto
hor qua hor là più varïata sia,
meno a chi l’udirà noiosa fia.
79
Di molte fila esser bisogno parme
a condur la gran tela ch’io lavoro.
E perhò non vi spiaccia d’ascoltarme
come fuor de le stanze il popul Moro
dinanzi al Re Agramante ha preso l’arme;
che, molto minacciando ai Gigli d’oro,
lo fa assembrar ad una mostra nuova
per saper quanta gente se ritruova.
80
Perché oltra i cavallieri, oltra i pedoni
che s’avedeano esser mancati in copia,
mancavan capitani, e pur de’ buoni,
e di Spagna e di Lybia e di Ethïopia,
e le diverse squadre e natïoni
givano errando senza guida propia;
per dare e capo et ordine a ciascuna,
tutto il campo alla mostra si raguna.
81
In supplemento de le turbe uccise
ne le battaglie e ne’ spessi conflitti,
Marsilio in Spagna, et Agramante mise
in Africa, ove molti n’havean scritti;
e questi qua e là tutti divise,
tutti sotto i lor duci havea diritti.
Differirò, signor, con gratia vostra,
l’ordine in l’altro canto de la mostra.

CANTO DUODECIMO

1
Nei molti assalti e nei spessi conflitti
c’havuti havea con Francia Africa e Spagna,
morti erano infiniti, e derelitti
al Lupo, al Corvo, all’Aquila griphagna;
e ben che i Franchi fussero più afflitti,
che tutta havean perduta la campagna,
più si doleano i Saracin, per molti
principi e gran baron ch’eran lor tolti.
2
Hebbon vittorie così sanguinose,
che lor poco avanzò di che allegrarse:
e s’alle antique le moderne cose,
invitto Alphonso, denno assimigliarse,
la gran vittoria, onde alle virtüose
opere vostre può la gloria darse,
di che haver sempre lachrymose ciglia
Ravenna debbe, a queste s’assimiglia,
3
quando, cedendo Morini e Picardi,
l’exercito Normando e l’Aquitano,
voi nel mezo assaliste li stendardi
del quasi vincitor nemico Hispano,
seguendo voi li gioveni gagliardi,
che meritâr con valorosa mano
quel dì da voi, per honorati doni,
cinger le spade e li dorati sproni.
4
Con sì animosi petti, che vi fôro
vicini o poco lungi al gran periglio,
crollaste sì le ricche Giande d’oro,
sì rompeste il baston giallo e vermiglio,
ch’a voi si deve il triomphal alloro,
che non fu guasto né adhuggiato il Giglio.
D’un’altra fronde v’orna ancho la chioma
l’haver servato il suo Fabricio a Roma.
5
La gran Colonna del nome Romano,
che voi prendeste e che servaste intiera,
vi dà più honor che se di vostra mano
havesse uccisa la militia fiera,
quanta ne ingrassa il campo Ravegnano
e quanta se n’andò senza bandiera
d’Aragon, di Castiglia e di Navarra,
veduto non giovar spiedi né carra.
6
Quella vittoria fu più di conforto
che di allegrezza; perché troppo pesa
contra la gioia nostra il veder morto
il capitan di Francia e de l’impresa,
e seco haver una procella absorto
tanti principi illustri, che a difesa
de’ suoi confini e suoi confederati,
di qua da le fredde Alpi eran passati.
7
Nostra salute, nostra vita in questa
vittoria suscitata si connoscie,
che difende che ’l verno e la tempesta
di Giove irato sopra noi non croscie:
ma né goder potemo, né far festa,
sentendo li ramarichi e l’angoscie
ch’in veste bruna e lachrimosa guancia
le vedovelle fan per tutta Francia.
8
Bisogna che proveggia il Re Luigi
di nuovi capitani alle sue squadre,
che per honor de l’aurea Fiordiligi
castighino le man rapaci e ladre
che sore e frati, e bianchi, neri e bigi,
vïolati hanno, e sposa e figlia e madre;
gettato in terra Christo in sacramento
per tôrgli il tabernaculo d’ariento.
9
O misera Ravenna, t’era meglio
che al vincitor non fêssi resistenza;
far che ti fusse inanzi Brescia speglio,
che tu lo fussi a Arimino e a Faenza.
Manda, Luigi, il buon Traulcio veglio,
ch’insegni a questi tuoi più continenza,
e conti lor dil sangue che fu spanto
al vespro ch’intonò l’horribil canto.
10
Come di capitani bisogna hora
ch’el Re di Francia al campo suo proveggia,
così Marsilio et Agramante allhora,
per dar buon reggimento alla sua greggia,
da i luochi dove il verno fe’ dimora
vuol ch’in campagna all’ordine si veggia;
perché, vedendo ove bisogno sia,
guida e governo ad ogni schiera dia.
11
Marsilio prima, e poi fece Agramante
passar la gente sua schiera per schiera.
Li Cathalani a tutti gli altri inante
di Doriphebo van con la bandiera;
dopo vien, senza il suo Re Folvirante
(che per man di Rinaldo già morto era),
la gente di Navarra; et il Re Hispano
halle dato Isolier per capitano.
12
Balugante dil popul di Leone,
Grandonio cura de li Algarbi piglia;
el fratel di Marsilio, Falsirone,
ha seco armata la minor Castiglia.
Seguon di Madarasso il gonfalone
quei che lasciato han Malaga e Siviglia,
dal mar di Gade a Cordova feconda
le verdi ripe ovunque il Bethy inonda.
13
Stordilano e Tesira e Baricondo,
l’un dopo l’altro, mostra la sua gente:
Granata al primo, Ulispona al secondo,
è Maiorica al terzo ubidïente.
Fe’ Portugal, tolto Larbin dal mondo,
suo Re Tesira, di Larbin parente.
Poi vien Gallitia, che sua guida, in vece
di Maricoldo, Serpentino fece.
14
Quei di Tolledo e quei di Calatrava,
di c’hebbe Sinagon già la bandiera,
con tutta quella gente che si lava
in Guadïana e bee de la riviera,
l’audace Matalista governava;
lui seguia Bianzardino, e in una schiera
da Avila havea le genti e di Piagenza,
di Salamanca e Zamora e Palenza.
15
Di quei di Saragosa e de la corte
del Re Marsilio ha Ferraù il governo:
tutta la gente è ben armata e forte.
In questi è Malgarino e Balinverno,
Malzarise e Morgante, ch’una sorte
havea fatto habitar paese externo;
che poi che i regni lor lor furon tolti
Marsilio in Spagna havea tutti raccolti.
16
In questa è di Marsiglio il gran Bastardo,
Follicon d’Almeria, con Doriconte,
Bavarte e l’Argalifa et Analardo,
et Archidante, il Sagontino conte,
e l’Amirante e Langhiran gagliardo,
e Malagur c’havea l’astutie pronte
più che le forze, et altri et altri, ch’ove
tempo serà, vi mostrarò alle prove.
17
Poi che passò lo exercito di Spagna
con bella mostra inanzi il Re Agramante,
con la sua squadra apparve alla campagna
il Re d’Oran, che quasi era gigante.
L’altra che vien per Martasin si lagna,
il qual morto le fu da Bradamante;
e le duol ch’una femina si vanti
d’haverle ucciso il Re de’ Garamanti.
18
Seguia la terza schiera di Marmonda,
che Argosto morto abbandonò in Guascogna;
a questa un capo, come alla seconda
e come ancho alla quarta, dar bisogna.
Quantunque il Re Agramante non abonda
di capitani, pur ne finge e sogna:
dunque Buraldo, Ormida, Arganio elesse,
e capo e guida ad ogni stuol ne messe.
19
Diede ad Arganio quei di Libycana,
che piangean morto il negro Dudrinasso.
Guida Brunello i suoi di Tingitana,
con viso nubiloso e ciglio basso;
che, poi che ne la selva non lontana
dal castel c’hebbe Atlante in cima al sasso
gli fu tolto l’annel da Bradamante,
caduto era in disgratia al Re Agramante;
20
e se ’l fratel di Ferraù, Isoliero,
ch’al arbore legato ritrovollo,
non facea fede inanzi il Re del vero,
harebbe dato in su le forche un crollo.
Mutò, a’ prieghi di molti, il Re pensiero,
già havendo fatto porgli il laccio al collo:
gli lo fece levar, ma riserbarlo
pel primo error; che poi giurò impiccarlo:
21
sì che havea causa di venir Brunello
col viso mesto e con la testa china.
Seguia poi Farurante, e drieto a quello
eran cavalli e fanti di Maurina.
Venìa Libanio appresso, il Re novello:
la gente era con lui di Constantina,
perhò che la condutta e il scettro d’oro
gli ha dato il Re, che fu di Pinadoro.
22
Con la gente d’Hesperia Soridano,
e Dorilon ne vien con quei di Setta;
ne vien coi Nasamoni Pulïano.
Quelli d’Amonia il Re Agricalte affretta;
Malabuferso quelli di Fizano.
Da Finadurro è l’altra squadra retta,
che di Canaria viene e di Marocco;
Balastro ha quei che fur del Re Tardocco.
23
Duo squadre, una di Mulga, una d’Arzilla,
seguono: e questa ha ’l suo signor antico;
quella n’è priva, e perhò il Re sortilla
e diella a Corineo suo fido amico.
E così de la gente d’Almansilla,
c’havea Tanfirïon, fe’ Re Caìco;
diè quella di Getulia a Rimedonte.
Poi vien con quei di Cosca Balinfronte.
24
Quella altra schiera è la gente di Bolga:
suo Re è Clarindo, e già fu Mirabaldo.
Vien Baliverzo, il qual vuo’ che tu tolga
di tutto ’l gregge pel maggior ribaldo.
Non credo in tutto ’l campo si disciolga
bandiera c’habbia exercito più saldo
de l’altra con che segue il Re Sobrino,
né più di lui prudente Saracino.
25
Quei di Bellamarina, che Gualciotto
solea guidare, hor guida il Re d’Algieri
Rodomonte, e di Sarza, che condotto
di nuovo havea pedoni e cavallieri;
che mentre il Sol fu nubiloso sotto
el gran Centauro e i corni horridi e fieri,
fu in Africa mandato da Agramante,
onde venuto era tre giorni inante.
26
Non havea il campo d’Africa più forte,
né Saracin più audace di costui;
e più temean le Parigine porte,
et havean più cagion di temer lui,
che Marsilio, Agramante e la gran corte
c’havea seguito in Francia questi dui;
e più d’ogni altro che facesse mostra,
era nemico de la fede nostra.
27
Vien Prusïone, il Re de l’Alvaracchie;
poi quel de la Zumara, Dardinello.
Non so s’habbiano o nottule o cornacchie,
o altro manco et importuno augello
che da li tetti o da li arbori gracchie
futuro mal, predetto e a questo e a quello
che fissa in ciel nel dì seguente è l’hora
che l’uno e l’altro in la battaglia mora.
28
In campo non haveano altri a venire
che quei di Tremisenne e di Noritia;
né si vedea alla mostra comparire
il segno lor, né dar di sé notitia.
Stava Agramante, e non sapea che dire
né che pensar di questa lor pigritia;
fin che del Re di Tremisen condutto
gli fu un scudiero, il qual gli narrò ’l tutto
29
e del Re Alzirdo e del Re Manilardo,
che con molti de’ suoi giaceano al campo:
– Signor (diss’egli), il cavallier gagliardo
ch’ucciso ha i nostri, ucciso haria il tuo campo,
se fosse stato a tôrsi via più tardo
di me, che a pena anchor così ne scampo.
Fa quel di cavallieri e di pedoni
che ’l lupo fa di capre e di montoni. –
30
Era venuto pochi giorni inante
nel campo del Re d’Africa un Signore;
né in Ponente era, né in tutto Levante,
di più forza di lui, né di più core.
Gli facea grande honor il Re Agramante,
per esser costui figlio e successore
in Tartaria del Re Agrican gagliardo:
suo nome era il feroce Mandricardo.
31
Per molti chiari gesti era famoso,
e di sua fama tutto il mondo empìa;
ma lo facea più d’altro glorïoso
ch’al castel de la fata di Sorìa
l’usbergo havea acquistato luminoso
ch’Hettòr Troian portò mille anni pria,
per strana e formidabile aventura
che ’l ragionarne pur mettea paura.
32
Trovandosi costui dunque presente
a quel parlar, alzò l’ardita faccia;
e se dispose andare immantinente,
per trovar quel guerrier, dietro alla traccia.
Ritenne occulto il suo pensier in mente,
o sia perché d’alcun stima non faccia,
o perché tema, se ’l pensier palesa,
ch’un altro inanzi a lui pigli l’impresa.
33
A quel scudier fe’ dimandar come era
la sopravesta di quel cavalliero.
Colui rispose: – Quella è tutta nera,
e nero il scudo, e non ha alcun cimiero. –
E fu, signor, la sua resposta vera,
perché lasciato Orlando havea il quartiero;
che come dentro l’animo era in doglia,
così imbrunir di fuor vòlse la spoglia.
34
Marsilio a Mandricardo havea donato
un destrier baio a scorza di castagna,
con gambe e chiome nere; et era nato
di Frisa matre e di caval di Spagna.
Sopra vi salta Mandricardo armato,
e galoppando va per la campagna;
e giura non tornare a quelle schiere
se non trova il campion da l’arme nere.
35
Molti scontrò de la paurosa gente
che da le man d’Orlando era fuggita,
chi del figliuol, chi del fratel dolente,
che nanzi a gli occhi suoi perse la vita.
Anchora la codarda e trista mente
ne la pallida faccia era sculpita;
anchor, per la paura che havuto hanno,
pallidi, muti et insensati vanno.
36
Sprezzando lor, giunse l’altiero dove
crudel spettaculo hebbe et inhumano,
ma testimonio alle mirabil prove
che fur raconte inanzi al Re Africano.
Hor mira questi, hor quelli morti, e move,
e vuol le piaghe misurar con mano,
mosso da strana invidia che egli porta
al cavallier c’havea la gente morta.
37
Come il mastin che tardo al pasto giugne
dal bue lasciato morto da’ villani,
che trova sol le corna, l’ossa e l’ugne,
del resto son sfamati augelli e cani;
riguarda invano il teschio che non ugne:
così fa il crudel Barbaro in que’ piani;
per duol biastemmia e mostra invidia immensa
che tardi è giunto a così lauta mensa.
38
Quel giorno e mezo l’altro segue incerto
il cavallier dal negro, e ne dimanda.
Ecco vede un pratel d’ombre coperto,
che sì d’un alto fiume si ghirlanda,
che lascia a pena un breve spatio aperto
dove l’acqua si torce ad altra banda:
un simil luoco con girevole onda
sotto Ocricoli il Tevere circonda.
39
Dove intrar si potea, coll’arme indosso
stavano molti cavallieri armati.
Chiede il pagan chi li havea in stuol sì grosso
et a che effetto insieme ragunati.
Gli fe’ risposta il Capitano, mosso
dal signoril sembiante e da’ fregiati
d’oro e di gemme arnesi di gran pregio,
che lo mostravan cavalliero egregio.
40
– Dal nostro Re siàn (disse) di Granata
chiamati in compagnia de la figliuola,
la quale al Re di Sarza ha maritata,
ben che di ciò la fama anchor non vola.
Come appresso alla sera racchetata
la cicaletta sia, c’hor s’ode sola,
dinanzi al padre fra l’Hispane torme
la condurremo; intanto ella si dorme. –
41
Colui, che tutto il mondo vilipende,
disegna di veder presto la prova,
se quella gente bene o mal difende
la donna alla cui guardia si ritrova.
Disse: – Costei, per quanto se ne intende,
è bella; e di saperlo hora mi giova:
a-llei mi mena, o falla qui venire;
ch’altrove mi convien subito gire. –
42
– Esser per certo déi pazzo solenne, –
rispose il Granatin, né più gli disse.
Ma il Tartaro a ferir tosto lo venne
con l’hasta bassa, e il petto gli traffisse;
che la corazza il colpo non sostenne,
e forza fu che morto in terra gisse.
L’hasta ricovra il figlio d’Agricane,
perché altro da ferir non gli rimane.
43
Non porta spada né baston; che quando
l’arme acquistò che fur d’Hettòr Troiano,
perché trovò che lor mancava il brando,
gli convenne giurar (né giurò invano)
che sin che non togliea quella d’Orlando,
mai non porrebbe ad altra spada mano:
Durindana, che Aimonte hebbe in gran stima
e Orlando hor porta, Hettòr portava prima.
44
Grande è l’ardir del Tartaro, che vada
con disvantaggio tal contra coloro,
gridando: – Chi mi vuol vietar la strada? –
e con la lancia si cacciò tra loro.
Chi l’hasta abbassa, e chi tra’ fuor la spada;
chi tira l’arco, e d’ognintorno fôro.
Egli ne fece morire una frotta
prima che la sua lancia fusse rotta.
45
Rotta che se la vide, il gran troncone
che resta intiero ad ambe mano afferra;
e fa morir con quel tante persone
che non fu vista mai più crudel guerra.
Come tra’ Philistei l’hebreo Sansone
con la mascella che levò di terra,
scudi spezza, elmi schiaccia, e un colpo spesso
spenge i cavalli ai cavallieri appresso.
46
Correno a morte que’ miseri a gara,
né perché cada l’un, l’altro andar cessa;
che la maniera del morire, amara
lor par più assai che non è morte istessa.
Patir non ponno che la vita cara
tolta lor sia da un pezzo d’hasta fessa,
e siano sotto le picchiate strane
a morir giunti come biscie o rane.
47
Ma poi che a spese lor si furo accorti
che male in ogni guisa era morire,
essendo già presso ai duo terzi morti,
tutto lo avanzo comminciò a fuggire.
Come del proprio haver via se gli porti,
il Saracin crudel non può patire
che alcun di quella turba sbigottita
da lui partir si debbia colla vita.
48
Come in palude asciutta dura poco
stridula canna, o in campo àrrida stoppia
contra il soffio di Borea e contra il fuoco
che ’l cauto agricultor insieme accoppia,
quando la vaga fiamma occùpa il luoco
e scorre per li solchi, e stride e scoppia;
così costor contra la furia accesa
di Mandricardo fan poca difesa.
49
Poscia ch’egli restar vide l’intrata,
che mal guardata fu, senza custode,
per la via che di nuovo era segnata
ne l’herba, e al suon de li ramarchi ch’ode,
viene a veder la Donna di Granata,
se di bellezza è pare alle sue lode:
passa tra i corpi de la gente morta,
dove gli dà, torcendo il fiume, porta.
50
E Doralice in mezo ’l prato vede
(che così nome la Donzella havea),
la qual, suffolta da l’antico piede
d’un frassino silvestre, si dolea.
Il pianto, come un rivo che succede
di viva vena, nel bel sen cadea;
e nel bel viso si vedea ch’insieme
de l’altrui mal si duole, e del suo teme.
51
Crebbe il timor, come venir lo vide
di sangue brutto e con faccia empia e oscura,
e ’l grido sin al ciel l’aria divide,
di sé e de la sua gente per paura;
che, oltra i cavallier, v’erano guide
che de la bella Infante haveano cura,
maturi vecchi, e assai donne e donzelle
del regno di Granata, e le più belle.
52
Come il Tartaro vede quel bel viso
che non ha paragone in tutta Spagna,
e c’ha nel pianto (hor ch’esser de’ nel riso?)
tesa d’Amor l’inestricabil ragna,
non sa se vive o in terra o in paradiso;
né de la sua vittoria altro guadagna,
se non che in man de la sua prigionera
si dà prigione, e non sa in qual maniera.
53
A-llei perhò non si concede tanto
che del travaglio suo le doni il frutto:
ben che piangendo ella dimostri, quanto
possa donna mostrar, dolore e lutto,
egli, sperando volgerli quel pianto
in summo gaudio, era disposto al tutto
menarla seco; e sopra un bianco ubino
montar la fece, e tornò al suo camino.
54
Donne e donzelle e vecchi e l’altra gente,
ch’eran con lei venuti di Granata,
tutti licentïò benignamente,
dicendo: – Assai di me fia accompagnata;
io mastro, io balia, io le serò sergente
in tutti i suoi bisogni: a dio, brigata. –
Così, non gli possendo far riparo,
piangendo e suspirando se ne andaro,
55
tra lor dicendo: – Quanto doloroso
ne serà il patre, come il caso intenda!
quanta ira, quanto duol ne havrà il suo sposo!
oh come ne farà vendetta horrenda!
Deh, perché a tempo tanto bisognoso
non è qui presso a far che costui renda
il sangue illustre del Re Stordilano,
prima che se lo porti più lontano? –
56
De la gran preda il Tartaro contento,
che Fortuna e valor gli ha posta inanzi,
di trovar quel dal negro vestimento
non par c’habbia la fretta c’havea dianzi.
Correva dianzi: hor vien adagio e lento;
e pensa tuttavia dove si stanzi,
dove ritrovi alcun commodo luoco
per exhalar tanto amoroso fuoco.
57
Tuttavolta conforta Doralice,
c’havea di pianto e gli occhi e il viso molle:
compone e finge molte cose, e dice
che per fama gran tempo ben le volle;
e che la patria e il suo regno felice,
ch’el nome di grandezza agli altri tolle,
lasciò non per veder Spagna né Francia,
ma sol per contemplar sua bella guancia.
58
– Se per amar l’huom debbe essere amato,
merito il vostro amor, che v’ho amato io;
se per stirpe, di me chi è meglio nato?
ch’el possente Agrican fu il padre mio;
se per ricchezza, quale ha maggior stato?
che di dominio io cedo a pena a Idio;
se per valor, credo hoggi haver experto
ch’essere amato per valore io merto.
59
Queste parole et altre assai, che Amore
a Mandricardo di sua bocca ditta,
van dolcemente a consolare il core
de la Donzella di paura afflitta:
il timor cessa, e poi cessa il dolore
che le havea quasi l’anima trafitta.
Ella commincia con più patïenza
a dar più grata al suo amator udienza;
60
poi con risposte più benigne molto
a mostrarglise affabile e cortese,
e non negargli di fermar nel volto
talhor le luci di pietade accese:
onde l’amante, che dal stral fu colto
altre volte d’Amor, certeza prese,
non che speranza, che la donna bella
non gli serìa sempre ai disir ribella.
61
Con questa compagnia lieto e gioioso,
che sì gli satisfà, sì gli diletta,
essendo presso all’hora ch’a riposo
la fredda notte ogni animal alletta,
vedendo il Sol già basso e mezo ascoso,
comminciò a cavalcar con maggior fretta;
tanto che udì sonar zuffoli e canne,
e vide poi fumar ville e capanne.
62
Erano pastorali alloggiamenti,
miglior stanza e più commoda che bella.
Quivi el guardian cortese de li armenti
honorò il Cavalliero e la Donzella,
tanto che si chiamâr da lui contenti;
che non pur le cittadi e le castella,
ma li tugurii anchora e li fenili
han qualche volta li huomini gentili.
63
Che si facesse poi la notte al scuro
tra Doralice e il figlio d’Agricane,
io non l’ardisco a dir troppo sicuro,
ch’io non li vidi e non vi havea le mane:
ma v’era indicio che d’accordo furo;
che con ridente faccia la dimane
si levò Doralice, e gratie rese
al pastor che le fu tanto cortese.
64
Indi d’uno in un altro luogo errando,
si ritrovaro al fin sopra un bel fiume
che con silentio al mar va declinando,
che se vada o si stia, mal si presume;
limpido e chiaro sì, che in lui mirando,
senza contesa al fondo porta il lume;
e ’n ripa quello, a una fresca ombra e bella,
trovâr dui cavallieri e una donzella.
65
Hor l’alta fantasia, che un sentier solo
non vuol ch’i’ segua ognhor, quindi mi guida,
e mi ritorna ove il Moresco stuolo
assorda Francia di rumor e grida,
d’intorno il padiglione in che il figliuolo
del Re Troiano il santo Imperio sfida,
e Rodomonte audace se gli vanta
arder Parigi e spianar Roma santa.
66
Venuto ad Agramante era all’orecchio
che già l’Inglesi havean passato il mare;
perhò Marsilio e il Re del Garbo vecchio
e li altri capitan fece chiamare:
consiglian tutti a far grande apparecchio,
sì che Parigi possino expugnare;
ponno esser certi che più non se expugna
se nol fa prima che lo aiuto giugna.
67
Già scale innumerabili per questo
da’ luoghi intorno havea fatto raccôrre,
e crate assai di vimine contesto,
che le poteano a diversi usi porre;
e navi e ponti: e più facea ch’el resto
il primo e secondo ordine disporre
a dar l’assalto; et egli vuol venire
tra quei che la città denno assalire.
68
L’Imperatore, il dì che ’l dì precesse
de la battaglia, fe’ dentro a Parigi
per tutto celebrare uffici e messe
a preti, a frati e bianchi, neri e bigi;
e le genti che dianzi eran confesse,
e di man tolte all’inimici stygi,
tutti communicâr, non altrimente
c’havessero a morire il dì seguente.
69
Et egli, tra baroni e paladini,
principi et oratori, al maggior tempio
con gran religïone alli divini
atti intervenne, e ne diè a li altri exempio.
Con le man giunte e gli occhi al ciel supini,
disse: – Signor, ben che io sia iniquo et empio,
non voglia tua bontà, pel mio fallire,
ch’el tuo popul fedele habbia a patire.
70
E se gli è tuo voler ch’egli patisca
e c’habbia il nostro error degni supplìci,
almen la punition si differisca,
sì che per man non sia de’ tuoi nemici;
che quando lor d’uccider noi sortisca,
che nome havemo pur d’esser tuoi amici,
li pagani diran che nulla puoi,
che perir lasci i partigiani tuoi.
71
E per un che ti sia fatto ribelle,
cento ti si faran per tutto il mondo;
tal che la legge falsa di Babelle
cacciarà la tua fede e porrà al fondo.
Difende queste genti, che son quelle
ch’el tuo sepulchro hanno purgato e mondo
da’ brutti cani, e la tua santa Chiesa
con li vicarii tuoi spesso difesa.
72
So che i meriti nostri atti non sono
a satisfare il debito d’una oncia;
né devemo sperar da te perdono
se riguardamo a nostra vita sconcia:
ma se vi giungi di tua gratia il dono,
nostra ragion fia raguagliata e concia;
né il tuo soccorso disperar possiamo,
qualhor di tua pietà ci ricordiamo. –
73
Così dicea l’Imperator devoto,
con humiltade e contrition di core.
Giunse altri prieghi e convenevol voto
a sì grande uopo, all’alto suo splendore.
Non fu ’l caldo pregar d’effetto vuoto;
perhò ch’el Genio suo, l’Angel migliore,
tolse li prieghi e spiegò al ciel le penne,
et a narrarli al Salvator li venne.
74
E furo altri infiniti in quello instante
da tali messaggier portati a Dio;
che come l’ascoltâr l’anime sante,
dipinte di pietà nel viso pio,
tutti miraro il sempiterno Amante
e gli mostraro il commun lor disio,
che la giusta oration fusse exaudita
del populo christian che chiedea aita.
75
E la Bontà ineffabile, ch’invano
non fu pregata mai da cor fedele,
leva gli occhi pietosi, e fa con mano
cenno che venga a sé l’Angel Michele.
– Va’ (gli disse) all’exercito Christiano
che dianzi in Picardia calò le vele,
et al mur di Parigi l’appresenta,
ch’el campo saracin non se ne senta.
76
Trova prima il Silentio, e da mia parte
gli di’ che teco a questa impresa venga;
ch’egli ben vi saprà con ottima arte
proveder ciò che proveder convegna.
Fornito questo, subito va’ in parte
dove il suo seggio la Discordia tegna:
dille che l’esca e il fucil seco prenda,
e nel campo de’ Mori il fuoco accenda;
77
e tra quei che vi son detti più forti
sparga tante zizanie e tante liti
che combattano insieme; et altri morti,
altri ne siano presi, altri feriti,
e fuor del campo alcuni il sdegno porti,
sì che il suo Re poco al bisogno aiti. –
Non replica a tal detto altra parola
el benedetto Augel, ma dal ciel vola.
78
Dovunque drizza Michel Angel l’ale,
fuggon le nubi e torna il ciel sereno;
gli gira intorno un aureo cerchio, quale
veggiàn di notte lampeggiar baleno.
Seco pensa tra via dove si cale
el celeste Corrier per fallir meno
a trovar quel nemico di parole,
a cui la prima commission far vuole.
79
Vien scorrendo ov’egli habiti, ove egli usi;
e s’accordaro infin tutti i pensieri,
che de frati e de monachi rinchiusi
lo può trovare in chiese e monasteri,
dove sono i parlari in modo exclusi,
che ’l Silentio, ove cantano i salteri,
ove dormano, ove hanno la piatanza,
e finalmente è scritto in ogni stanza.
80
Credendo quivi ritrovarlo, mosse
con maggior fretta le dorate penne;
e di veder ch’anchor Pace vi fosse,
Quïete e Charità, sicuro tenne.
Ma da la opinïon sua ritrovosse
tosto ingannato che nel chiostro venne:
non è Silentio quivi; e gli fu ditto
che habitar non vi suol, se non in scritto.
81
Né Pietà, né Quïete, né Humiltade,
né quivi Amor, né quivi Pace mira.
Ben vi fur già, ma ne l’antiqua etade;
che le cacciâr Gola, Avaritia et Ira,
Superbia, Invidia, Inertia e Crudeltade.
Di tanta novità l’Angel s’ammira:
nel volersi partir guardò in la schiera,
e vide ch’ancho la Discordia v’era,
82
quella che gli havea detta il Patre eterno,
dopo il Silentio, che trovar devesse.
Pensato havea di far la via d’Averno,
che si credea che tra’ dannati stesse;
e ritrovolla in questo nuovo inferno
(chi ’l crederia?) tra santi ufficii e messe.
Non piace già a Michel ch’ella vi sia,
se ben gli tol di cercar lei gran via.
83
La connobbe al vestir di color cento,
fatto a liste inequali et infinite,
c’hor la coprono hor non; che i passi e il vento
qua le volgono e là, ch’eran sdruscite.
Li crini havea chi d’oro e chi d’ariento,
chi negro, e insieme haver pareano lite;
e chi ’n treccia, chi ’n nastro havea raccolti,
altri alle spalle, altri nel petto sciolti.
84
Havea di citationi e di libelli
piene le mani e di rescritti, quali
dianzi con disfattion de’ poverelli
mandava un capo torto a’ tribunali;
che credo, se nasciuto fusse a quelli
tempi come poi fece a’ nostri mali,
stato serìa tra li compagni brutti
de la Discordia, et il peggior di tutti.
85
La chiama a sé Michele, e le commanda
che tra i più forti Saracini scenda;
trovi cagion che lor, con memoranda
strage e ruina, insieme a lite accenda.
Poi del Silentio nuova le dimanda:
facilmente esser può ch’essa ne intenda,
sì come quella che accendendo fuochi
di qua e di là, va per diversi luochi.
86
Rispose la Discordia: – Io non ho a mente
in alcun luoco haverlo mai veduto;
udito l’ho ben nominar sovente
e molto commendarlo per astuto.
Ma la Fraude, una qui di nostra gente
che compagnia talvolta gli ha tenuto,
penso che dir te ne saprà novella; –
e verso una alzò il dito, e disse: – È quella. –
87
Havea piacevol viso, habito honesto,
un humil volger d’occhi, un andar grave,
un parlar sì benigno e sì modesto
che parea Gabriel che dicesse: Ave.
Era brutta e deforme in tutto il resto:
ma nascondea queste fattezze prave
con lungo habito e largo; e sotto quello
attosicato havea sempre il coltello.
88
Dimanda a costei l’Angelo che via
debbia tener, sì che ’l Silentio trove.
Disse la Fraude: – Già costui solia
fra virtudi habitare, e non altrove,
con quei di Benedetto e quei d’Helia
ne le abbadie, quando erano anchor nuove:
fece in le scole assai de la sua vita
al tempo di Pythagora e d’Archyta.
89
Mancati quei philosophi e quei santi
che lo solean tener pel camin ritto,
da li buoni costumi c’havea inanti
fece alle sceleraggini traghitto:
comminciò andar la notte con li amanti,
indi coi ladri, e fare ogni delitto.
Molto col Tradimento egli dimora;
veduto l’ho con l’Homicidio anchora.
90
Con quei che falsan le monete ha usanza
di ripararsi in qualche buca scura.
Muta sì spesso egli compagni e stanza,
che ’l ritrovarlo ti serìa ventura;
ma pur ho d’insegnartelo speranza:
se di arrivare a meza notte hai cura
alla casa del Sonno, senza fallo
potrai (che quivi dorme) ritrovallo. –
91
Ben che soglia la Fraude esser bugiarda,
pur è tanto il suo dir simil al vero
che l’Angelo le crede; indi non tarda
a volarsene fuor del monastero.
Tempra il batter de l’ale, e studia e guarda
giungere in tempo al fin del suo sentiero,
ch’alla casa del Sonno (che ben dove
era sapea) questo Silentio trove.
92
Giace in Arabia una valletta amena,
lontana da cittadi e da villaggi,
ch’all’ombra di duo monti è tutta piena
d’antiqui Abeti e di robusti Faggi.
Il Sole indarno il chiaro dì vi mena;
che non vi può mai penetrar coi raggi,
sì gli è la via da spessi rami tronca:
e quivi entra sotterra una spelonca.
93
Sotto la negra selva una capace
e spatïosa grotta entra nel sasso,
di cui la fronte l’Hedera seguace
tutta aggirando va con storto passo.
In questo albergo il grave Sonno giace;
l’Ocio da un canto corpulento e grasso,
da l’altro la Pigritia in terra siede,
che non può andare, e mal reggersi in piede.
94
El smemorato Oblio sta su la porta:
non lascia intrar, né riconnosce alcuno;
non ascolta ambasciata, né riporta;
e parimente tien cacciato ognuno.
El Silentio va intorno, e fa la scorta:
ha le scarpe di feltro, il mantel bruno;
et a quanti n’incontra, di lontano,
che non debbia venir, cenna con mano.
95
Se gli accosta all’orecchio, e pianamente
l’Angel gli disse: – Dio vuol che tu guidi
a Parigi Rinaldo con la gente
che per dar, mena, al suo signor sussidi:
ma che lo facci tanto chetamente
ch’alcun de’ Saracin non oda i gridi;
sì che più presto che ritrovi il calle
la Fama d’avisar, l’habbia alle spalle. –
96
Altrimente il Silentio non rispose
che del capo accennando che faria,
e drieto ubidïente se gli pose:
e furo al primo volo in Picardia.
Michel mosse le squadre coraggiose,
e fe’ lor breve un gran tratto di via;
sì che in un dì a Parigi le condusse,
né alcun s’avide che miracol fusse.
97
Discorreva il Silentio tuttavolta,
e dinanzi alle squadre e d’ognintorno
facea girare un’alta nebbia in volta,
et era bello in l’altre parti il giorno;
e non lasciava questa nebbia folta
che s’udisse di fuor tromba né corno:
poi n’andò tra’ pagani, e menò seco
un non so che, ch’ognun fe’ sordo e cieco.
98
Mentre Rinaldo in tal fretta venìa,
che ben parea da l’Angelo condotto,
e con silentio tal, che non s’udia
nel campo saracin farsene motto;
el Re Agramante havea la fantaria
messo ne’ borghi di Parigi, sotto
le minacciate mura in su la fossa,
per far quel dì l’estremo di sua possa.
99
Chi può contar l’exercito che mosso
questo dì contra Carlo ha il Re Agramante,
conterà anchora in su l’ombroso dosso
del silvoso Apennin tutte le piante;
dirà quante onde, quando è il mar più grosso,
bagnano i piedi al mauritano Atlante;
e per quant’occhi il ciel le furtive opre
de li amatori a meza notte scopre.
100
Dentro la terra suonano a martello
con spaventevol fretta le campane;
nanzi alli altari, in questo tempio e in quello,
donne e fanciulli alzano al ciel le mane.
Se ’l thesoro paresse a Dio sì bello
come lo stiman le sciocchezze humane,
questo era il dì che ’l santo Consistoro
fatto havria in terra ogni sua statua d’oro.
101
S’odon ramaricare i vecchi giusti
che s’erano serbati in quelli affanni,
e nominar felici i sacri busti
composti in terra già molti e molt’anni.
Ma li animosi gioveni robusti,
che miran poco i lor propinqui danni,
sprezzando le ragion de’ più maturi,
di qua e di là vanno correndo a’ muri.
102
Quivi erano baroni e paladini,
Re, duci, cavallier, marchesi e conti,
soldati forestieri e cittadini,
per Christo e pel suo honor a morir pronti;
che per uscire adosso ai Saracini
pregan l’Imperator ch’abbassi i ponti.
Gode egli di veder l’animo audace,
ma di lasciarli uscir non li compiace.
103
E li dispone in opportuni luochi
per divietare a i Barbari la via:
là si contenta che ne vadan pochi,
qua non basta una grossa compagnia;
alcuni han cura maneggiar li fuochi,
le machine altri, ove bisogno sia.
Carlo di qua e di là non sta mai fermo:
va soccorrendo, e fa per tutto schermo.
104
Siede Parigi in una gran pianura,
di Francia in l’ombilico, anzi nel core;
da mezogiorno un fiume entra le mura,
e corre, et esce a tramontana fuore;
ma fa una isola prima, e v’assicura
de la città una parte, e la migliore:
l’altre due (ch’in tre parti è la gran terra)
di fuor la fossa e dentro il fiume serra.
105
Alla città, che molte miglia gira,
da molte parti si può dar battaglia;
ma sol da un canto il Re Agramante mira,
ch’el campo suo mal volentier sbarraglia:
tutto di là dal fiume lo ritira
verso Ponente, e vuol che quindi assaglia;
perhò che né cittade né campagna
ha dietro (se non sua) fin alla Spagna.
106
Dovunque intorno il gran muro circonda,
gran munitioni havea già Carlo fatte,
fortificato d’argine ogni sponda
con scannafossi dentro e case matte;
onde entra ne la terra, onde esce l’onda,
grossissime catene haveva tratte:
ma fece più ch’altrove provedere
là dove havea più causa di temere.
107
Con occhi d’Argo il figlio di Pipino
previde ove assalir devea Agramante;
e non fece dissegno il Saracino
a cui non fusse riparato inante.
Con Ferraù, Isoliero e Serpentino,
con Falsiron, Grandonio e Balugante,
e con ciò che di Spagna havea menato,
restò Marsiglio in la campagna armato.
108
Sobrin gli era a man manca in ripa a Senna,
con Pulïan, con Dardinel d’Aimonte,
col Re d’Oran, ch’esser gigante accenna,
lungo sei braccia dai piedi alla fronte.
Deh, perché a mover men sono io la penna
che quelle genti a mover l’arme pronte?
ch’el Re di Sarza, pien d’ira e di sdegno,
grida e biastemmia, e non può star più a segno.
109
Come assalire o vasi pastorali
o le dolci reliquie de’ convivi
soglion con rauco suon di stridule ali
l’audaci mosche a’ caldi giorni estivi;
o come vanno a’ rosseggianti pali
di mature uve i storni: così quivi,
empiendo il ciel di grida e di rumori,
se ne veniano a dar l’assalto i Mori.
110
L’exercito Christian sopra le mura
con spade e lancie e scure e pietre e fuoco
difende la città senza paura,
e ’l Barbarico orgoglio estima poco;
e dove Morte uno et un altro fura,
non è chi per viltà ricusi il luoco:
tornano i Saracin giù ne le fosse
a furia di ferite e di percosse.
111
Non ferro solamente vi s’adopra,
ma grossi massi, e merli integri e saldi,
e li muri spiccati con molt’opra,
tetti di torre, e gran pezzi di spaldi.
L’acque bollenti che vengon di sopra
portano a’ Mori insupportabil caldi;
e male a questa pioggia si resiste,
ch’entra per l’elmi e fa acciecar le viste;
112
e questa più nocea ch’el ferro quasi.
Hor che de’ far la nebbia de calcine?
hor che deveano far li ardenti vasi
pieni di solfi, peci e trementine?
Li cerchi in munition non son rimasi,
che d’ogni intorno hanno di fiamma il crine:
questi, scagliati per diverse bande,
metteano a’ Saracini aspre ghirlande.
113
Intanto il Re di Sarza havea cacciato
sotto le mura la schiera seconda,
da Buraldo, da Ormida accompagnato,
quel Garamante, e questo da Marmonda.
Clarindo e Soridan gli sono allato,
né par ch’el Re di Setta si nasconda;
segue il Re di Marocco e quel di Cosca,
ciascun perché il valor suo si connosca.
114
Ne la bandiera, ch’è tutta vermiglia,
Rodomonte di Sarza il Leon spiega,
che la feroce bocca ad una briglia
che gli pon la sua donna aprir non niega:
al Leon se medesimo assimiglia;
e per la donna che lo frena e lega
la bella Doralice ha figurata,
figlia di Stordilan Re di Granata,
115
quella che tolto havea (come io narrava)
Re Mandricardo (e dissi e dove e a cui).
Era costei che Rodomonte amava
più che il suo regno e più che gli occhi sui;
e cortesia e valor per lei mostrava,
non già sapendo ch’era in forza altrui:
se saputo l’havesse, allhora allhora
fatto haria quel che fe’ quel giorno anchora.
116
Sono appoggiate a un tempo mille scale,
che non han men di dua per ogni grado.
Spinge il secondo quel ch’inanzi sale;
ch’el terzo lui montar fa suo mal grado.
Chi per virtù, chi per paura vale:
convien ch’ognun per forza entri nel guado;
che qualunque s’adagia, il Re d’Algere
Rodomonte crudele uccide o fere.
117
Ognun dunque si sforza di salire
tra il fuoco e le ruine in su le mura;
ma tutti li altri guardano s’aprire
veggiano passo ove sia poca cura.
Sol Rodomonte sprezza di venire
se non dove la via meno è sicura:
dove nel caso desperato e rio
li altri fan voti, egli biestemmia Idio.
118
Armato era d’un forte e duro usbergo,
che fu di drago una scagliosa pelle.
Di questo già si cinse il petto e il tergo
quello Avo suo che edificò Babelle,
e si pensò cacciar de l’aureo albergo
e tôrre a Dio ’l governo de le stelle:
la spada, il scudo e fe’ l’elmo perfetto
far tutto a un tempo, e solo a questo effetto.
119
Rodomonte, non già men di Nembrotte
indomito, superbo e furibondo,
che d’ire al ciel non tardarebbe a notte
quando la strada si trovasse al mondo,
quivi non mira dove intiere o rotte
siano le mura, o s’habbia l’acqua fondo:
passa la fossa, anzi la corre e vola,
nel’acqua e nel pantan sin alla gola.
120
Di fango brutto e molle d’acqua vanne
tra ’l fuoco e i sassi e li archi e le balestre,
come andar suol tra le palustri canne
de la acquosa Mallea porco silvestre,
che col petto, col ceffo e con le zanne
fa, dovunque si volga, ample finestre:
col scudo in capo il Saracin sicuro
ne vien sprezzando il ciel, non che quel muro.
121
Non fu sì presto al sciutto Rodomonte,
che giunto si sentì su le baltresche
che dentro alla muraglia facean ponte
capace e largo alle squadre Francesche.
Hor si vede spezzar più d’una fronte
e far chierce maggior de le fratesche,
braccia e capi volare, e ne la fossa
cader da’ muri una fiumana rossa.
122
Getta il Pagano il scudo, e a duo man prende
la crudel spada, e giunge il duca Arnolfo;
costui venìa di là dove discende
l’acqua del Rheno nel salato golfo:
quel miser contra lui non se difende
meglio che faccia contra il fuoco il solfo;
e cade in terra, e dà l’ultimo crollo,
dal capo fesso un palmo sotto il collo.
123
Uccise di roverso in una volta
Anselmo, Oldrado, Spineloccio e Prando:
il luoco stretto e la gran turba folta
fece girar sì pienamente il brando.
Fu la prima metade a Fiandra tolta,
l’altra scemata al populo Normando;
divise appresso da la fronte al petto,
et indi al ventre, il Maganzese Orghetto.
124
Getta da’ merli Andropono e Moschino
giù ne la fossa: il primo è sacerdote;
non adora il secondo altro ch’el vino,
e le bigonce a un sorso ha spesso vuote.
Come arsenico o sangue viperino,
vivendo, fuggì l’acque più che puòte:
more in la fossa; e quel che più l’annoia
è di veder che in l’acqua se ne muoia.
125
Tagliò in due parti il Provenzal Luigi,
e passò ’l petto al Tolosano Arnaldo.
Di Torse Oberto, Claudio, Ugo e Dionigi
mandaro il spirto fuor col sangue caldo;
e presso a questi, quattro da Parigi,
Gualtiero, Satallone, Odo et Ambaldo,
et altri molti: et io non saprei come
di tutti nominar la patria e il nome.
126
La turba dietro a Rodomonte presta
le scale appoggia, e monta in più d’un luoco.
Quivi non fanno i Parigin più testa;
che la prima difesa lor val poco:
san ben che alli nemici assai più resta
dentro da fare, e non l’havran da giuoco;
perché tra il muro e l’argine secondo
discende il fosso horribile e profondo.
127
Oltra che i nostri facciano difesa
dal basso all’alto, e mostrino valore,
nuova gente succede alla contesa
sopra l’erta pendice interïore,
che fa con lancie e con saette offesa
alla gran moltitudine di fuore,
che credo ben che serìa stata manco
se non le fusse il Re di Sarza al fianco.
128
Egli questi conforta e quei riprende,
e con voce e con man nanzi li caccia;
ad altri il petto, ad altri il capo fende,
che per fuggir veggia voltar la faccia.
Molti ne spinge et urta; alcuni prende
pe’ capelli, pel collo e per le braccia:
e sosopra là giù tanti ne getta,
che quella fossa a capir tutti è stretta.
129
Mentre il stuolo de’ Barbari se cala,
anzi trabbocca al periglioso fondo
et indi cerca per diversa scala
di salir sopra l’argine secondo,
il Re di Sarza (come havesse una ala
per ciascun de’ suoi membri) levò il pondo
di sì gran corpo e con tante arme indosso,
e netto si lanciò di là dal fosso.
130
Poco era men di trenta piedi, o tanto,
et egli il passò destro come un veltro,
e fece nel cader strepito quanto
sotto li piedi havesse havuto il feltro:
et a questo et a quello affrappa il manto,
come sian l’arme di tenero peltro
e non di ferro, anzi pur sian di scorza:
tal la sua spada, e tanta è la sua forza!
131
In questo tempo i nostri, da chi tese
sono l’insidie in la cava profonda,
che v’hanno secche vimini distese
intorno cui di molta pece abonda,
né perhò alcuna si vede palese,
ben che n’è piena l’una e l’altra sponda
dal fondo cupo insino al orlo quasi;
e senza fin v’hanno appiattati vasi,
132
qual con salnitrio, qual con oglio, quale
con solfo, qual con altra simile esca;
i nostri in questo tempo, perché male
a’ Saracini il folle ardir riesca,
ch’eran nel fosso e per diverse scale
credean montar su l’ultima baltresca;
udito ’l segno da opportuni luochi,
di qua e di là fenno avampare i fuochi.
133
Tornò la fiamma sparsa tutta in una,
che tra una ripa e l’altra ha il fosso pieno;
e tanto ascende in alto, che alla Luna
da presso può sciugar l’humido seno.
Sopra si volve oscura nebbia e bruna,
ch’el Sole adombra, e spegne ogni sereno.
Sentesi un scoppio in un perpetuo suono,
simile a un grande e spaventoso tuono.
134
Aspro concento, horribile harmonia
d’alte querele, d’ululi e de strida
de la misera gente che peria
nel fondo per cagion de la sua guida,
estranamente concordar s’udia
col fiero suon de la fiamma homicida.
Non più, signor, non più di questo canto;
ch’io son già rauco, e vuo’ posarmi alquanto.

CANTO TERTIODECIMO

1
Fu il vincer sempremai laudabil cosa,
vincasi o per fortuna o per ingegno:
è ver che la vittoria sanguinosa
spesso far suole il capitan men degno;
e quella eternamente è glorïosa
e de’ divini honori arriva al segno
quando, servando i suoi senza alcun danno,
si fa che li nemici in rotta vanno.
2
La vostra, signor mio, fu degna loda
quando al Leon in mar tanto feroce,
che havea occupata l’una e l’altra proda
del Po da Francolin sino alla foce,
faceste sì, ch’anchor che ruggir l’oda,
s’io vedrò voi, non tremarò alla voce.
Come vincer si de’, ne dimostraste;
ch’uccideste i nemici, e noi salvaste.
3
Questo il Pagan, troppo in suo danno audace,
non seppe far; che i suoi nel fosso spinse
dove la fiamma sùbita e vorace
non perdonò ad alcun, ma tutti estinse.
A tanti non serìa stato capace
tutto il gran fosso, ma il fuoco restrinse
la carne e l’ossa, e in polve la ridusse,
acciò c’habile a tutti il luoco fusse.
4
Undice mila et otto sopra venti
si ritrovaro in l’affocata buca,
che vi erano discesi mal contenti;
ma così volle il poco saggio duca.
Quivi fra tanto lume hor restan spenti,
e la vorace fiamma li manuca;
e Rodomonte, causa del mal loro,
se ne va exente da tanto martoro;
5
che tra’ nemici in la ripa più interna
era passato d’un mirabil salto.
Se con li altri scendea ne la caverna,
questo era ben il fin d’ogni suo assalto.
Rivolse gli occhi a quella valle inferna,
e quando vide il fuoco andar tanto alto
e di sua gente udì l’horribil strido,
biastemmiò il ciel con spaventoso grido.
6
Intanto il Re Agramante mosso havea
impetüoso assalto ad una porta;
che, mentre la crudel battaglia ardea
qui dove è tanta turba afflitta e morta,
quella sprovvista forse esser credea
di gente che bastasse alla sua scorta.
Seco era il Re d’Arzilla Bambirago,
e Baliverzo, d’ogni vitio vago;
7
e Corineo di Mulga, e Prusïone,
el ricco Re de l’Isole beate;
Malabuferso, che la regïone
tien di Fizan, sotto continua estate;
altri signori, et altre assai persone
experte ne la guerra e bene armate;
e molti anchor senza valore e nudi,
ch’el cor non se armarian con mille scudi.
8
Trovò tutto il contrario al suo pensiero
in questa parte il Re de’ Saracini:
perché in persona il capo de l’Impero
eravi Carlo, e de’ suoi paladini
Re Salamone et il Danese Ugiero,
ambo li Guidi et ambo li Angelini,
e ’l duca di Bavera e Ganelone,
e Berlengiero, Avolio, Avino e Othone;
9
gente infinita poi di minor conto,
de’ Franchi, de’ Tedeschi e de’ Lombardi,
presente il suo signor, ciascuno pronto
a farsi noverar fra li gagliardi.
Di questo altrove io vuo’ rendervi conto;
ch’ad un gran Duca è forza ch’io riguardi,
il qual mi grida, e di lontano accenna,
e priega ch’io nol lasci ne la penna.
10
Signor, è tempo di ridursi hormai
dove rimase il Duca d’Inghilterra,
che stato absente et in exilio, assai
disia di ritornare alla sua terra.
Del partir in procinto lo lasciai;
e colei c’havea rotta Alcina in guerra
mandarlo in Francia s’havea preso cura
per la via più espedita e più sicura.
11
E così una Galea fu apparecchiata,
di che miglior mai non solcò marina;
et perché dubbio s’ha tutta fïata
che non gli turbi il suo vïaggio Alcina,
vuol Logistilla che con forte armata
Andronica ne vada e Sofrosina,
tanto che nel mar d’Arabi o nel golfo
de’ Persi giunga a salvamento Astolfo.
12
Più presto vuol che volteggiando rada
i Scythi e l’Indi e i regni Nabathei,
e torni poi per così lunga strada
a ritrovar i Persi e li Herrythrei;
che per lo Boreal pelago vada,
che turban sempre iniqui venti e rei,
et sì, qualche stagion, pover di sole,
che starne senza alcuni mesi suole.
13
La fata, poi che vide acconcio il tutto,
diede licentia al Duca di partire,
havendol prima ammaestrato e instrutto
di cose assai, che fôra lungo a dire;
e per schivar che non sia più ridutto
per arte maga onde non possa uscire,
un bello et util libro gli havea dato,
che per suo amore havesse ognhora allato.
14
Come l’huom riparar debba all’incanti
mostra il libretto che costei gli diede:
dove ne tratta, e più drieto e più inanti,
per rubrica e per indice si vede.
Un altro don gli fece anchor, che quanti
doni fur mai di gran vantaggio excede:
e questo fu d’horribil suono un corno,
che fa fuggire ognun che l’ode intorno.
15
Dico che ’l corno è di sì horribil suono,
ch’ovunque s’oda fa fuggir la gente;
non può trovarsi al mondo un cor sì buono
che possa non fuggir come lo sente:
rumor di vento, di termuoto e tuono
a par del suon di questo era nïente.
Con molto riferir di gratia, prese
da la fata congedo il buono Inglese.
16
Lasciando il porto e l’onde più tranquille,
con felice aura che in la poppa spira,
sopra le ricche e populose ville
de l’odorifera India il Duca gira,
scoprendo a destra et a sinistra mille
isole sparse; e tanto va, che mira
la terra di Thomasso, onde il nocchiero
più a Tramontana poi prende il sentiero.
17
Quasi radendo l’aurea Chersonesso,
la bella armata il gran pelago frange;
e costeggiando i ricchi liti, spesso
vede come nel mar biancheggi il Gange;
vede le spiaggie, l’una e l’altra appresso,
di Traprobane e Cori, ove il mar s’ange.
Dopo gran via furo a Cochino, e quindi
usciron fuor de’ termini de l’Indi.
18
Da stretta fauce il mar veggon de’ Persi,
come in sì largo spatio se dilaghi.
Dopo non molti dì, vicini fêrsi
al golfo che nomâr li antiqui Maghi:
quivi pigliaro il porto, e fur conversi
con la poppa alla ripa i legni vaghi;
quindi, sicur d’Alcina e di sua guerra,
Astolfo il suo camin prese per terra.
19
Passò per più d’un campo e più d’un bosco,
per più d’un monte e per più d’una valle,
dove hebbe spesso, all’aer chiaro e al fosco,
li ladroni e dinanzi et alle spalle;
vide leoni e draghi pien di tòsco,
et altre fere attraversarsi il calle:
ma non sì presto havea la bocca al corno,
che spaventati gli fuggìan d’intorno.
20
Vien per l’Arabia ch’è detta felice,
ricca di Myrrha, Cinnamo et Incenso,
che per suo albergo l’unica Fenice
eletto s’ha di tutto il mondo immenso;
sin che l’onda trovò vendicatrice
de Israhel, che per divin consenso
Pharaone summerse e tutti i suoi:
e poi venne alla terra de li Heroi.
21
Lungo el fiume Traiano egli cavalca
su quel destrier ch’al mondo è senza pare,
che tanto liggiermente e corre e valca
che ne la arena l’orma non ne appare.
L’herba non pur, non pur la neve calca;
coi piedi asciutti andar potria sul mare;
e sì nel corso si stende et affretta,
che passa e vento e folgore e saetta.
22
Questo è il caval che fu de l’Argalìa,
che di fiamma e di vento era concetto,
e senza fieno e biada si nutria
de l’aria pura, e Rabican fu detto.
Venne, seguendo il Duca la sua via,
dove a quel fiume il Nil dona ricetto;
e vide, come giunse in su la foce,
venire una barchetta a sé veloce.
23
Naviga su la poppa uno Eremita
con bianca barba e lunga a mezo il petto,
che sopra il legno il Paladino invita,
dicendogli: – Figliuol mio benedetto,
se non t’è in odio la tua propria vita,
se non hai di morire hoggi diletto,
venir ti piaccia su quest’altra arena:
ch’a morir quella via dritto ti mena.
24
Tu non andrai più che sei miglia inante,
che troverai la sanguinosa stanza
dove s’alberga un horribil Gigante
che d’otto piedi ogni statura avanza.
Non habbia o cavalliero o vïandante
potersi indi partir vivo speranza;
che ’l Gigante crudel gli tra’ la buccia,
sel mangia crudo, e sorbe il sangue e succia.
25
Piacer, fra tanta crudeltà, si prende
d’una rete ch’egli ha, molto ben fatta;
poco lontana al tetto suo la tende
e ne la trita polve tutta appiatta.
Chi prima non lo sa, non la comprende,
tanto è sottil, tanto egli ben l’adatta:
quivi con fiere grida e con minaccia
li spaventati peregrini caccia.
26
E con gran risa, aviluppati in quella,
se li strasina sotto il suo coperto;
né cavallier riguarda né donzella,
o sia di grande o sia di piccol merto:
o lo scanna o li schiaccia le cervella,
sel mangia, e l’ossa restano al deserto;
e de l’humane pelli intorno intorno
fa il suo palazzo horribilmente adorno.
27
Prendi quest’altra via, prendila, figlio,
che ti fia sin al mar tutta sicura. –
– Io ti rengratio, padre, del consiglio, –
rispose il Cavallier senza paura,
– ma non estimo per l’honor periglio,
di che assai più che de la vita ho cura.
Per far ch’io passi, invan tu parli meco;
anzi vo al dritto a ritrovar quel speco.
28
Fuggendo posso con dishnor salvarmi;
ma tal salute ho più che morte a schivo.
S’i’ vado, al peggio che potria incontrarmi,
fra molti io resterò di vita privo;
ma quando Dio sì mi drizzasse l’armi
che colui morto, et io restassi vivo,
a mille renderei la via sicura:
sì che il guadagno è più che la iattura.
29
Metto all’incontro la morte d’un solo
alla salute di gente infinita. –
– Vattene in pace (rispose), figliuolo:
Dio mandi in defension de la tua vita
l’Archangelo Michel dal summo polo; –
e benedillo il semplice Eremita.
Astolfo lungo il Nil tenne la strada,
sperando più nel suon che ne la spada.
30
Giace tra il fiume e la acquosa palude
una via stretta in l’arenosa riva;
la solitaria casa la richiude,
d’humanitade e d’amicitia priva.
Son fisse intorno teste e membra nude
de la infelice gente che v’arriva;
non v’è finestra, non v’è merlo alcuno
onde penderne almen non si veggia uno.
31
Come in l’alpine ville o ne’ castelli
suol cacciator che gran perigli ha scorsi
su le porte attaccar l’hirsute pelli,
l’horride zampe e i grossi capi d’orsi;
così dimostra il fier Gigante quelli
che di maggior virtù gli erano occorsi.
D’altri infiniti sparse apparon l’ossa;
e d’human sangue è pien più d’una fossa.
32
Stava Caligorante in su la porta
(così havea nome il dispietato mostro),
ch’ornava sua magion di gente morta
come altri d’oro o sete tinte in ostro.
Costui per gaudio a pena si comporta
come il Duca lontan se gli è dimostro;
ch’eran duo mesi, e il terzo ne venìa,
che non fu cavallier per quella via.
33
Vêr la palude, ch’era scura e folta
di verdi canne, in gran fretta ne viene;
che disegnato havea correre in volta
e uscir al paladin drieto le schiene;
che ne la rete, che tenea sepolta
sotto la polve, di cacciarlo ha spene,
come havea fatto li altri peregrini
che quivi tratto havean lor rei destini.
34
Come venire il Paladin lo vede,
ferma il destrier, non senza gran sospetto
d’aviluparsi in quelli lacci il piede,
di che il buon Vecchiarel gli havea predetto.
Quivi il soccorso del suo corno chiede,
e quel sonando fa l’usato effetto:
nel cor fere il Gigante che l’ascolta
di tal timor, che a drieto i passi volta.
35
Astolfo suona, e tuttavolta bada;
che gli par sempre che la rete scocchi.
Fugge il fellon, né vede ove si vada;
che, come il cor, havea perduti gli occhi.
Tanta è la tema, che non sa far strada
che ne li proprii aguati non trabbocchi:
va ne la rete; e quella si disserra,
tutto l’annoda e lo distende in terra.
36
Astolfo, ch’andar giù vede il gran peso,
già sicuro per sé, v’accorre in fretta;
e con la spada in man, da caval sceso,
va per far di mill’anime vendetta.
Poi gli par che s’occide un che sia preso,
viltà più che virtù ne serà detta;
che legate le braccia, i piedi e il collo
gli vede sì, che non può dare un crollo.
37
Havea la rete già fatta Vulcano
di sottil fil d’acciar, ma con tal arte,
che serìa stato ogni risforzo vano
per ismagliarne la più debil parte;
et era quella che già piedi e mano
havea legati a Venere et a Marte:
la fe’ il geloso, e non ad altro effetto
che per pigliar quelli duo amanti in letto.
38
Mercurio al fabro poi la rete invola;
che Chloride pigliar con essa vuole,
Chloride bella che per l’aria vola
drieto all’Aurora in l’apparir del Sole,
e dal raccolto lembo de la stola
gigli spargendo va, rose e vïole.
Mercurio tanto questa Nympha attese,
che con la rete in aria un dì la prese.
39
Dove entra in mare il gran fiume Ethïòpo
par che la Dea presa volando fosse.
Poi nel tempio d’Anubide a Canopo
la rete lunghi seculi serbosse.
Caligorante tre mil’anni dopo
di là, dove era sacra, la rimosse:
se ne portò la rete il ladrone empio,
et arse la cittade, e rubò ’l tempio.
40
Quivi adattolla in modo in su l’arena,
che tutti quei c’havean da lui la caccia
vi davan drento; et era tocca a pena,
che lor legava e collo e piedi e braccia.
Di questa levò Astolfo una catena,
e le man drieto a quel fellon n’allaccia;
le braccia e il petto in guisa gli ne fascia
che non può sciorsi: indi levar lo lascia,
41
da l’altri nodi havendol sciolto prima,
ch’era tornato human più che donzella.
Di trarlo seco e mostrar fece stima
per ville e per cittadi e per castella.
Vuol la rete ancho haver, di che né lima
né martel fece mai cosa più bella:
ne fa somer colui che alla catena
con pompa triomphal drieto si mena.
42
E l’elmo e il scudo anche a portar gli diede
come a valletto, e seguitò ’l camino,
di gaudio empiendo, ovunque metta ’l piede,
ch’ir possa hormai sicuro il peregrino.
Astolfo se ne va tanto, che vede
ch’ai sepolchri di Memphi era vicino,
Memphi per le Pyramidi famoso:
vede all’incontro il Chairo populoso.
43
Tutto il popul correndo si trahea
per vedere il Gigante smisurato:
– Com’è possibil – l’un l’altro dicea
– che quel piccolo il grande habbia legato? –
Astolfo a pena inanzi andar potea,
tanto la calca il preme d’ogni lato;
e come cavallier d’alto valore
ognun l’ammira, e gli fa grande honore.
44
Non era grande il Chairo così allhora
come se ne ragiona a nostra etade:
ch’el populo capir, che ve dimora,
non pôn diciotto mila gran contrade;
e che le case hanno tre palchi, e anchora
ne dormono infiniti in su le strade;
e che ’l Soldano v’habita un castello
mirabil di grandezza, e ricco e bello;
45
e che quindice mila suoi vasalli,
che son christiani rinegati tutti,
con moglie, con famigli e con cavalli
ha sotto un tetto sol quivi ridutti.
Astolfo veder vuole ove s’avalli,
e quanto il Nilo entri in li amari flutti
a Damïata; c’havea quivi inteso
qualunque passa restar morto o preso.
46
Perhò ch’in ripa al Nilo in su la foce
si ripara un ladron dentro una torre,
ch’a paesani e peregrini nuoce,
e sin al Chairo, ognun rubando, scorre,
né se gli può resistere; et ha voce
che non se gli può mai la vita tôrre:
cento mila ferite egli ha già havuto,
né ucciderlo perhò mai s’ha potuto.
47
Per veder se può far rompere il filo
alla Parca di lui, sì che non viva,
Astolfo viene a ritrovare Horrilo
(così havea nome), e a Damïata arriva;
et indi passa ove entra in mare il Nilo,
e vede la gran torre in su la riva,
dove s’alberga l’anima incantata
che d’un folletto nacque e d’una fata.
48
Quivi ritruova che crudel battaglia
era tra Horrilo e dui guerrieri accesa.
Egli era solo, et ambi sì travaglia
ch’a gran fatica gli pôn far difesa;
e quanto in arme l’uno e l’altro vaglia,
la Fama a tutto il mondo lo palesa:
questi erano i dui figli d’Olivero,
Griphone il bianco et Aquilante il nero.
49
Gli è ver ch’el Negromante venuto era
alla battaglia con vantaggio grande;
che seco tratto in campo havea una fera,
la qual si trova solo in quelle bande:
vive sul lito e dentro alla rivera;
e i corpi humani son le sue vivande,
de le persone misere et incaute
de vïandanti e peregrini naute.
50
La bestia ne l’arena appresso il porto
per man de i duo fratei morta giacea;
e per questo ad Horril non si fa torto
s’a un tempo l’uno e l’altro gli nocea.
Più volte l’han smembrato, e non mai morto,
né per smembrarlo uccider si potea;
che se tagliato o mano o gamba gli era,
la rapiccava che parea di cera.
51
Hor sin a’ denti il capo gli divide
Griphone, hor Aquilante sin al petto:
egli de’ colpi lor sempre si ride;
s’adirano essi, che non hanno effetto.
Chi mai d’alto cadendo il metal vide
che li Alchimisti hanno Mercurio detto,
sparger e poi raccôr tutti i suo’ membri,
sentendo di costui se ne rimembri.
52
Se gli spiccano il capo, Horrilo scende,
né cessa brancolar fin che lo truovi;
o per le chiome o pel naso lo prende,
lo salda al collo, e non so con che chiovi.
Piglial talhor Griphon, e ’l braccio stende,
nel fiume il getta, e non par ch’ancho giovi;
che nuota Horrilo al fondo come un pesce,
e col suo capo salvo alla ripa esce.
53
Due belle donne honestamente ornate,
l’una vestita a bianco e l’altra a nero,
che de la pugna causa erano state,
stavano a riguardar l’assalto fiero.
Queste eran quelle due benigne fate
che havean notriti i figli d’Oliviero,
poi che trassero lor ch’eran citelli
da i curvi artigli di duo grandi augelli,
54
che rapiti li havevano a Gismonda
e portati lontan dal suo paese.
Ma non bisogna in ciò ch’io mi diffonda,
ch’a tutto il mondo è l’historia palese;
ben che il scrittor nel padre si confonda,
ch’un per un altro (io non so come) prese.
Hor la battaglia i duo gioveni fanno,
che le due donne ambi pregati n’hanno.
55
Era in quel clima già sparito il giorno,
all’Isole anchor alto di Fortuna;
l’ombre havean tolto ogni vedere atorno
sotto l’incerta e mal compresa Luna,
quando in la ròcca Horril fece ritorno,
poi che alla bianca e alla sorella bruna
piacque di differir l’aspra battaglia
fin che altro Sol nel orizonte saglia.
56
Astolfo, che Griphone et Aquilante
a sopraveste et al ferir gagliardo
riconnosciuto havea gran pezzo inante,
lor non fu altiero a salutar né tardo.
Essi vedendo che quel che ’l Gigante
trahea legato era il baron dal Pardo
(che così in corte era quel Duca detto),
raccolser lui con non minor affetto.
57
Le donne a riposare i cavallieri
menaro a un lor palagio indi vicino.
Donzelle incontra venero e scudieri
con torchi accesi, a mezo del camino.
Diero a chi n’hebbe cura i lor destrieri,
trarronsi l’arme; e dentro un bel giardino
trovâr che apparecchiata era la cena
ad una fonte limpida et amena.
58
Fan legare il Gigante alla verdura
con un’altra catena molto grossa
ad una quercia di molt’anni dura,
che non si romperà per una scossa;
e da diece sergenti haverne cura,
che la notte discior non se ne possa
et assalirli, e forse far lor danno,
mentre sicuri e senza guardia stanno.
59
All’abondante e sontüosa mensa,
dove il manco piacer fur le vivande,
del ragionar gran parte si dispensa
di quel Horrilo e del miracol grande,
che quasi par un sogno a chi vi pensa,
c’hor capo hor braccio a terra se gli mande,
et egli lo raccoglia e lo raggiugna,
e più feroce ognhor torni alla pugna.
60
Astolfo nel suo libro havea già letto
(quel ch’all’incanti riparar insegna)
ch’ad Horril non trarrà l’alma del petto
fin che un crine fatal nel capo tegna;
ma se lo svelle o tronca, fia constretto
che suo mal grado il spirto fuor ne venga.
Questo ne dice il libro, ma non come
connosca il crine in così folte chiome.
61
Così de la vittoria si godea,
come n’havesse il paladin la palma;
che certa speme in pochi colpi havea
svellere il crine al Negromante e l’alma.
Perhò di quella impresa promettea
tôr su li homeri suoi tutta la salma:
Horril farà morir, quando non spiaccia
a’ duo fratei ch’esso l’impresa faccia.
62
Essi gli dànno volentier l’impresa,
certi che debbia affaticarsi invano.
Era già l’altra Aurora in cielo ascesa,
quando calò da’ muri Horrilo al piano.
Tra ’l Duca e lui fu la battaglia accesa:
la mazza l’un, l’altro ha la spada in mano;
di mille attende Astolfo un colpo trarne
ch’el spirto al Mago scioglia da la carne.
63
Hor fa cadergli il pugno con la mazza,
hor questo et hor quel braccio con la mano;
quando taglia a traverso la corazza,
e quando il va troncando a brano a brano:
ma sempre Horril dismonta ne la piazza,
ritolsi il membro, e presto torna sano.
Se ’n cento pezzi ben l’havesse fatto,
redintegrarsi il vedea Astolfo a un tratto.
64
Al fin di mille colpi un gli ne colse
sopra le spalle a’ termini del mento:
la testa e l’elmo dal capo gli tolse,
né fu d’Horrilo a dismontar più lento.
La sanguinosa chioma in man s’avolse,
e risalse a cavallo in un momento;
e la portò correndo incontra il Nilo,
che rïhaver non la potesse Horrilo.
65
Quel sciocco, che del fatto non s’accorse,
per la polve cercando iva la testa:
ma come intese il corridor via tôrse,
portare il capo suo per la foresta,
immantinente al suo caval ricorse;
sopra vi sale, e di seguir non resta.
Volea gridare: – Aspetta, volta, volta! –
ma il Duca già gli havea la bocca tolta.
66
Ma pur, che non gli ha tolto le calcagna
si riconforta, e segue a tutta briglia.
Drieto il lascia gran spatio di campagna
quel Rabican che corre a maraviglia.
Astolfo intanto per la cuticagna
cercava, e drieto e sopra de le ciglia,
se connosceva quel crine fatale
che forza Horrilo havea far immortale.
67
Fra tanti e innumerabili capelli,
un più de l’altro non si stende o torce;
qual dunque Astolfo sceglierà di quelli
che per dar morte al rio ladron racorce?
– Meglio è (disse) che tutti io tagli o svelli: –
né si trovando haver rasoi né force,
ricorse immantinente alla sua spada,
che taglia sì, che si può dir che rada.
68
E tenendo quel capo per il naso,
drieto e dinanzi lo dischioma tutto.
Troncò fra li altri quel fatale a caso:
si fece il viso allhor pallido e brutto,
travolse gli occhi, e dimostrò all’occaso
per manifesti segni esser condutto.
El busto, che seguia troncato al collo,
da caval cade e dà l’ultimo crollo.
69
Astolfo, ove le donne e i cavallieri
lasciato havea, tornò col capo in mano,
che tutti havea di morte i segni veri,
e mostrò il tronco ove giacea lontano.
Non so ben se lo vider volentieri,
anchor che gli mostrasser viso humano;
che l’intercetta lor vittoria forse
d’invidia ai duo germani il petto morse.
70
Né che tal fin quella battaglia havesse
credo più fusse alle due donne grato:
queste, perché più in lungo si trahesse
de’ duo fratelli il doloroso fato
ch’in Francia par ch’in breve esser devesse,
con essi Horrilo havean quivi acciuffato,
con speme di tenerli tanto a bada
che la trista influentia se ne vada.
71
Tosto che ’l castellan di Damïata
certificossi ch’era morto Horrilo,
la colomba lasciò, c’havea legata
sotto l’ala la lettera col filo.
Quella andò al Chairo, et indi fu lasciata
un’altra altrove, come quivi è stilo:
sì che in pochissime hore andò l’aviso
per tutto Egytto ch’era Horrilo ucciso.
72
Il Duca, come al fin trasse l’impresa,
confortò molto i nobili Garzoni,
ben che da sé v’havean la voglia intesa,
né bisognavan stimuli né sproni,
che per difender de la santa Chiesa
e del Romano Imperio le ragioni,
lasciasser le battaglie d’Orïente,
cercando miglior fama in la lor gente.
73
Così Griphone et Aquilante tolse
da le benigne sue donne licentia;
esse (quantunque lor ne ’ncrebbe e dolse)
non perhò far lor seppon resistentia.
Con essi Astolfo a man destra si volse;
che si deliberâr far reverentia
ai santi luochi, ove Dio in carne visse,
prima che verso Francia si venisse.
74
Potuto haria pigliar la via mancina,
ch’era più dilettevole e più piana,
e mai non si scostar da la marina;
ma per la destra andâr horrida e strana,
perché l’alta città di Palestina
per questa sei giornate è men lontana.
Acqua si truova et herba in questa via:
di tutti li altri ben s’ha carastia.
75
Sì che prima ch’intrassero in vïaggio,
ciò che lor bisognò fecion raccôrre
e cargar su ’l Gigante il carrïaggio,
c’havria portato in collo ancho una torre.
Al finir del camino aspro e silvaggio,
da l’alto monte alla lor vista occorre
la santa terra, ove il superno Amore
lavò col proprio sangue il nostro errore.
76
Trovano in su l’entrar de la cittade
un giovene gentil lor connoscente,
Sansonetto da Mecca, oltra l’etade
(ch’era nel primo fior) molto prudente;
d’alta cavalleria, d’alta bontade
famoso, e reverito fra la gente.
Orlando lo converse a nostra fede,
e di sua man battesmo ancho gli diede.
77
Quivi lo trovan che disegna a fronte
del Soldano d’Egytto una fortezza;
e circondar vuol il Calvario monte
di muro di duo miglia di lunghezza.
Da lui raccolti fur con quella fronte
che può d’interno amor dar più chiarezza,
e dentro accompagnati, e con grande agio
fatti alloggiar nel suo real palagio.
78
Havea in governo egli la terra, e in vece
di Carlo vi reggea l’imperio giusto.
A costui dono il duca Astolfo fece
del prigioner dal smisurato busto,
ch’a portar pesi gli varrà per diece
asini o muli, tanto era robusto.
Diegli Astolfo il Gigante, e diegli appresso
la rete ch’in sua forza l’havea messo.
79
Sansonetto all’incontro al Duca diede
per la spada una cinta ricca e bella;
e diede spron per l’uno e l’altro piede,
che d’oro havean la fibbia e la girella;
ch’esser del Cavallier stati si crede
che liberò dal Drago la Donzella:
al Zaffo havuti con molt’altro arnese
Sansonetto li havea, quando lo prese.
80
Purgati de lor colpe a un monasterio
che dava di sé odor di buoni exempi,
la passïon di Christo e ogni mysterio
contemplando n’andâr per tutti i tempî
c’hor con eterno obbrobrio e vituperio
a’ Christïani usurpano i Mori empi.
L’Europa è in arme, e di far guerra agogna
in ogni parte, fuor ch’ove bisogna.
81
Mentre havean quivi l’animo devoto,
a perdonanze e cerimonie intenti,
un peregrin di Grecia a Griphon noto
gli arrecò del suo amor nuove recenti,
dal suo fermo disegno e lungo voto
troppo diverse e troppo differenti;
e quelle il petto gl’infiammaron tanto,
che gli scacciâr l’oratïon da canto.
82
Amava il cavallier, per sua sciagura,
una donna c’havea nome Horrigille:
di più bel volto e di miglior statura
non se ne sceglierebbe una fra mille;
ma disleale e di sì rea natura,
che potresti cercar cittadi e ville,
la terra ferma e l’isole del mare,
né credo ch’una le trovassi pare.
83
Ne la città di Constantin lasciata
grave l’havea di febre acuta e fiera.
Hor quando rivederla alla tornata
più che mai bella, e di goderla spera,
ode il mischin ch’in Antïochia andata
drieto un nuovo amator perfida n’era,
non le parendo hormai di più patire
c’habbia in sì fresca età sola a dormire.
84
Da indi in qua c’hebbe la trista nuova,
suspirava Griphon notte e dì sempre.
Ogni piacer ch’agli altri aggrada e giova,
par che a costui più l’animo distempre:
pensil colui, ne li cui danni prova
Amor, se li suoi strali han buone tempre.
Et era grave sopra ogni martìre
ch’el mal c’havea si vergognava a dire.
85
Questo perché mille fïate inante
già ripreso l’havea di quello amore,
di lui più saggio, il fratello Aquilante,
e cercato Horrigil trargli del core,
come colei che connoscea, di quante
femine ree si truovino, peggiore.
Griphon l’excusa, se ’l fratel la danna;
e le più volte il parer proprio inganna.
86
Perhò fece pensier, senza parlarne
con Aquilante, girsene soletto
sin dentro d’Antïochia, e quindi trarne
colei che tratto ’l cor gli havea del petto;
trovar colui che gli l’ha tolta, e farne
vendetta tal, che ne sia sempre detto.
Dirò come ad effetto il pensier messe
nell'altro canto, e ciò che ne successe.

CANTO DECIMOQUARTO

1
Gravi pene in amor si provan molte,
di che patito io n’ho la maggior parte,
e quelle in danno mio sì ben raccolte,
ch’io ne posso parlar come per arte.
Perhò s’io dico e s’ho detto altre volte,
e quando in voce e quando in vive charte,
ch’un mal sia leve, un altro acerbo e fiero,
date credenza al mio giudicio vero.
2
Io dico e dissi, e dirò fin ch’io viva,
che chi si truova in degno laccio preso,
se ben di sé vede sua donna schiva,
se ’n tutto aversa al suo desir acceso;
se ben Amor d’ogni mercede il priva,
poscia ch’el tempo e la fatica ha speso;
pur ch’altamente habbia locato il core,
pianger non de’, se ben languisce e more.
3
Pianger de’ quel che già sia fatto servo
di dua vaghi occhi e d’una bella treccia,
sotto cui si nasconda un cor protervo,
che poco puro habbia con molta feccia.
Vorria il miser fuggir; e come Cervo
ferito, ovunque va, porta la freccia:
ha da se stesso del suo amor vergogna,
né l’osa dir, e invan sanarsi agogna.
4
In questo caso è il giovene Griphone,
che non se può emendar, e ’l suo error vede,
vede quanto vilmente il suo cor pone
in Horrigille iniqua e senza fede;
pur dal mal uso è vinta la ragione,
e pur l’arbitrio allo appetito cede:
perfida sia quantunque, ingrata e ria,
è sforzato a cercar dov’ella sia.
5
Dico, la bella historia ripigliando,
che uscì de la città secretamente,
né parlarne se ardì col fratel, quando
ripreso invan da lui ne fu sovente.
Verso Rama, a sinistra declinando,
prese la via più piana e più corrente.
Fu in sei giorni a Damasco di Sorìa;
quindi verso Antïochia se ne gìa.
6
Scontrò presso a Damasco il Cavalliero
a chi Horrigille havea donato il core:
e convenian di rei costumi in vero,
come ben si convien l’herba col fiore;
che l’uno e l’altro era di cor liggiero,
perfido l’uno e l’altro e traditore;
e copria l’uno e l’altro il suo difetto,
con danno altrui, sotto cortese aspetto.
7
Come io vi dico, il cavallier venìa
s’un gran destrier con molta pompa armato:
la perfida Horrigille in compagnia,
in un vestir azur d’oro fregiato,
e duo valletti, donde si servia
a portar l’elmo e il scudo, haveva allato;
come quel che volea con bella mostra
comparir in Damasco ad una giostra.
8
Una splendida festa, che bandire
fece il Re di Damasco in quelli giorni,
era cagion di far quivi venire
li cavallier quanto potean più adorni.
Tosto che la puttana comparire
vede Griphon, ne teme oltraggi e scorni:
sa che l’amante suo non è sì forte
che da Griphon l’habbia a campar da morte.
9
Ma sì come audacissima e scaltrita,
anchor che tutta di paura trema,
s’acconcia il viso e sì la voce aita,
che non appare in lei segno di tema.
Col Drudo havendo già l’astutia ordita,
corre, e fingendo una leticia estrema,
verso Griphon l’aperte braccia tende,
lo stringe al collo, e gran pezzo ne pende.
10
Dopo, accordando affettüosi gesti
alla suavità de le parole,
dicea piangendo: – Signor mio, son questi
debiti premi a chi t’adora e cole?
che sola senza te già un anno resti,
e va per l’altro, e anchor non te ne duole?
E s’io stavo aspettar il tuo ritorno,
non so se mai veduto harei quel giorno!
11
Quando aspettavo che di Nicosia,
dove tu te n’andasti alla gran corte,
tornassi a me, che con la febre ria
lasciata havevi in dubbio de la morte,
intesi che passato eri in Sorìa:
il che a patir mi fu sì duro e forte,
che non sapendo come io ti seguissi
quasi il cor di man propria mi traffissi.
12
Ma Fortuna di me con doppio dono
mostra d’haver (quel che non hai tu) cura:
mandommi il fratel mio, col quale io sono
sin qui venuta del mio honor sicura;
et hor mi manda questo incontro buono
di te, ch’io stimo sopra ogni aventura:
e bene a tempo il fa; che più tardando,
morta sarei, te, signor mio, bramando. –
13
E seguitò la Donna fraudolente,
di cui l’opere fur più che di volpe,
la querimonia sua sì astutamente,
che riversò in Griphon tutte le colpe.
Gli fa stimar colui (non che parente),
ma che da un patre seco habbia ossa et polpe:
e con tal modo sa tesser l’inganni,
che men verace par Luca et Giovanni.
14
Non pur di sua perfidia non riprende
Griphon la donna iniqua più che bella;
non pur vendetta di colui non prende
che fatto s’era adultero di quella:
ma gli par far assai se si difende,
che tutto il biasmo in lui non riversi ella;
e come fusse suo cognato vero,
non cessa accarezzar quel cavalliero.
15
E con lui se ne vien verso le porte
di Damasco, e da lui sente tra via
che là dentro devea splendida corte
tener il ricco Re de la Sorìa;
e ch’ognun quivi, di qualunque sorte,
o sia christiano o d’altra legge sia,
dentro e di fuor ha la città sicura
per tutto il tempo che la festa dura.
16
Non son perhò sì di seguir intento
l’historia de la perfida Horrigille,
ch’a’ giorni suoi non pur un tradimento
fatto alli amanti havea, ma mille e mille;
ch’io non ritorni a riveder ducento
mila persone, e più de le scintille
del stuzzicato fuoco, ove alle mura
di Parigi facean danno e paura.
17
Io vi lasciai come assaltato havea
Agramante una porta de la terra,
che trovar senza guardia si credea:
né più riparo altrove il passo serra;
perché in persona Carlo la tenea,
et havea seco i mastri de la guerra,
duo Guidi, duo Angelini, uno Angeliero,
Avino, Avolio, Othone et Belingiero.
18
Nanzi il Re Carlo e nanzi il Re Agramante
l’un stuolo e l’altro si vuol far vedere,
ove gran loda, ove mercé abondante
ponno acquistar facendo il suo devere.
Ma Mori non perhò fêr prove tante
che par ristor al danno habbino havere;
perché ve ne restâr morti parecchi,
che alli altri fur di folle audacia specchi.
19
Grandine sembran le spesse saette
che son dal muro in li nemici sparte;
e forse insino al ciel paura mette
l’alto gridar de l’una e l’altra parte.
Ma Carlo un poco et Agramante aspette;
ch’io vuo’ cantar de l’Africano Marte,
Rodomonte terribile et horrendo,
che per mezo Parigi iva correndo.
20
Non so, signor, se più vi ricordiate
di questo Saracin tanto sicuro,
che sue genti in la fossa havea lasciate
tra ’l secondo ripar e il primo muro
da la rapace fiamma devorate,
che non fu mai spettaculo più oscuro:
dissi ch’entrò d’un salto ne la terra
sopra la fossa che la cinge e serra.
21
Quando fu noto il Saracino atroce
al strano armar de la scagliosa pelle
là dove i vecchi e il popul men feroce
tendean l’orecchie a tutte le novelle,
levossi un pianto, un strido, una alta voce,
con un batter di man ch’andò alle stelle;
e chi puoté fuggir non vi rimase,
per serrarsi ne’ tempii e ne le case.
22
Ma questo a pochi il brando rio conciede,
ch’intorno arruota il Saracin robusto.
Qui fa restar con meza gamba un piede,
là fa un capo sbalzar lungi dal busto;
l’un tagliare a traverso se gli vede,
dal capo all’anche un altro fender giusto:
e de tanti che uccide, fere e caccia,
non se gli vede alcun segnare in faccia.
23
Quel che la Tigre de l’armento imbelle
ne’ campi Hircani o là vicino al Gange,
o ’l Lupo de le capre e de l’agnelle
nel monte che Typheo sotto si frange;
quivi il crudel Pagan facea di quelle
non dirò squadre, non dirò phalange,
n’exercito, ma vulgo voglio dire,
degno, prima che nasca, di morire.
24
Non ne truova un che veder possa in fronte,
fra tanti che ne taglia, fora e svena.
Per quella strada che vien dritto al ponte
di san Michel, sì populata e piena,
corre il fiero e terribil Rodomonte,
e la sanguigna spada a cerco mena:
non riguarda né al servo né al signore,
né al giusto ha più pietà che al peccatore.
25
Religïon non giova al sacerdote,
né l’innocentia al pargoletto giova;
per sereni occhi o per vermiglie guote
mercé non donna né donzella truova:
la vecchiezza si caccia e si percuote;
né quivi il Saracin fa maggior prova
di gran valor, che di gran crudeltade;
che non discerne sesso, ordine, etade.
26
Non pur nel sangue human l’ira si stende
del empio Re, capo e signor de li empi,
ma contra i tetti anchor, sì che n’incende
le belle case e li sacrati tempî.
Le case eran, per quel che se n’intende,
quasi tutte di legno in quelli tempi:
e ben creder si può; ch’in Parigi hora
de le diece le sei son così anchora.
27
Non par, quantunque il fuoco ogni cosa arda,
che sì grande odio ancho satiar si possa.
Dove s’aggrappi con le mani guarda,
sì che ruini un tetto ad ogni scossa:
signor, havete a creder che bombarda
mai non vedeste a Padoa così grossa
che tanto muro possa far cadere,
quanto fa in una scossa il Re d’Algiere.
28
Mentre quivi con sangue il maledetto,
fuoco e ruina, facea tanta guerra,
se di fuor Agramante havesse astretto,
perduta era quel dì tutta la terra:
ma non v’hebbe agio; che gli fu interdetto
dal Paladin che venìa d’Inghilterra
con l’Inglese alle spalle e popul Scotto,
dal Silentio e da l’Angelo condotto.
29
Dio vòlse che all’intrar che Rodomonte
fe’ ne la terra, e tanta fiamma accese,
che presso a’ muri il fior di Chiaramonte,
Rinaldo, giunse, e seco il campo Inglese.
Tre leghe sopra havea gettato il ponte,
e torte vie da man sinistra prese;
che dissegnando i Barbari assalire,
il fiume non l’havesse ad impedire.
30
Mandato havea sei mila fanti arcieri
sotto l’altiera insegna di Odoardo,
e presso a-llor mille cavai liggieri
drieto la guida d’Ariman gagliardo;
e mandati li havea per i sentieri
che vanno e vengon dritti al mar Picardo,
ch’a porta San Martino o San Dionygi
intrassero a soccorso di Parigi.
31
Li carrïaggi e li altri impedimenti
con lor fece drizzar per questa strada;
egli con tutto il resto de le genti
più sopra andò girando la contrada.
Seco havean navi e ponti et argumenti
di passar Senna, che non ben si guada;
passato ognuno, e rotti i ponti a drieto,
ordinò il campo e lo fe’ mover cheto.
32
Ma prima li baroni e i capitani
Rinaldo intorno havendosi ridutti,
sopra una mota ch’alta era da i piani
sì, che poteano udirlo e veder tutti,
disse: – Signor, ben a levar le mani
havete a Dio, che qui v’habbia condutti
acciò, dopo un brevissimo sudore,
sopra ogni natïon vi doni honore.
33
Per voi saran dui principi salvati
se levate l’assedio a quelle porte:
el vostro Re, che voi sète ubligati
da servitù difendere e da morte;
et uno Imperator de’ più lodati
che mai tenuto al mondo habbiano corte;
e con lor altri Re, Duci e Marchesi,
signor e cavallier di più paesi.
34
Sì che, salvando una città, non soli
Parigini ubligati vi saranno,
che molto più che di lor proprii duoli,
timidi, afflitti e sbigottiti stanno
di lor moglie e lor teneri figliuoli
ch’a un medesmo pericolo seco hanno,
e de le sante vergini richiuse,
che de li voti lor non sien deluse;
35
dico, salvando voi questa cittade,
vi ubligate non soli i Parigini,
ma d’ognintorno tutte le contrade.
Non parlo sol de’ populi vicini;
ma non è terra per Christianitade
che non habbia qua dentro cittadini:
sì che, vincendo, havete da tenere
che più che Francia v’habbia obligo havere.
36
Se donavan li antiqui una corona
a chi salvasse a un cittadin la vita,
hor che degna mercede a voi si dona,
salvando multitudine infinita?
Ma se da invidia o da viltà, sì buona
opra, o d’altra cagion, serà impedita,
credetemi, che, prese quelle mura,
né Italia né Lamagna fia sicura,
37
né quella parte tutta, ove s’adora
quel che vòlse per noi pender sul legno.
Né sète voi senza periglio anchora,
ben che pel mar sia forte il vostro regno:
che s’altre volte i Mori, uscendo fuora
di Zibeltaro e del Herculeo segno,
riportâr prede da l’isole vostre,
che faranno hor, s’havran le terre nostre?
38
Ma quando anchor nessuno honor, nessuno
util v’inanimasse a questa impresa,
commun debito è ben soccorrer l’uno
l’altro, che militiàn sotto una Chiesa.
Darvi i nemici rotti senza alcuno
dubbio prometto, e senza gran contesa;
che gente male experta tutta parmi,
senza possanza, senza cor, senza armi. –
39
Puoté con queste e con miglior ragioni,
con parlar expedito e chiara voce
excitar quei magnanimi baroni
Rinaldo, e il lor exercito feroce:
e fu, com’è in proverbio, aggiunger sproni
al buon corsier che già ne va veloce.
Finito el ragionar, nanti alle schiere
fe’ mover passo passo le bandiere.
40
Senza strepito alcun, senza rumore
fa il tripartito exercito venire:
lungo ’l fiume a Zerbin dona l’honore
di voler prima i Barbari assalire;
e fa quelli d’Irlanda con maggiore
volger di via più tra campagna gire;
e il duca di Lencastro in mezo serra
con cavallieri e fanti d’Inghilterra.
41
Drizzati che li ha tutti al lor camino,
cavalca il Paladin lungo la riva,
e passa inanzi al buon duca Zerbino
e a tutto il campo che con lui veniva;
tanto che al Re d’Orano e al Re Sobrino
e lor altri compagni sopra arriva,
che mezo miglio appresso quei di Spagna
guardavan da quel canto la campagna.
42
L’exercito Christian che con sì fida
e sì sicura scorta era venuto,
c’hebbe il Silentio e l’Angelo per guida,
non puote hormai patir più di star muto.
Sentiti li nemici, alzò le grida,
e diè in le trombe e sparse il suono arguto:
e con l’alto rumor ch’arrivò al cielo
mandò ne l’ossa a’ Saracini il gelo.
43
Rinaldo inanzi agli altri il caval punge
e tien la lancia per cacciarla in resta,
e lascia i Scotti un tratto d’arco lunge;
ch’ogni indugio a ferir sì lo molesta.
Come groppo di vento talhor giunge
che traggia drieto un’horrida tempesta,
tal fuor di squadra il cavallier gagliardo
ne vien spronando il corridor Baiardo.
44
Al comparir del paladin di Francia
Mori presenton lor future angosce:
a tutti in man vedi tremar la lancia,
li piedi in staffa, e ne l’arcion le cosce.
Re Pulïano sol non muta guancia,
che questo esser Rinaldo non connosce;
né pensando trovar sì duro intoppo,
gli move il destrier contra di galoppo:
45
e su la lancia nel partir si stringe,
et tutto si raccoglie in la persona;
e poi con ambo e’ sproni il caval spinge,
e le redine inanzi gli abbandona.
Da l’altra parte il suo valor non finge,
et mostra in fatto quel che in nome suona,
quanto habbia nel giostrar e gratia et arte
il figliuolo d’Amone, anzi di Marte.
46
Furo al segnar de li aspri colpi pari;
che si posero i ferri ambi alla testa:
ma furo in arme et in virtù dispàri;
che l’un via passa, et l’altro morto resta.
Bisognan di valor segni più chiari
che por con liggiadria la lancia in resta:
ma fortuna ancho più bisogna assai;
che senza, val virtù raro o non mai.
47
La buona lancia il paladin ricovera,
et verso il Re d’Oran ratto si spicca,
a cui Natura la persona povera
fece di cor, ma d’ossa et polpe ricca.
Tra’ brutti colpi questo non si annovera,
se ben in fondo al gran scudo l’appicca:
et ognun ch’il sapesse l’havria excuso,
perché non si potea giunger più suso.
48
Non vieta il scudo al colpo che non entre,
ben che fuor sia d’acciar, dentro di palma,
e che da quel gran corpo uscir pel ventre
non faccia l’inuguale e piccola alma.
El caval che portar si credea, mentre
durasse il lungo dì, sì grave salma,
referì in mente sua gratia a Rinaldo,
ch’a quel incontro gli schivò un gran caldo.
49
Rotta l’hasta, Rinaldo il destrier volta
tanto liggier che fa sembiar c’habbia ale;
e dove la più stretta e maggior folta
vide stiparsi, impetüoso assale.
Mena Fusberta sanguinosa in volta,
che fa l’arme parer di vetro frale:
tempra di ferro il suo tagliar non schiva,
che non vada a trovar la carne viva.
50
Ritrovar poche tempre e pochi ferri
può la tagliente spada, ove s’incappi;
ma targhe, altre di coio, altre di cerri,
giuppe, trappunte e attorcigliati drappi.
Giusto è ben dunque che Rinaldo atterri
qualunque arriva, e fori e squarci e affrappi;
che non più si difende da sua spada
c’herba da falce, o da tempesta biada.
51
La prima schiera era già messa in rotta
quando Zerbin con l’antiguardo arriva:
el gentil cavallier nanzi alla frotta
con la lancia arrestata ne veniva;
la gente sotto il suo pennon condotta
con non minor fierezza lo seguiva:
tanti lupi parean, tanti leoni
che andassero assalir capre o montoni.
52
Spinse a un tempo ciascuno il suo cavallo,
poi che fur presso; et tolsero repente
quel breve spatio, quel poco intervallo
che si vedea fra l’una e l’altra gente.
Non fu sentito mai più strano ballo;
che feriano i Scocesi solamente:
solamente i pagani eran destrutti,
come sol per morir fusser condutti.
53
Parve più freddo ogni pagan che giaccio;
parve ogni Scotto più che fiamma caldo.
Mori credean ch’ogni Christian il braccio
devesse haver, c’hebbe in lor mal Rinaldo.
Mosse Sobrino i suoi schierati avaccio
senza aspettar che l’invitasse araldo:
de l’altra squadra questa era migliore
di capitano, d’arme et di valore.
54
D’Africa v’era la men trista gente;
ben che né questa anchor gran prezzo vaglia.
Dardinel la sua mosse incontinente,
non meglio armata o meglio usa in battaglia;
ben ch’egli in capo havea l’elmo lucente
et era tutto armato a piastra e maglia.
Io credo che la quarta miglior fia,
con chi Isoliero appresso lo seguia.
55
Trason intanto, il buon duca di Marra,
che ritrovarsi in l’alta impresa gode,
a’ cavallieri suoi schiude la sbarra
et quelli invita seco alle gran lode,
perché Isolier con quelli di Navarra
intrar ne la battaglia vede et ode.
Poi mosse Arïodante la sua schiera,
che nuovo duca d’Albania fatto era.
56
L’alto rumor de le sonore trombe,
timpani, corni et barbari stromenti,
giunti al continuo suon d’archi e di frombe,
di diserrate machine e tormenti;
et quel di che più par ch’el ciel ribombe,
gridi et tumulti, gemiti et lamenti;
rendeno un alto suon, che a quel s’accorda
con che i vicini il Nil cadendo assorda.
57
Grande ombra d’ognintorno il ciel involve,
nata dal saettar de li duo campi;
il fumo del sudor, alito et polve,
par che ne l’aria oscura nebbia stampi.
L’un campo et l’altro hor qua hor là si volve:
vedresti hor come un segua, hor come scampi;
et ivi alcuno, o non troppo diviso,
rimaner morto ove ha il nemico ucciso.
58
Dove una squadra per stanchezza è mossa,
un’altra presto fassi andare inanti.
Di qua e di là la gente d’arme ingrossa:
là cavallieri, et qua si metton fanti.
La terra che sostien l’assalto è rossa:
mutato ha il verde ne’ sanguigni manti;
et dove erano i fiori azurri et gialli
giaceno uccisi li huomini e i cavalli.
59
Zerbin facea le più mirabil prove
che mai facesse di sua età garzone:
lo exercito pagan, che intorno piove,
taglia et uccide e mena a destruttione.
Arïodante alle sue genti nuove
mostra di sua virtù gran paragone;
e dà di sé timore e maraviglia
a quelli di Navarra e di Castiglia.
60
Chelindo e Mosco, i duo figliuol bastardi
del morto Calabrun, Re d’Aragona,
et un che reputato fra’ gagliardi
era, Calamidor da Barcelona,
lasciâr da lungi adrieto i-llor stendardi;
et credendo acquistar gloria et corona
per uccider Zerbin, gli furo adosso;
et ne’ fianchi il caval gli hanno percosso.
61
Passato da tre lance il destrier morto
cade; ma il buon Zerbin subito è in piede;
che a quei che al suo caval han fatto torto,
per vendicarlo va dove li vede:
et prima a Mosco, al giovene mal scorto,
che gli sta sopra et di pigliar s’el crede,
menò di punta et lo passò nel fianco,
et fuor di sella il cacciò freddo e bianco.
62
Poi che Chelindo vide il viver curto
del fratel suo, di pietosa ira pieno
venne a Zerbino, e pensò dargli d’urto;
ma gli prese egli il corridor pel freno:
trasselo in terra, onde non è mai surto
e non mangiò mai più biada né fieno;
che Zerbin sì gran forza a un colpo mise,
che lui col suo signor d’un taglio uccise.
63
Come Calamidor quel colpo mira,
volta la briglia per levarsi in fretta;
ma Zerbin dietro un gran fendente tira,
dicendo: – Traditor, aspetta! aspetta! –
Non va la botta ove n’andò la mira,
non che perhò lontana vi si metta;
lui non puoté arrivar, ma il caval prese
sopra la groppa destra, e ’n terra il stese.
64
Colui lascia il cavallo, et via carpone
va per campar, ma poco gli successe;
che venne caso ch’el duca Trasone
gli passò sopra e col peso l’oppresse.
Arïodante et Lurcanio si pone
dove Zerbino è fra le genti spesse;
et seco hanno altri cavallieri e conti,
che fanno ogn’opra che Zerbin rimonti.
65
Menava Arïodante il brando in giro,
et ben lo seppe Artalico et Margano;
ma più sentillo Etarco et Casimiro,
che tutti a un tempo fur seco alle mano:
li primi dui feriti se ne giro,
rimaser li altri dui morti sul piano.
Lurcanio fa veder quanto sia forte;
che fere, urta, riversa et mette a morte.
66
Non crediate, signor, che fra campagna
pugna minor che presso al fiume sia,
e che a drieto l’exercito rimagna
che di Lincastro il buon duca seguia.
Le bandiere assalì questo di Spagna,
e molto ben di par la cosa gìa;
che fanti, cavallieri e capitani
di qua e di là sapean menar le mani.
67
Dinanzi vien Oldrado e Fieramonte,
un duca di Glocestra, un di Eborace;
con lor Ricardo, di Varvecia conte,
e di Chiarenza il duca, Henrigo audace.
Han Matalista e Follicone a fronte,
e Baricondo et ogni lor seguace:
tiene il primo Almeria, tien il secondo
Granata, tien Maiorca Baricondo.
68
La fiera pugna un pezzo andò di pare;
che vi si discernea poco vantaggio.
Vedeasi hor l’uno hor l’altro ire e tornare
come le biade al ventolin di maggio,
o come sopra il lito un mobil mare
hor vien hor va, né mai tien un vïaggio.
Poi che Fortuna hebbe scherzato un pezzo,
dannosa a’ Mori ritornò da sezzo.
69
Tutto in un tempo il duca di Glocestra
a Matalista fa vuotar l’arcione;
ferito a un tempo ne la spalla destra
Fieramonte riversa Follicone:
e l’un pagan e l’altro si sequestra
e tra l’Inglesi se ne va prigione;
e Baricondo a un tempo riman senza
vita al scontrar del duca di Chiarenza.
70
Indi li Mori tanto a spaventarsi,
indi i Fedeli a pigliar tanto ardire,
che quei non facean altro che ritrarsi
e partirse da l’ordine e fuggire,
e questi andar inanzi et avanzarsi
sempre terreno, e spinger e seguire:
e se non vi giungea chi lor diè aiuto,
lor campo da quel lato era perduto.
71
Ma Ferraù, che sin qui mai non s’era
dal Re Marsilio suo troppo disgiunto,
quando vide fuggir quella bandiera
et l’exercito suo mezo consunto,
spronò el cavallo, e dove ardea più fiera
la battaglia lo spinse; e arrivò a punto
che vide dal destrier cader in terra
col capo fesso Olimpio da la Serra,
72
un giovinetto che col dolce canto,
concorde al suon de la cornuta cetra,
di intenerir un cor si dava vanto,
anchor che fusse più duro che pietra.
Felice lui, se contentar di tanto
honor sapeasi, et scudo, arco e pharetra
haver in odio, et scimitarra e lancia,
che lo trarro a morir giovene in Francia!
73
Quando lo vide Ferraù cadere,
ch’el solea amar e haver in prezzo e stima,
si sente di lui sol via più dolere
che di mille altri che periro prima:
et sopra chi l’uccise in modo fere,
che gli divide l’elmo da la cima
per la fronte, per li occhi et per la faccia,
per mezo il petto, et morto a terra il caccia.
74
Né qui s’indugia; e il brando intorno ruota
ch’ogni elmo rompe, ogni lorica smaglia:
a chi segna la fronte, a chi la guota,
ad altri il capo, ad altri il braccio taglia;
hor questo hor quel di sangue e d’alma vuota
per lo petto et pel fianco; et la battaglia
ferma dal canto ove l’ignobil frotta
senza ordine fuggìa spezzata e rotta.
75
Cacciossi in la battaglia il Re Agramante,
d’uccider gente et far gran prove vago;
et seco ha Baliverzo et Farurante,
Prusïon, Soridano et Bambirago;
poi son le genti senza nome tante
che del suo sangue hoggi faranno un lago,
che meglio a conto harei ciascuna foglia
quando l’autonno li arbori ne spoglia.
76
Intanto il Re Agramante una gran banda
di fanti e cavallier, dal muro tolta,
col Re di Setta e Re di Feza manda,
che drieto ai padiglion piglin la volta
e vadano ad opporsi a quei d’Irlanda,
le cui squadre vedea con fretta molta,
dopo gran giri e larghi avolgimenti,
venir per levar lui li alloggiamenti.
77
Quei se ne andaro, e bisognò ben presto;
ch’ogni tardar troppo nocciuto haria.
Raguna intanto il Re Agramante il resto;
parte le squadre e alla battaglia invia.
Egli va al fiume; che gli par ch’in questo
luoco del suo venir bisogno sia;
e da quel canto un messo era venuto
del Re Sobrin che dimandava aiuto.
78
Menava in una squadra più di mezo
l’Africa drieto; e sol del gran rumore
tremaro i Scotti, e tanto fu il ribrezo,
ch’abbandonavan l’ordine e l’honore.
Zerbin, Lurcanio e Arïodante in mezo
lì restâr soli contra a quel furore;
e Zerbin, ch’era a piè, vi peria forse,
ma ’l buon Rinaldo a tempo se n’accorse.
79
Altrove intanto il paladin s’havea
fatto inanzi fuggir cento bandiere.
Hor che l’orecchie la novella rea
del gran periglio di Zerbin gli fere,
ch’a piedi fra la gente Cyrenea
lasciato sol havean tutte sue schiere,
volta il caval, e dove il popul Scotto
vede fuggir, prende la via di botto.
80
Là dove i Scotti ritornar fuggendo
vede, s’appara e grida: – Hor dove andate?
perché tanta viltade in voi comprendo,
che a sì vil gente il campo abbandonate?
Son queste forse le spoglie ch’io intendo
che a’ vostri templi già promesso havate?
Oh che laude, oh che gloria, ch’el figliuolo
del vostro Re si lasci a piedi e solo! –
81
Da un suo scudier una grossa hasta afferra,
et vede Prusïon poco lontano,
Re d’Alvaracchie, e adosso se gli serra,
et de l’arcion il porta morto al piano.
Morto Agricalte, et Bambirago atterra;
dopo fere aspramente Soridano:
et come li altri l’havria messo a morte
se nel ferir la lancia era più forte.
82
Stringe Fusberta, poi che l’hasta è rotta,
et tocca Serpentin, quel da la Stella:
fatate l’arme havea, ma quella botta
pur tramortito il manda fuor di sella.
Al capitano de la gente Scotta
fa piazza intorno; Arïodante in quella
arriva col caval di Serpentino,
che havea pigliato, e fa montar Zerbino.
83
Zerbin non potea meglio accôrre il tempo,
che forse nol facea se più tardava;
perché Agramante et Dardinello a un tempo,
Sobrin col Re Balastro vi arrivava.
Ma egli, che montato era per tempo,
di qua e di là col brando se aggirava,
mandando hor questo hor quel giù nel inferno
a dar notitia del stato moderno.
84
Rinaldo, che havea mente a porre in terra
hor questo hor quel che più vedea gagliardo,
la spada contra il Re Agramante afferra,
ch’un pezzo egli mirò con fiero sguardo,
che sol più che mille altri facea guerra;
e se gli spinse adosso con Baiardo:
lo fere a un tempo et urta di traverso,
sì che lui col destrier manda riverso.
85
Mentre di fuor con sì crudel battaglia,
odio, rabbia, furor l’un l’altro offende,
Rodomonte in Parigi il popul taglia,
le belle case e i sacri tempii accende.
Carlo, ch’in altra parte si travaglia,
questo non vede, e nulla anchor n’intende:
con gaudio e festa entrar fa ne la terra
Arimanno e Odoardo d’Inghilterra.
86
A-llui venne un scudier pallido in volto,
che a pena trar potea dal petto il fiato.
– Ahimè! signor, ahimè! – replìca molto,
prima c’habbia a dir altro incominciato:
– Hoggi il Romano Imperio, hoggi è sepolto;
hoggi ha il suo popul Christo abbandonato:
il Demonio dal ciel è piovuto hoggi
perché in questa città più non s’alloggi.
87
Satanasso (perché altri esser non puote)
strugge e ruina la città infelice.
Volgiti e mira le fumose ruote
de la rovente fiamma predatrice;
ascolta il pianto che nel ciel percuote;
et faccian fede a quel che ’l servo dice.
Un solo è quel che a ferro e fuoco strugge
la bella terra, e inanzi ognun gli fugge. –
88
Qual è colui che prima oda il tumulto
et de vicine squille il batter spesso,
che veggia il fuoco a nessun altro occulto
ch’a sé, che più gli tocca e gli è più presso;
tal è il Re Carlo, udendo il nuovo insulto
et connoscendol poi con l’occhio istesso:
onde col sforzo di sua miglior gente
si drizza dove il maggior grido sente.
89
De’ paladini et cavallier più degni
Carlo si chiama drieto una gran parte,
e vêr la piazza fa drizzare i segni;
che s’era il Pagan tratto in quella parte.
Ode il rumor, vede l’horribil segni
di crudeltà, l’humane membra sparte.
Hora non più: ritorni un’altra volta
chi volentier la bella historia ascolta.

CANTO DECIMOQUINTO

1
El giusto Dio, quando i peccati nostri
han di remissïon passato il segno,
acciò che la giustitia sua dimostri
ugual alla pietà, spesso dà regno
a tyranni atrocissimi et a mostri,
e dà lor forza et di mal far ingegno.
Per questo Mario et Sylla pose al mondo,
et duo Neroni et Caio furibondo,
2
Domitïano e il figlio d’Antonino;
e tolto da la immonda e bassa plebe
exaltò nel Imperio Maximino;
e nascer prima fe’ Creonte a Thebe;
e diè Mezentio al populo Agilino,
che grasse fe’ di sangue human le glebe;
e diede Italia a tempi men remoti
in preda agli Hunni, ai Longobardi, ai Gothi.
3
Che d’Atila dirò? che de l’iniquo
Ezzellin da Roman? che d’altri cento?
che dopo lungo andar sempre in obliquo,
ne manda Dio per multa et per tormento.
Di questo haven non pur al tempo antiquo,
ma anchora al nostro chiaro experimento,
quando a noi, greggi inutili et mal nati,
ha dato per guardian lupi arrabbiati;
4
a cui non par c’habbia a bastar lor fame,
c’habbia il lor ventre a capir tanta carne;
e chiaman lupi di più ingorde brame
da boschi oltramontani a divorarne.
Di Trasimeno l’insepulto ossame,
di Canne e Trebbia poco e d’Allia parne
verso quel che le ripe e i campi ingrassa,
dove Ada e Mella e il Ronco e il Tarro passa.
5
Hor Dio consente che noi siàn puniti
da populi di noi forse peggiori,
de li multiplicati et infiniti
nostri nefandi, obbrobrïosi errori.
Tempo verrà che a depredar lor liti
andaren noi, se mai saren migliori
e li peccati lor giungano al segno,
che l’eterna Bontà muovano a sdegno.
6
Deveano allhora haver li excessi loro
di Dio turbata la serena fronte,
ch’ogni lor luoco scórse il Turco e il Moro
con stupri, uccisïon, rapine et onte:
ma più di tutti li altri danni, fôro
gravati dal furor di Rodomonte.
Dissi c’hebbe di lui la nuova Carlo,
et che in piazza venìa per ritrovarlo.
7
Vede tra via la gente sua troncata,
arsi i palazzi et ruinati i templi,
gran parte de la terra desolata:
mai non si vider sì crudeli exempli.
– Dove fuggite turba spaventata?
non è tra voi chi ’l danno suo contempli?
Che città, che refugio più vi resta
quando si perda sì vilmente questa?
8
Dunque un huom solo in vostra terra preso,
cinto di mura onde non può fuggire,
si partirà per viltà vostra illeso
quando tutti v’havrà fatto morire? –
Così Carlo dicea, che d’ira acceso
tanta vergogna non potea patire;
et giunse dove inanti alla gran corte
vide il Pagan por la sua gente a morte.
9
Quivi gran parte era del populazzo,
sperandovi trovar aiuto, ascesa;
perché forte di mura era il palazzo,
con munition da far lunga difesa.
Rodomonte, di orgoglio e d’ira pazzo,
solo s’havea tutta la piazza presa:
e l’una man, che prezza il mondo poco,
ruota la spada, e l’altra getta el fuoco.
10
E de la regal casa, alta e sublime,
percuote e risuonar fa le gran porte.
Gettan le turbe da le excelse cime
et merli et torri, et si metton per morte;
guastar li tetti non è alcun che stime;
et legna et pietre vanno ad una sorte,
lastre, colonne e li dorati travi
che furo in prezzo a li lor padri et avi.
11
Sta quel crudel, et su la prima entrata
di ferrigno splendor lucido appare,
come il serpe che dianzi la vernata
pasciute ha ne le tane l’esche amare;
che poscia che la pelle ha rinovata
esce del scuro albergo all’aure chiare,
et le splendide scaglie et scorze nuove
superbo liscia e al sol girando muove.
12
Non sasso, merlo, trave, arco o balestra,
né ciò che sopra il Saracin percuote
ponno allentar la sanguinosa destra
che la gran porta taglia, spezza e scuote;
et dentro fatto le ha tanta finestra,
che ben veder e veduto esser puote
da’ visi impressi di color di morte
che tutta piena havean quivi la corte.
13
Risuonan dentro a’ spatïosi tetti
feminil gridi, gemiti et lamenti:
l’afflitte donne, percuotendo i petti,
corron per casa pallide et dolenti;
et abbracciano e li usci e i cari letti
come habbiano a lassarli a strane genti.
Tratta la cosa era in periglio tanto
quando il Re giunse, et suoi baroni a canto.
14
Carlo si volse a quelle man robuste
c’hebbe altre volte a gran bisogno pronte:
– Non sète quelli voi, che meco fuste
contra Agolante (disse) in Aspramonte?
Sono le vostre forze hora sì fruste
che, s’uccideste Lui, Troiano e Aimonte
con cento mila, hor ne temete un solo
che pur è di quel sangue et di quel stuolo?
15
Perché debbo veder minor fortezza
adesso in voi, ch’io la vedessi allhora?
Mostrate a questo Can vostra prodezza,
a questo Can che li huomini divora.
Un magnanimo cor morte non prezza,
presto o tardi che sia, pur che ben mora;
ma dubitar non posso ove voi sète,
che fatto sempre vincitor m’havete. –
16
Al fin de le parole urta il destriero,
con l’hasta bassa, al Saracino adosso.
Mossesi a un tratto il paladino Ugiero,
a un tempo Namo et Olivier s’è mosso,
Avino, Avolio, Othone et Belingiero,
ch’un senza l’altro mai veder non posso:
et tutti ferîr sopra a Rodomonte
et nel petto et ne’ fianchi et ne la fronte.
17
Ma lasciamo, per dio, signor, hormai
di parlar d’ira et ragionar di morte;
et sia per questa volta detto assai
del Saracin non men crudel che forte:
che tempo è ritornar dove lasciai
Griphon, giunto a Damasco in su le porte
con Horrigille perfida, et con quello
che adultero era, et non di lei fratello.
18
De le più ricche terre di Levante,
de le più populose e meglio ornate
si dice esser Damasco, che distante
siede a Hierusalem sette giornate,
in un piano fruttifero e abondante,
non men giocondo il verno che l’estate.
A questa terra il primo raggio tolle
de la nascente Aurora un vicin colle.
19
Per la città duo fiumi crystallini
vanno inaffiando per diversi rivi
un numero infinito di giardini,
che mai non son de fiori o frondi privi.
Dicesi anchor che macinar molini
potrian far l’acque Nanfe che son quivi;
e chi va per le vie vi sente, fuore
di tutte quelle case, uscirne odore.
20
Tutta coperta è la strada maestra
di panni di diversi color lieti,
et di odorifer herba et di silvestra
fronda la terra et tutte le pareti.
Adorna era ogni porta, ogni finestra
di finissimi drappi et di tapeti,
ma più di belle et ben ornate donne
di ricche gemme et di superbe gonne.
21
Vedeasi celebrar dentro alle porte
in molti luochi solazzevol balli;
il popul, per le vie, di miglior sorte
movea li ben guarniti et bei cavalli;
facea più bel veder la ricca corte
di principi, baroni et gran vassalli,
con ciò che d’India e d’Erithree Maremme
di perle haver si può, d’oro et di gemme.
22
Venìa Griphone et la sua compagnia
mirando quinci et quindi il tutto ad agio,
quando fermolli un cavalliero in via
et li fece smontare a un suo palagio;
e per l’usanza et per sua cortesia
di nulla li lasciò patir dissagio:
li fece in bagno entrar, poi con serena
fronte raccolse a sontüosa cena.
23
E narrò lor come il Re Norandino,
Re di Damasco e di tutta Sorìa,
fatto havea il paesano e il peregrino
ch’ordine havesse di cavalleria
alla giostra invitar, ch’al matutino
del dì seguente in piazza si faria;
et che s’havean valor pare al sembiante,
potrian mostrarlo senza andar più inante.
24
Anchor che quivi non venne Griphone
a questo effetto, pur l’invito tenne;
che qual volta se n’habbia occasïone,
mostrar virtude mai non disconvenne.
Interrogollo poi de la cagione
di quella festa, et s’ella era solenne
usata ogn’anno, o pur impresa nuova
del Re che i suoi veder volesse in pruova.
25
Rispose il Cavallier: – La bella festa
s’ha da far sempre ad ogni quarta luna:
de l’altre che verran la prima è questa;
anchora non se n’è fatta più alcuna.
Serà in memoria che salvò la testa
il Re in tal giorno da una gran fortuna,
dopo che quattro mesi in doglie e in pianti
sempre era stato, et con la morte inanti.
26
Ma per dirti la cosa pienamente,
il nostro Re, che Norandin s’appella,
molti et molt’anni ha havuto il cor ardente
per desiderio di Lucina bella,
figlia del Re di Cypro; et finalmente
l’hebbe per moglie, et si partì con quella,
con cavallieri et donne in compagnia,
sperando ritornarsene in Sorìa.
27
Ma poi che fummo tratti a piene vele
lungi dal porto nel Carpathio iniquo,
la tempesta saltò tanto crudele,
che sbigottì sino al padrone antiquo.
Tre dì e tre notti andammo errando ne le
minacciose onde per camino obliquo;
uscimmo al fin nel lito stanchi et molli
tra freschi rivi, ombrosi e verdi colli.
28
Piantar li padaglioni, et le cortine
fra li arbori tirar facemmo lieti;
s’apparecchiaro i fuochi et le cucine,
le mense d’altra parte in su tapeti.
Intanto il Re cercando alle vicine
valli era andato a’ boschi più secreti,
se ritrovasse capre o danni o cervi;
et l’arco gli portâr drieto duo servi.
29
Mentre che in gran piacer stiamo attendendo
che da cacciar ritorni il signor nostro,
vedemo l’Orco a noi venir correndo
lungo il lito del mar, terribil mostro.
Dio vi guardi, signor, ch’el viso horrendo
del Orco agli occhi mai vi sia dimostro:
meglio è per fama haver notitia d’esso,
che andargli, sì che lo veggiate, appresso.
30
Non gli può comparir quanto sia lungo,
sì smisuratamente è tutto grosso;
in luoco d’occhi, di color di fungo
sotto la fronte ha duo coccole d’osso.
Verso noi vien (come vi dico) lungo
el lito, e par ch’un monticel sia mosso;
mostra le zanne fuor come fa il porco,
ha lungo il naso, il sen bavoso e sporco.
31
Correndo vien, e il muso a guisa porta
ch’el bracco suol quando entra in su la traccia.
Tutti che lo veggiam con faccia smorta
in fuga andamo ove il timor ne caccia.
Poco il veder lui cieco ne conforta,
quando, fiutando sol, par che più faccia
ch’altri non fa, c’habbia odorato et lume:
et a fuggirne era uopo haver le piume.
32
Corron chi qua chi là; ma poco lece
fuggir da lui, veloce più ch’el Noto:
di quaranta ch’eramo, a pena diece
sopra il naviglio si salvaro a nuoto.
Sotto il braccio un fastel d’alcuni fece,
né ’l grembo si lasciò né ’l seno vuoto;
un suo capace Zaino impiessene ancho,
che gli pendea, come a pastor, dal fianco.
33
Portonne alla sua tana il Mostro cieco,
che stava in ripa al mar cava in un scoglio;
di marmo così bianco era quel speco
come esser soglia anchor non scritto foglio.
Quivi habitava una matrona seco,
di dolor piena in vista et di cordoglio;
et havea in compagnia donne et donzelle
d’ogni età, d’ogni sorte, et brutte et belle.
34
Era presso alla grotta in ch’egli stava,
quasi alla cima del giogo superno,
un’altra non minor di quella cava,
dove del gregge suo facea governo.
Tanto n’havea, che non si numerava;
et n’era egli il pastor l’estade e ’l verno:
gli apriva alli suoi tempi, et tenea chiuso,
per spasso che n’havea, più che per uso.
35
L’humana carne meglio gli sapeva,
et prima il fa veder che all’antro arrivi:
che tre de’ nostri gioveni che haveva
tutti li mangia, anzi trangugia vivi.
Viene alla stalla, e un gran sasso ne lieva:
ne caccia il gregge, e ne riserra quivi;
con quel sen va dove il suol far satollo,
suonando una zampogna c’havea in collo.
36
El signor nostro, intanto ritornato
alla marina, il suo danno comprende;
che truova gran silentio in ogni lato,
vuoti fraschati, padiglioni e tende.
Né sa pensar chi sì gli habbia rubato;
et pien di gran timor al lito scende,
onde i nocchieri suoi vede in disparte
l’ancore trarre e in opra por le sarte.
37
Tosto ch’essi lui veggono sul lito,
el palaschermo mandano a levarlo;
ma non sì presto ha Norandino udito
de l’Orco che venuto era a rubarlo,
che, senza più pensar, piglia partito,
dovunque andato sia, di seguitarlo:
vedersi tôr Lucina sì gli duole
che o racquistarla o non più viver vuole.
38
Dove vede apparir lungo la sabbia
la frescha orma, ne va con quella fretta
con che lo spinge l’amorosa rabbia,
fin che giunge alla tana ch’io v’ho detta;
ove con tema la maggior che s’habbia
a patir mai, l’Orco da noi s’aspetta:
ad ogni suono di sentirlo parne
che affamato ritorni a divorarne.
39
Quivi Fortuna il Re da tempo guida;
che senza l’Orco in casa era la moglie.
Come ella il vede: «Fuggine!» gli grida,
«misero te, se l’Orco te ci coglie!».
«Coglia (disse) o non coglia, o salvi o uccida,
che miserrimo i’ sia non mi si toglie:
disir mi mena, e non error di via,
c’ho di morir presso alla moglie mia».
40
Poi seguì dimandandole novella
di quei che prese l’Orco in su la riva;
prima de li altri, di Lucina bella,
se l’havea morta o la tenea captiva.
La donna humanamente gli favella
e lo conforta che Lucina è viva,
e che non è alcun dubbio ch’ella mora;
che mai femina l’Orco non divora.
41
«Esser di ciò argumento ti posso io
et tutte queste donne che son meco:
a noi non è mai l’Orco stato rio,
pur che partir non si vogliàn dal speco.
A chi cerca fuggir pon grave fio,
né pace mai pôn ritrovar più seco:
o le sotterra vive, o l’incatena,
o fa star nude al sol sempre in l’arena.
42
Quando hoggi egli portò qui la tua gente,
le femine da i maschi non divise;
ma, sì come l’havea, confusamente
dentro a quella spelonca tutti mise.
Sentirà a naso il sesso differente:
le donne non temer che siano uccise;
li huomini siane certo: et impieranne
di quattro, il giorno, o sei l’avide canne.
43
Di levar lei di qui non ho consiglio
che dar ti possa; e contentar te puoi
che ne la vita sua non è periglio:
starà qui al ben e al mal c’havremo noi.
Ma vattene (per dio), vattene, figlio,
che l’Orco non te senta e non te ingoi:
tosto che giunge, d’ognintorno annasa,
et sente sin a un topo che sia in casa».
44
Rispose il Re non si voler partire
se non vedea la sua Lucina prima;
e più presto voler con lei morire,
che viver senza lei, faceva stima.
Quando vede ella non poterli dire
cosa ch’el muova da la voglia prima,
per aiutarlo fa nuovo disegno,
e ponvi ogni sua industria, ogni suo ingegno.
45
Morte havea in casa, e in ogni tempo appese,
con lor mariti assai capre et agnelle,
onde a sé et alle sue facea le spese;
et dal tetto pendea più d’una pelle.
La donna fe’ ch’el Re del grasso prese
c’havea un gran becco intorno le budelle,
et che se n’unse dal capo alle piante
fin che l’odor cacciò ch’egli hebbe inante.
46
Et poi che ’l tristo puzzo haver gli parve
di che il fetido becco ognhora sape,
piglia l’hirsuta pelle et fallo intrarve,
sì spatïosa che tutto vi cape.
Coperto sotto a così strane larve,
per le corna carpon seco lo rape
là dove chiuso era da un sasso grave
de la sua donna il bel viso soave.
47
Norandin ubidisce; et alla buca
de la spelonca ad aspettar si mette,
acciò col gregge dentro si conduca;
e fin a sera disïando stette.
Ode la sera il suon de la sambuca,
con che invita a lasciar l’humide herbette
e ritornar le pecore all’albergo
l’horribile pastor c’hanno da tergo.
48
Pensate voi se gli tremava il core
quando l’Orco sentì che ritornava,
e il crudel viso pien di tanto horrore
vide appressar all’uscio de la cava;
ma puoté la pietà più ch’el timore:
vedi se ardeva o fintamente amava.
Vien l’Orco al speco, et lieva il sasso et apre:
Norandin entra fra pecore et capre.
49
Intrato il gregge, l’Orco a noi discende;
ma prima sopra sé l’uscio si chiude.
Tutti ne va odorando: al fin duo prende;
che vuol cenar de le lor carni crude:
al rimembrar di quelle zanne horrende
non posso far ch’anchor non tremi e sude.
Partito l’Orco, il Re getta la gonna
c’havea di becco, e abbraccia la sua donna.
50
Dove haverne piacer deve et conforto,
(vedendol quivi) ella n’ha affanno e noia:
lo vede giunto ove ha da restar morto;
et non può far perhò ch’essa non muoia.
«Con tutto il mal (diceagli) ch’io supporto,
sentia, signor, non medïocre gioia
che ritrovato non t’eri con nui
quando da l’Orco hoggi pigliata fui.
Che se ’l morir ben m’era duro et forte,
come è a ciascun per natural instinto,
sol pianto harei che havesse la mia sorte,
del mondo, in sul fiorir, mio viver spinto.
405Pianger la tua convienmi et la mia morte,
o prima o dopo me che tu sia extinto».
Et poi seguì, mostrando che del danno
havria di lui, più che del proprio, affanno.
52
«La speme (disse il Re) mi fa venire
c’ho di salvarte, et tutti questi teco:
et s’io nol posso far, meglio è morire
che senza te, mio Sol, viver poi cieco.
Come io ci venni, mi potrò partire;
et voi tutti altri ne verrete meco
se non havete, come io non ho havuto,
schivo a pigliar odor d’animal bruto».
53
La fraude insegnò noi, che contra il naso
de l’Orco a-llui mostrò la moglie d’esso;
et le pelli vestir, per ogni caso
ch’egli ne palpi ne l’uscir del fesso.
Poi che di questo ognun fu persuaso,
per quanti eràn de l’uno et l’altro sesso,
tanti uccidemmo de li hirsuti becchi
quelli che più fetean, ch’eran più vecchi.
54
Se ungemo i corpi di quel grasso opimo
che ritroviamo alle intestina intorno,
et de l’horride pelli si vestimo;
intanto uscì dal aureo albergo il giorno.
Alla spelonca, come apparve il primo
raggio del Sol, fece il pastor ritorno;
et dando spirto alle sonore canne,
chiamò il suo gregge fuor de le cappanne.
55
Tenea la mano al buco de la tana
acciò col gregge non uscisson noi:
ne prendea al varco; e quando pelo o lana
sentia sul dosso, ne lasciava poi.
Huomini et donne uscimmo per sì strana
strada, coperti da li hirsuti cuoi:
et l’Orco alcun di noi mai non ritenne,
fin che con gran timor Lucina venne.
56
Lucina, o fusse perch’ella non volle
ungersi come noi, che schivo n’hebbe;
o c’havesse l’andar più lento o molle
che l’imitata bestia non harebbe;
o quando l’Orco la groppa toccolle
gridasse per la tema che le accrebbe;
o che se le sciogliessero le chiome;
sentita fu, né ben so dirvi come.
57
Tutti eramo sì intenti al caso nostro,
che non havemmo gli occhi alli altrui fatti.
Io mi rivolsi al grido: et vide il Mostro
che i spogli hirsuti havea a Lucina tratti;
poi vide che la chiuse in stretto chiostro.
Noi altri, dentro a nostre gonne piatti,
col gregge andiamo ove il pastor ne mena,
tra verdi colli in una piaggia amena.
58
Quivi attendemo insin che steso all’ombra
d’un bosco opaco il nasuto Orco dorma:
chi lungo il mar, chi verso il monte sgombra;
sol Norandin non vuol seguir nostra orma.
L’amor de la sua donna sì l’ingombra
che alla grotta tornar vuol fra la torma,
né partirsene mai sino alla morte
se non racquista la fedel consorte:
59
che quando dianzi havea all’uscir del chiuso
vedutola restar captiva sola,
fu per gettarsi, dal dolor confuso,
spontaneamente al vorace Orco in gola;
et si mosse et gli corse insino al muso,
né fu lontano andar sotto la mola:
ma pur lo tenne in mandra la speranza
che havea di trarla anchor di quella stanza.
60
La sera, quando alla spelonca mena
il gregge l’Orco, et che fuggiti sente
noi tutti, et che riman privo di cena,
chiama Lucina d’ogni mal nocente,
et la condanna star sempre in catena
sopra il suo tetto nel scoglio eminente:
vedela il Re per sua cagion patire
et di duol spasma, et sol non può morire.
61
Matino e sera l’infelice amante
la può veder come se affliga et agna;
che misto fra le capre le va inante,
torni alla stalla o torni alla campagna.
Ella con viso mesto e supplicante
gli accenna che per dio qui non rimagna,
dove egli sta a gran rischio de la vita,
né perhò a-llei può dare alcuna aita.
62
Così la moglie anchor de l’Orco prega
il Re che se ne vada, ma non giova;
che di gir mai senza Lucina niega
et sempre in ciò più fermo si ritruova.
In questa servitude, in che lo lega
Pietate e Amor, stette con lunga pruova
tanto che a capitar venne a quel sasso
il figlio d’Agrican e ’l Re Gradasso;
63
dove con lor audacia tanto fenno,
che liberaron la bella Lucina,
ben che vi fu aventura più che senno;
et lei al padre, che per la marina
venìa cercando liberarla, dénno:
et questo fu ne l’hora matutina
che Norandin con l’altro gregge stava
a ruminar ne la montana cava.
64
Ma poi ch’el giorno aperta fu la sbarra
e seppe il Re la Donna esser partita,
che la moglie de l’Orco gli lo narra
e come a punto era la cosa gita;
gratie a Dio rende, et con voto ne inarra
ch’essendo fuor di tal miseria uscita,
faccia che giunga onde per arme possa,
per prieghi o per thesoro esser riscossa.
65
Pien di letitia va con l’altra schiera
del simo gregge, et vien a i verdi paschi;
et quivi aspetta sin che all’ombra nera,
vinto dal sonno, il Mostro in l’herba caschi;
poi ne vien tutto il giorno et tutta sera.
Sicuro al fin che l’Orco non l’intaschi,
sopra un naviglio monta in Satalìa;
et son tre mesi che arrivò in Sorìa.
66
In Rhodi, in Cypro, per città e castella
e d’Africa e d’Egytto e di Turchia,
il Re cercar fe’ di Lucina bella;
né fin l’altrhier haver ne puòte spia.
L’altrhier n’hebbe dal socero novella
che seco l’havea salva in Nicosia,
dopo che molti dì vento crudele
era stato contrario alle sue vele.
67
Per allegrezza de la buona nuova
prepara il nostro Re la ricca festa;
et vuol che ad ogni quarta luna nuova
una se n’habbia a far simil a questa:
che la memoria refrescar gli giova
de’ quattro mesi che in hirsuta vesta
fu tra il gregge de l’Orco; e un giorno, quale
serà dimane, uscì di tanto male.
68
Questo ch’io v’ho narrato in parte vidi,
in parte udi’ da chi trovosse al tutto;
dico dal Re, che le Kalende et l’Idi
vi stette, sin che volse in riso il lutto:
e se n’udite mai far altri gridi,
dicete a chi li fa ch’è mal instrutto. –
El gentilhuomo in tal modo a Griphone
di lor festa narrò l’alta cagione.
69
Un gran pezzo di notte si dispensa
da’ cavallieri in tal ragionamento,
e conchiudon ch’amore e pietà immensa
mostrò quel Re con grande experimento.
Trarronsi, poi che si levâr da mensa,
dove hebbon grato e buon alloggiamento.
Nel seguente matin sereno e chiaro,
al suon de le allegrezze si destaro.
70
Vanno scorrendo timpani et trombette,
et ragunando in piazza la cittade.
Hor, poi che de cavalli et de carrette
e gente udiro ribombar le strade,
Griphon le lucide arme si rimette,
che son di quelle che si truovan rade;
che le havea impenetrabili e incantate
la Fata bianca di sua man temprate.
71
Quel d’Antïochia, più d’ogn’altro vile,
armossi seco e compagnia gli tenne.
Preparate havea lor l’hoste gentile
nerbose lance e salde e grosse antenne,
e del suo parentado non humìle
compagnia tolta; e seco in piazza venne;
e scudieri a caval, e alcuni a piede,
a tal servigi attissimi, lor diede.
72
Giunsero in piazza, e trarronsi in disparte,
né pel campo curâr far di sé mostra,
per veder meglio il bel popul di Marte
ch’ad uno, a dua, a tre veniano in giostra:
chi con colori accompagnati ad arte
letitia o doglia alle sue donne mostra;
chi nel cimier, chi nel depinto scudo
disegna Amor, se l’ha benigno o crudo.
73
Sorïani in quel tempo haveano usanza
d’armarsi a questa guisa di Ponente:
forse ve l’inducea la vicinanza
che de’ Franceschi havean continuamente,
che quivi allhor reggean la sacra stanza
dove in carne habitò Dio omnipotente;
c’hor li superbi e miseri christiani,
con biasmo lor, lasciano in man de’ Cani.
74
Dove abbassar devrebbeno la lancia
in augumento de la santa fede,
tra lor si dàn nel petto e ne la pancia
a destruttion del poco che si crede.
Che fate qui, gente di Spagna e Francia?
Volgete altrove, e voi, Svizari, il piede,
e voi, Tedeschi, a far più degno acquisto;
che quanto qui cercate è già di Christo.
75
S’esser voi Christianissimi volete,
e voi altri Catholici nomati,
perché di Christo li huomini uccidete?
perché de’ beni lor son dispogliati?
Perché Hierusalem non rïhavete,
che tolto è stato a voi da’ rinegati?
perché Constantinopoli e del mondo
la miglior parte occùpa il Turco immondo?
76
Non hai tu, Spagna, l’Africa vicina,
che t’ha via più di questa Italia offesa?
E pur, per dar travaglio alla meschina,
lasci la prima tua sì bella impresa.
O d’ogni vitio fetida sentina,
dormi, Italia imbrïaca, e non ti pesa
c’hora di questa gente, hora di quella
che già serva ti fu, sei fatta ancella?
77
Se ’l dubbio di morir ne le tue tane,
Svizer, di fame, in Lombardia ti guida,
e tra noi cerchi o chi ti dia del pane
o, per uscir d’inopia, chi te uccida,
alle ricchezze d’Asia pon le mane;
d’Europa il Turcho, o almen di Grecia snida:
o del lungo digiun potrai sfamarti,
o cader con più merto in quelle parti.
78
Quel ch’a te dico, i’ dico al tuo vicino
Tedesco anchor: là le ricchezze sono
che vi portò da Roma Constantino;
portonne il meglio, e fe’ del resto dono.
Pactolo et Hermo, onde si tra’ l’or fino,
Migdonia e Lydia, e quel paese buono
per tante laudi in tante historie noto,
non è, s’andar vi vuoi, troppo remoto.
79
Tu, gran Leone, a cui premon le terga
de le chiavi del ciel le gravi some,
non lasciar che nel sonno si summerga
Italia, se la man l’hai ne le chiome.
Tu sei Pastore; e Dio t’ha quella verga
data a portar, e scelto il fiero nome,
perché tu ruggia, e che le braccia stenda,
sì che da’ lupi il gregge tuo difenda.
80
Ma d’un parlare in altro, ove sono ito
sì lungi dal camin ch’io facevo hora?
Non lo credo perhò sì haver smarrito
ch’io non lo sappia ritrovare anchora.
Dicea ch’in la Sorìa si tenea il rito
d’armar, che li Franceschi haveano allhora:
sì che bella in Damascho era la piazza
di gente armata d’elmo e di corazza.
81
Le vaghe donne gettano da’ palchi
sopra i giostranti i fior vermigli e gialli,
mentre essi fanno a suon de li oricalchi
levare a salti et aggirar cavalli.
Ciascuno, o bene o mal ch’egli cavalchi,
vuol far quivi vedersi, e sprona e dàlli:
di ch’altri ne riporta pregio e lode;
move altri a riso, e gridar drieto s’ode.
82
De la giostra era il prezzo una armatura
che fu donata al Re pochi dì inante,
che su la strada ritrovò a ventura
ritornando d’Armenia un mercadante.
El Re di nobilissima testura
le sopraveste all’arme giunse, e tante
perle vi pose intorno et gemme et oro,
che stimar si potea molto thesoro.
83
Se connosciute il Re quell’arme havesse,
care havute l’haria sopra ogni arnese;
né ’n premio de la giostra l’havria messe,
come che liberal fusse e cortese.
Lungo serìa chi raccontar volesse
chi l’havea sì sprezzate e vilipese,
ch’in la publica strada le lasciasse,
preda a chiunque inanzi o indrieto andasse.
84
Di questo ho da contarvi più di sotto:
hor dirò di Griphon, ch’alla sua giunta
un paro e più di lancie trovò rotto,
menato più d’un taglio e d’una punta.
De li più cari a Norandin furo otto
che quivi insieme havean liga congiunta,
gioveni in arme pratichi et industri,
tutti o signori o di famiglie illustri.
85
Rispondean questi in la sbarrata piazza
per quel dì, ad uno ad uno, a tutto ’l mondo,
prima di lancia e poi di spada o mazza,
sin che guardarli al Re fusse giocondo;
e si foravan spesso la corazza:
per giuoco in summa qui facean secondo
fan li nemici capitali, excetto
che potea il Re partirli a suo diletto.
86
Quel d’Antïochia, un huom senza ragione,
che Martano il codardo nominosse,
come se de la forza di Griphone
esso consorte e participe fosse,
audace intrò nel martïale agone;
e poi da canto ad aspettar fermosse
sin che finisse una battaglia fiera
che tra duo cavallier comminciata era.
87
El signor di Seleucia, di quelli uno
ch’a sostener l’impresa haveano tolto,
combattendo in quel tempo con Ombruno,
lo ferì d’una punta in mezo il volto
sì che l’uccise, e pietà n’hebbe ognuno;
ognun n’hebbe pietà perch’era molto
buon cavallier, né un altro sì cortese
era in Damasco o in tutto quel paese.
88
Veduto ciò, Martano hebbe paura
che parimente a sé non avenisse;
e ritornando in la sua vil natura,
a pensar cominciò come fuggisse.
Pur Griphon, ch’era appresso e n’havea cura,
lo spinse al fin, poi ch’assai fece e disse,
contra un gentil guerrier che s’era mosso,
come si spinge il cane al lupo adosso;
89
che diece passa gli va drieto o venti,
e poi si ferma, et abbaiando guarda
come degrigni i minacciosi denti
e come in gli occhi horribil fuoco gli arda.
Quivi, ove erano e principi presenti
e tanta gente nobile e gagliarda,
fuggì l’incontro il timido Martano,
e torse il freno e il capo a destra mano.
90
Pur la colpa potea dar al cavallo
chi di scusarlo havesse tolto il peso;
ma con la spada poi fe’ sì gran fallo
che non l’havria Demosthene difeso:
di charta armato par, non di metallo;
sì teme d’ogni colpo essere offeso.
Ne fugge al fine, e l’ordine disturba,
ridendo intorno a-llui tutta la turba.
91
El batter de le mani, il grido, il scorno
se gli levò de’ populari drieto.
Tornò all’albergo, e gran spatio del giorno
stette aspettando in camera secreto
fin che la compagnia fêsse ritorno.
Ma torniamo a Griphon, che poco lieto
di costui vide le biasmevol prove,
e stato volentier serebbe altrove.
92
Arde nel core, e fuor nel viso avampa,
come sia tutta sua quella vergogna;
perché l’opere sue di simil stampa
vedere aspetta il populo et agogna:
sì che refulga chiara più che lampa
sua virtù, questa volta gli bisogna;
ch’un oncia, un dito sol d’error che faccia,
per la mala impression parrà sei braccia.
93
Già la lancia havea tolta su la coscia
Griphon, ch’errare in arme era poco uso:
spinse il cavallo a tutta briglia, e poscia
ch’alquanto andato fu, la messe suso,
e portò nel ferire estrema angoscia
al baron di Sidonia, ch’andò giuso.
Ognun maravigliando in piè si lieva;
che ’l contrario di ciò tutto attendeva.
94
Tornò Griphon con la medesma antenna,
ch’intiera e ferma ricovrata havea,
et in tre pezzi la ruppe alla penna
del scudo del signor di Lodicea:
quel per cader tre volte e quattro accenna,
che tutto steso in la groppa giacea;
pur rilevato al fin la spada strinse,
volta il cavallo, e vêr Griphon si spinse.
95
Griphon, che ’l vede in sella, e che non basta
sì fiero incontro perché a terra vada,
dice fra sé: – Quel che non puòte l’hasta,
in cinque colpi o sei farà la spada. –
E su la tempia subito l’attasta
d’un dritto tal, che par che dal ciel cada;
e un altro gli accompagna e un altro appresso,
tanto che l’ha stordito e in terra messo.
96
Quivi erano d’Apamia duo germani,
soliti in giostra rimaner di sopra,
Tirse e Corimbo; et ambo per le mani
del figlio d’Olivier cadêr sosopra:
lasciò il primo li arcion nel scontro vani;
con l’altro messa fu la spada in opra.
Già per commun giudicio si tien certo
che di costui fia de la giostra il merto.
97
Entrato era in la lizza Salinterno,
gran Dïodarro e Maliscalco regio.
Costui di tutto il stato havea il governo,
e di sua man fu cavallier egregio;
e disdegnoso ch’un guerrier externo
debbia portarne de la giostra il pregio,
piglia una lancia, e verso Griphon grida,
e minacciando alla battaglia il sfida.
98
Ma quel con un lancion gli fa risposta,
c’havea per lo miglior fra diece eletto,
e per non fare error nel scudo apposta,
e quel via passa e la corazza e il petto:
passa il ferro crudel tra costa e costa
e fuor pel tergo un palmo esce di netto.
El colpo (excetto ’l Re) fu a tutti caro;
ch’ognuno odiava Salinterno avaro.
99
Griphone, appresso a questi, in terra getta
dui di Damasco, Ermophilo e Carmondo;
la militia del Re dal primo è retta;
del mar grande Almiraglio era il secondo:
l’uno al scontro lasciò la sella in fretta;
adosso a l’altro riversciossi il pondo
del rio destrier, che sostener non puòte
l’alto valor con che Griphon percuote.
100
El signor di Seleucia anchor restava,
miglior guerrier di tutti li altri sette;
e ben la sua possanza accompagnava
con destrier buono e con arme perfette.
Dove de l’elmo la vista si chiava
sua lancia al scontro l’uno e l’altro mette:
pur Griphon maggior scontro al Pagan diede,
che lo fe’ staffeggiar dal manco piede.
101
Gettaro i tronchi, e si tornaro adosso
pieni di molt’ardir coi brandi nudi.
Fu ’l Pagan prima da Griphon percosso
d’un colpo che spezzato haria l’incudi:
con quel fender si vide e ferro et osso
d’un ch’eletto s’havea tra mille scudi;
e se non era doppio e fin l’arnese,
ferìa la coscia ove cadendo scese.
102
Ferì quel di Seleucia alla visera
Griphone a un tempo; e fu quel colpo tanto,
che l’haria aperta e rotta, se non era
fatta, come l’altre arme, per incanto.
Gli è un perder tempo ch’el Pagan più fera,
che non ha via dove entri in ignun canto;
e in più parti Griphon già fessa e rotta
ha l’armatura a lui, né perde botta.
103
Già si potea veder quanto di sotto
il signor di Seleucia era a Griphone;
et se a partir non li venian di botto,
quel che sta peggio la vita vi pone;
sì che ’l Re alla sua guardia fece motto
ch’intrasse a distaccar l’aspra tenzone:
quindi fu l’uno, et quindi l’altro tratto;
et fu lodato il Re di sì buon atto.
104
Li otto che dianzi havean col mondo impresa
e non potuto durar poi contra uno,
havendo mal la parte lor difesa,
usciti eran del campo ad uno ad uno.
L’altri ch’eran venuti a-llor contesa
quivi restâr senza contrasto alcuno,
havendo lor Griphon, solo, interrotto
quel che tutti essi havean a far contra otto.
105
Et durò quella festa così poco,
ch’in men d’un’hora il tutto fatto s’era:
ma Norandin, per far più lungo il giuoco
et per continuarlo insino a sera,
dal palco scende al spatïoso luoco,
et fa partir in dua la grossa schiera;
indi secondo il sangue et la lor prova
li huomini accoppia, et fa una giostra nuova.
106
Griphon intanto havea fatto ritorno
alla sua stanza, pien d’ira et di rabbia:
che del compagno più gli preme il scorno
che non giova l’honor ch’esso vinto habbia.
Quivi, per tôr l’obbrobrio c’havea intorno,
Martano adopra le mendaci labbia;
et l’astuta et bugiarda meretrice,
come meglio sapea, gli era adiutrice.
107
O sì o non ch’el Gioven lor credesse,
mostrò pur starsi a quella scusa cheto;
et pel suo meglio allhora allhora elesse
quindi levarsi tacito et secreto,
temendo che Martano si facesse,
se comparia, gridarsi il popul drieto:
così per una via nascosa et corta
usciro al camin lor fuor de la porta.
108
Griphon, o ch’egli o il caval stanco fosse,
o gli gravasse il sonno pur le ciglia,
al primo albergo che trovâr fermosse,
che non erano andati oltra duo miglia.
Trassesi l’elmo, et tutto disarmosse,
et trar fece a’ cavalli et sella et briglia;
et poi serrossi in camera soletto,
et nudo per dormir si pose in letto.
109
Non hebbe così presto il capo basso
che chiuse li occhi, et fu dal sonno oppresso
così profundamente, che mai Tasso
né Ghiro mai s’addormentò quanto esso.
Martano intanto et Horrigille, a spasso
entrati in un giardin ch’era lì presso,
un tradimento ordîr, che fu il più strano
che mai cadesse in sentimento humano.
110
Martano disegnò tôrre il destriero
et panni et arme che Griphon s’ha tratte,
venire inanzi al Re pel cavalliero
che tante prove havea giostrando fatte.
L’effetto ne seguì, fatto il pensiero:
tolle il caval più candido che latte,
scudo, cimiero et arme et sopraveste,
et tutte di Griphon l’insegne veste.
111
Et con la Donna et suoi scudieri, dove
era il populo anchora, in piazza venne;
et giunse a tempo che finian le prove
di girar spade et arrestar antenne.
Commanda il Re ch’el cavallier si truove
che per cimier havea le bianche penne,
bianche le vesti et bianco il corridore;
ch’el nome non sapea del vincitore.
112
Colui che indosso il non suo cuoio haveva,
come l’Asino già quel del Leone,
chiamato, se ne andò, come attendeva,
a Norandino in luoco di Griphone.
Quel Re cortese incontro se gli leva,
l’abbraccia et bacia, e allato se lo pone:
né gli basta honorarlo et dargli loda,
che vuol ch’el suo valor per tutto s’oda.
113
Et fa gridarlo a suon de li oricalchi
vincitor de la giostra di quel giorno:
l’alta voce ne va per tutti i palchi,
che ’l nome indegno udir fa d’ognintorno.
Seco il Re vuol che a par a par cavalchi
quando al palazzo suo poi fa ritorno;
et di sua gratia tanto gli comparte,
che bastaria se fusse Hercole o Marte.
114
Bello et ornato alloggiamento dielli
in corte, et honorar fece con lui
Horrigille ancho; e nobili donzelli
mandò con essa, et cavallieri sui.
Ma tempo è homai che di Griphon favelli,
il qual, né dal compagno né d’altrui
temendo inganni, addormentato s’era,
né mai se risvegliò fino alla sera.
115
Tosto che è desto, et che de l’hora tarda
s’accorge, esce di camera con fretta,
dove il falso cognato et la bugiarda
Horrigille lasciò con l’altra setta;
et come non gli truova, et che riguarda
non v’esser l’arme et suoi panni, suspetta;
ma il veder poi più suspettoso il fece
quelli del suo compagno in quella vece.
116
Sopravien l’hoste, et di colui l’informa
che già gran pezzo, di bianche arme adorno,
con la donna et col resto de la torma
havea ne la città fatto ritorno.
Truova Griphon a poco a poco l’orma
che ascosa gli havea Amor sin a quel giorno;
et con suo gran dolor vede esser quello
adulter di Horrigille, et non fratello.
117
Di sua sciocchezza indarno hora si duole,
c’havendo il ver da peregrini udito,
lasciato mutar s’habbia alle parole
di chi l’havea più volte già tradito.
Vendicar si potea, né seppe: hor vuole
l’inimico punir che gli è fuggito;
et è constretto con troppo gran fallo
a tôr di quel vil huom l’arme e ’l cavallo.
118
Eragli meglio andar senza arme e nudo
che porsi indosso la corazza indegna,
o che imbracciar l’abominato scudo,
o por su l’elmo la beffata insegna;
ma per seguir la meretrice e ’l drudo
ragion in lui par al disio non regna.
A tempo venne alla città, che anchora
il giorno havea quasi di vivo un’hora.
119
Presso alla porta ove Griphon venìa
siede a sinistra un splendido castello,
che, più che forte et a guerre atto sia,
di ricche stanze è accommodato et bello.
Con gran signori et primi di Sorìa
ed alte donne in un gentil drapello,
quivi si celebrava in loggia amena
la real sontüosa et lieta cena.
120
La bella loggia sopra il muro usciva
con l’alta ròcca fuor de la cittade;
et per gran tratto di lontan scopriva
li larghi campi et le diverse strade.
Hor che Griphon verso la porta arriva
con quell’arme di obbrobrio et di viltade,
fu con non troppa aventurosa sorte
dal Re veduto et da tutta la corte:
121
et reputato quel di chi havea insegna,
mosse le donne e i cavallieri a riso.
El vil Martano, come quel che regna
in gran favor, dopo ’l Re è il primo assiso,
et presso a-llui la Donna di sé degna;
da’ quali Norandin con lieto viso
vòlse saper chi fusse quel codardo
che havea sì del suo honor poco riguardo;
122
c’havendo fatto il dì la trista pruova,
con tanta fronte hor torna loro inante.
Dicea: – Questa mi par cosa assai nuova,
ch’essendo voi guerrier degno e prestante,
costui compagno habbiate, che non truova
di viltà pare in terra di Levante.
Forse il facete per mostrar maggiore,
per tal contrario, il vostro alto valore.
123
Ma ben vi giuro per li eterni dèi
che, se non fusse ch’io riguardo a vui,
la publica ignominia gli farei,
ch’io soglio far a gli altri uguali a lui:
perpetua ricordanza gli darei,
come ognhor di viltà nimico fui;
ma sappia grado, se si parte indenne,
che hoggi in vostra compagnia qui venne. –
124
Colui che fu di vitii un pieno vaso
rispose: – Alto signor, dir non sapria
chi sia costui; che ritrovallo a caso,
venendo d’Antïochia, in su la via.
Il suo sembiante m’havea persuaso
che fusse degno di mia compagnia;
che di lui pruova non ho inteso o vista,
se non quella che fece hoggi assai trista.
125
La qual mi spiacque sì, che mancò poco
che per punir l’estrema sua viltade
non gli facessi allhora allhora un giuoco
che non toccasse mai lance né spade:
ma hebbi, più che a-llui, rispetto al luoco
et reverentia a vostra maestade.
Né per me voglio che gli sia guadagno
d’essermi stato un giorno o dui compagno;
126
di che contaminato ancho esser parme;
et sopra il cor mi serà eterno peso
se, con vergogna del mestier de l’arme,
costui de nostre man si parte illeso:
et meglio che lasciarlo, satisfarme
potrete se quel fia da un merlo impeso;
et fia lodevol opra et signorile,
perch’el sia exempio et specchio d’ogni vile. –
127
Al detto suo Martano Horrigille have,
senza accennar, confermatrice presta.
– Non son (rispose il Re) l’opre sì prave
ch’al mio parer v’habbia d’andar la testa:
voglio per pena del peccato grave
che sol rinuovi al populo la festa. –
E presto a un suo baron, che fe’ venire,
impose quanto havesse ad exequire.
128
Molti armati il baron drieto si tolse,
et alla porta de la terra scese;
e quivi con silentio li raccolse,
et la venuta di Griphone attese:
e nel entrar sì d’improviso il colse,
che fra i duo ponti a salvamento il prese;
et lo ritenne con beffe et con scorno
in una oscura stanza insin al giorno.
129
Il Sol a pena havea il dorato crine
tolto di grembio alla nutrice antica,
et cominciava da le piaggie alpine
a cacciar l’ombre e far la cima aprica;
quando, temendo il vil Martan ch’al fine
Griphone ardito la sua causa dica
et ritorni la colpa onde era uscita,
tolse licentia et fece indi partita,
130
trovando idonia scusa al priego regio
perché non stia al spettacolo ordinato.
Altri doni gli havea fatto, col pregio
de la non sua vittoria, il signor grato;
et sopra tutto un amplo privilegio,
dove era d’alti honori al summo ornato.
Lasciànlo andar; ch’io vi prometto certo
che la mercede havrà secondo il merto.
131
Fu Griphon tratto a gran vergogna in piazza,
quando più si trovò piena di gente.
Gli havean levato l’elmo et la corazza,
lasciatolo in farsetto assai vilmente;
et come il conducessero alla mazza,
posto l’havean sopra un carro eminente,
che lento lento tiravan duo vacche
da lunga fame attenuate e fiacche.
132
Venian d’intorno all’ignobil quadriga
vecchie sfacciate et dishoneste putte
di che n’era una et hor un’altra auriga,
et con gran biasmo lo mordeano tutte.
Poneanlo li fanciulli in maggior briga,
che, oltra le parole infami et brutte,
l’harian con sassi insino a morte offeso
se da i più saggi non era difeso.
133
L’arme che del suo mal erano state
cagion, che di lui fêr non vero indicio,
da la coda del carro strasinate
patian nel fango debito supplicio.
Le ruote inanzi a un tribunal fermate,
gli fêro udir de l’altrui maleficio
la sua ignominia, ch’en su gli occhi detta
gli fu, gridando un publico trombetta.
134
Quindi il levaro, et lo mostrâr per tutto
dinanzi a templi et officine et case,
dove alcun nome scelerato et brutto
che non gli fusse detto non rimase.
Fuor de la terra all’ultimo condutto
fu da la turba, che si persuase
bandirlo et cacciar indi a suon di busse,
non connoscendo ben ch’egli si fusse.
135
Sì presto a pena gli sferraro i piedi
et liberaro l’una et l’altra mano,
che tôrre ’l scudo et impugnar gli vedi
la spada, che rigò gran pezzo il piano.
Non hebbe contra sé lance né spiedi;
che senza arme venìa il populo insano.
Ma differisco in l’altro canto il resto;
che tempo è homai, signor, di finir questo.

CANTO DECIMOSEXTO

1
Magnanimo signor, ogni vostro atto
ho sempre con ragion laudato et laudo,
ben che col rozo stil duro et mal atto
gran parte de la gloria vi difraudo.
Ma più de l’altre, una virtù m’ha tratto,
a cui col core et con la lingua applaudo:
che s’ognun truova in voi ben grata udienza,
non vi truova perhò facil credenza.
2
Spesso in difesa del biasmato absente
indur vi sento imaginabil scusa,
o riserbargli almen (fin che presente
sua causa dica) l’altra orecchia chiusa;
et sempre, prima che dannar la gente,
vederla in faccia e udir la ragion ch’usa;
differir ancho giorni, mesi et anni
prima che giudicar ne l’altrui danni.
3
Se Norandino il simil fatto havesse,
fatto a Griphon non havria quel che fece:
a voi utile e honor sempre successe;
ei denigrò sua fama più che pece,
et si diè causa che sue genti messe
a morte furo; che Griphon in diece
colpi che trasse, pien d’ira et bizarro,
più di trenta ne uccise appresso il carro.
4
Li altri in rotta ne van pien di spavento,
chi qua chi là pei campi et per le strade;
tanta è la fretta a correr prima drento,
che ne la porta un sopra l’altro cade.
Griphon, sdegnato e pien di mal talento,
da sé quel dì bandita ogni pietade,
mena tra il volgo inerte il ferro intorno
et gran vendetta fa d’ogni suo scorno.
5
Di quei che primi son giunti alla porta,
che le piante a levarse hebbeno pronte,
parte, al bisogno suo molto più accorta
che de gli amici, alzò subito il ponte;
piangendo parte, o con la faccia smorta
fuggendo andò senza mai volger fronte,
et levò al grido per tutte le bande
de la città tumulto et rumor grande.
6
Griphon gagliardo dui ne piglia in quella
ch’el ponte si levò per lor sciagura:
sparge de l’uno al campo le cervella,
che lo percuote ad una cote dura;
l’altro piglia nel petto, et lo arrandella
in mezo la città sopra le mura.
Scórse per l’ossa a’ Damaschini il gelo
quando vider colui volar dal cielo.
7
Son molti c’hanno dubbio che Griphone
dentro la terra fatto habbia quel salto;
non vi sarebbe più confusïone
s’alle mura il Soldan desse l’assalto.
Un mover d’arme, un strido di persone,
de li Talacimanni un gridar d’alto,
un suon confuso de tamburi et trombe
el mondo assorda, et credo in ciel ribombe.
8
Ma voglio a un’altra volta differire
a raccontar ciò che di questo avenne;
che del Re Carlo mi convien seguire,
di cui di sopra vi lasciai che venne
l’audace Rodomonte ad assalire.
Io vi narrai che compagnia gli tenne
il gran Danese, Namo et Oliviero,
Avino, Avolio, Othone et Berlingiero.
9
Otto scontri di lance, che da forza
di tal otto guerrier cacciati fôro,
sostenne a un tempo la scagliosa scorza
di ch’era tutto armato il crudo Moro.
Come legno si drizza, poi che l’orza
lenta il nocchier che crescer sente il Coro,
così presto rizzossi Rodomonte
da i colpi che gettar deveano un monte.
10
Guido, Ranier, Ricardo et Salomone,
Ganelon traditor, Turpin fedele,
Angioliero, Angiolino, Ughetto, Ivone,
Marco et Mattheo dal pian di san Michele
et li otto di che dianzi io fei mentione,
son tutti intorno al Saracin crudele,
Arimanno e Odoardo d’Inghilterra
ch’entrati eran pur dianzi ne la terra.
11
Non così freme sul scoglio marino
di torre antiqua la grossa parete,
quando il furor di Borea o di Gherbino
svelle da i monti il frassino e l’abete;
come freme d’orgoglio il Saracino,
di sdegno acceso et di rabbiosa sete:
et come a un tempo il tuono et la saetta,
così de l’empio è l’ira et la vendetta.
12
Mena alla testa a quel che gli è più presso,
che gli è il misero Ughetto di Dordona:
lo pone in terra insino a’ denti fesso,
come che l’elmo era di tempra buona.
Percosso fu tutto in un tempo anch’esso
da molti colpi in tutta la persona;
che non fêr più ch’al saldo incude l’aco,
sì duro intorno havea il scaglioso draco.
13
Fur tutti li ripar, fu la cittade
d’intorno intorno abbandonata tutta;
che la gente alla piazza, dove accade
maggior bisogno, Carlo havea ridutta.
Corre alla piazza da tutte le strade
la turba, a chi ’l fuggir sì poco frutta:
la persona del Re sì i cori accende
che l’arme ognun, ognun l’animo prende.
14
Come, se dentro a ben rinchiusa gabbia
d’antiqua Leonessa usata in guerra,
perché haverne piacer il popul habbia,
talvolta il Tauro indomito si serra;
i Leoncin, che veggion per la sabbia
come altiero et muggendo animoso erra,
e veder sì gran corna non son usi,
stanno da parte timidi e confusi;
15
ma se la fiera madre a quel si lancia
et ne l’orecchio attacca il crudel dente,
vogliono anch’essi insanguinar la guancia
et vengono in soccorso arditamente;
chi morde il dosso al Tauro et chi la pancia:
così contra il Pagan fa quella gente.
Da tetti, da finestre et più d’appresso
sopra li piove un nembo d’arme et spesso.
16
D’huomini d’arme, arcieri et fantaria
tant’è la calca, che a pena vi cape;
e il popul che vi vien per ogni via
v’abbonda ad hor ad hor spesso come ape;
che quando, disarmato e nudo, sia
più facile a tagliar che torsi o rape,
nol potrà anchor, legato a monte a monte,
in venti giorni uccider Rodomonte.
17
Al Pagan, che non sa come ne possa
venir a capo, homai quel giuoco incresce;
per far di mille et più la terra rossa
poco la turba inanzi gli decresce.
Il fiato tuttavia pur se gl’ingrossa,
sì che comprende al fin che, se non esce
hor c’ha vigor e in tutto il corpo è sano,
vorrà da tempo uscir, che serà invano.
18
Rivolge gli occhi horribili, et pon mente
che d’ognintorno sta chiusa l’uscita;
ma con ruina d’infinita gente
l’aprirà presto, et la farà expedita.
Ecco, vibrando la spada tagliente,
venir quel empio ove il furor l’invita
ad assalir il nuovo stuol Britanno
che vi trasse Odoardo et Arimanno.
19
Chi vide in piazza mai romper steccato,
a cui la densa turba ondeggi intorno,
immansueto Tauro accaneggiato,
stimulato et percosso tutto il giorno;
ch’el popul se ne fugge ispaventato
et egli hor questo hor quel lieva sul corno:
pensi che tal o più terribil fosse
il crudel Aphrican quando se mosse.
20
Quindici o venti ne tagliò a traverso;
altritanti lasciò del capo tronchi,
ciascun d’un colpo sol dritto o riverso,
come finocchi o sian teneri gionchi.
Tutto di sangue il fier Pagano asperso,
di busti senza capo et bracci monchi,
di spalle et gambe et altre membra sparte
piena havendo la piazza, al fin si parte.
21
De la piazza si vede in guisa tôrre,
che non si può notar c’habbia paura;
ma tuttavolta col pensier discorre
dove habbia per uscir via più sicura.
Càpita al fin dove la Senna corre
di sotto all’Illa a uscir fuor de le mura;
et pur la gente d’arme e ’l popul drieto
lo stringe e incalza, e non lascia ir quïeto.
22
Qual per le selve Nomade et Massyle
cacciata va la generosa belva,
ch’anchor fuggendo mostra il cor gentile
et minacciosa et lenta se rinselva;
tal Rodomonte, in nessun atto vile,
da strana circondato et fiera selva
di lance et spiedi et di saette et dardi,
si tira al fiume a passi lunghi et tardi.
23
Et per tre volte sì l’ira il sospinse,
ch’essendone già fuor vi tornò in mezo,
ove di sangue la spada ritinse
et più di cento ne levò di mezo.
Ragion al fin in lui la rabbia vinse
di non far sì, che a Dio venisse il lezo;
et da la ripa, per miglior consiglio,
gettossi in l’acqua, e uscì di gran periglio.
24
Con tutte l’arme andò per mezo l’acque,
come se intorno havesse tante galle.
Aphrica, in te par a costui non nacque,
ben che di Anteo ti vanti e d’Hannibàlle.
Poi che fu giunto a proda, gli dispiacque,
che si vide restar drieto alle spalle
quella città che havea trascorsa tutta,
e non l’havea tutta arsa né distrutta.
25
Et sì lo rode la superbia et l’ira
che di tornarvi un’altra volta guarda,
et di profondo cor geme et suspira,
né vuolne uscir che non la spiani et arda.
Ma lungo il fiume, in questa furia, mira
venir chi l’odio extingue et l’ira tarda:
chi fusse vi farò ben presto udire;
ma prima un’altra cosa v’ho da dire.
26
Io v’ho da dir de la Discordia altiera,
a cui l’Angel Michele havea commesso
che a battaglia accendesse et lite fiera
quei che più forti havea Agramante appresso.
Uscì de’ frati la medesma sera,
havendo altrui l’ufficio suo commesso:
lasciò la Fraude a guerreggiare il luoco,
fin che tornasse, e mantenervi il fuoco.
27
Le parve che andaria con più possanza
se la Superbia anchor seco menasse;
et perché stava in la medesma stanza
non fu bisogno che a cercar l’andasse.
La Superbia v’andò, ma non che sanza
la sua vicaria il monastier lasciasse:
per pochi dì che credea starne absente
lasciò l’Hypocrisia luocotenente.
28
L’implacabil Discordia in compagnia
de la Superbia si messe in camino,
et ritrovò che la medesma via
facea, per ire al campo Saracino,
l’afflitta et sconsolata Gelosia;
et venìa seco un Nano piccolino,
il qual mandava Doralice bella
al Re di Sarza a dar di sé novella.
29
Quando ella venne a Mandricardo in mano,
che v’ho già raccontato et come et dove,
tacitamente havea commesso al Nano
che ne portasse a questo Re le nuove.
Ella sperò che nol saprebbe invano,
ma che far si vedria mirabil pruove
per rïhaverla con crudel vendetta
da quel ladron che gli l’havea intercetta.
30
La Gelosia quel Nano havea trovato;
et la cagion del suo venir compresa,
a caminar se gli era messa allato
parendo d’haver luogo a questa impresa.
Alla Discordia ritrovar fu grato
la Gelosia; ma più quando hebbe intesa
la causa del venir, che le potea
molto valere in quel che far volea.
31
D’inimicar con Rodomonte il figlio
del Re Agrican le par haver suggetto:
trovarà a sdegnar li altri altro consiglio;
a sdegnar questi dua questo è perfetto.
Col Nano se ne vien dove Marsiglio
col Re Agramante havea Parigi astretto;
a punto capitâr su quella riva
ove del fiume il Re di Sarza usciva.
32
Tosto che riconnobbe Rodomonte
costui de la sua Donna esser messaggio,
extinse ogni ira et serenò la fronte,
et si sentì brillar dentro il coraggio.
Può creder tutto, fuor che gli racconte
c’habbia alcun fatto lei sì grave oltraggio.
Va contra ’l Nano, et lieto gli dimanda:
– Che è de la Donna nostra? ove ti manda? –
33
Rispose il Nano: – Né più tua né mia
Donna dirò quella ch’è serva altrui.
Hieri scontrammo un cavallier per via,
che la ne tolse et la menò con lui. –
A quello annontio entrò la Gelosia,
fredda come Aspe, et abbracciò costui.
Séguita il Nano, et narragli in che guisa
un sol l’ha presa et la sua gente ha uccisa.
34
L’Acciaio allhora la Discordia prese
et la pietra focaia, et picchiò un puoco,
et l’esca sotto la Superbia stese,
et fu attaccato in un momento il fuoco;
et sì di questo l’anima s’accese
del Saracin, che non trovava luoco:
suspira et freme con sì horribil faccia,
che li elementi et tutto il ciel minaccia.
35
Come la Tigre, poi che invan discende
nel vuoto albergo, et per tutto s’aggira,
e il suo gran danno all’ultimo comprende,
che i dolci figli non vi sente o mira,
a tanta rabbia, a tal furor s’estende
ch’el crudel cor non può capir tanta ira;
né fiume o stagno o monte o notte affrena
l’odio che drieto al predator la mena:
36
con simil furia il Saracin bizarro
si volge al Nano, et dice: – Hor là t’invia; –
et non aspetta né destrier né carro,
né tol commiato da la compagnia.
Va con più fretta che non va il Ramarro,
quando il ciel arde, a traversar la via;
destrier non ha, ma il primo tôr disegna
(sia di chi vuol) ch’ad incontrar si vegna.
37
La Discordia ch’udì questo pensiero
guardò ridendo la Superbia, et disse
ch’ir volea inanzi a ritrovar destriero
che gli arrecasse altre contese et risse;
et far volea sgombrar tutto il sentiero,
ch’altro che quello in man non gli venisse:
et già pensato havea dove trovarlo.
Ma costei lascio, et torno a dir di Carlo.
38
Poi ch’al partir del Saracin s’extinse
Carlo d’intorno il periglioso fuoco,
tutte le genti all’ordine restrinse:
lascionne parte in qualche debil luoco;
adosso el resto a’ Saracini spinse
per dar lor scacco et guadagnarsi il giuoco,
et li mandò per ogni porta fuore,
da San Germano insino a San Vittore.
39
Et commandò che a porta San Marcello,
dove era gran spianata di campagna,
aspettasse l’un l’altro, e in un drapello
si ragunasse tutta la compagna.
Quindi animando ognuno a far macello
tal che sempre ricordo ne rimagna,
a-llor ordine andar fe’ le bandiere
et di battaglia dar segno alle schiere.
40
Il Re Agramante in questo tempo in sella,
mal grado de’ Christian, rimesso s’era,
et con lo inamorato d’Issabella
facea battaglia perigliosa et fiera;
col Re Sobrin Lurcanio si martella.
Rinaldo incontra havea tutta una schiera,
et con virtude et con fortuna molta
l’urta, l’apre, ruina et mette in volta.
41
Essendo la battaglia in questo stato,
l’Imperator assalse il retroguardo
dal canto ove Marsilio havea fermato
il fior di Spagna intorno al suo stendardo.
Con fanti in mezo et cavallieri al lato,
spinse il Re Carlo il suo popul gagliardo
con tal rumor de timpani et de trombe,
che tutto il mondo par che ne ribombe.
42
A quello assalto i Mori a spaventarsi
incominciaro, et ne fuggivan molti;
et iti ne serian spezzati et sparsi
sì che mai più non si serian raccolti,
se ’l Re Grandonio et Falsiron comparsi
(che già veduti havean più fieri volti)
non fusser quivi, et Serpentin feroce,
et Ferraù che lor dicea a gran voce:
43
– Ah (dicea) valenthuomini, ah compagni,
ah fratelli, tenete il luoco vostro.
Faranno li nemici opra de ragni
se non mancamo noi del dever nostro.
Guardate l’alto honor, li ampli guadagni
che Fortuna, vincendo, hoggi n’ha mostro;
guardate la vergogna e ’l danno estremo,
ch’essendo vinti, a patir sempre havremo. –
44
Tolto in quel tempo una gran lancia havea,
et contra Berlingier venne di botto,
che sopra l’Argaliffa combattea
e l’elmo ne la fronte gli havea rotto:
gettollo in terra, et con la spada rea
appresso lui ne fe’ cader forse otto;
per ogni botta almanco che diserra
cader fa sempre un cavallier in terra.
45
In altra parte ucciso havea Rinaldo
tanti pagan, ch’io non potrei contarli;
dinanzi a lui non stava ordine saldo:
vedreste piazza in tutto il campo farli.
Non men Zerbin, non men Lurcanio è caldo;
per modo fan che ognun sempre ne parli:
questo di punta havea Balastro ucciso,
e quello a Finadur l’elmo diviso.
46
L’exercito d’Alzerbe havea il primiero
che poco inanzi haver solea Tardocco;
l’altro tenea sopra le squadre impero
di Zamor et di Saffi et di Marocco.
– Non è fra li Aphricani un cavalliero
che di lancia ferir sappia o di stocco? –
mi si potrebbe dir; ma passo passo
nessun di gloria degno a drieto lasso.
47
Del Re de la Zumara non si scorda,
el nobil Dardinel figlio d’Aimonte,
che con la lancia Uberto di Mirforda,
Claudio dal Bosco et Lidulfin dal Monte,
et con la spada Anselmo da Stanforda,
et da Londra Raymondo e Pinamonte
getta per terra, et erano pur forti,
un stordito, un piagato, et quattro morti.
48
Ma con tutto il valor che di sé mostra
non può tener perhò ferma sua gente,
sì che aspettar voglia la gente nostra
di numero minor, ma più valente:
ha più ragion di spada et più di giostra
et d’ogni cosa a guerra appertinente.
Fugge la gente Maura et di Zumara,
di Setta, di Marocco et di Canara;
49
ma più de li altri fuggon quei d’Alzerbe,
a-ccui s’oppose il nobil giovinetto:
hor con gran prieghi, hor con parole acerbe
ripor lor cerca l’animo nel petto.
– S’Aimonte meritò ch’in voi si serbe
di lui memoria, hor ne vedrò l’effetto:
i’ vedrò (dicea lor) se me, suo figlio,
lasciar vorrete in così gran periglio.
50
State, ve priego per mia verde etade,
in cui solete haver sì larga speme:
deh non vogliate andar per fil di spade,
che in Aphrica non torni di noi seme.
Per tutto ne saran chiuse le strade
se non andiam ben còlti et stretti insieme:
troppo alto muro et troppo larga fossa
è il monte e il mar, pria che tornar si possa.
51
È meglio qui morir, ch’alli supplìci
darsi a discretïon di questi cani.
State saldi, per Dio, fedeli amici;
che tutti sono altri rimedii vani.
Non han di noi più vita li nemici;
più d’un’alma non han, più di due mani. –
Così dicendo, il Giovinetto forte
al conte d’Otonlei diede la morte.
52
El rimembrar Aimonte così accese
l’exercito Aphrican che fuggea prima,
che di più presto porre in sue difese
le braccia che le spalle fece stima.
Guglielmo da Burnich era uno Inglese
maggior di tutti, e Dardinello il cima
e lo pareggia agli altri; e appresso taglia
il capo ad Aramon di Cornovaglia.
53
Morto cadea questo Aramon a valle;
e v’accorse il fratel per dargli aiuto:
ma Dardinel questo altro da le spalle
tagliò fin dove il stomacho è forcuto;
poi forò il ventre a Boso da Vergalle
e lo mandò del debito assoluto:
havea promesso alla moglier fra sei
mesi (vivendo) di tornare a lei.
54
Vide non lungi Dardinel gagliardo
venir Lurcanio, c’havea in terra messo
Dorchin, passato ne la gola, e Gardo,
per mezo il capo insin a’ denti fesso;
e che Altheo fuggir vòlse, ma fu tardo,
Altheo ch’amò quanto il suo core istesso;
che drieto in la collottola gli mise
el fier Lurcanio un colpo che l’uccise.
55
Piglia una lancia et va per far vendetta,
dicendo al suo Machon, s’udir lo puote,
che se morto Lurcanio in terra getta
ne la moschea ne porrà l’arme vuote.
Poi traversando la campagna in fretta
con tanta forza il fianco gli percuote,
che tutto il passa sino all’altra banda;
et alli suoi, ch’el spoglino, commanda.
56
Non è da dimandarmi se dolere
se ne devesse Arïodante il frate;
se disïasse di sua man potere
por Dardinel fra l’anime dannate:
ma nol lascian le genti adito havere,
non men de l’infedel le battizate.
Pur vorria ritrovarlo, et con la spada
di qua et di là spianando va la strada:
57
urta, apre, caccia, atterra, taglia et fende
qualunque l’impedisce o gli contrasta.
E Dardinel, che tal disir intende,
a volerlo satiar già non sovrasta:
ma la gran moltitudine contende
con questo anchora, e i suoi disegni guasta.
Se i Mori uccide l’un, l’altro non manco
fa de li Scotti et campo Inglese et Franco.
58
Fortuna sempremai la via lor tolse,
che per tutto quel dì non s’accozzaro:
a più famosa man serbar l’un vòlse;
ch’el suo destin l’huom mai non fugge, o raro.
Ecco Rinaldo a questa strada volse
perché alla vita d’un non sia riparo;
ecco Rinaldo vien: Fortuna il guida
per dargli honor che Dardinel uccida.
59
Ma sia per questa volta detto assai
de’ glorïosi fatti di Ponente.
Ben tempo è di tornar dove lasciai
in Damasco Griphon, che d’ira ardente
facea, con più timor che havesse mai,
tumultuar la sbigottita gente.
Re Norandino a quel rumor corso era
con più di mille armati in una schiera.
60
Re Norandin con la sua corte armata,
vedendo tutto il populo fuggire,
venne alla porta in battaglia ordinata,
et quella fece alla sua giunta aprire.
Griphon intanto havendo già cacciata
da sé la turba sciocca et senza ardire,
la sprezzata armatura in sua difesa
(qualunque ella si fusse) haveasi presa;
61
Et presso a un tempio ben murato et forte,
che circondato era d’una alta fossa,
in capo un ponticel si fece forte
perché chiuderlo in mezo alcun non possa.
Ecco, gridando et minacciando forte,
che de la porta esce una squadra grossa:
l’animoso Griphon non muta luoco,
e fa sembiante che ne tema poco.
62
E poi ch’avicinar questo drapello
si vide, andò a trovarlo in su la strada;
e fattone crudel strage e macello
(che menava a duo man sempre la spada),
hebbe ricorso al stretto ponticello,
et quindi li tenea non troppo a bada:
di nuovo usciva et di nuovo tornava;
et sempre horribil segno vi lasciava.
63
Quando di dritto et quando di riverso
getta hor pedoni hor cavallieri in terra.
Il popul contra lui tutto converso
più et più sempre inaspera la guerra.
Teme Griphone al fin restar summerso,
sì cresce il mar che d’ognintorno il serra;
et ne la spalla et ne la coscia manca
è già ferito, et pur la lena manca.
64
Ma Virtù, che alli suoi spesso soccorre,
dinanzi al Re gli fe’ trovar perdono.
Il Re, mentre al tumulto in dubbio corre,
vede che morti già tanti ne sono;
vede le piaghe che di man di Hettorre
pareano uscite, in testimonio buono
che dianzi ello havea fatto indegnamente
vergogna a un cavallier molto excellente.
65
Poi, come fu più presso, et vide in fronte
quel che sua gente a morte havea condutta,
et fattosene inanzi horribil monte,
et di quel sangue il fosso et l’acqua brutta;
gli parve di veder proprio sul ponte
Horatio sol contra Thoscana tutta:
et per suo honor, et perché gli ne ’ncrebbe,
ritrasse i suoi, né gran fatica v’hebbe.
66
Et alzando la man nuda et senza arme,
antico segno di tregua o di pace,
disse a Griphon: – Non so, se non chiamarme
haver il torto et dir che me dispiace:
ma ’l mio poco giudicio, et l’instigarme
altrui, cader in tanto error mi face;
che quel ch’io mi pensai far al più vile
guerrier del mondo, ho fatto al più gentile.
67
Et se bene alla ingiuria, al scorno, all’onta
c’hoggi fatta ti fu per ignoranza,
l’honor che ti fai qui s’adegua et sconta,
o (per più vero dir) supera e avanza;
la satisfattïon ci serà pronta
a tutto mio saper et mia possanza,
quando io connosca di poter far quella
per oro, per cittadi o per castella.
68
Chiedimi la metà di questo regno,
ch’io son per fartene hoggi possessore;
che l’alta tua virtù non ti fa degno
di questo sol, ma ch’io ti doni il core:
et la tua mano in questo mezo, pegno
di fé, mi dona, et di perpetuo amore. –
Così dicendo, da caval discese
e vêr Griphon la destra mano stese.
69
Griphon, vedendo il Re fatto benigno
venirgli per gettar le braccia al collo,
lasciò la spada et l’animo maligno,
et sotto l’anche et humile abbracciollo.
Lo vide il Re di due piaghe sanguigno,
et tosto fe’ venir chi medicollo;
indi portarlo in la cittade adagio,
et riposar nel suo real palagio,
70
dove, ferito, alquanti giorni, inante
che si potesse armar, fece soggiorno.
Ma lascio lui, ch’al suo frate Aquilante
et ad Astolfo in Palestina torno.
Poi che Griphon lasciò le mura sante,
eglino il fêr cercar per più d’un giorno
in tutti i luochi in Solyma devoti,
e ’n molti anchor da la città remoti.
71
Hor né l’uno né l’altro era indivino
che di Griphon possa saper che sia;
ma venne lor quel Greco peregrino,
nel ragionar, a darne certa spia:
narrò da la città di Constantino,
per gire in Antïochia di Sorìa,
che levato Horrigille havea le some
con un di là, che havea Martano nome.
72
Dimandolli Aquilante se di questo
così notitia havea data a Griphone;
et come l’affermò, connobbe presto
il camin del fratello et la cagione:
che seguito ha Horrigille, è manifesto,
in Antïochia con intentïone
di levarla di man del suo rivale
con gran vendetta et memorabil male.
73
Non tolerò Aquilante ch’el fratello
solo et senza esso a quella impresa andasse;
et prese l’arme, et venne drieto a quello:
ma prima pregò il Duca che tardasse
di gire in Francia et al paterno hostello
fin ch’esso d’Antïochia ritornasse.
Scende al Zaffo et s’imbarca; che gli pare
et più breve et miglior la via del mare.
74
Hebbe un Ostro-Silocco allhor possente
tanto nel mar, et sì per lui disposto,
che la terra del Surro il dì seguente
vide et Saffetto, un dopo l’altro tosto;
passa Barutti e il Zibeletto, et sente
che da man manca gli è Cypro discosto;
a Tortosa da Tripoli, e alla Lizza
e al golfo di Laiazzo il camin drizza.
75
Quindi a Levante fe’ il nocchier la fronte
del naviglio voltar snello et veloce;
et a sorger n’andò sopra l’Oronte,
et colse il tempo, et ne pigliò la foce.
Gettar fece Aquilante in terra il ponte
e n’uscì armato sul destrier feroce;
et contra il fiume il camin dritto tenne,
tanto che in Antïochia se ne venne.
76
Quivi di quel Martano hebbe a informarse;
et udì che a Damasco se n’era ito
con Horrigille, ove una giostra farse
devea solenne per reale invito.
Ire a Damasco ad Aquilante parse,
certo ch’el frate habbia il rival seguito.
D’Antïochia quel giorno ancho si tolle;
ma già per mar più ritornar non volle.
77
Verso Lidia et Larissa il camin piega:
resta più sopra Aleppe ricca et piena.
Dio, per mostrar che anchor di qua non niega
mercede al bene, et al contrario pena,
Martano appresso a Mamuga una lega
ad incontrarsi in Aquilante mena.
Martano si facea con bella mostra
portar inanzi il pregio de la giostra.
78
Pensò Aquilante, al primo comparire,
che il suo fratello il vil Martano fosse;
che l’ingannaron l’arme et quel vestire
candido più che nevi anchor non mosse:
et con quel oh! che d’allegrezza dire
si suole, incominciò; ma poi cangiosse
tosto di faccia et di parlar, che appresso
meglio vide et trovò che non era esso.
79
Dubitò che per fraude di colei
ch’era con lui, Griphon gli havesse ucciso;
et: – Dimmi – gli gridò, – tu ch’esser déi
un ladro e un traditor, come n’hai viso,
onde hai queste arme havute? onde ti sei
sul buon caval del mio fratello assiso?
Dimmi se ’l mio fratello è morto o vivo;
come de l’arme et del caval l’hai privo. –
80
Come Horrigille udì l’irata voce,
a dietro il palafren per fuggir volse;
ma di lei fu Aquilante più veloce
et fecela fermar, vòlse o non vòlse.
Martano al minacciar tanto feroce
del Cavallier, che sì improviso il colse,
pallido trema come al vento fronda,
né sa quel che si faccia o si risponda.
81
Grida Aquilante, et fulminar non resta,
et la spada gli pon dritto alla strozza;
et giurando minaccia che la testa
ad Horrigille et lui rimarrà mozza
se tutto il fatto non gli manifesta.
El mal giunto Martano alquanto ingozza,
et tra sé volve se può sminuire
sua grave colpa, et poi comincia a dire:
82
– Sappi, signor, che mia sorella è questa,
nata di buona et virtüosa gente,
ben che tenuta in vita dishonesta
l’habbia Griphon obbrobrïosamente:
et tale infamia essendomi molesta,
né per forza sentendomi possente
di tôrla a sì grande huom, feci disegno
d’haverla per astutia et per ingegno.
83
Tenni modo con lei, che havea desire
di ritornar a più lodata vita,
che essendosi Griphon messo a dormire,
chetamente da lui fêsse partita.
Così fece ella, et perch’egli a seguire
non n’habbia et a turbar la tela ordita,
noi lo lasciammo disarmato a piedi;
et qua venuti siàn, come tu vedi. –
84
Poteasi dar di summa astutia vanto,
che Aquilante di facil gli credea;
e, fuor ch’en tôrgli arme et destrier et quanto
tenesse di Griphon, non gli nocea;
se non volea polir sua scusa tanto
che la facesse di menzogna rea:
buona era ogni altra parte, se non quella
che la femina a lui fusse sorella.
85
Havea Aquilante in Antïochia inteso
essergli concubina da più genti;
onde gridando, di furor acceso:
– Falsissimo ladron, tu te ne menti! –
un pugno gli tirò di tanto peso
che ne la gola gli cacciò duo denti:
et senza più contesa ambe le braccia
li volge dietro, et d’una fune allaccia;
86
et parimente fece ad Horrigille,
ben che in sua scusa ella dicesse assai.
Quindi li trasse per casali et ville,
né li lasciò fin a Damasco mai;
et de le miglia mille volte mille
tratti li havrebbe con pene e con guai
fin che havesse trovato il suo fratello,
per farne poi come piacesse a quello.
87
Fece Aquilante lor scudieri et some
seco tornar, et in Damasco venne;
et trovò di Griphon celebre il nome
per tutta la città batter le penne:
piccoli e grandi, ognun sapea già come
egli era chi sì ben corse l’antenne,
et che tolto gli fu con falsa mostra
dal compagno la gloria de la giostra.
88
Quivi il vil cavallier fu noto presto,
che l’un al altro il manifesta et scopre:
– Non è (dicean), non è Martano questo,
che si fa laude con l’altrui buon’opre?
et la virtù di chi non è ben desto
con la sua infamia et col suo obbrobrio copre?
Non è l’ingrata femina costei,
che tradisce li buoni e aiuta i rei? –
89
Altri dicean: – Come stan bene in coppia,
segnati ambi d’un marchio et d’una razza! –
Altri li maledice, altri raddoppia
con alta voce: – Appicca, abrucia, amazza! –
La turba per veder si preme et stroppia;
correno inanzi alle strade, alla piazza.
Venne la nuova al Re, che mostrò segno
d’haverla cara più che un altro regno.
90
Senza molti scudier drieto o dinante,
come se ritrovò, si mosse in fretta
et venne ad incontrarse in Aquilante,
che havea del suo Griphon fatto vendetta;
et quello honora con gentil sembiante,
seco l’invita et seco lo ricetta,
di suo consenso havendo fatto porre
li duo prigion in fondo d’una torre.
91
Andâr insieme ove del letto mosso
Griphon non s’era, poi che fu ferito,
che vedendo il fratel divenne rosso;
che ben stimò che havea il suo caso udito.
Et poi che motteggiando un poco adosso
gli andò Aquilante, messero a partito
come punir se havesser quelli dui
venuti in man de li aversarii sui.
92
Vuole Aquilante, vuol il Re che mille
stratii ne siano fatti; ma Griphone
(perché non osa dir sol d’Horrigille)
all’uno et l’altro vuol che si perdone.
Disse assai cose, et molto bene ordille;
fugli risposto; e la conclusïone
fu che si dia Martano in mano al boia,
c’habbia a scoparlo, et non perho che muoia.
93
Legar lo fanno, et non tra’ fior et l’herba,
et per tutto scopar l’altra matina.
Horrigille captiva si riserba
fin che ritorni la bella Lucina,
al cui saggio parer, o lieve o acerba,
rimetton quei signor la disciplina.
Quivi stette Aquilante a ricrearse,
fin ch’el fratel fu sano e puòte armarse.
94
Re Norandin, che temperato et saggio
divenuto era dopo un tanto errore,
non potea non haver sempre il coraggio
di penitentia pieno et di dolore
d’haver fatto a colui danno et oltraggio,
che di mercede degno era et di honore:
sì che dì e notte havea il pensiero intento
per farlo rimaner di sé contento.
95
Et statuì nel publico conspetto
de la città, di tanta ingiuria rea,
con quella maggior gloria che a perfetto
cavallier per un Re dar si potea,
restituirgli il premio che intercetto
con tanto inganno il traditor gli havea:
et per ciò fe’ bandir per quel paese
che faria un’altra giostra indi ad un mese.
96
Di che apparecchio fa tanto solenne
quanto a pompa real possibil sia:
onde la Fama con veloci penne
ne portò nuova per tutta Sorìa;
et in Phenicia e in Palestina venne,
et tanto che ad Astolfo ne diè spia,
il qual col Viceré deliberosse
che quella giostra senza lor non fosse.
97
Cavallier valoroso et di gran nome
l’antica fama Sansonetto vanta;
gli diè battesmo Orlando, et Carlo (come
v’ho detto) a governar la Terra Santa.
Astolfo con costui levò le some
per ritrovarsi ove la Fama canta
sì, che d’intorno n’ha pieno ogni orecchia
ch’in Damasco la giostra s’apparecchia.
98
Hor cavalcando per quelle contrade
con non lunghi vïaggi, ad agio et lenti,
per ritrovarsi freschi alla cittade
poi di Damasco el dì de’ torniamenti,
scontraro in una croce di due strade
persona ch’al vestir e a i movimenti
havea sembianza d’huomo, et femina era,
ne le battaglie oltra ogni creder fiera.
99
La vergine Marphisa si nomava,
di tal valor, che con la spada in mano
fece più volte al gran signor di Brava
sudar la fronte e a quel di Monte Albano;
e ’l dì et la notte armata sempre andava
di qua et di là cercando in monte e in piano
con cavallieri erranti riscontrarsi,
et immortale et glorïosa farsi.
100
Come ella vide Astolfo et Sansonetto
che appresso le venian con l’arme indosso,
prodi guerrier le parvero all’aspetto;
ch’erano amboduo grandi et di buon osso:
et perché di provarsi havria diletto,
a desfidarli havea il destrier già mosso;
quando, affisando l’occhio più vicino,
connosciuto hebbe il Duca paladino.
101
De la piacevolezza le sovenne
del cavallier, quando al Cathai seco era:
e lo chiamò per nome, e non si tenne
la man nel guanto, e alzossi la visera;
e con gran festa ad abbracciarlo venne,
come che sopra ogn’altra fusse altiera.
Non men da l’altra parte reverente
fu ’l paladino alla Donna excellente.
102
Tra lor si dimandaron di lor via:
et poi che Astolfo (che prima rispose)
narrò come a Damasco se ne gìa,
dove le genti in arme valorose
havea invitato il Re de la Sorìa
a dimostrar lor opre virtüose,
Marphisa, sempre a far gran prove accesa,
– Voglio esser con voi (disse) a questa impresa. –
103
Sommamente hebbe Astolfo grata questa
compagna d’arme, et così Sansonetto.
Furo a Damasco el dì nanzi la festa,
et di fuora nel borgo hebbon ricetto:
et sin all’hora che dal sonno desta
l’Aurora il vecchiarel già suo diletto,
quivi se riposâr con maggior agio
che se smontati fussero al palagio.
104
Et poi che ’l nuovo Sol lucido et chiaro
per tutto sparti hebbe i fulgenti raggi,
la bella Donna e’ duo guerrier s’armaro,
mandato havendo in la città messaggi;
che, come tempo fu, lor rapportaro
che per veder spezzar frassini et faggi
Re Norandin era venuto al luoco
che havea constituito al fiero giuoco.
105
Senza più indugio in la città ne vanno,
et per la via maestra in la gran piazza,
dove aspettando il real segno stanno
quinci et quindi i guerrier di buona razza.
Li premii che quel giorno si daranno
al vincitor è un stocco et una mazza
guarniti riccamente, e un destrier, quale
è convenevol dono a un signor tale.
106
Havendo Norandin fermo nel core
che, come il primo pregio, il secondo ancho
et d’ambedue le giostre il summo honore
devesse guadagnar Griphon il bianco;
per dargli tutto quel c’huom di valore
devrebbe haver et non può far con manco,
hor gli havea giunto in questo ultimo pregio
la mazza e ’l stocco et quel caval egregio.
107
Quella armatura, che in la giostra dianzi
debita era a Griphon ch’el tutto vinse,
et che usurpata havea con tristi avanzi
Martano che Griphon esser si finse,
quivi si fece il Re ponere inanzi,
e il ben guarnito stocco a quella cinse;
la mazza appresso e ’l buon destrier le messe
perché Griphon l’un pregio et l’altro havesse.
108
Ma che sua intentïone havesse effetto
vietò quella magnanima guerriera,
che con Astolfo et col buon Sansonetto
in piazza nuovamente venuta era.
Costei, vedendo l’arme ch’io v’ho detto,
subito n’hebbe connoscenza vera:
perhò che già sue furo, et l’hebbe care
quanto si suol le cose ottime et rare;
109
ben che per ira le gettò per strada
a quella volta che le fur d’impaccio,
quando per rïhaver sua buona spada
correa drieto a Brunel degno di laccio.
Questa historia non credo che mi accada
altrimenti narrar: perhò la taccio;
da me vi basti intendere a che guisa
quivi trovasse l’arme sue Marphisa.
110
Intenderete anchor, che come l’hebbe
riconnosciute a manifeste note,
per altro che sia al mondo non le harebbe
lasciate un dì di sua persona vuote.
Se più tenere un modo o un altro debbe
per racquistarle, ella pensar non puote:
ma come era a caval, la mano stese,
et senza altrui rispetto se le prese;
111
Et per la fretta ch’ella n’hebbe, avenne
di tôrne parte et mandar parte in terra.
Il Re, che troppo offeso se ne tenne,
con un mal sguardo sol le mosse guerra;
ch’el popul, che l’ingiuria non sostenne,
per vendicarlo et lance et spade afferra,
non ramentando ciò che i giorni inanti
nocque il dar noia a’ cavallieri erranti.
112
Né fra vermigli fiori, azurri et gialli
vago fanciul ne la stagion novella,
né mai se ritrovò tra suoni et balli
più volentieri ornata donna et bella,
che fra strepito d’arme et de cavalli
et fra punte di lance et di quadrella,
dove si sparga sangue e se dia morte,
costei si trovi, oltra ogni creder forte.
113
Spinge il cavallo, et ne la turba sciocca
con l’hasta bassa impetüosa fere;
et chi nel collo et chi nel petto imbrocca,
et fa con l’urto hor questo hor quel cadere:
poi con la spada un et un altro tocca,
et fa qual senza capo rimanere,
e qual con rotto, et qual passato al fianco,
et qual del braccio privo o destro o manco.
114
L’ardito Astolfo e ’l forte Sansonetto,
che havean con lei vestita piastra e maglia
(ben che non vener già per tal effetto),
pur, vedendo attaccata la battaglia,
abbassan la visera de l’elmetto
in favor d’essa, per quella canaglia;
prima con lancia, et vanno poi con spada
di qua et di là facendo lei far strada.
115
Li cavallier di natïon diverse
ch’erano per giostrar quivi ridutti,
vedendo l’arme in tal furor converse
et li aspettati giuochi in gravi lutti;
non sapendo che causa di dolerse
habbia la plebe, che non vider tutti
l’ingiuria che de l’arme al Re fu fatta,
stavan con dubbia mente et stupefatta.
116
Di ch’altri a favorir la turba venne,
che tardi poi non se ne fu a pentire;
altri, a cui la città più non attenne
che li stranieri, corse a dipartire;
altri, più saggio, in man la briglia tenne,
mirando dove questo havesse a uscire.
Di quelli fu Griphon et Aquilante,
che per vendicar l’arme andaro inante.
117
Essi, vedendo il Re che di veneno
havea le luci inebrïate et rosse,
et essendo da molti instrutti a pieno
de la cagion che la discordia mosse,
et parendo a Griphon che sua, non meno
che del Re Norandin, la ingiuria fosse;
se havean le lance fatte dar con fretta,
et venian fulminando alla vendetta.
118
Astolfo d’altra parte Rabicano
venìa spronando a tutti li altri inante,
con l’incantata lancia d’oro in mano
ch’al fiero scontro abbatte ogni giostrante.
Ferì con essa et lasciò steso al piano
prima Griphon, et poi trovò Aquilante;
et gli toccò ne l’orlo il scudo a pena
et lo gettò riverso in su l’arena.
119
Li cavallier di pregio et di gran pruova
vuotan le selle inanzi a Sansonetto.
L’uscita de la piazza il popul truova:
il Re ne arrabbia d’ira et di dispetto.
Con la prima corazza e con la nuova
Marphisa intanto, e l’uno e l’altro elmetto,
poi che si vide a tutti dar il tergo,
vincitrice venìa verso l’albergo.
120
Astolfo et Sansonetto non fur lenti
a seguitarla, et seco a ritornarsi,
fuggendo intorno a lor tutte le genti,
alle porte onde intraro, et là fermârsi.
Aquilante et Griphon, troppo dolenti
d’haver veduti a un scontro riversarsi,
tenean per gran vergogna il capo chino,
né ardian venire inanzi a Norandino.
121
Presi et montati c’hanno i lor cavalli,
spronano drieto alli nemici in fretta.
Li segue il Re con molti suoi vasalli,
tutti pronti alla morte o alla vendetta.
La sciocca turba grida: – Dàlli, dàlli! –
et sta lontana, et le novelle aspetta.
Griphon arriva ove volgean la fronte
li tre compagni, et havean preso il ponte.
122
E a prima giunta Astolfo raffigura,
che havea quelle medesime divise,
havea il cavallo, havea quella armatura
che hebbe dal dì che Horril fatale uccise.
Mirato non lo havea, né messo cura
quando in piazza a giostrar seco si mise:
quivi il connobbe et salutollo; et poi
gli dimandò de li compagni suoi;
123
et perché tratto havean quell’arme a terra
e havuto al Re sì poca reverenza.
Di suoi compagni il Duca d’Inghilterra
diede a Griphon non falsa connoscenza;
ma de la causa che Marphisa a guerra
mosse, rispose non haver scïenza:
et sol perché con lei v’era venuto,
dar le volea con Sansonetto aiuto.
124
Mentre parla Griphon col Paladino,
venne Aquilante, et riconnosce tosto
Astolfo, che parlar l’ode vicino;
et subito si muta di proposto.
Giungean molti di quei di Norandino,
ma troppo non ardian venire accosto;
et tanto più, vedendo i parlamenti,
stavano cheti et per udir intenti.
125
Alcun che intende quivi esser Marphisa
che tiene al mondo il vanto in esser forte,
volta il cavallo, et Norandin avisa
che s’hoggi non vuol perder la sua corte
proveggia, prima che sia tutta uccisa,
di man trarla a Tesiphone e alla Morte;
perché Marphisa veramente è stata
che l’armatura in piazza gli ha levata.
126
Come Re Norandin ode quel nome
così temuto per tutto Levante,
che facea a molti ancho arricciar le chiome,
ben che fusse da lor spesso distante;
è certo che ne debbia venir come
dice quel suo, se non provede inante;
perhò li suoi, che già mutata l’ira
hanno in timor, a sé richiama et tira.
127
Da l’altra parte i figli d’Oliviero
con Sansonetto et col figliuol d’Othone,
supplicando a Marphisa, tanto fêro
che se diè fine alla crudel tenzone.
Marphisa, giunta al Re, con viso altiero
disse: – Io non so, signor, con che ragione
vogli queste arme dar, che tue non sono,
al vincitor de le tue giostre in dono.
128
Mie sono l’arme, e in mezo de la via
che vien d’Armenia un giorno le lasciai,
perché seguir a piè mi convenia
un rubator che me havea offeso assai,
et a cavallo inanzi mi fuggìa:
e la mia insegna, se notitia n’hai,
vedi (e mostronne la corazza impressa), –
ch’era in tre parti una corona fessa.
129
– È ver (rispose il Re) che mi fur date
(son pochi dì) da un mercadante Armeno,
che disse haverle in terra ritrovate;
ma che poss’io saper che le tue sièno?
Et se ben a Griphon già l’ho donate,
ho tanta fede in lui, che nondimeno
a Marphisa ancho havrei potuto darle,
se si fusse degnata dimandarle.
130
Non bisogna allegar, per farmi fede
che sieno tue, che tengano tua insegna:
basti che tu mel dica; e ti si crede
più che a qual altro testimonio vegna.
Che l’arme tue sian tue te si concede
per tua virtù di maggior premio degna.
Togliti l’arme, et più non si contenda;
et Griphon maggior premio da me prenda. –
131
Griphon, che poco a cor havea quell’arme,
ma gran disio ch’el Re si satisfaccia,
– Non puoi (gli disse) meglio compensarme
che se mi fai saper ch’io ti compiaccia. –
Tra sé disse Marphisa: – Esser qui parme
l’honor mio in tutto; – et con benigna faccia
vòlse a Griphon de l’arme esser cortese;
e finalmente in don da lui le prese.
132
Ne la città con pace et con amore
tornaro, ove le feste raddoppiârsi.
Poi la giostra si fe’, di che l’honore
e il pregio fece Sansonetto darsi;
che Astolfo e i dua fratelli et la migliore
d’essi, Marphisa, non vi vuol provarsi,
cercando come amici et buon compagni
che Sansonetto il pregio ne guadagni.
133
Stati che sono in gran piacere et festa
con Norandin quivi otto giorni o diece,
perché l’amor di Francia li molesta,
che senza essi lasciar tanto non lece,
tolgon licentia; et Marphisa, che questa
via disïava, compagnia lor fece.
Marphisa havuto havea lungo disire
al paragon di paladin venire,
134
e far experïentia se l’effetto
si pareggiava a tanta nominanza.
Lasciò un altro in suo luoco Sansonetto,
che di Hierusalem resse la stanza.
Hor questi cinque in un drapello eletto,
che pochi pari haveano di possanza,
licentïati dal Re Norandino,
vanno a Tripoli e al mar indi vicino.
135
Et quivi una caracca ritrovaro
che per Ponente mercantie raguna;
per loro et per cavalli s’accordaro
con un vecchio padron, ch’era da Luna.
Mostrava d’ognintorno il tempo chiaro
che havrian per molti dì buona fortuna;
sciolser dal lito, havendo aria serena
e di buon vento ogni lor vela piena.
136
L’Isola sacra all’amorosa Dea
diede lor sotto un’aria il primo porto,
che (non che a offender gli huomini sia rea),
ma stempra il ferro, e quivi è il viver corto.
Cagion n’è un stagno: et certo non devea
Natura a Phamagosta far quel torto
d’appressarve Costanza acre et maligna,
quando al resto di Cypro è sì benigna.
137
El grave odor che la palude exhala
non lascia al legno far troppo soggiorno.
Quindi a un Greco-Levante spiega ogni ala
et vola da man destra a Cypro intorno,
et sorge a Papho, et pone in terra scala:
li naviganti uscîr nel lito adorno,
chi per merce levar, chi per vedere
la terra d’amor piena et di piacere.
138
Dal mar sei miglia o sette, a poco a poco
si va salendo inverso il colle ameno:
di Myrti, Cedri et di Naranci il luoco,
et di soavi altri arbuscelli è pieno;
Serpillo et Persa et Rose et Gigli et Croco
spargon da l’odorifero terreno
tanta suavità, che in mar sentire
la fa ogni vento che da terra spire.
139
De limpida fontana tutta quella
piaggia rigando va un ruscel fecondo.
Ben si può dir che sia di Vener bella
il luoco dilettevole et giocondo;
che v’è ogni donna affatto, ogni donzella
piacevol più che altrove sia nel mondo:
e fa la Dea che tutte ardon d’amore,
giovene et vecchie, insino all’ultime hore.
140
Quivi odono il medesimo ch’udito
di Lucina et de l’Orco hanno in Sorìa,
et come di tornare ella a marito
facea nuovo apparecchio in Nicosia.
Quindi il padron (essendosi expedito,
et spirando buon vento alla sua via)
l’ancore sarpa, et fa girar la proda
verso Ponente, et ogni vela snoda.
141
Al vento di Maestro alzò la nave
le vele all’orza, et allargossi in alto.
Un Ponente-Libecchio, che suave
parve a principio et fin ch’el sol stette alto,
et poi si fe’ verso la sera grave,
le lieva incontra il mar con fiero assalto,
con tanti tuoni et tanto ardor di lampi
che par ch’el ciel si spezzi et tutto avampi.
142
Stendon le nubi un tenebroso velo
che né Sole apparir lascia né stella;
di sotto il mar, di sopra mugge il cielo,
el vento d’ognintorno, et la procella
che di pioggia oscurissima et di gelo
li naviganti miseri flagella:
et la notte più sempre si diffonde
sopra l’irate et formidabil onde.
143
Li naviganti a dimostrar effetto
vanno de l’arte in che lodati sono;
nessun sta in otio: chi tolle il fraschetto,
et quanto altrui dee far, mostra col suono;
chi l’ancore apparecchia da rispetto,
et chi al mainar et chi alla scotta è buono;
chi el timone, chi l’arbore assicura,
chi la coperta a disgombrare ha cura.
144
Crebbe il tempo crudel tutta la notte,
caliginosa et più scura che inferno.
Tiene in l’alto il padron, dove men rotte
crede l’onde trovar, dritto il governo;
et volta ad hor ad hor contra le botte
del mar la proda, et del spietato verno,
non senza speme mai che, come aggiorni,
cessi fortuna, o più placabil torni.
145
Non cessa et non si placa, et più furore
mostra nel giorno, se pur giorno è questo,
che si connosce al numerar de l’hore,
non che per lume già sia manifesto.
Hor con minor speranza et più timore
si dà in poter del vento el padron mesto:
volta la poppa all’onde, e il mar crudele
scorrendo se ne va con humil vele.
146
Mentre Fortuna in mar questi travaglia,
né posar lascia ancho quelli altri in terra
che sono in Francia, ove s’uccide et taglia
coi Saracini il popul d’Inghilterra.
Quivi Rinaldo assale, apre et sbarraglia
le schiere averse, et lor bandiere atterra.
Dicea di lui ch’el suo destrier Baiardo
mosso havea contra Dardinel gagliardo.
147
Vide Rinaldo il segno del quartiero
di che superbo iva il figliuol d’Aimonte;
et lo stimò gagliardo et buon guerriero
che concorrer d’insegna ardia col Conte.
Venne più appresso, et più gli parbe vero;
c’havea d’intorno huomini uccisi a monte.
– Meglio è (gridò) che prima io svella et spenga
questo mal germe, che maggior divenga. –
148
Dovunque il viso drizza il Paladino
levasi ognuno, et gli dà larga strada;
né men sgombra il fedel ch’el saracino,
sì reverita è la famosa spada.
Rinaldo, fuor che Dardinel meschino,
non vede alcuno, et lui seguir non bada,
– Fanciul (gridando), gran briga ti diede
chi ti lasciò di quel bel scudo herede.
149
Vengo a te per provar, se tu me attendi,
come ben guardi il quartier rosso et bianco;
che s’hora contra me non lo difendi,
difender contra Orlando il potrai manco. –
Rispose Dardinel: – Hor chiaro apprendi
che s’io lo porto, il so difendere ancho;
et guadagnar più honor che briga posso
del paterno quartier candido et rosso.
150
Per vedermi fanciul, non creder farmi
perhò fuggir, o che ’l quartier ti dia:
la vita mi torrai, se mi toi l’armi;
ma spero in Dio ch’anzi il contrario fia.
Sia quel che vuol, non potrà alcun biasmarmi
che mai traligni alla progenie mia. –
Così dicendo, con la spada in mano
assalse il cavallier da Monte Albano.
151
De li Aphricani un tremor freddo oppresse
il sangue intorno al spaventato core,
come vider Rinaldo che si messe
con quella rabbia contra il lor signore,
con che andaria un leon ch’al prato havesse
visto un Torel che anchor non sente amore.
El primo che ferì fu il Saracino;
ma picchiò invan su l’elmo di Mambrino.
152
Rise Rinaldo, et disse: – Io vuo’ tu senta
s’io so meglio di te trovar la vena, –
et nel petto la spada gli appresenta;
spigne il cavallo et l’aspra punta mena:
la crudel spada non si piega o lenta;
che la punta n’appar fuor de la schiena.
Seco trasse, al tornar, l’anima e il sangue:
di sella il corpo uscì freddo et exangue.
153
Come purpureo fior languendo more,
ch’el vomere al passar tagliato lassa;
et come carco di superchio humore
il papavero in l’orto il capo abbassa:
così, giù de la faccia ogni colore
cadendo, Dardinel di vita passa;
passa di vita, et fa passar con lui
l’ardire et la virtù di tutti i sui.
154
Qual soglion l’acque per humano ingegno
star ingorgate alcuna volta et chiuse,
che quando lor vien poi rotto il sustegno
cascano, et van con gran rumor difuse;
tal li Aphrican, c’havean qualche ritegno
mentre lor Dardinel virtude infuse,
ne vanno hor sparti in questa parte e in quella,
che l’han veduto uscir morto di sella.
155
Chi vuol fuggir, Rinaldo fuggir lassa,
et attende a cacciar chi vuol star saldo.
Si cade ovunque Arïodante passa,
che molto va quel dì presso a Rinaldo.
Altri Lionetto, altri Zerbin fraccassa:
a gara ognuno a far gran prova è caldo.
Carlo fa il suo dever, fallo Oliviero,
Guido, Turpin e Salamone e Ugiero.
156
Li Mori fur quel giorno in gran periglio
che in Paganìa non ne tornasse testa;
ma il giuoco a tempo sa lasciar Marsiglio,
et se ne va con quel che in man gli resta.
Restar in danno tien miglior consiglio
che tutti i denar perdere et la vesta:
meglio è ritrarsi et salvar qualche schiera
che, stando, esser cagion ch’el tutto pèra.
157
Verso li alloggiamenti i segni invia,
ch’eron serrati d’argine et di fossa,
con Stordilan, col Re d’Andologia,
col Portughese in una squadra grossa.
Manda a pregar il Re di Barbaria
che si cerchi ritrar meglio che possa;
et se quel giorno la persona e ’l luoco
potrà salvar, non havrà fatto poco.
158
Quel Re che si tenea spacciato al tutto,
né mai credea più riveder Biserta,
che con viso sì horribile et sì brutto
unquancho non havea Fortuna experta,
s’allegrò che Marsilio havea ridutto
parte del campo in sicurezza certa:
et a ritrarsi cominciò, e dar volta
alle bandiere, et fe’ sonar raccolta.
159
Ma la più parte de la gente rotta
né tromba né tambur né segno ascolta:
tanta fu la viltà, tanta la dotta,
ch’in Senna se ne vide affogar molta.
Il Re Agramante vuol ridur la frotta:
seco ha Sobrino, et van scorrendo in volta;
et con lor s’affatica ogni buon Duca
che nei steccati il campo si riduca.
160
Ma né il Re, né Sobrin, né Duca ignuno
con prieghi, con minaccie et con affanno
ritrar può il terzo (io non vi dico ognuno)
dove l’insegne mal seguite vanno.
Morti et fuggiti ne son dua, per uno
che ne rimane, et quel non senza danno:
ferito è chi diretro et chi dinanti,
ma travagliati et lassi tutti quanti.
161
Et con gran tema sin dentro alle porte
de’ forti alloggiamenti hebbon la caccia:
et era lor quel luoco ancho mal forte,
con ogni proveder che vi si faccia;
che ben pigliar nel crin la buona sorte
Carlo sapea, quando volgea la faccia,
se non venìa la notte tenebrosa
che staccò il fatto, et acquetò ogni cosa;
162
dal Creator accelerata forse,
che de la sua fattura hebbe pietade.
Ondeggiò il sangue in la campagna, e corse
come un gran fiume, e dilagò le strade.
Ottanta mila corpi numerorse
che fur quel dì messi per fil di spade;
villani e lupi uscîr poi de le grotte
a dispogliarli e divorar la notte.
163
Carlo non torna più dentro alla terra,
ma contra li nemici fuor s’accampa,
et in assedio le lor tende serra,
et alti e spessi fuochi intorno avampa.
Il Pagan si provede, et cava terra,
fossi et ripari et bastïoni stampa;
va quinci et quindi, et tien le guardie deste,
né tutta notte mai l’arme si sveste.
164
Tutta la notte per li alloggiamenti
de’ mal sicuri Saracini oppressi
si versan pianti, gemiti et lamenti,
ma (quanto più si può) cheti et soppressi:
altri perché li amici hanno e parenti
lasciati morti, et altri per se stessi,
che son feriti e con disagio stanno;
ma più è la tema del futuro danno.
165
Duo Mori ivi fra li altri si trovaro,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta;
di cui l’historia (per exempio raro
di vero amor) è degna esser descritta.
Cloridano et Medor si nominaro,
c’havean ne la seconda et ne l’afflitta
fortuna sempre amato Dardinello,
et hor passato in Francia il mar con quello.
166
Cloridan, cacciator tutta sua vita,
di robusta persona era et isnella;
Medoro havea la guancia colorita
et bianca et grata ne l’età novella,
et fra la gente a quella impresa uscita
non v’era faccia più gioconda et bella:
li occhi havea negri, et chioma crespa e d’oro;
Angel parea di quei del summo choro.
167
Erano questi dui su li ripari
con molti altri a guardar li alloggiamenti,
quando la Notte fra distantie pari
mirava il ciel con li occhi sonnolenti.
Medoro quivi in tutti i suoi parlari
non può far ch’el signor suo non ramenti,
Dardinello d’Aimonte, et che non piagna
che senza honor si lasci in la campagna.
168
Volto al compagno, disse: – O Cloridano,
io non ti posso dir quanto me incresca
del mio signor, che sia rimaso al piano,
per lupi e corbi, ohimè! troppo degna esca.
A pensar come sempre mi fu humano,
mi par che quando anchor quest’anima esca
in honor di sua fama, io non compensi
né sciolga verso lui l’oblighi immensi.
169
Io voglio andar, perché non stia insepulto
in mezo la campagna, a ritrovarlo:
et forse Dio vorrà che andarò occulto
là dove tace il campo del Re Carlo.
Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
ch’io vi debba morir, potrai narrarlo;
che se Fortuna vieta sì bel’opra,
per fama almeno il mio buon cor si scopra. –
170
Stupisce Cloridan che tanto core,
tanto amor, tanta fede habbia un fanciullo,
et cerca assai (perché li porta amore)
di farli quel pensier irrito et nullo;
ma non gli val, ch’un sì grave dolore
non riceve conforto né transtullo:
è disposto Medoro o di morire
o ne la tomba il suo signor coprire.
171
Quando pur vede che nol piega o muove,
Cloridano gli dice: – E verrò anch’io;
anch’io vuo’ pormi a sì lodevol prove,
anch’io famosa morte amo et disio.
Qual cosa serà mai che più mi giove,
s’io resto senza te, Medoro mio?
Non è meglio morir teco, et con l’arme,
che poi di duol, vedendote mancarme? –
172
Così concordi, posero in quel luoco
le successive guardie, et se ne vanno;
lascian steccati et fossi, et dopo poco
tra’ nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, et tutto è spento il fuoco,
perché de li pagan dubbio non hanno;
tra l’arme e’ carïaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino a gli occhi immersi.
173
Fermossi alquanto Cloridano, et disse:
– Non son mai da lasciar l’occasïoni.
Di questo stuol ch’el mio signor trafisse
non debbio far, Medoro, occisïoni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
li occhi et l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra li nemici spatïosa strada. –
174
Così disse egli, et presto il parlar tenne
et entrò dove il dotto Alpheo dormia,
che l’anno dianzi in corte a Carlo venne,
medico et mago, et pien d’astrologia;
ma poco a questa volta gli sovenne,
anzi gli disse in tutto la bugia:
predetto egli s’havea che d’anni pieno
devea morir alla sua moglie in seno;
175
et hor gli ha messo il cauto Saracino
la punta de la spada ne la gola.
Quattro altri uccide appresso a l’indovino,
che non han tempo dire una parola:
mention de’ nomi lor non fa Turpino
e il lungo andar la lor notitia invola;
dopo essi Palidon di Monchaleri,
che sicuro dormia fra duo destrieri.
176
Poi se ne vien dove col capo giace
appoggiato al barile il miser Grillo:
havealo vuoto, e havea creduto in pace
godersi un sonno placido e tranquillo.
Troncolli il capo il Saracino audace:
esce col sangue il vin per uno spillo
di che n’ha in corpo più d’una bigoncia;
e ber sognava, e Cloridano il sconcia.
177
Et presso a Grillo, un Greco et un Tedesco
spenge in dui colpi, Androphilo e Conrado,
che de la notte havean goduto al fresco
la maggior parte con la tazza e ’l dado:
felici, se vegghiar sapeano a desco
fin che de l’Indo il Sol passassi il guado.
Ma non potrebbe in gli huomini il destino,
se del futuro ognun fusse indovino.
178
Come impasto Leone in stalla piena,
che lunga fame habbia smagrato e asciutto,
uccide, scanna, mangia, a straccio mena
l’infermo gregge in sua balìa condutto;
così il crudel Pagan nel sonno svena
la nostra gente, et fa macel per tutto.
La spada di Medoro ancho non hebe;
ma si sdegna ferir l’ignobil plebe.
179
Venuto era ove il Duca di Labretto
con una dama sua dormia abbracciato;
et l’un con l’altro si tenea sì stretto
che non serìa tra loro l’aere intrato.
Medoro ad ambi taglia il capo netto:
oh felice morire! oh dolce fato!
che come erano i corpi, ho così fede
che andasser l’alme a lor debita sede.
180
Malindo uccise e Ardalico il fratello,
che del Duca d’Olanda erano figli,
e l’uno et l’altro cavallier novello
fatto havea Carlo, et dato in l’arme i gigli,
perché il giorno amendui di hostil macello
vide coi stocchi a sé tornar vermigli:
e terre in Frisa havea promesso loro,
et date haria; ma lo vietò Medoro.
181
L’insidïosi ferri eran vicini
a’ padiglioni che tiraro in volta
al padiglion di Carlo i paladini,
facendo ognun la guardia la sua volta,
quando da l’empia strage i Saracini
trasser le spade, et diero a tempo volta;
ch’impossibil lor par, tra sì gran torma,
che non s’habbia a trovar un che non dorma;
182
et ben che possan tôr non poca preda,
par di salvar la vita amplo guadagno.
Dove più andar sicuramente creda
va Cloridano, et dietro ha il suo compagno.
Trovan la piazza più di sangue hereda
che molte volte non è d’acqua stagno,
dove poveri et ricchi, et Re et vassalli
giaccion sossopra, et huomini e cavalli.
183
Quivi de’ corpi l’horrida mistura,
che piene havean le gran campagne intorno,
potean far vaneggiar la fedel cura
de’ duo compagni insino al far del giorno,
se non trahea fuor d’una nube oscura,
a’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna li occhi, et così disse:
184
– O santa Dea, che da li antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
l’alta bellezza tua sotto più forme,
et ne le selve, di fere et di mostri
vai cacciatrice seguitando l’orme;
mostrami ove il Re mio giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi. –
185
La Luna a quel pregar la nube aperse,
o fusse caso o pur la tanta fede,
bella come fu allhor ch’ella se offerse
et nuda in braccio a Endimïon se diede.
Parigi a quel splendor si discoperse:
l’un campo e l’altro, e il monte e il pian si vede;
si videro i duo colli di lontano,
Martyre a destra, e Lerì all’altra mano.
186
Rifulse il gran splendor molto più chiaro
ove d’Aimonte giacea morto il figlio.
Medoro andò piangendo al signor caro;
che connobbe il quartier bianco et vermiglio:
et tutto il viso gli bagnò d’amaro
pianto, che n’havea un mar sotto ogni ciglio,
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che potea ad ascoltar fermare i venti;
187
ma con summessa voce a pena udita.
Non che riguardi a non se far sentire
perché habbia alcun pensier de la sua vita:
più presto l’odia et ne vorrebbe uscire;
ma per timor che non gli sia impedita
l’opera pia che quivi il fe’ venire.
Fu il morto Re su li homeri suspeso
di tramendua, tra lor partendo il peso.
188
Vanno affrettando i passi quanto ponno,
che poco lor l’amata soma ingombra.
Et già venìa chi de la luce è donno
le stelle a tôr del ciel, di terra l’ombra;
quando Zerbino, a cui del petto il sonno
l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra,
cacciato havendo tutta notte i Mori,
al campo si trahea ne i primi albóri.
189
Et seco alquanti cavallieri havea
che videro da lunge i duo compagni;
ciascun a quella parte si trahea
sperandovi trovar prede et guadagni.
– Frate, bisogna (Cloridan dicea)
gettar la soma, et adoprar calcagni;
che sarebbe pensier non troppo accorto
perder duo vivi per salvar un morto. –
190
Et gettò il carco, perché si pensava
ch’el suo Medoro il simil far devesse:
ma quel meschin, ch’el suo signor amava,
sopra le spalle sue tutto lo resse.
L’altro con molta fretta se n’andava,
come l’amico a paro o dietro havesse;
che se sapea lasciarlo a quella sorte,
mille aspettate havria, non che una morte.
191
Quei cavallier, che son tutti disposti
o di pigliarli o di farli morire,
alli passi, alle vie se sono opposti
onde ponno estimar c’habbiano a uscire;
altri lor vanno appresso, altri discosti.
Zerbin in frotta si messe a seguire;
che giudicò (vedendoli temere)
ch’esser devean de le nemiche schiere.
192
Era a quel tempo ivi una selva antica,
d’ombrose piante spessa et di virgulti,
che come labyrintho entro se intrica
di stretti calli, et sol da bestie culti:
speran d’haverla i dui Pagan sì amica
c’habbi a tenerli entro suoi rami occulti.
Ma chi del canto mio piglia diletto,
un’altra volta ad ascoltar lo aspetto.

CANTO DECIMOSETTIMO

1
Alcun non può saper da chi sia amato
quando felice in su la ruota siede;
perhò c’ha i veri e i finti amici a lato,
che mostran tutti una medesma fede.
Se poi si cangia in tristo il lieto stato,
volta la turba adulatrice il piede;
et quel che di cor ama riman forte,
et ama il suo signor dopo la morte.
2
Se come il viso si mostrasse il core,
tal è grande in la corte et li altri preme,
et tal è in poca gratia al suo signore,
che la lor sorte mutariano insieme:
questo humil diverria presto il maggiore;
staria quel grande infra le turbe estreme.
Ma torniamo a Medor fedele et grato,
che in vita e in morte ha il suo signor amato.
3
Cercando gìa nel più intricato calle
il Giovene infelice di salvarsi;
ma il grave peso c’havea su le spalle
gli facea uscir tutti i partiti scarsi:
non sa il paese, onde convien che falle
et torni fra le spine a inviluparsi.
Lungi da lui tratto al sicuro s’era
l’altro, c’havea la spalla più liggiera.
4
Cloridan s’è ridutto ove non sente
più di chi segue il strepito e il rumore:
ma quando da Medor si vede absente,
gli pare haver lasciato adrieto il core.
– Deh, come fui (dicea) sì negligente,
deh, come fui sì di me stesso fuore,
che senza te, Medor, qui mi ritrassi,
né sappia quando o dove io ti lasciassi! –
5
Così dicendo, in l’intricata via
della fallace selva si ricaccia;
et onde era venuto, si ravia
et torna di sua morte in su la traccia.
Ode i cavalli e i gridi tuttavia,
e la nemica voce che minaccia:
all’ultimo ode il suo Medoro, et vede
che tra molti a cavallo è solo a piede.
6
Cento, et tutti a caval, gli sono intorno:
Zerbin commanda et grida che sia preso.
L’infelice s’aggira come un torno,
et quanto può si tien da lor difeso
hor drieto a quercia, hor olmo, hor faggio, hor orno,
né si discosta mai dal caro peso.
L’havea su l’herba al fin posato quando
regger nol puòte, et gli iva intorno errando,
7
come Orsa, che l’alpestre cacciatore
ne la petrosa tana assalito habbia,
sta sopra i figli con incerto core
et freme in suono di pietade et rabbia:
Ira l’invita et natural furore
mover l’artiglio e ’nsanguinar le labbia;
Amor l’intenerisce et la ritira
mirare i cari figli in mezo l’ira.
8
Cloridan, che non sa come l’aiuti
e ch’esser vuol a morir seco anchora,
ma non ch’in morte prima il viver muti
che via non truovi ove più d’un ne mora;
mette su l’arco un de’ suoi strali acuti
et nascoso con quel sì ben lavora,
che fora a un Scotto il capo e le cervella
et senza vita il fa cader di sella.
9
Volgonsi tutti li altri a quella banda
onde era uscito il calamo homicida.
Intanto un altro il Saracin ne manda
perché il secondo a lato al primo uccida;
che mentre in fretta a questo e a quel dimanda
c’habbia tirato l’arco et forte grida,
arrivò il stral che gli passò la gola
et gli tagliò pel mezo la parola.
10
Hor Zerbin, ch’era il capitaneo loro,
non puòte a questo haver più patïenza;
con ira et con furor venne a Medoro,
dicendo: – Ne farai tu penitenza. –
Stese la mano in quella chioma d’oro
et strassinollo a sé con vïolenza:
ma come gli occhi a quel bel volto mise,
gli ne venne pietade, et non l’uccise.
11
Il giovinetto se rivolse a’ prieghi,
et disse: – Cavallier, per il tuo Dio,
non esser sì crudel che tu mi nieghi
ch’io sepelisca il corpo del Re mio.
Non vuo’ ch’altra pietà per me ti pieghi,
né pensi che di vita habbi disio:
ho tanta di mia vita, e non più, cura,
quanta ch’al mio signor dia sepultura.
12
Et se pur pascer vòi fiere et augelli,
che in te sia il spirto del Theban Creonte,
di me li pasci, ma lascia ch’io avelli
prima il figliuol del glorïoso Aimonte. –
Così dicea Medor con modi belli
et con parole atte a voltar un monte;
et sì commosso già Zerbino havea,
che d’amor tutto et di pietade ardea.
13
In questo mezo un cavallier villano,
havendo al suo signor poco rispetto,
ferì con una lancia sopra mano
al supplicante il delicato petto.
Spiacque a Zerbin l’atto crudele et strano;
tanto più, che del colpo il Giovinetto
vide cader sì sbigottito et smorto,
che in tutto giudicò che fusse morto.
14
E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse,
che disse: – Non serà senza vendetta! –
Trasse la spada, et per punir si volse
il cavallier che fe’ la mala incetta:
ma quel prese il vantaggio et via si tolse,
perc’hebbe di Zerbin molto più fretta.
Cloridan, che Medor vide per terra,
salì del bosco a discoperta guerra.
15
Et getta l’arco, et tutto pien di rabbia
tra li nemici il ferro intorno gira,
più per morir che per pensier ch’egli habbia
di far vendetta che pareggi l’ira.
Del proprio sangue rosseggiar la sabbia
fra tante spade, e al fin venir se mira;
et tolto che si sente ogni potere,
si lascia a canto al suo Medor cadere.
16
Segueno i Scotti ove la guida loro
per l’alta selva alto disdegno mena,
poi che lasciato ha l’uno et l’altro Moro,
l’un morto in tutto, et l’altro vivo a pena.
Giacque gran pezzo il giovene Medoro,
spicciando il sangue da sì larga vena,
che di sua vita al fin serìa venuto
se non sopravenia chi gli diè aiuto.
17
Gli sopravenne a caso una Donzella
avolta in pastorali et humil veste,
ma di real presentia e viso bella,
d’alte maniere e accortamente honeste.
Tanto è ch’io non ne dissi più novella,
che a pena riconnoscer la devreste:
questa (se nol sapete) Angelica era,
del gran Can del Catai la figlia altiera.
18
Poi ch’el suo annello Angelica rïhebbe,
di che Brunel l’havea tenuta priva,
in tanto fasto, in tanto orgoglio crebbe,
ch’esser parea di tutto il mondo schiva.
Se ne va sola, e non se degnarebbe
compagno haver qual più famoso viva:
si sdegna a rimembrar che già suo amante
habbia Orlando nomato, o Sacripante.
19
Et sopra ogni altro error via più pentita
era del ben che già a Rinaldo vòlse,
troppo parendole essersi avilita
che a riguardar sì basso gli occhi volse.
Tanta arrogantia havendo Amor sentita,
più lungamente comportar non vòlse:
dove giacea Medor si pose al varco,
et quivi l’aspettò col strale all’arco.
20
Quando Angelica vide il giovinetto
languir ferito, assai vicino a morte,
che del suo Re che giacea senza tetto,
più che del proprio mal, si dolea forte;
insolita pietade in mezo il petto
si sentì entrar per disusate porte,
che le fe’ il duro cor tenero e molle,
et più quando il suo caso egli narrolle.
21
E rivocando alla memoria l’arte
che in India imparò già di chirugia,
che nobile et reale in quella parte
par che tal studio et di gran laude sia,
et senza molto rivoltar di charte
ch’el patre a’ figli hereditario il dia;
se dispose operar con succo d’herbe,
che a più matura vita lo riserbe.
22
Et ricordossi che passando havea
veduta una herba in una piaggia amena;
fusse Ditamo o fusse Panacea,
o non so qual di tal effetto piena;
che stagna il sangue et de la piaga rea
lieva ogni spasmo et perigliosa pena:
la riconnobbe al fior simile a l’oro,
et con essa tornò verso Medoro.
23
Nel ritornar se incontra in un pastore
che pel bosco a caval se ne veniva,
cercando una iuvenca che già fuore
duo dì di mandra senza guardia giva.
Seco lo trasse ove perdea il vigore
Medor col sangue che del petto usciva;
et già ne havea di tanto il terren tinto,
ch’era hormai presso a rimaner extinto.
24
Del palafreno Angelica discese,
et scendere il Pastor seco fece anche.
Pestò co sassi l’herba, indi la prese
et succo ne cavò fra le man bianche;
e n’infuse in la piaga, et ne distese
per il petto et pel ventre e sin a l’anche:
et fu di tal virtù questo liquore
che stagnò il sangue et gli tornò il vigore;
25
et lo tornò in tal forza, che salire
sul caval puòte ch’el pastor condusse.
Non perhò vòlse indi Medor partire
prima che in terra il suo signor non fusse:
e Cloridan col Re fe’ sepelire;
et poi dove a lei piacque si ridusse.
Et ella per pietà ne l’humil case
del cortese pastor seco rimase;
26
et fin che nol tornasse in sanitade
di partirsene mai non fece stima,
tanto se intenerì de la pietade
c’hebbe di lui, come lo vide prima.
Poi vistone e’ costumi et la beltade,
roder si sentì il cor d’ascosa lima;
roder si sentì il cor, e a poco a poco
tutto infiammarlo d’amoroso fuoco.
27
Stava il Pastor in assai buona et bella
stanza, nel bosco infra duo monti piatta,
con la moglie et coi figli; et havea quella
tutta di nuovo et poco inanzi fatta.
Quivi a Medoro fu per la Donzella
la piaga in breve a sanità ritratta:
ma in minor tempo si sentì maggiore
piaga di questa haver ella nel core.
28
Assai più larga piaga et più profonda
nel cor sentì da non veduto strale,
che da’ begli occhi et da la testa bionda
di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale.
Arder si sente, et sempre il fuoco abonda;
et più cura l’altrui che ’l proprio male:
di sé non cura, et non è ad altro intenta
che risanar chi lei fere et tormenta.
29
La sua piaga più s’apre et più incrudisce
quanto più l’altra si ristringe et salda.
Il giovene si sana; ella languisce
di nova febre, hor aggiacciata, hor calda.
Di giorno in giorno in lui beltà fiorisce;
la misera si strugge, come falda
strugger di neve intempestiva suole,
che in luoco aprico habbia scoperto il Sole.
30
Se di disio non vuol morir, bisogna
che senza indugia ella se stessa aiti:
et ben le par che di quel ch’essa agogna
non sia tempo aspettar ch’altri la inviti.
Dunque rotto ogni freno di vergogna,
la lingua hebbe non men che li occhi arditi:
et di quel colpo dimandò mercede,
che, forse non sapendo, esso le diede.
31
O conte Orlando, o Re di Circasia,
vostra inclyta virtù, dite, che giova?
Vostro alto honor dite in che prezzo sia,
o che mercé vostro servir ritruova.
Fate che sol veggia una cortesia
che mai costei ve usasse, o vecchia o nuova,
per ricompensa et guidardon et merto
di quanto havete già per lei sofferto.
32
Oh se potessi ritornar mai vivo,
quanto ti parria duro, o Re Agricane!
che, tanto Re, Costei già t’hebbe a schivo,
che poi s’è data ad un vil Moro in mane.
O Ferraù, o mille altri ch’io non scrivo,
che havete fatto mille prove vane
per questa ingrata, quanto aspro vi fôra
s’in braccio di Medor la vedesse hora!
33
Angelica a Medor la prima rosa
coglier lasciò, non anchor tocca inante:
né persona fu mai sì aventurosa
che in quel giardin potesse por le piante.
Per adombrar, per honestar la cosa,
si celebrò con cerimonie sante
il matrimonio, che Auspice hebbe Amore
et Pronuba la moglie del Pastore.
34
Fêrsi le liete nozze in l’humil tetto,
le più solenni che vi potêr farsi;
et più d’un mese poi stero a diletto
li duo tranquilli amanti a recrearsi.
Più lunge non vedea, del Giovinetto,
la Donna, né di lui potea satiarsi;
né per mai sempre penderli dal collo
il suo disir sentia di lui satollo.
35
Se stava all’ombra o se del tetto usciva,
havea dì et notte il bel Giovene a lato:
matina et sera hor questa hor quella riva
cercando andava, o qualche verde prato;
nel mezo giorno un antro li copriva,
forse non men di quel commodo et grato
c’hebber, fuggendo l’acqua, Enea et Dido,
de’ lor secreti testimonio fido.
36
Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto
vedesse ombrar un fonte o un rivo puro,
v’havea spillo o coltel subito fitto;
così se v’era alcun sasso men duro:
et era intorno a mille luochi scritto,
et così in casa in altritanti il muro,
Angelica et Medor, in vari modi
legati insieme di diversi nodi.
37
Poi che le parve haver fatto soggiorno
quivi più che a bastanza, fe’ disegno
di fare in India del Catai ritorno,
et Medor coronar del suo bel regno.
Portava al braccio un cerchio d’oro, adorno
di ricche gemme, in testimonio e segno
del ben ch’el conte Orlando le volea;
et portato gran tempo già l’havea.
38
Quel donò già Morgana a Zilïante
nel tempo che nel lago ascoso il tenne;
et esso (poi ch’al padre Monodante,
per opra et per virtù d’Orlando venne)
lo diede a Orlando: Orlando, ch’era amante,
di porse al braccio il cerchio d’or sostenne,
havendo disegnato di donarlo
alla Reina sua di chi vi parlo.
39
Non per amor del paladino, quanto
perché era ricco e d’artificio egregio,
caro havuto l’havea la Donna tanto,
che più non si può haver cosa di pregio.
Se lo serbò nel’Isola del pianto,
non so già dirvi con che privilegio,
là dove exposta al marin Mostro nuda
fu da la gente inhospitale e cruda.
40
Quivi non si trovando altra mercede
che al buon pastor et alla moglie dessi,
che lor servito havea con sì gran fede
dal dì che nel suo albergo si fur messi,
levò dal braccio il cerchio et gli lo diede,
et vòlse per suo amor che lo tenessi.
Indi saliron verso la montagna
che divide la Francia da la Spagna.
41
Dentro a Siviglia o dentro ad Ulispona
per qualche giorno havean pensato porsi,
fin che accadesse alcuna nave buona
che apparecchiasse inverso l’India sciorsi.
Videro il mar scoprir sotto a Girona
nel calar giù de li montani dorsi;
e costeggiando a man sinistra il lito,
a Barcelona andâr pel camin trito.
42
Ma non vi giunser prima, ch’un huom pazzo
giacer trovaro in su l’estreme arene,
che come porco havea di loto et guazzo
el viso brutto e braccio e petto e schiene.
Costui si scagliò lor come cagnazzo
che assalir forestier subito viene;
e diè lor noia, e fu per far gran scorno:
ma di Marphisa a ricontarvi torno.
43
Di Marphisa, d’Astolfo, d’Aquilante,
di Griphon e de li altri io vi vuo’ dire,
che travagliati e con la morte inante
mal si poteano incontra il mar scremire:
che sempre più superba et arrogante
crescea fortuna le minaccie e l’ire;
e già tre giorni era durato il sdegno,
né di placarsi anchor mostrava segno.
44
Castello e ballador spezza e fraccassa
l’onda nemica e il vento ognhor più fiero:
se parte ritta il verno pur ne lassa,
la taglia e dona al mar presto il nocchiero.
Chi sta col capo chino in una cassa
su la charta appuntando il suo sentiero
a lume di lanterna piccolina,
e chi col torchio acceso in la sentina.
45
Un sotto poppe, un altro sotto prora
si tiene inanzi l’horiuol da polve;
e torna a rivedere ogni mezhora
quanto è già corso, et a che via si volve:
indi ciascun con la sua charta fuora
a meza nave il suo parer risolve,
là dove a un tempo i marinari tutti
sono a consiglio dal padron ridutti.
46
Chi dice: – Sopra Limissò venuti
semo (per quel ch’io trovo) alle seccagne; –
chi: – di Tripoli appresso a’ scogli acuti,
dove il mar le più volte i legni fragne; –
chi dice: – Semo in Satalìa perduti,
per cui più d’un nocchier sospira et piagne. –
Ciascun secondo il parer suo argomenta,
ma tutti ugual timor preme e sgomenta.
47
El terzo giorno con maggior dispetto
li assale il vento, e il mar più irato freme;
e l’un ne spezza e portane il Trinchetto,
el Temón l’altro, e chi lo volge insieme.
Ben è di forte e di marmoreo petto
e più duro ch’acciar, c’hora non teme.
Marphisa, che già fu tanto sicura,
non negò che quel giorno hebbe paura.
48
Al monte Sinaì fu peregrino,
a Gallicia promesso, a Cypro, a Roma,
al Sepolchro, alla Vergine d’Hettino,
e se celebre luoco altro si noma.
Sul mare intanto, e spesso al ciel vicino,
l’afflitto e conquassato legno toma,
di cui per men travaglio havea il padrone
fatto l’arbor tagliar de l’Artimone.
49
E colli e casse e ciò che havea di grave
facea gettar da prore e poppe e sponde;
facea vuotar le camare e le giave
e dar le ricche merci all’avide onde.
Altri attende alle trombe, e a tôr di nave
l’acque importune, e il mar nel mar refonde;
soccorre altri in sentina ovunque appare
legno da legno haver sdruscito il mare.
50
Stero in questo travaglio, in questa pena
ben quattro giorni, e non havean più schermo;
e n’havria havuto il mar vittoria piena
poco più ch’el furor teneva fermo:
ma diede speme lor d’aria serena
la disïata luce di santo Hermo,
ch’in prua s’una cochina a por si venne;
che più non v’erano arbori né antenne.
51
Veduto fiammeggiar la bella face,
s’inginocchiaro tutti i naviganti,
e dimandaro il mar tranquillo e pace
con humidi occhi e con voci tremanti.
La tempesta crudel, che pertinace
fu sino allhora, non andò più inanti:
Maestro e Traversia più non molesta,
e sol del mar tyran Libecchio resta.
52
Questo resta sul mar tanto possente,
e da la negra bocca in modo exhala,
et è con lui sì il rapido corrente
del agitato mar ch’in fretta cala,
che porta il legno più velocemente
che peregrin Falcon mai facesse ala,
con timor del nocchier ch’al fin del mondo
non lo trasporti, o rompa o cacci al fondo.
53
Rimedio a questo il buon nocchier ritruova,
che comanda gettar per poppa spere;
e caluma la gomona, e fa pruova
di duo terzi del corso ritenere.
Questo consiglio, e più l’augurio giova
di chi havea acceso in proda le lumiere:
questo il legno salvò, che peria forse,
e fe’ ch’in alto mar sicuro corse.
54
Nel golfo di Laiazzo invêr Sorìa
sopra una gran città si trovò sorto,
e sì vicino al lito, che scopria
l’uno e l’altro castel che serra il porto.
Come il padron s’accorse de la via
che fatto havea, ritornò in viso smorto;
che né porto pigliar quivi volea,
né star in alto, né fuggir potea.
55
Né potea stare in alto né fuggire,
che l’arbori e l’antenne havea perdute;
eran tavole e travi, pel ferire
del mar, sdruscite, macere e sbattute.
El pigliar porto era un voler morire,
o perpetuo legarsi in servitute;
che riman serva ogni persona o morta,
che quivi errore o rea fortuna porta.
56
E ’l star in dubbio era con gran periglio
che non salisser genti de la terra,
che, sempre armate, havean qualche naviglio
con che tenean tutto quel mar in guerra.
Mentre il padron non sa pigliar consiglio,
fu dimandato da quel d’Inghilterra
chi gli tenea sì l’animo suspeso,
e perché già non havea il porto preso.
57
El padron narrò lui che quella riva
tutta tenean le femine homicide,
di cui l’antiqua legge ognun che arriva
in perpetuo tien servo, o che l’uccide;
e questa sorte solamente schiva
chi nel campo dieci huomini conquide,
e poi la notte può assaggiar nel letto
diece donzelle di carnal diletto.
58
E se la prima prova gli vien fatta
e non fornisca la seconda poi,
egli vien morto, e chi è con lui si tratta
da zappatore o da guardian di buoi.
Se di far l’uno e l’altro è persona atta,
impetra libertade a tutti i suoi;
a sé non già, c’ha da restar marito
di diece donne elette al suo appetito.
59
Non puòte udire Astolfo senza risa
de la vicina terra il rito strano.
Sopravien Sansonetto, e poi Marphisa,
indi Aquilante, et seco il suo germano.
El padrone ugualmente lor divisa
la causa che dal porto il tien lontano:
– Voglio (dicea) che nanzi il mar m’affoghi,
ch’io senta mai di servitude i gioghi. –
60
Del parer del padrone i marinari
e tutti li altri naviganti furo.
Marphisa e li compagni eran contrari,
che, più che l’acque, il lito havean sicuro:
via più vedersi intorno irati mari,
che cento mila spade, era lor duro;
e questo e ogn’altro luoco era lor tuto
dove con l’arme poteano darsi aiuto.
61
Bramavano i guerrier venire a proda,
ma con maggior baldanza il duca Inglese;
che sa come del corno il rumor s’oda,
sgombrar d’intorno si farà il paese.
Pigliar il porto l’una parte loda,
l’altra lo biasma, e sono alle contese;
ma la più forte in guisa il padron stringe,
ch’al porto (suo mal grado) il legno spinge.
61bis
Già, quando prima s’erano alla vista
de la città crudel sul mar scoperti,
veduto haveano una galea provista
di molta zurma et di nochieri experti
venire al dritto e ritrovar la trista
nave, confusa di consigli incerti;
che, l’alta prora alle sue poppe basse
legando, fuor de l’empio mar gli trasse.›
62
Intrò nel porto remorchiando, e a forza
de remi più che per favor di vele;
perhò che l’alternar di poggia e d’orza
havea levato il vento lor crudele.
Intanto ripigliâr la dura scorza
li cavallieri e il brando lor fedele;
et al padron et a ciascun che teme
non cessan dar con lor conforti speme.
63
Fatto è il porto a sembianza d’una Luna,
e gira più di quattro miglia intorno:
seicento passi è in bocca, et in ciascuna
parte una ròcca ha nel finir del corno;
non teme alcuno assalto di fortuna,
se non quando gli vien dal mezogiorno.
A guisa di theatro se gli stende
la città a cerco, e verso il poggio ascende.
64
Non fu quivi sì presto il legno sorto
ch’andò l’aviso per tutta la terra,
e fur sei mila femine sul porto
con l’archi in mano in habito di guerra;
e per tôr de la fuga ogni conforto
tra l’una ròcca e l’altra il mar si serra:
da navi e da catene fu rinchiuso,
che tenean sempre instrutte a cotal uso.
65
Una, che d’anni la Cumea d’Apollo
puòte uguagliar e la matre d’Hettorre,
fe’ chiamare il padrone, e dimandollo
se si volean lasciar la vita tôrre
o se voleano pur al giogho il collo,
secondo la costuma, sottoporre.
De li duo l’uno haveano a tôrre: o quivi
tutti morire, o rimaner captivi.
66
– Gli è ver (dicea) che s’huom si ritrovasse
tra voi così animoso e così forte
che contra dieci nostri huomini osasse
prender battaglia, e desse lor la morte,
e far con diece femine bastasse
per una notte ufficio di consorte;
egli si rimarrà principe nostro,
e gir voi ne potrete al camin vostro.
67
E serà in vostro arbitrio restar ancho,
vogliate o tutti o parte; ma con patto
che chi vorrà restare, e restar franco,
marito sia per diece femine atto.
Ma quando il guerrier vostro possa manco
de li dieci c’havrà nemici a un tratto,
o la seconda prova non fornisca,
vogliàn voi siate schiavi, egli perisca. –
68
Dove la vecchia ritrovar timore
credea nei cavallier, trovò baldanza;
che ciascun si tenea tal feritore
che fornir l’uno et l’altro havea speranza:
et a Marphisa non mancava il core
(ben che male atta alla seconda danza);
ma dove non l’aitasse la natura,
con la spada supplir stava sicura.
69
Al padron fu commessa la risposta,
prima conclusa per commun consiglio:
c’havean tra lor chi le faria a sua posta
in piazza, e in letto poi, di sé periglio.
Levan l’offese, et il nocchiero accosta
quanto al lito accostar si può il naviglio;
e fa gettar il ponte, onde i guerrieri
escono armati e tranno i lor destrieri.
70
E quindi van per mezo la cittade,
e vi ritrovan le donzelle altiere
succinte cavalcar per le contrade
e in le piazze armeggiar come guerriere.
Quivi né calciar spron, né cinger spade,
né cosa d’arme puon li huomini havere
se non dieci alla volta, per rispetto
de l’antiqua costuma ch’io v’ho detto.
71
Tutti li altri alla spola, all’aco, al fuso,
al pettine, alla naspa sono intenti,
con vesti feminil che vanno giuso
insin al piè, che li fa molli e lenti;
si tengono altri in la catena, ad uso
d’arar la terra o di guardar li armenti.
Son pochi i maschi, e non son ben, per mille
femine, cento, fra cittadi e ville.
72
Volendo tôrre i cavallieri a sorte
chi devesse di lor pel commun scampo
l’una decina in piazza porre a morte
e poi l’altra ferire in altro campo,
non designavan di Marphisa forte;
che lor parea che a ritrovare inciampo
ella havesse in la giostra de la sera,
perché uscirne con laude habil non era.
73
Ma con li altri esser vòlse ella sortita:
hor sopra lei la sorte in summa cade.
– Prima v’ho a por (diceva ella) la vita,
che v’habbiate a por voi la libertade:
ma questa spada (e lor la spada addita
che cinta havea) vi dò per segurtade
ch’io vi sciorrò tutti l’intrichi al modo
che fe’ Alexandro il Gordïano nodo.
74
Non vuo’ mai più che forestier si lagni
di questa terra sin che ’l mondo dura. –
Così disse; e non pòtero i compagni
tôrle quel che le dava sua aventura:
dunque, o ch’in tutto lor perda o guadagni
la libertà, le lasciano la cura.
Ella di piastre già guarnita e maglia
s’appresentò nel campo alla battaglia.
75
Gira una piazza in l’alto de la terra,
di gradi a seder atti intorno chiusa;
che solamente a giostre, a simil guerra,
a caccie, a lotte, e non ad altro s’usa:
con quattro porte di metal si serra.
Quivi la moltitudine confusa
de le armigere femine si trasse;
e poi fu detto a Marphisa ch’intrasse.
76
Intrò Marphisa s’un destrier leardo
tutto sparso di macchie e di rotelle,
di piccol capo e d’animoso sguardo,
d’andar superbo e di fattezze belle:
pel maggior e più vago e più gagliardo,
di mille che n’havea con brighe e selle,
scelse in Damasco, e realmente ornollo,
et a Marphisa Norandin donollo.
77
Da mezogiorno, da la porta d’Austro
intrò Marphisa; e non vi stette guari
che appropinquare e risuonar pel claustro
udì di trombe acuti suoni e chiari;
e vide poi di verso il freddo plaustro
entrar nel campo dieci suoi contrari:
il primo cavallier ch’apparea inante
di valer tutto il resto havea sembiante.
78
Quel venne in piazza sopra un gran destriero,
che fuor ch’in fronte e al piè dirieto manco
era più che mai corbo oscuro e nero:
nel piè e nel capo havea alcun pelo bianco.
Del color del cavallo il cavalliero
vestito, volea dir che, come manco
era il chiaro che ’l scuro, era altrotanto
il riso in lui verso l’oscuro pianto.
79
Dato che fu de la battaglia il segno,
nove guerrier l’haste chinaro a un tratto;
ma quel dal nero hebbe il vantaggio a sdegno:
si ritirò, né di giostrar fece atto.
Vuol che alle leggi inanzi di quel regno,
che alla sua cortesia, sia contrafatto;
si tra’ da parte e sta a veder le prove
che una sola hasta farà contra nove.
80
El destrier, c’havea andar trito e suave,
portò all’incontro la Donzella in fretta,
che nel corso arrestò lancia sì grave
che quattro huomini hariano a pena retta;
l’havea pur dianzi al dismontar di nave
per la più salda in molte antenne eletta.
El fier sembiante con ch’ella si mosse
mille faccie imbiancò, mille cor scosse.
81
Aperse al primo che trovò sì il petto,
che fôra assai che fusse stato nudo:
gli passò la corazza e il soprapetto
e prima un ben ferrato e grosso scudo;
dietro alle spalle un braccio il ferro netto
si vide uscir, tanto fu il colpo crudo.
Quel fitto ne la lancia adrieto lassa,
e sopra li altri a tutta briglia passa.
82
Diede al secondo che trovò d’un urto
sì fiero incontro, sì terribil botta,
ch’a mezo il ruppe e fe’ morir di curto;
e tanto stretta insieme era la frotta,
ch’in terra (onde mai più non fu risurto)
cader fe’ il terzo con la spalla rotta:
ho veduto bombarde a quella guisa
le squadre aprir, ch’aperse il stuol Marphisa.
83
Tre lancie e più sopra lei rotte furo;
ma di lor colpi tanto ella si mosse,
quanto nel giuoco de le caccie un muro
si muova a’ colpi de le palle grosse.
L’usbergo suo di tempra era sì duro
che non gli potean contra le percosse;
e per incanto, al fuoco del inferno
cotto, e temprato all’acque fu d’Averno.
84
Al fin del campo il caval tenne e volse,
e fermò alquanto; e poi con fretta spinse
contra li sette, e sbarragliolli e sciolse,
e di lor sangue insino a l’elsa tinse:
ad uno il capo, a un altro il braccio tolse;
e un altro in guisa con la spada cinse
ch’el petto in terra andò col capo et ambe
le braccia, e in sella il ventre era e le gambe.
85
Lo partì, dico, per dritta misura
in confine di l’anche e de le coste,
e lo fe’ rimaner meza figura
qual son d’argento, e più di cera, poste
d’intorno a qualche Virginal pittura,
che le genti vicine e le discoste,
che lor giuste dimande ottenute hanno,
a rengratiare e sciorle il voto vanno.
86
Ad uno che fuggìa drieto si mise,
né fu a mezo la piazza, che lo giunse;
e il capo e il collo in modo gli divise
che medico mai più non lo raggiunse.
In summa tutti un dopo l’altro uccise
o ferì sì, ch’ogni vigor ne emunse;
e fu sicura che levar di terra
mai più non si potrian per farle guerra.
87
Stato era il cavallier sempre in un canto
che la decina in piazza havea condutta,
perhò che contra un solo andar con tanto
vantaggio opra gli parve iniqua e brutta.
Hor che per una man tôrse da canto
vide sì presto la compagna tutta,
per dimostrar che la tardanza fosse
per virtù stata, e non timor, si mosse.
88
Cennò con mano di volere, inanti
che facesse altro, alcuna cosa dire;
e non pensando in sì viril sembianti
che s’havesse una vergine a coprire,
le disse: – Cavalliero, homai di tanti
esser déi stanco, c’hai fatto morire;
e s’io volessi, più di quel che sei,
stancarti anchor, discortesia farei.
89
Che ti riposi insino al giorno nuovo
e diman torni in campo, ti concedo.
Non mi fia honor se teco hoggi mi provo,
che travagliato e lasso esser ti credo. –
– Il travagliare in arme non m’è nuovo,
né per sì poco alla fatica cedo, –
disse Marphisa; – e ti farò di questo
con chiaro experimento aveder presto.
90
De la cortese offerta te ringratio,
ma riposare anchor non mi bisogna;
e n’avanza del giorno sì gran spatio
ch’a porlo tutto in otio è pur vergogna. –
Rispose il cavallier: – Fuss’io sì satio
d’ogn’altra cosa ch’el mio cor agogna,
come t’ho in questo da satiar; ma vedi
che non ti manchi il dì più che non credi. –
91
Così disse egli, e fe’ portare in fretta
due grosse lance, anzi due gravi antenne;
et a Marphisa dar ne fe’ l’eletta:
tolse l’altra per sé, che indrieto venne.
Già sono in punto, et altro non s’aspetta
che un alto suon che lor la giostra accenne.
Ecco la terra e l’aria e il mar ribomba
nel mover lor al primo suon di tromba.
92
Trar fiato, bocca aprir o battere occhi
non si vedea de’ riguardanti alcuno,
tanto a mirare a chi la palma tocchi
de’ dui campioni attento era ciascuno.
Marphisa, acciò che del caval trabbocchi,
sì che mai non si lievi il Guerrier bruno,
drizza la lancia; il Guerrier bruno forte
studia non men poner Marphisa a morte.
93
Le lancie ambe sembrâr di secco salce
e non di verde frassino superbo,
così n’andaro in tronchi sin al calce;
e fu l’incontro sì a’ cavalli acerbo,
che parimente parve da una falce
de le gambe esser lor tronco ogni nerbo:
cadero ambi ugualmente; ma i campioni
fur presti a disbrigarsi da li arcioni.
94
A mille cavallieri alla sua vita
al primo incontro havea la sella tolta
Marphisa, et ella mai non n’era uscita;
e n’uscì (come udite) a questa volta:
del strano caso non pur sbigottita,
ma quasi fu per rimanerne stolta.
Parve ancho strano al cavallier dal nero,
che non solea cader già di liggiero.
95
Tocca havean nel cader la terra a pena,
che furo in piedi e rinovâr l’assalto.
Tagli e punte a furor quivi si mena,
quivi ripara hor scudo, hor lama, hor salto.
Vada la botta vuota o vada piena,
l’aria ne stride e ne risuona in alto.
Quelli elmi, quelli usberghi, quelli scudi
mostrâr ch’erano saldi più che incudi.
96
Se de l’aspra Donzella il braccio pesa,
né quel del Cavallier nemico è leve;
ugual misura all’uno e l’altro è resa:
quanto a punto l’un dà, tanto riceve.
Chi vuol trovar duo pari a una contesa,
cercar più là di questi dui non deve:
di destrezza, d’ardire e di possanza
l’un l’altro una sol dramma non avanza.
97
Le donne, che gran pezzo mirato hanno
continuar tante percosse horrende,
e che nei cavallier segno d’affanno
e di stanchezza anchor non si comprende,
de i dui miglior guerrier lode lor dànno
che sian tra quanto il mar sua braccia extende:
par lor che, se non fusser più che forti,
esser devrian sol del travaglio morti.
98
Ragionando tra sé, dicea Marphisa:
– Buon fu per me che Costui non si mosse;
ch’andavo a risco di restarne uccisa
se dianzi stato co i compagni fosse,
quando io mi truovo a pena a questa guisa
di potergli star contra alle percosse. –
Così dicea Marphisa; e tuttavolta
non restava menar la spada in volta.
99
– Buon fu per me (dicea quell’altro anchora)
che riposar Costui non ho lasciato.
Difender me ne posso a fatica hora
che de la pugna dianzi è travagliato.
Se sin al nuovo giorno havea dimora
a ripigliar vigor, che serìa stato?
Ventura hebbi io, quanto più possa haversi,
che non volesse tôr quel ch’io gli offersi. –
100
La battaglia durò fin alla sera,
né c’havesse ancho il meglio era palese;
né l’un né l’altro più senza lumiera
saputo havria come schivar l’offese.
Giunta la notte, alla inclyta Guerriera
fu primo a dir il Cavallier cortese:
– Che faren, poi che con ugual fortuna
n’ha sopraggiunti la notte importuna? –
101
Meglio mi par che ’l viver tuo prolunghi
almeno insino a tanto che s’aggiorni.
Io non posso concederti che aggiunghi
se non sola una notte alli tuoi giorni;
e di ciò che non li habbi haver più lunghi
la colpa sopra me non vuo’ che torni:
tornala sopra la spietata legge
del sesso feminil ch’el luogo regge.
102
Se di te duolmi e di quest’altri tuoi,
lo sa colui che nulla cosa ha oscura.
Con tuoi compagni star meco ti puoi:
con altri non havrai stanza sicura;
perché la turba, a chi i mariti suoi
hoggi uccisi hai, già contra te congiura.
Ciascun di questi a cui dato hai la morte
era di diece femine consorte.
103
Del danno c’han da te ricevuto hoggi
disian novanta femine vendetta:
sì che, se meco ad albergar non poggi,
questa notte assalito esser t’aspetta. –
Disse Marphisa: – Accetto che m’alloggi,
con sicurtà che non sia men perfetta
in te la fede e la bontà del core
che sia l’ardire e il corporal valore.
104
Ma che t’incresca che m’habbi ad uccidere,
ben ti può increscier ancho del contrario:
sin qui non credo che l’habbi da ridere
perch’io sia men di te duro aversario.
O la pugna seguir vogli o dividere,
o farla a l’uno o al altro luminario,
ad ogni cenno pronta m’haverai,
et come et ogni volta che vorrai. –
105
Così fu differita la tenzone
fin che di Gange uscisse il nuovo albóre,
e si restò senza conclusïone
chi de li dui guerrier fusse il migliore.
Ad Aquilante venne et a Griphone
e a gli altri dui quel liberal Signore,
e li pregò che sin al nuovo giorno
piacesse lor di far seco soggiorno.
106
Téner l’invito senza alcun suspetto:
indi al splendor de’ bianchi torchi ardenti
tutti saliro ove era un real tetto,
distinto in molti adorni alloggiamenti.
Stupefatti al levarsi de l’elmetto,
mirandosi, restaro i combattenti;
ch’el Cavallier (per quanto apparea fuora)
non excedea li deciott’anni anchora.
107
Si maraviglia la Donzella come
in arme tanto un giovinetto vaglia;
si maraviglia l’altro, che alle chiome
s’avede con chi havea fatto battaglia:
et si dimandan l’un con l’altro il nome,
et tal debito presto si raguaglia.
Ma come si nomasse il giovinetto,
ne l’altro canto ad ascoltar v’aspetto.

CANTO DECIMOTTAVO

1
Le donne antique fêr mirabil cose,
altre ne l’arme, altre in le sacre muse;
e di lor opre belle e glorïose
gran lume in tutto il mondo si diffuse:
Arpalice e Camilla son famose
perché in battaglia erano experte et use;
Sapho e Corinna, perché furon dotte,
splendono illustri e mai non veggon notte.
2
Le donne son venute in excellenza
di ciascun’arte ov’hanno posto cura;
e qualunque all’historie habbia avertenza
ne sente anchor la fama non oscura.
Se ’l mondo n’è gran tempo stato senza,
non perhò sempre il mal influsso dura;
e forse ascosi han lor debiti honori
o negligentia o invidia de’ scrittori.
3
Ben mi par di veder ch’al secol nostro
tanta virtù fra belle donne emerga,
che può dar opra a charte et ad inchiostro,
perché in li anni futuri se disperga
e perché, odiose lingue, il mal dir vostro
con vostra eterna infamia si summerga:
e le lor lode appariranno in guisa,
che di gran lunga avanzaran Marphisa.
4
Hor pur tornando a lei, questa Donzella
al cavallier che le usò cortesia
del esser suo non niega dar novella,
quando esso a lei voglia contar chi sia.
E la prima esser vuol a nomarse ella,
tanto il nome di lui saper disia:
– Io son (disse) Marphisa, – e fu assai questo;
che si sapea per tutto il mondo il resto.
5
L’altro comincia, poi che tocca a lui,
con più prohemio a raccontar chi sia,
dicendo: – Io credo che ciascun di vui
per fama sappia de la stirpe mia;
che non pur Francia, Spagna e i vicin sui,
ma l’India, l’Ethÿopia e la Rossìa
ha chiara cognition di Chiaramonte,
onde uscì il Cavallier ch’uccise Aimonte,
6
e quel che a Chiarïello e al Re Mambrino
diede la morte, e il regno lor disfece.
Di questo sangue, là dove in l’Euxino
l’Istro ne vien con otto corna o diece,
al duca Amon, il qual già peregrino
vi capitò, la matre mia mi fece:
e l’anno è hormai ch’io la lasciai dolente,
ch’ir volli in Francia a ritrovar mia gente.
7
Ma non potei finire il mio vïaggio,
che qua mi spinse un tempestoso Noto.
Son diece mesi o più che stanza v’haggio
(che tutti i giorni e tutte l’hore noto).
Nominato son io Guidon Silvaggio,
di poca prova anchora e poco noto.
Uccisi qui Argilon da Melibea
con dieci cavallier che seco havea.
8
Feci la prova anchor de le donzelle:
così n’ho diece a’ miei piaceri allato;
et alla scelta mia son le più belle
e son le più gentil di tutto il stato.
E queste reggo e tutte l’altre; ch’elle
di sé m’hanno il governo e il scettro dato:
così daranno a qualunque altro arrida
Fortuna sì, che la decina uccida. –
9
Li cavallier dimandano a Guidone
come ha sì pochi maschi il territoro;
et se alle moglie hanno suggettïone
come esse l’hanno in li altri luochi a loro.
Disse Guidon: – Più volte la cagione
udita n’ho da poi che qui dimoro;
e vi serà (secondo ch’io l’ho udita)
da me, poi che v’aggrada, referita.
10
Al tempo che tornâr dopo anni venti
da Troia i Greci, che durò l’assedio
dieci, e dieci altri da contrari venti
furo agitati in mar con troppo tedio,
trovâr che le lor donne alli tormenti
di tanta absentia havean preso rimedio:
tutte s’havean gioveni amanti eletti
per non si raffreddar sole ne’ letti.
11
Le case lor trovaro i Greci piene
de l’altrui figli; e per parer commune
perdonano alle moglie, che san bene
che tanto non potean viver digiune:
ma ai figli de li adulteri conviene
altrove procacciarsi altre fortune;
che tolerar non vogliono i mariti
che più alle spese lor siano notriti.
12
Sono altri exposti, altri tenuti occulti
da le lor matri e sostenuti in vita.
In varie squadre quei ch’erano adulti
feron, chi qua chi là, tutti partita.
Per altri l’arme son, per altri culti
li studi e l’arti; altri la terra trita;
serve altri in corte; altri è guardian di gregge,
come piace a colei che qua giù regge.
13
Partì fra li altri un giovinetto, figlio
di Clitemnestra, la crudel regina,
di deciotto anni, fresco come un giglio
o rosa colta allhor di su la spina;
et havendosi armato un buon naviglio,
si pose a depredar per la marina
in compagnia di cento giovinetti
del tempo suo, per tutta Grecia eletti.
14
Li Cretesi in quel tempo, che cacciato
el crudo Idomeneo del regno haveano,
e per assicurarsi il nuovo stato
d’huomini e d’arme adunation faceano,
fêro con gran stipendio lor soldato
Phalanto (così al giovene diceano),
e lui con tutti quei che seco havea
poser per guardia alla città Dictea.
15
Tra cento alme città che erano in Creta,
Dictea più ricca e più piacevole era,
di belle donne et amorose lieta,
lieta di giuochi da matino a sera:
e come era ogni tempo consueta
d’accarezzar la gente forestiera,
fe’ a costor sì, che poco lor rimase
a non farli signor de le lor case.
16
Eran gioveni tutti e belli affatto;
ch’el fior di Grecia havea Phalanto eletto:
sì che alle belle donne, al primo tratto
che ve apparîr, trassero i cor del petto.
Poi che non men che belli, anchora in fatto
si dimostrâr buoni e gagliardi al letto,
si fêro ad esse in pochi dì sì grati
che sopra ogn’altro ben n’erano amati.
17
Finita che d’accordo è poi la guerra
per cui stato Phalanto era condutto,
e ch’el stipendio militar si serra,
sì che non v’hanno i gioveni più frutto,
e per questo lasciar voglion la terra;
fan le donne di Creta maggior lutto,
e per ciò versan più dirotti pianti,
che se i lor patri havesson morti inanti.
18
Da le lor donne i gioveni assai fôro,
ciascun per sé, di rimaner pregati:
né restar volendo essi, esse con loro
n’andâr, lasciando e patri e figli e frati,
di ricche gemme e molto argento et oro
havendo i lor dimestici spogliati;
che la pratica fu tanto secreta,
che non sentì la fuga huomo di Creta.
19
Sì fu propicio il vento, sì fu l’hora
commoda, che Phalanto a fuggir colse,
che diece miglia erano usciti fuora
quando del danno suo Creta si dolse.
Poi questa spiaggia, inhabitata allhora,
trascorsi per fortuna li raccolse;
qui si posaro, e qui sicuri tutti
meglio del furto lor videro i frutti.
20
Questa lor fu per dieci giorni stanza
di piaceri amorosi tutta piena.
Ma come spesso avien che l’abondanza
seco in cor giovenil fastidio mena,
tutti d’accordo fur di restar sanza
femine, e liberarsi di tal pena;
che non è soma da portar sì grave
come haver donna, quando a noia s’have.
21
Essi che di guadagno e di rapine
eran bramosi, e di dispendio parchi,
vider che a pascer tante concubine
altro era uopo saper, che tirar archi:
sì che sole lasciâr qui le meschine,
e se ne andâr di lor ricchezze carchi
là dove in Puglia in ripa ’l mar poi sento
ch’edificâr la terra di Tarènto.
22
Le donne, che si videro tradite
da’ lor amanti in che più fede haveano,
restâr per alcun dì sì sbigottite,
che statue immote in lito al mar pareano.
Visto poi che da gridi e da infinite
lachryme alcun profitto non traheano,
a pensar cominciaro et haver cura
come aiutarsi in tanta lor sciagura.
23
E proponendo in mezo i lor pareri,
altre diceano in Creta è da tornarsi;
e più presto al arbitrio de’ severi
padri e di lor mariti offesi darsi,
che ne’ deserti liti e boschi fieri
di disagio e di fame consumarsi.
Altre dicean che si devean più presto
affogar tutte in mar, che mai far questo;
24
e che manco male era meretrici
andar pel mondo, andar mendiche o schiave,
che se stesse offerire alli supplìci
di che eran degne l’opere lor prave.
Questi e simil partiti l’infelici
si proponean, ciascun più duro e grave.
Tra loro al fine una Oronthea levosse,
ch’origine trahea dal Re Minosse,
25
la più gioven de l’altre e la più bella
e la più accorta, e che havea manco errato:
amato havea Phalanto e a lui pulcella
datasi, e per lui ’l padre havea lasciato.
Costei, mostrando in viso et in favella
el magnanimo cor d’ira infiammato,
redargüendo di tutte altre il detto,
suo parer disse, e fe’ seguirne effetto.
26
Di questa terra a lei non parve tôrsi,
che connobbe feconda e d’aria sana,
e di limpidi fiumi haver discorsi,
di selve opaca, e la più parte piana;
con porti e foci, ove dal mar ricorsi
per ria fortuna havea la gente extrana
c’hor d’Aphrica portava, hora d’Egitto
cose diverse e necessarie al vitto.
27
Qui parve a lei fermarse, e far vendetta
del viril sesso che l’havea sì offese:
vuol che ogni nave, che da venti astretta
a pigliar venga porto in suo paese,
a sacco, a sangue, a fuoco al fin si metta;
né de la vita a un sol si sia cortese.
Così fu detto e così fu concluso,
e fu fatta la legge e messa in uso.
28
Come turbar l’aria sentiano, armate
le femine correan su la marina
dal’implacabile Oronthea guidate,
che diè lor legge e si fe’ lor Reina:
e de le navi a’ liti lor cacciate
faceano incendi horribili e rapina,
huom non lasciando vivo, che novella
dar ne potesse o in questa parte o in quella.
29
Così solinghe vissero qualche anno,
aspre nemiche del sesso virile:
ma connobbero poi che ’l proprio danno
procacciarian, se non mutavan stile;
che se di lor propagine non fanno,
serà lor legge in breve irrita e vile
e mancherà con l’infecondo regno,
dove di farla eterna era disegno.
30
Sì che, temprando il suo rigore un poco,
scelsero, in spatio di quattr’anni intieri,
di quanti capitaro in questo luoco
dieci belli e gagliardi cavallieri,
che per durare in l’amoroso giuoco
contra lor cento fusser buon guerrieri.
Esse in tutto eran cento, e statuito
ad ogni lor decina fu un marito.
31
Prima ne fur decapitati molti
ch’al paragon lor reuscîr mal forti.
Hor questi dieci a buona prova tolti,
del letto e del governo hebbon consorti;
facendo lor giurar che, se più còlti
altri huomini verriano in questi porti,
essi serian che, spenta ogni pietade,
li porriano ugualmente a fil di spade.
32
Ad ingrossar et a figliar appresso
le donne, indi a temere incominciaro
che tanti nascerian del viril sesso,
che contra lor non potrian far riparo;
e al fine in man de li huomini rimesso
serìa il governo ch’elle havean sì caro:
sì che ordinâr, mentre eran li anni imbelli,
far sì che mai non fusson lor ribelli.
33
L’ordine fu dei maschi allevar pochi:
uno ogni madre vuol la legge horrenda;
tutti li altri (comanda) o li suffòchi,
o fuor del stato li permùti o venda.
Ne mandano per questo in varii luochi:
e a chi li porta dicono che prenda
femine, s’a-bbaratto haver ne pote;
se non, non torni almen con le man vuote.
34
Né uno anchora allevarian, se senza
potesson far e mantenere il gregge.
Questa è quanta pietà, quanta clemenza
a li suoi più che a li altri usa la legge:
li altri condannan con ugual sentenza;
e solamente in questo si corregge,
che non vuol che, secondo il primero uso,
le femine li uccidano in confuso.
35
Se dieci o venti o più persone a un tratto
vi fusser giunte, in carcere eran messe:
e d’una al giorno, e non di più, era tratto
il capo a sorte, che perir devesse
nel tempio horrendo che Oronthea havea fatto,
dove uno altare alla Vendetta eresse;
e dato a l’un de’ dieci il crudo ufficio
per sorte era di farne sacrificio.
36
Dopo molt’anni alle ripe homicide
a dar venne del capo un giovinetto,
la cui stirpe scendea dal buono Alcide,
di gran valor nel’arme, Elbanio detto.
Qui preso fu, che a pena se ne avide,
come quel che venìa senza suspetto;
e con gran guardia in stretta parte chiuso,
con li altri era serbato a crudel uso.
37
Di viso era costui bello e giocondo,
e di maniere e di costumi ornato;
e di parlar sì dolce e sì facondo
ch’un Aspe volentier l’havria ascoltato:
sì che, come di cosa rara al mondo,
del esser suo fu tosto rapportato
ad Alexandra figlia d’Oronthea,
ch’anchor Regina in l’isola vivea.
38
Oronthea vivea anchora; e già mancate
tutte eran l’altre che habitâr qui in prima:
e dieci tante e più n’erano nate,
e in forza eran cresciute e in maggior stima;
né tra dieci fucine, che serrate
stavon pur spesso, havean più d’una lima;
e dieci cavallieri ancho havean cura
di dar a chi venìa fiera aventura.
39
Alexandra, bramosa di vedere
el giovinetto c’havea tante lode,
da la sua matre in singular piacere
impetra sì, ch’Elbanio vede et ode;
e quando vuol partirne, rimanere
si sente il core ove è chi ’l punge e rode:
legar si sente e non sa far contesa,
e al fin dal suo prigion si truova presa.
40
Elbanio disse a lei: «Se di pietade
fusse, madonna, qui notitia anchora,
come se n’ha per tutte altre contrade
dovunque il vago Sol scalda e colora,
io v’osarei, per vostra alma beltade
ch’ogni animo gentil di sé inamora,
chiedervi in don la vita mia, che poi
serei disposto ognhor spender per voi.
41
Hor quando fuor d’ogni ragion qui sono
privi d’humanitade i cori humani,
non vi dimandarò la vita in dono,
che i prieghi miei so ben che serian vani;
ma che da cavalliero, o tristo o buono
ch’io sia, possa morir con l’arme in mani,
e non come dannato per giudicio,
o come animal bruto in sacrificio».
42
Alexandra gentil, che humidi havea
per la pietà del giovinetto i rai,
rispose: «Anchor che più crudele e rea
sia questa terra ch’altra fusse mai,
non concedo perhò che qui Medea
ogni femina sia, come tu fai:
e quando ogn’altra così fusse o peggio,
esser da l’altre excettuata i’ deggio.
43
E se ben per adietro io fussi stata
empia e crudel, come qui sono tante,
dir posso che suggetto ove mostrata
per me fusse pietà, non hebbi inante.
Ma ben di tigre serei più arrabbiata
e più duro hare’ il cor che di diamante,
se non m’havesse tolta ogni durezza
tua beltà, tuo valor, tua gentilezza.
44
Così non fusse la legge più forte
che contra peregrini è statuita,
come io non schivarei con la mia morte
di comparar la tua più degna vita.
Ma non è grado qui di sì gran sorte
che ti potesse dar libera aita;
e quel che chiedi anchor, ben che sia poco,
difficile ottener fia in questo luoco.
45
Pur io vedrò di far che tu l’ottenga,
c’habbi nanzi il morir questo contento;
ma mi dubito ben che te n’avenga,
tenendo il morir lungo, più tormento».
Suggiunse Elbanio: «Quando incontra i’ venga
a dieci armato, di tal cor mi sento
che la vita ho speranza di salvarme,
e uccider lor, se tutti fussero arme».
46
Alexandra a quel detto non rispose
se non un gran suspiro, e dipartisse;
e portò nel partir mille amorose
punte nel cor, mai non sanabil, fisse.
Venne alla matre, e volontà le pose
di non lasciar ch’el cavallier morisse,
quando si dimostrasse così forte
che, solo, havesse posto i dieci a morte.
47
La Reina Oronthea fece raccôrre
el suo consiglio, e disse: «A noi conviene
sempre il miglior che ritroviamo porre
a guardar nostri porti e nostre arene;
e per saper chi ben lasciar, chi tôrre,
prova è sempre da far, quando gli aviene;
per non patir con nostro danno a torto
che regni il vile, e chi ha valor sia morto.
48
A me par, s’a voi par, che statuito
sia ch’ogni cavallier per l’avenire,
che fortuna habbia tratto al nostro lito,
prima che al tempio si faccia morire,
possa egli sol, se gli piace il partito,
contra gli dieci alla battaglia uscire;
e se di superar tutti è possente,
habbia il porto a guardar con nuova gente.
49
Parlo così, perché haven qui un prigione
che par che vincer dieci s’offerisca.
Quando, sol, vaglia tante altre persone,
dignissimo è, per dio, che se exaudisca;
così in contrario havrà punitïone,
quando vaneggi e temerario ardisca».
Oronthea fine al suo parlar qui pose,
a cui de le più antique una rispose:
50
«La principal cagion ch’a far disegno
sul commercio de li huomini ne mosse
non fu perché a difender questo regno
del loro aiuto alcun bisogno fosse;
che per far questo havemo ardire e ingegno
da noi medesme a sufficientia e posse:
così senza sapessimo far ancho,
che non venisse il propagarsi a manco!».
51
Ma poi che senza lor questo non lece,
tolti haven, ma non tanti, in compagnia,
che mai ne sia più d’uno incontra diece
sì c’haver di noi possa signoria.
Per conciper di lor questo si fece,
non che di lor difesa uopo ne sia:
la lor prodezza sol ne vaglia in questo,
e sieno ignavi e inutili nel resto.
52
Tra noi tenere un huom che sia sì forte
contrario è in tutto al principal disegno.
Se può un solo a dieci huomini dar morte,
quante donne farà stare egli al segno?
Se i dieci nostri fusser di tal sorte,
el primo dì n’havrebbon tolto il regno.
Non è la via di dominar, se vuoi
por l’arme in mano a chi può più di noi.
53
Pon mente anchor che quando così aiti
Fortuna questo tuo, che’ dieci uccida,
di cento donne che di lor mariti
rimarran prive sentirai le grida.
Se vuol campar, propona altri partiti
ch’esser di dieci gioveni homicida;
pur, se per far con cento donne è buono
quel che dieci fariano, habbi perdono».
54
Fu d’Artemia crudel questo il parere
(così havea nome); e non mancò per lei
di far nel tempio Elbanio rimanere
scannato inanzi a-llor spietati dèi.
Ma la madre Oronthea, che compiacere
vòlse alla figlia, replicò a colei
altre et altre ragioni, e modo tenne
che nel senato il suo parer s’ottenne.
55
L’haver Elbanio di bellezza il vanto
sopra ogni cavallier che fusse al mondo
fu nei cor de le giovane di tanto
(ch’erano in quel consiglio) e di tal pondo,
che ’l parer de le vecchie andò da canto,
che con Artemia volean far secondo
l’ordine antiquo; né lontan fu molto
ad esser per favore Elbanio assolto.
56
Di perdonarli in summa fu concluso,
ma poi che la decina havesse spento
e fusse stato in l’altro assalto ad uso
di diece donne buono, e non di cento.
Di carcer fu l’altra matina schiuso,
et hebbe arme e cavallo a suo talento.
Contra dieci guerrier solo si mise,
e l’uno appresso a l’altro in piazza uccise.
57
Fu la notte seguente a prova messo
contra diece donzelle ignudo e solo,
dove hebbe al ardir suo sì buon successo,
che ad una ad una assaggiò tutto il stuolo.
E questo gli acquistò tal gratia appresso
ad Oronthea, che l’hebbe per figliuolo:
gli fe’ sposar la figlia e l’altre nove
con che havea fatto le notturne pruove.
58
E lo lasciò con Alexandra bella
(che poi diè nome a questa terra) herede,
con patto ch’a servar egli habbia quella
legge, et ogni altro che da lui succede:
che ciascun, che già mai sua fiera stella
farà qui porre il sventurato piede,
elegger possa o in sacrificio darsi
o con dieci guerrier solo provarsi.
59
E se gli avien ch’el dì li huomini uccida,
la notte con le femine si provi;
e quando in questo anchor tanto gli arrida
la sorte sua, che vincitor si trovi,
sia del femineo stuol principe e guida
e la decina a scelta sua rinuovi,
con la qual regni, fin ch’un altro arrivi
che sia più forte e lui di vita privi.
60
Appresso a duo mil’anni il costume empio
s’è mantenuto, e si mantiene anchora;
e sono pochi giorni che nel tempio
uno infelice peregrin non mora.
Se contra dieci alcun chiede, ad exempio
d’Elbanio, armarsi, che ve n’è talhora,
spesso la vita al primo assalto lassa;
né di mille uno a l’altra prova passa.
61
Pur ci passano alcuni, ma sì rari
che con le dita numerar si ponno.
Uno di questi fu Argilon: ma guari
con la decina sua non fu qui donno;
che spintoci io da venti e mar contrari
gli occhi gli chiusi in sempiterno sonno.
Così fussi io con lui morto quel giorno,
prima che in servitù visso con scorno;
62
che piaceri amorosi e riso e giuoco,
che suole amar ciascun de la mia etade,
le purpure e le gemme, e l’haver luoco
inanzi a tutti li altri in la cittade,
potuto hanno, per dio, mai giovar poco
all’huom che privo sia di libertade;
e ’l non poter mai più di qui levarmi
servitù grave e intolerabil parmi.
63
Vedermi consumar dei miglior anni
el più bel fior in sì vil opra e molle
tiemmi il cor sempre in stimulosi affanni,
et ogni gusto di piacer mi tolle.
Del padre e frati miei la gloria i vanni
batte pel mondo, e sin al ciel s’extolle;
che forse accaderia ch’anch’io n’havessi
la parte mia, s’esser con lor potessi.
64
Parmi ch’ingiuria il mio destin mi faccia
havendomi a sì vil servigio eletto;
come chi ’n le iumente il destrier caccia
c’habbia d’occhi o di piedi alcun difetto,
o per altro accidente che dispiaccia
sia fatto al’arme e a miglior uso inetto:
né sperando io, se non per morte, uscire
di sì vil servitù, bramo morire. –
65
Guidon qui fine alle parole pose
e maledisse il suo destin per sdegno,
che de li cavallieri e de le spose
gli diè vittoria in acquistar quel regno.
Astolfo stette a udire, e si nascose
tanto, che si fe’ certo a più d’un segno
che, come detto havea, questo Guidone
era figliuol del nobil duca Amone.
66
Poi gli rispose: – Io sono il duca Inglese,
il tuo cugino Astolfo; – et abbracciollo,
e con atto amorevole e cortese,
quasi piangendo, in la gota baciollo.
– Caro parente mio, non più palese
tua madre ti potea por segno al collo;
che a farne fede che tu sei de’ nostri
basta il valor che con la spada mostri. –
67
Fatto in ogni altro luoco havria gran festa
Guidon d’haver trovato un suo parente;
quivi l’accolse con la faccia mesta
perché fu di vederlovi dolente.
Se vive, sa che Astolfo schiavo resta,
né il termine è più là ch’el dì seguente;
se fia libero Astolfo, ne more esso:
sì che il ben d’uno è il mal de l’altro expresso.
68
Gli duol che li altri cavallieri anchora
habbia, vincendo, a far sempre captivi;
né, tutto ch’esso in la battaglia mora,
potrà giovar che servitù lor schivi:
che se d’un fango ben li porta fuora
e poi s’inciampi come all’altro arrivi,
havrà lui senza pro vinto Marphisa;
ch’essi pur ne fien schiavi, et essa uccisa.
69
Da l’altro canto havea l’acerba etade,
la cortesia e il valor del Giovinetto
d’amore intenerito e di pietade
tanto a Marphisa et a’ compagni il petto,
che, con morte di lui lor libertade
esser devendo, havean quasi a dispetto:
e se Marphisa non può far con manco
che uccider lui, vuol essa morir ancho.
70
Ella disse a Guidon: – Vientene insieme
con noi, che a viva forza usciren quinci. –
– Deh (rispose Guidon) lascia ogni speme
di mai più uscirne, o perdi meco o vinci. –
Ella suggiunse: – Il mio cor mai non teme
di non dar fine a cosa che cominci;
né ritrovar so la più agevol strada
di quella ove per guida habbia la spada.
71
Tal ne la piazza ho il tuo valor provato
che, s’io son teco, ardisco ad ogni impresa.
Quando la turba intorno fia al steccato
al nuovo Sol sopra il theatro ascesa,
io vuo’ che l’uccidiàn per ogni lato,
o vada in fuga o cerchi far difesa,
e che alli lupi et avoltoi del luoco
lasciamo i corpi, e la cittade al fuoco. –
72
Suggiunse a lei Guidon: – Tu m’havrai pronto
a seguitarti et a morirti a canto,
ma vivi rimaner non facciàn conto;
bastar ne può di vendicarsi alquanto:
che spesso diece mila in piazza conto
del popul feminile, et altrotanto
resta a guardar e porto e ròcca e mura,
né alcuna via d’uscir trovo sicura. –
73
Disse Marphisa: – E molto più sieno elle
de li huomini che Xerse hebbe già intorno,
e siano più de l’anime ribelle
ch’uscîr del ciel con lor perpetuo scorno;
se tu sei meco, o almen non sii con quelle,
tutte le voglio uccidere in un giorno. –
Guidon suggiunse: – Io non ci so via alcuna
ch’a valer n’habbia, se non val questa una.
74
Ne può sola salvar, se ne succede,
quest’una ch’io dirò, c’hor mi soviene.
Fuor che alle donne, uscir non si concede
né metter piede in su le salse arene:
e per questo commettermi alla fede
d’una de le mie donne mi conviene,
del cui perfetto amor fatt’ho sovente
più prova anchor, ch’io non farò al presente.
75
Non men di me tôrmi costei disia
di servitù, pur che ne venga meco;
che così spera, senza compagnia
de le rivali sue, ch’io viva seco.
Ella nel porto o Fuste o Saettia
farà ordinar, mentre è anchor l’aer cieco,
che i marinari vostri troveranno
acconcia a navigar, come vi vanno.
76
Drieto a me, tutti in un drapel ristretti,
cavallieri, mercanti e galeotti
che ad albergarvi sotto a questi tetti
meco (vostra mercé) sète ridotti,
havrete a farvi amplo sentier coi petti
se del nostro camin semo interrotti:
così spero (aiutandone le spade)
ch’io vi trarrò de la crudel cittade. –
77
– Tu fa’ come ti par – disse Marphisa,
– ch’io son per me d’uscir di qui sicura.
Più facil fia che di mia mano uccisa
la gente sia, che è dentro a quelle mura,
che mi veggia fuggir, o in altra guisa
alcun possa notar che habbi paura.
Vuo’ uscir di giorno, e sol per forza d’arme;
che per ogn’altro modo obbrobrio parme.
78
S’io ci fussi per donna connosciuta,
so che havrei da le donne honor e pregio;
e volentieri ci serei tenuta,
e tra le prime forse del collegio:
ma con costoro essendoci venuta,
non ci vuo’ d’essi haver più privilegio.
Troppo error fôra ch’io mi stessi o andassi
libera, e lor in servitù lasciassi. –
79
Queste parole et altre seguitando,
mostrò Marphisa che ’l rispetto solo
c’havea al periglio de’ compagni (quando
potria il suo ardir a lor tornar in duolo)
la ritenea d’andar con memorando
segno d’ardir tutto a sfidar quel stuolo:
e per questo a Guidon lascia la cura
d’usar la via che più gli par sicura.
80
Guidon la notte con Aleria parla
(così havea nome la fidata moglie),
né bisogno gli fu molto pregarla,
che la trovò disposta alle sue voglie.
Ella trovò una nave e fece armarla,
e v’arrecò le sue più ricche spoglie,
con pretesto volere al nuovo albóre
con le compagne uscire in corso fuore.
81
Ella havea fatto nel palazzo inanti
spade e lancie arrecar, corazze e scudi,
onde armar si potessero i mercanti
e i galeotti ch’eran mezo nudi.
Altri dormiro et altri ster vegghianti,
li otii a vicenda compartendo e i studi,
spesso guardando, e pur con l’arme indosso,
se l’Orïente anchor si facea rosso.
82
Dal duro volto de la terra il Sole
non tollea anchora il velo oscuro et atro;
a pena havea la Calistonia prole
per li solchi del ciel volto l’aratro:
quando il stuol feminil, che veder vuole
el fin de la battaglia, empì il theatro,
come Ape del suo claustro empie la soglia,
che mutar regno al nuovo tempo voglia.
83
Di trombe e grida e strepito de corni
el popul risuonar fa cielo e terra,
così citando il suo signor che torni
a terminar la cominciata guerra.
Aquilante e Griphon stavano adorni
de le lor arme, e il duca d’Inghilterra,
Guidon, Marphisa, Sansonetto e tutti
li altri, chi a piedi e chi a caval instrutti.
84
Per scender dal palazzo al mare e al porto
la piazza traversar si convenia,
né v’era altro camin lungo né corto:
così Guidon disse alla compagnia.
E poi che di ben far molto conforto
le diede, intrò senza rumor in via;
e ne la piazza, dove il popul era,
s’appresentò con più di cento in schiera.
85
Molto affrettando li compagni, andava
Guidone all’altra porta per uscire:
ma la gran moltitudine che stava
intorno armata e sempre atta a ferire
pensó, come lo vide che menava
seco quelli altri, che volea fuggire;
e tutta a un tratto alli archi suoi ricorse,
e parte, onde se uscia, venne ad opporse.
86
Guidon e li altri cavallier gagliardi,
e sopra tutti lor Marphisa forte,
al menar de le man non furon tardi,
e feron molto per sforzar le porte:
ma tanta era la copia de li dardi,
che con ferite de’ compagni e morte
pioveano lor di sopra et d’ognintorno,
ch’al fin temean d’haverne danno e scorno.
87
D’ogni guerrier l’usbergo era perfetto;
che se non era, havean più da temere.
Fu morto il caval sotto a Sansonetto;
quel di Marphisa v’hebbe a rimanere.
Astolfo tra sé disse: – Hora, ch’aspetto
che mai mi possa il corno più valere?
Io vuo’ veder, poi che non giova spada,
s’io so col corno assicurar la strada. –
88
Come aiutarsi in le fortune extreme
sempre solea, si pone il corno a bocca:
par che la terra e tutto il mondo treme
quando nel’aria il suon horribil scocca.
Sì nel cor de la gente il timor preme,
che per disir di fuga si trabbocca
giù del theatro, sbigottita e smorta,
non che lasci la guardia de la porta.
89
Come talhor si getta e si periglia
e da finestra e da sublime luoco
l’exterrefatta subito famiglia
che vede appresso et ognintorno il fuoco
che, mentre le tenea gravi le ciglia
il pigro sonno, crebbe a poco a poco;
così, messa la vita in abbandono,
ognun fuggìa dal spaventoso suono.
90
Di qua di là, di su di giù smarrita
surge la turba, e di fuggir procaccia;
son più di mille a un tempo ad ogni uscita:
cascano a monti, e l’una l’altra impaccia.
Perde in la stretta calca altra la vita;
da palchi e da finestre altra si schiaccia:
più d’un braccio si rompe e d’una testa,
di che altra morta, altra stroppiata resta.
91
El pianto, il grido insino al ciel saliva,
d’alta ruina misto e di fraccasso.
Affretta, ovunque il suon del corno arriva,
la turba spaventata in fuga il passo.
S’udite dir che d’ardimento priva
la vil plebe si mostri e di cor basso,
non vi maravigliate; che natura
è de la lepre haver sempre paura.
92
Ma che direte del già tanto fiero
cor di Marphisa e di Guidon Silvaggio?
de i dua gioveni figli d’Oliviero,
che già tanto honoraro il suo lignaggio?
Già venti mila havean stimato un zero;
et in fuga hor ne van senza coraggio,
come conigli o timidi colombi
a cui vicino alto rumor ribombi.
93
Così nocea alli suoi come alli extrani
la forza che nel corno era incantata:
Sansonetto, Guidone e i dui germani
fuggon drieto a Marphisa spaventata;
né fuggendo ponno ir tanto lontani,
che lor non sia l’orecchia ancho intronata.
Scorre Astolfo la terra in ogni lato,
dando via sempre al corno maggior fiato.
94
Chi scese al mare, e chi poggiò su al monte;
chi tra li boschi ad occultar si venne;
alcuna, senza mai volger la fronte,
fuggir per dieci dì non si ritenne;
uscì in tal punto alcuna fuor del ponte,
ch’in vita sua mai più non vi rivenne:
sgombraro in modo e piazze e templi e case,
che quasi vuota la città rimase.
95
Sansonetto, Marphisa e i duo fratelli,
Guidon, li marinari e li mercanti
fuggean (come v’ho detto), e fur di quelli
ch’al mar scendeano pallidi e tremanti;
ove Aleria trovâr, che fra i castelli
loro havea un legno apparecchiato inanti.
Quindi, poi ch’in gran fretta li raccolse,
diè i remi all’acqua et ogni vela sciolse.
96
Dentro e d’intorno il Duca la cittade
havea scorsa da i colli insino all’onde;
fatte havea vuote rimaner le strade:
ognun lo fugge, ognun se gli nasconde.
Molte trovate fur che per viltade
s’eran gettate in le latrine immonde;
e molte, non sapendo ove se andare,
messesi a nuoto et affogate in mare.
97
Per trovare i compagni il Duca viene,
che tenea certo di veder sul molo.
Si volge intorno e le deserte arene
vede per tutto, e non v’appare un solo.
Leva più gli occhi, e in alto e a vele piene
da sé lontani andar li vede a volo:
sì che gli convien fare altro disegno
al suo camin, poi che partito è il legno.
98
Lasciànlo pur andar, né ve n’incresca
che tanta strada far debbia soletto
per terra d’infedeli e barbaresca,
dove mai non si va senza suspetto:
non è periglio alcuno onde non esca
con quel suo corno, et n’ha mostrato effetto;
a lui tornerò a tempo, ma narrare
prima voglio di quei che sono in mare.
99
A piena vela si cacciorno lunge
da la crudel e sanguinosa spiaggia:
et poi che di gran spatio non li giunge
l’horribil suon che a spaventar più li haggia,
insolita vergogna sì li punge
che, come un fuoco, a tutti il viso irraggia;
l’un non ardisce a mirar l’altro, e stassi
tristo senza parlar, con li occhi bassi.
100
Passa il Nocchiero, al suo vïaggio intento,
e Cypro e Rhodi, e giù per l’onda Egea
da sé vede fuggire isole cento
col periglioso capo di Malea;
e con propitio et immutabil vento
asconder vede la greca Morea;
volta Sicilia, e per il mar Tyrrheno
costeggia de l’Italia il lito ameno:
101
e sopra Luna ultimamente sorse,
dove lasciato havea la sua famiglia.
Dio ringratiando che ’l pelago corse
senza più danno, il noto lito piglia.
Quindi a caso trovaro un legno tôrse
per fare il suo camin verso Marsiglia:
le donne e i cavallier su vi montaro,
et a Marsiglia in brieve si trovaro.
102
Quivi non era Bradamante allhora,
che haver solea governo del paese;
che se vi fosse, a far seco dimora
li sforzeria con un sforzar cortese.
Sceser nel lito, e la medesima hora
dai quattro cavallier congedo prese
Marphisa, e da la donna del Silvaggio;
e pigliò alla ventura il suo vïaggio,
103
dicendo che lodevole non era
ch’andasser tanti cavallieri insieme:
che li colombi e i storni vanno in schiera,
li danni e i cervi e ogni animal che teme;
ma l’audace falcon, l’aquila altiera,
ch’in l’aiuto d’altrui non metton speme,
orsi, tygri, leon, soli ne vanno;
che di più forza altrui tema non hanno.
104
Piacque a tutti il magnanimo pensiero;
così la compagnia fu bipartita:
per mezo i boschi e per un stran sentiero
Marphisa se n’andò sola e romita;
Griphon il bianco et Aquilante il nero
pigliâr con li altri dui la via più trita,
e giunsero a un castello il dì seguente,
dove albergati fur cortesemente.
105
Cortesemente, dico, in apparenza,
ma presto poi sentîr contrario effetto;
ch’el signor del castel, benivolenza
fingendo e cortesia, lor diè ricetto:
e poi la notte, che dormivan senza
timore alcun, tutti li prese in letto;
né li lasciò fin che non fe’ giurarli
una sua ria costuma d’observarli.
106
Ma vuo’ seguir la bellicosa donna
prima, signor, che di costor più dica.
Passò Druenza, il Rodano e la Sonna,
e venne a piè d’una montagna aprica;
quivi, lungo un torrente, in negra gonna
vide venire una femina antica,
che stanca e lassa era di lunga via,
ma via più afflitta di manenconia.
107
Questa è la vecchia che solea servire
a i malandrin nel cavernoso monte,
là dove alta giustizia fe’ venire
a dar lor morte il paladino Conte.
La vecchia, che timore ha di morire
per le cagion che poi vi seran conte,
già molti dì va per via oscura e fosca,
fuggendo ritrovar chi la connosca.
108
Quivi d’estrano cavallier sembianza
hebbe Marphisa all’habito e all’arnese;
e per ciò non fuggì, come havea usanza
fuggir da li altri ch’eran del paese;
anzi con sicurezza e con baldanza
si fermò al guado, e di lontan l’attese:
al guado del torrente, ove trovolla,
la vecchia le uscì incontra e salutolla.
109
Poi la pregò che seco oltra quell’acque
nel’altra ripa in groppa la portasse.
Marphisa, che gentil fu da che nacque,
di là dal fiumicel seco la trasse;
e portarla oltra un pezzo ancho le piacque,
fin ch’a miglior camin la ritornasse,
fuor d’un spinoso e mal dritto sentiero,
tanto che si scontraro un cavalliero.
110
Scontraro un cavallier, che armato in sella
di lucide arme e ricchi panni ornato,
verso il fiume venìa, da una donzella
e da un solo scudiero accompagnato.
La donna c’havea seco era assai bella,
ma d’altiero sembiante e poco grato,
tutta d’orgoglio e di fastidio piena,
del cavallier ben degna che la mena.
111
Pinabello, un de’ conti Maganzesi,
era quel cavallier che l’havea seco;
quel medesmo che dianzi a pochi mesi
Bradamante gettò nel cavo speco.
Quei suspir, quei singulti così accesi,
quel pianto che lo fe’ già quasi cieco,
tutto fu per costei che hor seco havea,
ch’el Negromante allhor gli ritenea.
112
Ma poi che fu levato di sul colle
l’incantato castel del vecchio Atlante,
e che ciascuno andar puoté ove volle,
per opra e per virtù di Bradamante;
costei, che alli desii facile e molle
di Pinabel sempre era stata inante,
a lui tornossi, et in sua compagnia
hor da un castello a un altro se ne gìa.
113
E sì come vezzosa era e mal usa,
quando vide la vecchia di Marphisa
non si puoté tenere a bocca chiusa
di motteggiarla e farne beffe e risa.
Marphisa altiera, appresso a cui non s’usa
sentirse oltraggio in qual si voglia guisa,
rispose d’ira accesa alla Donzella
che di lei quella vecchia era più bella;
114
e ch’al suo cavallier volea provallo,
con patto di poi tôrre a lei la gonna
e il palafren che havea, se da cavallo
gettava el cavallier di che era donna.
Pinabel che faria, tacendo, fallo,
di risponder con l’arme non assonna:
piglia il scudo e la lancia, e il caval gira,
poi vien Marphisa a ritrovar con ira.
115
Marphisa incontra una gran lancia afferra
e ne la vista a Pinabel la arresta,
e sì stordito lo riversa in terra
che stette un’hora a rilevar la testa.
Marphisa, vincitrice de la guerra,
fe’ trarre a quella giovane la vesta,
et ogni altro ornamento le fe’ porre,
e fenne il tutto alla sua vecchia tôrre:
116
e di quel giovenil habito vòlse
che la sua vecchia s’adornasse tutta;
e fe’ che ’l palafreno ancho si tolse
che la giovane havea quivi condutta.
Poi con la vecchia al suo camin si volse,
che quanto era più ornata, era più brutta.
Tre giorni andâr per malegevol strada
senza far cosa onde a parlarne accada.
117
El quarto giorno un cavallier trovaro,
che venìa in fretta galoppando solo.
Se di saper chi sia forse v’è caro,
dicovi che è Zerbin, di Re figliuolo,
di virtù exempio e di bellezza raro,
che se stesso rodea di sdegno e duolo
di non haver potuto far vendetta
d’un che gli havea gran cortesia interdetta.
118
Zerbino indarno per la selva corse
drieto a quel suo che gli havea fatto oltraggio;
ma sì a tempo colui seppe via tôrse,
sì seppe nel fuggir prender vantaggio,
sì il bosco e sì una nebbia lo soccorse
c’havea offuscato il matutino raggio,
che di man di Zerbin si levò netto
fin che ’l sdegno e il furor gli uscì del petto.
119
Zerbin non puòte, anchor che fusse irato,
tener (vedendo quella vecchia) il riso;
che gli parea dal giovenile ornato
troppo diverso il brutto antiquo viso;
et a Marphisa, che le venìa a lato,
disse: – Guerrier, tu sei pien d’ogni aviso
che damigella di tal sorte guidi,
che non temi trovar chi te la invidi. –
120
Havea la donna (se la crespa buccia
può darne indicio) più de la Sibylla,
e parea, così ornata, una bertuccia
quando per mover riso alcun vestilla;
et hor più brutta par, che si corruccia
e che da gli occhi l’ira le sfavilla:
ch’a donna non si fa maggior dispetto
che quando o vecchia o brutta le vien detto.
121
Mostrò turbarse l’inclyta Donzella
per prenderne piacer, come si prese;
e rispose a Zerbin: – Mia donna è bella,
perdio, via più che tu non sei cortese;
come che io creda che la tua favella
da quel che sente l’animo non scese:
tu fingi non connoscer sua beltade
per excusar la tua summa viltade.
122
E chi saria quel cavallier, che questa
sì giovane e sì bella ritrovasse
senza più compagnia ne la foresta,
e che di farla sua non si provasse? –
– Sì ben (disse Zerbin) teco se assesta,
che serìa mal che alcun ti la levasse;
et io per me non son così indiscreto
che te ne privi mai: stanne pur lieto.
123
Se in altro conto haver vuoi a far meco,
di quel che vaglio son per farti mostra;
ma per costei non me tener sì cieco
che solamente far voglia una giostra.
O brutta o bella sia, restisi teco:
non vuo’ partir tanta amicitia vostra.
Ben vi sète accoppiati: io giurarei,
come ella è bella, tu gagliardo sei. –
124
Suggiunse a lui Marphisa: – Al tuo dispetto
di levarmi costei provar convienti.
Non vuo’ patir ch’un sì liggiadro aspetto
habbi veduto, e guadagnar nol tenti. –
Rispose a lei Zerbin: – Non so a che effetto
l’huom si metta a periglio e si tormenti,
per riportarne una vittoria poi,
che molto più che haver perduto annoi. –
125
– Ecco un altro partito ch’io ti pono, –
disse Marphisa, – e ricusar nol déi:
se con la lancia o con la spada sono
vinto da te, mi rimarrà costei;
ma se io te vinco, a forza ti la dono.
Dunque proviàn chi de’ star senza lei:
se perdi, converrà che tu le faccia
compagnia sempre, ovunque andar le piaccia. –
126
– E così sia, – Zerbin rispose; e volse
a pigliar campo subito el cavallo.
L’un e l’altro in la sella si raccolse,
e drizza l’hasta ove non giunga in fallo.
Zerbin nel scudo alla Donzella colse:
ma parve urtasse un monte di metallo;
et ei sì fiero scontro hebbe in l’elmetto,
che (suo mal grado) uscì di sella netto.
127
Troppo spiacque a Zerbin l’esser caduto;
che in altro scontro mai più non gli avenne,
e mille di sua man ne havea abbattuto;
et a perpetuo scorno se lo tenne.
Stette per lungo spatio in terra muto;
e più gli dolse poi che gli sovenne
c’havea promesso e che gli convenia
haver la brutta vecchia in compagnia.
128
Tornando a lui la vincitrice in sella,
disse ridendo: – Questa t’appresento;
e quanto più la veggio e grata e bella,
tanto, che la sia tua, più mi contento.
Hor tu in mio luoco sei campion di quella;
ma la tua fé non se ne porti il vento,
che per sua guida e scorta tu non vada
(come hai promesso) ovunque andar le aggrada. –
129
Senza attender risposta, urta il destriero
per la foresta, e subito s’imbosca.
Zerbin, che la stimava un cavalliero,
dice alla vecchia: – Fa’ ch’io lo connosca. –
Et ella non gli tiene ascoso il vero,
onde sa che l’incende e che l’attosca:
– Il colpo fu di man d’una donzella, –
disse, – che t’ha fatto vuotar la sella.
130
Pel suo valor Costei debitamente
usurpa a’ cavallieri e scudo e lancia;
et è testé venuta d’Orïente
per assaggiare i paladin di Francia. –
Zerbin di questo tal vergogna sente
che non pur tinge di rossor la guancia,
ma restò poco di non farsi rosso
seco ogni pezzo d’arme c’havea indosso.
131
Monta a cavallo, e se stesso rampogna
che non seppe tener strette le cosce.
Tra sé la vecchia ne sorride, e agogna
di stimularlo e rinovarli angosce:
gli racorda che andar seco bisogna;
e Zerbin, che ubligato si connosce,
l’orecchie abbassa, come vinto e stanco
destrier c’ha el fren in bocca e i sproni al fianco.
132
E suspirando: – Ohimè, Fortuna fella
(dicea), che cambio è questo che mi fai?
Colei che fu sopra le belle bella,
ch’esser meco devea, levata m’hai.
Ti par ch’in luoco et in ristor di quella
si debba por costei c’hora mi dài?
Stare in danno del tutto era men male
che fare un cambio tanto disuguale.
133
Colei, che di bellezze e di virtuti
unqua non hebbe e non havrà mai pare,
summersa e rotta in mezo ai scogli acuti
cibo fatto hai de pesci e augei del mare;
e costei, che devria già haver pasciuti
sotterra i vermi, hai tolta a perservare
più dieci o quindici anni del devere,
e mi dài per ristor questo piacere. –
134
Zerbin così parlava; né men tristo
in parole e in sembianti esser parea
di questo nuovo suo sì odioso acquisto,
che de la donna che perduta havea.
La vecchia, anchor che non havesse visto
mai più Zerbin, per quel ch’esso dicea
s’avide esser colui di che notitia
le diede già Issabella di Gallitia.
135
S’el vi ricorda quel che havete inteso,
costei da la spelonca ne veniva
dove Issabella, che d’amore acceso
Zerbin tenea, fu molti dì captiva.
Più volte conto ella le havea già reso
come lasciasse la paterna riva,
e come rotta in mar da la procella
si salvasse in la spiaggia di Rocella.
136
E sì spesso dipinto di Zerbino
l’havea il bel viso e le fattezze conte,
c’hora udendol parlar, e da vicino
gli occhi alzandogli meglio ne la fronte,
vide esser quel per cui sempre mischino
fu d’Issabella il cor nel cavo monte;
che di non veder lui più si lagnava
che d’esser fatta a’ malandrini schiava.
137
La vecchia, dando alle parole udienza
che con sdegno e con duol Zerbino versa,
s’avede ben ch’egli ha falsa credenza
che sia Issabella in mar rotta e summersa:
e ben ch’ella del certo habbia scïenza,
per non lo rallegrar, pur la perversa
quel che far lieto lo potria gli tace,
e sol gli dice quel che gli dispiace.
138
Gli disse ella: – Odi, tu che sì mi sprezzi,
se sapessi che nuova ho di colei
che morta piagni, mi faresti vezzi
per udir quel che più non ti direi.
Ma non pur che tu piagni e graffi e spezzi
le guancie e i crini vuo’, ma prego i dèi
che per doglia la spada in te tu torca,
o di questi arbori un ti facci forca. –
139
Come il mastin che con furor s’aventa
adosso al ladro, e poi s’accheta presto
che quello o pane o cacio gli appresenta,
o che fa incanto approprïato a questo;
così tosto Zerbino humìl diventa
e disïoso di sapere il resto,
che la vecchia gli accenna che di quella,
che morta piange, gli sa dir novella.
140
E volto a lei con più piacevol faccia,
la supplica, la prega, la scongiura
per l’huomini, per Dio, che non gli taccia
quel che ne sappia, o buona o rea aventura.
– Cosa non udirai che pro ti faccia, –
disse la vecchia pertinace e dura:
– non è Issabella (come credi) morta;
ma viva sì, che a’ morti invidia porta.
141
È capitata, in questi pochi giorni
che non n’udisti, in man di più di venti;
sì che, qualhora ancho in la tua ritorni,
ve’ se sperar di côrre il fior convienti. –
Ah vecchia maledetta, come adorni
la tua menzogna! e tu sai pur se menti:
se ben in man di venti ella era stata,
non l’havea alcun perhò mai vïolata.
142
Dove l’havea veduta dimandolle
Zerbino, e quando, ma nulla n’invola;
che la vecchia ostinata più non volle
a quel che detto havea giunger parola.
Prima le usò Zerbino un parlar molle,
poi minaciolle di tagliar la gola:
ma tutto è invan ciò che minaccia o prega;
che non può far parlar la brutta strega.
143
Lasciò la lingua al ultimo in riposo
Zerbin, poi che ’l parlar gli giovò poco;
per quel ch’udito havea, tanto geloso,
che non trovava il cor nel petto luoco;
d’Issabella trovar sì desïoso,
che serìa per vederla ito nel fuoco:
ma non poteva andar più che volesse
la vecchia; ch’a Marphisa lo promesse.
144
E quindi per solingo e strano calle,
dove a lei piacque, fu Zerbin condotto;
né per o poggiar monte o scender valle
mai si guardaro in faccia o si fêr motto.
Ma poi ch’al mezo dì volse le spalle
il vago Sol, fu il lor silentio rotto
da un cavallier che nel camin scontraro:
quel che seguì, nel altro canto è chiaro.

CANTO DECIMONONO

1
Né fune intorto crederò che stringa
soma così, né così legno chiodo,
come la fé ch’una bell’alma cinga
del suo tenace indisolubil nodo.
Né da li antiqui par che si dipinga
la santa Fé vestita in altro modo
che d’un vel bianco che la copra tutta:
ch’un punto, un nevo la potria far brutta.
2
La fede unque non debbe esser corrotta,
o data a un solo o data insieme a mille;
e così in una selva, in una grotta,
lontano da città, castella e ville,
come dinanzi a tribunali, in frotta
di testimoni, cedule e postille,
senza giurare o segno altro più expresso,
basti una volta che s’habbi promesso.
3
Quella servò, come servar si debbe
in ogni impresa, il cavallier Zerbino:
e quivi dimostrò che conto n’hebbe
quando si tolse dal proprio camino
per far compagnia a tal, che più gl’increbbe
che s’altrotanto o più stato vicino
li fusse il basilisco; ma premea
quel che a Marphisa già promesso havea.
4
Dissi di lui che di vederla sotto
la scorta sua tanto nel cor gli preme,
che ne arrabbia di duol, né le fa motto,
e muti e taciturni andaro insieme;
dissi che poi fu il lor silentio rotto,
che volse al mezo dì le ruote estreme
il vago Sol, da un cavallier errante
che in mezo del camin lor si fe’ inante.
5
La vecchia che connobbe il cavalliero,
ch’era nomato Hermonide d’Olanda,
che per insegna havea nel scudo nero
attraversata una vermiglia banda,
posto l’orgoglio e quel sembiante altiero,
humilmente a Zerbin si raccomanda,
e gli racorda quel ch’esso promise
quando Marphisa in man di lui la mise;
6
perché di lei nemico e di sua gente
era el guerrier che contra lor venìa:
ucciso ad essa havea il padre innocente
et un fratel che solo al mondo havia;
e tuttavolta far del rimanente,
come de li altri, il traditor disia.
– Fin che alla guardia tua, donna, mi senti
(dicea Zerbin), non vuo’ che ti sgomenti. –
7
Come più presso il cavallier si specchia
in quella faccia che sì in odio gli era:
– O di combatter meco t’apparecchia, –
gridò con voce minacciosa e fiera,
– o lascia la difesa de la vecchia,
che di mia man secondo il merto pèra.
Se combatti per lei rimarrai morto;
che così aviene a chi s’appiglia al torto. –
8
Zerbin cortesemente a lui risponde
che gli è desir di bassa e mala sorte,
et a cavalleria non corrisponde
che cerchi dare ad una donna morte:
se pur combatter vuol, non si nasconde;
ma che prima consideri che importe
ch’un cavallier, come era egli, gentile,
voglia por mano in sangue feminile.
9
Queste gli disse e più parole invano;
e fu bisogno al fin venire a’ fatti.
Poi che preso a bastanza hebbon del piano,
tornârsi incontra a tutta briglia ratti.
Non van sì presto i razi fuor di mano,
ch’al tempo son de le allegrezze tratti,
come andaron veloci i dui destrieri
ad incontrare insieme i cavallieri.
10
Hermonide d’Olanda segnò basso,
che per passare il destro fianco attese:
ma la sua debol lancia andò in fraccasso,
né la corazza di Zerbin si rese.
Non ferì il colpo di Zerbino in casso,
ma ruppe il scudo, e sì la spalla prese
che la forò da l’uno all’altro lato,
e riversar fe’ Hermonide sul prato.
11
Zerbin, che si pensò d’haverlo morto,
n’hebbe pietade e scese in terra presto,
e l’elmo gli levò del viso smorto,
di che il spirto ne fu subito desto.
Poi che a seder fu il cavallier risorto,
disse: – Signor, el non m’è già molesto
che da te vinto sia, che alli sembianti
mostri esser fior de’ cavallieri erranti;
12
dogliomi ben che questo per cagione
d’una femina perfida m’aviene,
a cui non so come tu sia campione;
che troppo al tuo valor si disconviene.
E quando tu sapessi la cagione
che a vendicarmi di costei mi mene,
havresti, ognhor che rimembrassi, affanno
d’haver (per lei campar) fattomi danno.
13
E se spirto a bastanza havrò nel petto
ch’io possa dir (di che il contrario temo),
io ti farò veder che in ogni effetto
scelerata è costei più che in estremo.
Io hebbi già un fratel, che giovinetto
d’Olanda si partì, donde noi semo,
e si fece d’Eraclio cavalliero,
che allhor tenea de’ Greci il summo impero.
14
Quivi divenne intrinseco e fratello
d’un cortese baron di quella corte,
che nei confin di Servia havea un castello
di sito ameno e di muraglia forte.
Nomossi Argeo colui di ch’io favello,
di questa iniqua femina consorte,
la quale egli amò sì, che passò il segno
che conveniasi a un huom, come lui, degno.
15
Ma costei, più volubile che foglia
quando in l’autonno è più priva d’humore,
che ’l freddo vento li arbori ne spoglia
e le soffia dinanzi al suo furore;
verso il marito cangiò presto voglia,
che fisso qualche tempo hebbe nel core;
e volse ogni pensiero, ogni disio
d’acquistar per amante il fratel mio.
16
Ma né sì saldo al impeto marino
l’Acrocerauno d’infamato nome,
né sta sì duro contra Borea il pino
che rinovato ha più di cento chiome,
che quanto appar di fuor del scoglio alpino
tanto sotterra ha le radici; come
il mio fratello a’ prieghi di costei,
nido di tutti i vitii infandi e rei.
17
Hor, come aviene a un cavallier ardito
che cerca briga e la ritruova spesso,
fu gravemente il mio fratel ferito
in una impresa che gli accàde appresso
a quel castel, dove senza altro invito
venìa, fusse o non fusse Argeo con esso;
e dentro a quel per riposar fermosse
tanto che del suo mal libero fosse.
18
Mentre che quivi si giacea, convenne
ch’a certo suo bisogno andasse Argeo.
Presto questa sfacciata a tentar venne
el mio fratel, et a sua usanza feo;
ma quel fedel non oltra più sostenne
havere ai fianchi un stimulo sì reo:
elesse, per servar sua fede a pieno,
di molti mal quel che gli parve meno.
19
Tra molti mal gli parve elegger questo:
lasciar d’Argeo la intrinsichezza antiqua;
lungi andar sì, che non sia manifesto
mai più el suo nome alla femina iniqua.
Ben che duro gli fusse, era più honesto
che satisfare a quella voglia obliqua
o accusar la moglie al suo signore,
da cui fu amata a par del proprio core.
20
Né sano essendo anchor, né tutto infermo,
l’arme sue piglia e del castel si parte;
e con animo va constante e fermo
mai più di ritornare in quella parte.
Ma che gli val? che ogni difesa e schermo
gli fa debil Fortuna e la nuova arte
di questa falsa: ecco il marito intanto
vi sopraggiunge, e la ritruova in pianto,
21
e scapigliata e con la faccia rossa;
e le dimanda perché sia turbata.
Et ella al primo dir di nulla è mossa,
e fa pregarsi più d’una fïata,
pensando tuttavia come si possa
vendicar di colui che l’ha lasciata:
e ben convenne al suo mobile ingegno
senza mezo cangiar l’amore in sdegno.
22
Pur disse finalmente: «A che nascondo
a te l’error commesso in la tua absentia?
che quando anchora io il celi a tutto il mondo,
celar nol posso alla mia conscïentia.
L’alma che sente il suo peccato immondo
patisce dentro a sé tal penitentia,
ch’avanza ogni altro corporal martìre
che dar mi possa alcun del mio fallire;
23
quando fallir sia quel che si fa a forza:
ma sia quel che si vuol, tu sappil’ancho;
poi con la spada da la immonda scorza
libera il spirto immaculato e bianco,
e ne la eterna cecitade ammorza
le luci mie, che dopo il falso, almanco
tenerle basse ognhor non mi bisogni,
e di ciascun ch’io veggia io mi vergogni.
24
El tuo compagno è quel che t’ha destrutto
l’honor, che questo corpo ha vïolato;
e perché teme ch’io ti narri il tutto,
hor si parte il villan senza commiato».
In odio con quel dir gli hebbe ridutto
colui che più d’ogn’altro gli fu grato.
Argeo lo crede, et altro non aspetta;
ma piglia l’arme e va per far vendetta.
25
E come quel c’havea il paese noto,
lo giunse che non fu troppo lontano;
ch’el mio fratello, debile et egroto,
senza suspetto alcun n’andava piano:
e brevemente, in un luoco remoto
pose, per vendicarsene, in lui mano.
Non truova il mio fratel scusa che vaglia;
ch’in summa Argeo con lui vuol la battaglia.
26
Era l’un sano e pien di nuovo sdegno,
infermo l’altro et all’usanza amico:
sì c’hebbe il mio fratel poco ritegno
contra il compagno fattoli nemico.
Dunque Philandro, di tal sorte indegno
(del sfortunato mio fratel ti dico),
ferito e più non sostenendo il peso
del’armi, al fin fu dal compagno preso.
27
«Non piaccia a Dio che me conduca a tale
il mio giusto furore e ’l tuo demerto
(gli disse Argeo), che mai sia homicidiale
di te ch’amavo; e tu m’amavi certo,
ben che nel fin me l’hai mostrato male:
pur voglio a tutto il mondo far aperto
che, come fui nel tempo del amore,
così nel odio son di te migliore.
28
Per altro modo punirò il tuo fallo,
che le mie man più nel tuo sangue porre».
Così dicendo, fece sul cavallo
di verdi rami una bara comporre,
e quasi morto in quella riportallo
dentro al castello in una chiusa torre,
dove in perpetuo per punitïone
condennò l’innocente esser prigione.
29
Non perhò ch’altra cosa havesse manco,
che la libertà prima del partire;
perché nel resto, come fusse franco,
commandava e potea farsi ubedire.
Ma non essendo anchor l’animo stanco
di questa fraudolente ad exequire
la libidine sua, spesso veniva
alla pregion, che a suo piacere apriva,
30
movendo sempre al mio fratello assalti,
e con maggior audacia che di prima.
«Questa tua fedeltà (dicea) che valti,
poi che perfidia per tutto se stima?
Oh che triomphi glorïosi et alti!
oh che superbe spoglie e preda opima!
oh che merito al fin te ne risulta,
se come a traditore ognun t’insulta!
31
Quanto utilmente e con più grande honore
m’havresti dato quel che da te volli!
Di questo sì ostinato tuo rigore
la gran mercé, che tu guadagni, hor tolli:
in pregion sei, né crederne uscir fuore
se la durezza tua prima non molli.
Ma quando mi compiaci, io farò trama
di racquistarti e libertade e fama».
32
«Non, non (dicea Philandro) haver mai spene
che non sia, come suol, mia vera fede,
se ben contra ogni debito m’aviene
ch’io ne riporti sì dura mercede,
e di me creda il mondo o male o bene:
basta che inanti a quel ch’el tutto vede
e puommi ristorar di gratia eterna
chiara la mia innocentia se discerna.
33
Se non basta ad Argeo tenermi preso,
togliami anchor questa noiosa vita.
Forse che premio in ciel mi serà reso
de la buona opra qui poco gradita;
forse egli, che da me se chiama offeso,
quando serà questa anima partita
s’avederà d’havermi fatto torto,
e piangerà il fedel compagno morto».
34
Così più volte la sfacciata donna
tenta Philandro, e torna senza frutto.
Ma il cieco suo desir, che non assonna
del scelerato amor traher construtto,
cercando va più dentro che la gonna
suoi vitii antiqui, e ne discorre il tutto:
mille pensier fa d’uno in altro modo
prima che fermi in alcun d’essi il chiodo.
35
Stette sei mesi che non messe piede
(sì come facea prima) in la pregione;
di che il miser Philandro e spera e crede
che costei più non gli habbia affettïone.
Ecco Fortuna, al mal propitia, diede
a questa scelerata occasïone
di poner fin con memorabil male
al suo cieco appetito irrationale.
36
Antiqua nemicitia havea il marito
con un baron detto Morando el Bello,
ch’en absentia d’Argeo spesso era ardito
correrli solo insin dentro il castello;
ma s’Argeo v’era, non tenea l’invito,
né s’accostava a diece miglia a quello:
e per poterlo indur che vi venisse,
d’ire in Hierusalem per voto disse.
37
Disse d’andare; e se partì che ognuno
lo vide, e fe’ di ciò sparger le grida:
né il suo pensier, fuor che la moglie, alcuno
puoté saper; che sol di lei se fida.
Poi ritornò, quando fu il ciel più bruno,
drento al castel; né qui troppo s’annida:
ma con mutate insegne al nuovo albóre,
senza vederlo alcun, se n’uscia fuore.
38
Andava in questa e in quella parte errando,
e volteggiando al suo castello intorno,
pur per veder se, credulo Morando
del suo partir, volesse far ritorno.
Stava il dì tutto alla foresta; e quando
vedea nascoso in la marina el giorno
venìa al castel, e per nascose porte
lo togliea dentro l’infedel consorte.
39
Crede ciascun, fuor che la iniqua moglie,
che molte miglia Argeo lontan si trove.
Dunque il tempo opportuno ella si coglie:
e al frate mio va con malitie nuove
(e con lachryme pronte alle sue voglie)
e simulato sdegno, e dice: «Dove,
ohimè, dove potrò trovare aiuto
che in tutto l’honor mio non sia perduto?
40
E col mio quel del mio marito insieme;
che se fusse egli qui, non temerei.
Tu sai chi sia Morando, che non teme
(absente Argeo) né li huomini né i dèi.
Esso sempre mi stimula e mi preme
con prieghi e doni a quel che non farei
né per esso già mai né per altrui;
ben che per te d’altro parer già fui.
41
Hor c’ha inteso il partir del mio consorte
e sa che ritornar non de’ sì presto,
hebbe hoggi audacia intrar ne la mia corte
senza altra scusa e senza altro pretesto,
come colui che se connosce forte
tra donne vili; e so che di far questo,
sendovi Argeo, non serìa sol sicuro,
ma non pur di lontan guardar il muro.
42
E quel che già per messi ha ricercato,
hoggi me l’ha richiesto a fronte a fronte,
con tanta audacia, che gran dubbio è stato
de lo avenirmi dishonore et onte;
e se non che parlar dolce gli ho usato
e finto le mie voglie alle sue pronte,
serìa a forza di quel stato rapace
che spera haver per mie parole in pace.
43
Promesso gli ho, ma non per observarli;
che fatto per timor, nullo è il contratto:
ma gli promessi sol per divietarli
quel che per forza havrebbe allhora fatto.
Il caso è qui: tu sol puoi remediarli;
del mio honor altrimente serà tratto
e di quel del mio Argeo, che già m’hai detto
havere o tanto o più che ’l proprio a petto.
44
E se questo mi nieghi, io dirò dunque
che ’n te non sia la fé di che ti vanti:
ma che fu sol per crudeltà, qualunque
volta hai sprezzati i miei sùpplici pianti;
non per rispetto alcun d’Argeo, quantunque
tal scudo mi opponesti ognhora inanti.
Saria stato tra noi la cosa occulta;
ma quinci aperta infamia mi risulta».
45
«Non si convien (disse Philandro) tale
prologo a me, per il mio Argeo disposto.
Dimmi pur che ho da far, che serò quale
fui sempre, né cangiar voglio proposto;
e ben che a torto io ne riporti male,
a lui non ho questo peccato imposto.
Per lui son pronto andar sino alla morte,
e siami contra il mondo e la mia sorte».
46
Rispose l’empia: «Io voglio che tu spenga
colui che ’l nostro dishonor procura,
né dubitar di peggio che n’avenga;
ch’io te ne mostrerò la via sicura.
Debbe egli a me tornar come rivenga
su l’hora terza la notte più scura,
e farmi un cenno di ch’io l’ho previsto;
et io drento il torrò che non fia visto.
47
El non ti graverà prima aspettarme
ne la camera mia dove non luca,
tanto che dispogliar gli faccia l’arme
e come nudo in man te lo conduca».
Così la moglie conducesse parme
il suo marito alla tremenda buca;
se per dritto costei moglie s’appella,
più che furia infernal crudele e fella.
48
Poi che la notte scelerata venne,
fuor trasse il mio fratel col’arme in mano;
e ne la oscura camera lo tenne
fin che tornasse il miser Castellano.
Come ordine era dato, il tutto avenne;
ch’el consiglio del mal va raro invano:
così l’amico il fratel mio percosse,
che si pensò ch’Argeo Morando fosse.
49
Partìgli in un sol colpo il capo e il collo;
ch’elmo non v’era, e non vi fu riparo.
Pervenne Argeo senza pur dare un crollo
de la misera vita al fin amaro;
e tal l’uccise, che mai non pensollo,
né mai l’havria creduto: oh caso raro!
che cercando giovar, fece al amico
quel di che non si fa peggio al nemico.
50
Poscia ch’Argeo non connosciuto giacque,
rese a Gabrina il mio fratel la spada.
Gabrina è il nome di costei, che nacque
sol per tradire ognun che in man le cada.
Ella, ch’el ver sino a quell’hora tacque,
vuol che Philandro a riveder ne vada
col lume in mano il morto onde egli è reo:
e gli dimostra il suo compagno Argeo.
51
Et gli minaccia poi, se non consente
al amoroso suo lungo desire,
di palesare a tutta quella gente
quel ch’egli ha fatto, e nol può contradire;
e lo farà vituperosamente
(sì come suole un traditor) morire;
e gli racorda che sprezzar la fama
non de’, se ben la vita sì poco ama.
52
Pien di paura e di dolor rimase
Philandro, poi che del suo error s’accorse,
e quasi ch’el primo impeto suase
d’uccider questa; e stette un pezzo in forse:
e se non ch’era in le nemiche case,
che pur ne l’ira la ragion soccorse,
non si trovando havere altre arme in mano,
co’ denti la stracciava a brano a brano.
53
Come nel alto mar legno talhora
che da duo venti sia percosso e vinto,
c’hora uno inanzi l’ha mandato, et hora
un altro al primo termine respinto,
e l’han girato da poppa e da prora,
dal più possente al fin resta sospinto;
così Philandro, tra molte contese
de’ dui pensieri, al manco rio s’apprese.
54
Ragion gli dimostrò ’l pericol grande
(oltra il morir) del fin infame e sozzo,
se l’homicidio nel castel si spande;
e del pensare il termine gli è mozzo.
Voglia o non voglia, al fin convien che mande
l’amarissimo calice nel gozzo:
più finalmente nel afflitto core
de l’ostinatïon puoté il timore.
55
Il timor del supplicio infame e brutto
prometter fece con mille scongiuri
che faria di Gabrina il voler tutto,
se di quel luoco se partian sicuri.
Così per forza colse l’empia il frutto
del suo desir, e poi lasciâr quei muri.
Così Philandro a noi fece ritorno,
lasciando di sé in Grecia infamia e scorno.
56
E portò nel cor fisso il suo compagno,
che così scioccamente ucciso havea
per far, con sua gran noia, empio guadagno
d’una Progne crudel, d’una Medea.
E se la fede e il giuramento, magno
e duro freno, non lo ritenea,
come al sicuro fu, morta l’havrebbe;
ma quanto più si poté, in odio l’hebbe.
57
Non fu da indi in qua rider mai visto:
tutte le sue parole erano meste,
sempre suspir gli uscian del petto tristo;
et era divenuto un nuovo Horeste
poi che la madre uccise e il sacro Egisto,
e che l’ultrici Furie hebbe moleste.
E senza mai cessar, tanto l’afflisse
questo dolor, che infermo al letto el fisse.
58
Hor questa meretrice, che si pensa
quanto a quest’altro suo poco sia grata,
muta la fiamma già d’amore intensa
in odio, in ira ardente et arrabbiata;
né meno è contra al mio fratello accensa
che fusse contra Argeo la scelerata:
e dispone tra sé levar dal mondo,
come el primo marito, ancho el secondo.
59
Un medico trovò d’inganni pieno,
sufficïente et atto a simil uopo,
che sapea meglio uccider di veneno
che risanar l’infermi di siropo;
et gli promesse inanzi più che meno,
di quel che dimandò, donarli, dopo
c’havesse con mortifero liquore
levatole da gli occhi il suo signore.
60
Già, me presente e molte altre persone,
venìa col tòsco in mano il vecchio ingiusto,
dicendone esser buona potïone
da ritornare il mio fratel robusto.
Ma Gabrina con nuova intentïone,
pria che l’infermo ne turbasse il gusto,
per tôrse il consapevole da presso
o per non darli quel che havea promesso,
61
la man gli prese quando a punto dava
la tazza dove il tòsco era celato,
dicendo: «Ingiustamente è s’el ti grava
ch’io tema per costui c’ho tanto amato.
Voglio esser certa che bevanda prava
tu non gli dia, né succo avenenato;
et per questo mi par ch’el beveraggio
non habbi a dar, se non ne fai tu il saggio».
62
Come pensi, signor, che rimanesse
il miser veglio conturbato allhora?
La brevità del tempo sì l’oppresse,
che non puoté pensar che meglio fôra;
pur, per non dar maggior suspetto, elesse
il calice gustar senza dimora:
e l’infermo, seguendo una tal fede,
tutto il resto pigliò che si gli diede.
63
Come l’astor che nel piede griphagno
tenga la starna, e sia per trarne pasto,
dal can che si tenea fido compagno
ingordamente è sopraggiunto e guasto;
così il medico, intento al rio guadagno,
donde sperò sussidio hebbe contrasto.
Odi di summa audacia exempio raro!
e così avenga a ciascun altro avaro.
64
Fornito questo, il vecchio erasi messo,
per ritornarsi alla sua stanza, in via,
et usar qualche medicina appresso
che lo servasse da la peste ria;
ma da Gabrina non gli fu concesso,
dicendo non voler ch’andasse pria
che quel liquor nel stomacho digesto
non facesse il valor suo manifesto.
65
Nulla valse il pregarla o fare offerta
che mai gli concedesse il dipartire.
Il disperato, poi che vide certa
la morte sua, né la poter fuggire,
a’ circonstanti fe’ la cosa aperta;
né la seppe costei troppo coprire.
E così quel che fece a li altri spesso,
il medico alla fin fece a se stesso:
66
e seguitò coll’alma quella ch’era
già del mio frate caminata inanzi.
Noi circonstanti, che la cosa vera
dal vecchio udimmo, che fe’ pochi avanzi,
pigliammo questa abominevol fera,
d’ogn’altra più crudel che ’n selva stanzi;
e la serrammo in tenebroso luoco
per condennarla al meritato fuoco. –
67
Questo Hermonide disse, e gli voleva
seguir come ella di pregion levossi;
ma il dolor de la piaga sì l’aggreva
che pallido ne l’herba riversossi.
Intanto dui scudier, che seco haveva:
dentro una bara, che di rami grossi
tesser fatto s’havea, si fece porre;
ch’indi altrimente non si potea tôrre.
68
Zerbin con lui fece accettabil scusa,
che gli ’ncrescea d’haverli fatto offesa;
ma, come pur tra cavallieri s’usa,
colei che venìa seco havea difesa;
ch’altrimente sua fé serìa delusa:
perché, quando in sua guardia l’havea presa,
promisse a tutto suo poter salvarla
contra ognun che venisse a disturbarla.
69
E s’in altro potea gratificarli,
prontissimo offeriase alla sua voglia.
Rispose il cavallier che racordarli
sol vuol, che da Gabrina se discioglia
prima ch’ella habbia cosa a machinarli,
di che esso indarno poi si penta e doglia.
Gabrina tenne sempre gli occhi bassi,
perché risposta male al vero dassi.
70
Con la vecchia Zerbin quindi partisse
al già promesso debito vïaggio;
e tra sé tutto il dì la maledisse
che far gli fece a quel baron oltraggio.
Et hor che, per il mal che gli ne disse
chi lo sapea, di lei fu instrutto e saggio,
se prima l’havea a noia e dispiacere,
hor l’odia sì, che non la può vedere.
71
Ella che di Zerbin sa l’odio a pieno,
né in mala volontà vuole esser vinta,
un’oncia a lui non ne riporta meno:
la tien di quarta e la rifà di quinta.
Nel cor era gonfiata di veneno,
e nel viso altrimente era depinta.
Dunque ne la concordia ch’io vi dico
tenean lor via per mezo il bosco antico.
72
Ecco, volgendo il Sol verso la sera,
udiron gridi e strepito e percosse,
che facea segno di battaglia fiera
che, quanto era il rumor, vicina fosse.
Zerbino, per veder la cosa che era,
verso il rumore in gran fretta si mosse.
Non fu Gabrina lenta andarli drieto:
ma questo canto è al fine, et io m’accheto.

CANTO VIGESIMO

1
Cortesi donne e grate al vostro amante,
voi che d’un solo amor sète contente,
come che certo sia, fra tante e tante,
che rarissime sète in questa mente;
non vi dispiaccia quel che dissi inante
quando contra Gabrina fui sì ardente,
e se anchor son per spendervi alcun verso
di lei biasmando l’animo perverso.
2
Ella era tale; e come imposto fummi
da chi può in me, non preterisco il vero:
per questo io non oscuro li honor summi
d’una e d’un’altra che habbi il cor sinciero.
Quel ch’el Maestro suo per trenta nummi
diede a’ Iudei non nocque a Gianni o Piero;
né d’Hipermestra è la fama men bella,
se ben di tante inique era sorella.
3
Per una che biasmar cantando ardisco,
che l’ordinata historia così vuole,
lodarne cento incontra m’offerisco
e far lor virtù chiara più ch’el Sole.
Ma tornando al lavor che vario ordisco,
ch’a molti (lor mercé) grato esser suole,
del cavallier di Scotia vi dicea
ch’un alto grido appresso udito havea.
4
Entrò fra due montagne un stretto calle
onde uscia el grido, e non fu molto inante
che giunse dove in una chiusa valle
se vide un cavallier morto dinante.
Chi sia dirò; ma prima dar le spalle
a Francia voglio, e girmene in Levante,
tanto ch’io trovi Astolfo paladino
che vêr Ponente havea preso il camino.
5
Io lo lasciai ne la città crudele,
onde col suon del spaventoso corno
havea cacciato il populo infedele
e gran periglio toltose d’intorno,
et a’ compagni fatto alzar le vele
e dal lito fuggir con grave scorno.
Hor, seguendo di lui, dico che prese
la via d’Armenia, e uscì di quel paese.
6
E dopo alquanti giorni in Natalìa
trovossi, e verso Bursia il camin tenne;
onde, continuando la sua via
di qua dal mare, in Thracia se ne venne.
Lungo il Danubio andò per l’Ungaria;
e come havesse el suo caval le penne,
passò Moravia e li Boemmi in meno
di venti giorni, e la Franconia e il Rheno.
7
Per la selva d’Ardenna in Aquisgrana
giunse e in Barbante, e in Fiandra al fin s’imbarca.
L’aura che soffia verso Tramontana
la vela in guisa in su la prora carca,
che a mezo giorno Astolfo non lontana
vede Inghilterra, ove nel lito varca.
Salta a cavallo, e in tal modo lo punge
ch’a Londra quella sera anchora giunge.
8
Quivi sentendo poi che ’l vecchio Othone
già molti mesi inanzi era in Parigi,
e che di nuovo quasi ogni barone
havea imitato i suoi degni vestigi,
d’andar subito in Francia se dispone:
e così torna al porto di Tamigi
e quindi, poi che fuor nel mar si messe,
fece la prua drizzar verso Calesse.
9
Un ventolin, che liggiermente all’orza
ferendo, havea adescato il legno all’onda,
a poco a poco cresce e se rinforza;
poi vien sì, ch’al nocchier ne soprabonda.
Che li volti la poppa al fine è forza;
se non, li caccierà sotto la sponda:
per la schiena del mar tien dritto el legno,
e fa camin diverso al suo disegno.
10
Hor corre a destra, hor a sinistra mano,
di qua e di là dove fortuna il spinge;
in terra smonta al fin presso a Roano,
e come prima il dolce lito attinge
fa ritornar la sella a Rabicano,
e tutto s’arma e la spada si cinge.
Prende il camino, et ha seco quel corno
che gli val più che mille huomini intorno.
11
E giunse, traversando una foresta,
a piè d’un colle ad una chiara fonte
nel’hora ch’el monton di pascer resta,
chiuso in capanna o sotto un cavo monte.
E dal gran caldo e da la sete infesta
vinto, si trasse l’elmo de la fronte;
legò el caval tra le più spesse fronde,
e poi venne per bere alle fresche onde.
12
Non havea anchor messe le labra in molle,
ch’un villanel che s’ascondea lì appresso
sbuca fuor d’una macchia, e il caval tolle,
sopra vi sale e se ne va con esso.
Astolfo il rumor sente, e il capo extolle;
e poi che ’l danno suo vede sì expresso,
lascia la fonte, e satio senza bere
gli va drieto correndo a più potere.
13
Quel ladro non si stende a tutto corso,
che dileguato sì saria di botto;
ma hor lentando, hor ricogliendo il morso,
se ne va di galoppo e di buon trotto.
Escon del bosco dopo un gran discorso;
e l’uno e l’altro al fin si fu ridotto
là dove tanti nobili baroni
eran, senza pregion, più che prigioni.
14
Vien dritto il mal villan dentro al palazzo:
forza è che Astolfo di lontan lo segua;
che a piede, grave d’elmo e di spallazzo,
quel buon destrier nel corso non adegua.
Giunge egli anchora, e mira come pazzo
dove il villan sì presto si dilegua;
che più né lui né Rabicano vede,
e gira gli occhi, e indarno affretta el piede:
15
affretta el piede ricercando invano
loggie, corti, giardin, camare e sale;
né per trovare il perfido villano
di sua fatica nulla si prevale;
né sa dove habbia ascoso Rabicano,
quel suo famoso celere animale;
e senza frutto alcun tutto quel giorno
cercò di su di giù, dentro e d’intorno.
16
Connobbe al fin ch’el luoco era incantato:
giovolli in ciò l’usar con fate tanto;
e di quel libro si fu ricordato
che si trovava sempre havere a canto;
parlo del libro che gli fu donato,
che riparare insegna ad ogni incanto:
aperse quello, e nel indice presto
ritrovò dove scritto era di questo.
17
Scritto di questo incanto era diffuso
nel libro, e scritto appresso era in che modo
farà restar l’incantator confuso
e sciorrà a tutti quei prigioni il nodo.
Sotto la soglia de l’entrata chiuso
era il secreto e incomprensibil frodo
per cui tanti occhi vacillar faceva,
che può guastar, s’el limitar ne leva.
18
Desideroso di condurre a fine
el Paladin sì glorïosa impresa,
non tarda più ch’el braccio non inchine
a provar quanto il grave marmo pesa.
Come Atlante le man vede vicine
per far che l’arte sua sia vilipesa,
suspettoso di quel che può avenire,
lo va con nuovi incanti ad assalire.
19
Lo fa con dïaboliche sue larve
parer diverso a quel ch’esser solea:
gigante ad altri, ad altri un villan parve,
ad altri un cavallier di faccia rea.
Tutti quelli signori ad incitarve
gli venne contra; che ciascun credea
che fusse quel che gli havea al bosco tolto
quel che per sé ciascun prezzava molto.
20
Ruggier, Gradasso, Hiroldo, Bradamante,
Brandimarte, Prasildo, altri guerrieri
in questo nuovo error si fêro inante,
per distruggere il Duca accesi e fieri.
Se non che raccordossi in quello instante
del corno, ch’abbassar li animi altieri
e far vili potea col grave suono,
era morto da lor senza perdono.
21
Ma subito che quel si pone a bocca
e ch’el suon spaventevole et horrendo,
che fa tremar la terra e ’l ciel, ne scocca,
chi qua chi là li fa tornar fuggendo;
né men ch’a tutti gli altri fuggir tocca
a quello incantator, ch’esce temendo
del latebroso nido, e se ne slunga
quanto più può dove quel suon non giunga.
22
Fuggì el guardian con li prigioni; e dopo
de le stalle fuggîr molti cavalli,
ch’altro che fune a retenerli era uopo,
e seguiro i patron per varii calli.
In casa non restò gatta né topo
al suon che par che dica: Dàlli, dàlli.
Sarebbe ito con li altri Rabicano,
se non che al uscir venne al Duca in mano.
23
Astolfo, poi c’hebbe cacciato il Mago,
levò di su la soglia el grave sasso,
e vi ritrovò sotto alcuna imago
et altre cose che di scriver lasso:
e di distrugger quello incanto vago,
di ciò che vi trovò fece fraccasso
come gli mostra il libro che far debbia;
e sciolse quel palazzo in fumo e in nebbia.
24
Quivi trovò d’una catena d’oro
ch’el caval di Ruggier era legato;
parlo di quel ch’el Negromante Moro
per mandarlo ad Alcina gli havea dato;
a-ccui poi Logistilla fe’ il lavoro
del freno, onde era in Francia ritornato,
e girato dal’India alla Inghilterra
tutto havea il lato destro de la terra.
25
Non so se vi ricorda che la briglia
lasciò attaccata a l’arbore quel giorno
che nuda da Ruggier sparì la figlia
di Galafrone, e gli fe’ l’alto scorno.
Fe’ il volante destrier, con maraviglia
di chi lo vide, al mastro suo ritorno;
e con lui stette insin al giorno sempre,
che de l’incanto fur rotte le tempre.
26
Non potrebbe esser stato più giocondo
d’altra aventura Astolfo che di questa;
che per cercar la terra e il mar, secondo
c’havea disir, quel ch’a cercar gli resta,
e girar tutto in pochi giorni il mondo,
troppo venìa questo Hippogrypho a sesta.
Sapea egli ben quanto a portarlo era atto,
che l’havea altrove assai provato in fatto.
27
Cavalcato l’havea quel dì che tolto
(aiutando Melissa) fu di mano
a quella scelerata, che travolto
gli havea in ceppo silvestre il viso humano;
havea veduto poi come raccolto
gli havea sotto la briglia il capo vano
la savia Logistilla, e come instrutto
havea Ruggier di farlo andar per tutto.
28
Fatto disegno l’Hippogrypho tôrsi,
la sella sua, ch’appresso havea, gli messe;
e gli fece, levando da più morsi
una cosa et un’altra, un che lo resse;
che dei destrier ch’in fuga erano corsi,
quivi attaccate eran le briglie spesse.
Hora un pensier di Rabicano solo
lo fa tardar che non si lieva a volo.
29
D’amar quel Rabicano havea ragione;
che non n’era un miglior per correr lancia,
e l’havea da la extrema regïone
del’India cavalcato insino in Francia.
Pensa egli molto; e in summa se dispone
darne più presto ad un suo amico mancia
che, lasciandolo quivi in su la strada,
se l’habbia il primo che a passar vi accada.
30
Stava mirando se vedea venire
pel bosco o cacciatore o alcun villano,
da cui potesse farse indi seguire
a qualche terra, e trarvi Rabicano.
Tutto quel giorno e sino all’apparire
del altro stette riguardando invano;
l’altro matin, sendo anchor l’aer fosco,
veder gli parve un cavallier pel bosco.
31
Ma mi bisogna, s’io vuo’ dirvi il resto,
ch’io trovi Ruggier prima e Bradamante.
Poi che si tacque il corno, e che da questo
luoco la bella coppia fu distante,
si guardò insieme, e riconnobbe presto
quel che sin qui le havea nascoso Atlante:
fatto havea Atlante che sino a quell’hora
tra lor non s’eran connosciuti anchora.
32
Ruggier riguarda la sua donna, et ella
riguarda lui, con alta maraviglia
che tanti dì l’habbia offuscato quella
illusïon sì l’animo e le ciglia.
Hor che raggiunta è questa coppia bella
dopo una aspra e lunghissima vigiglia,
pigliò con pura mano i primi fiori
de li suoi honesti e di sé degni amori.
33
Tornaro ad iterar li abbracciamenti
mille fïate, et a tenersi stretti,
li dui felici amanti, e sì contenti
ch’a pena i gaudii lor capiano i petti.
Molto lor duol che per incantamenti,
mentre che fur ne li errabondi tetti,
tra lor non s’eran mai riconnosciuti,
e tanti lieti giorni eran perduti.
34
Bradamante, disposta di far tutti
li piaceri che far vergine saggia
debbia ad un suo amator, sì che de lutti
(sanza il suo honor offender) lo sottraggia,
disse a Ruggier, se a dar li ultimi frutti
lei non vuol sempre haver dura e silvaggia,
lasci Maumete e battizar si deggia,
e che per moglie al padre Amon la chieggia.
35
Ruggier, che tolto havria non solamente
viver christiano per amor di questa,
come era stato il padre e antiquamente
l’avolo e tutta la sua stirpe honesta;
ma, sperando aggradirle, immantinente
data l’havria la vita che gli resta,
rispose: – Non che in l’acqua, ma nel fuoco
per tuo amor porre il capo mi fia poco. –
36
Per battizarsi dunque, indi per sposa
la Donna haver, Ruggier si messe in via,
guidando Bradamante a Valspinosa
(così fu nominata una abbadia),
ricca e bella, né men religïosa,
e cortese a chiunque vi venìa;
e trovaro all’uscir de la foresta
donna che molto era nel viso mesta.
37
Ruggier, che sempre human, sempre cortese
era a ciascun, ma più alle donne molto,
come le belle lachryme comprese
cader rigando il delicato volto,
n’hebbe pietade, e di disir s’accese
di saper il suo affanno; et a lei volto,
dopo honesto saluto dimandolle
perché havea sì di pianto il viso molle.
38
Et ella, alzando i belli humidi rai,
humanissimamente gli rispose,
e la cagion de’ suoi penosi guai,
poi che le dimandò, tutta gli expose:
– Gentil signor (disse ella), intenderai
che queste guancie son sì lachrymose
per la pietà che a un giovinetto porto,
che in un castel qui presso hoggi fia morto.
39
Amando una gentil giovane e bella,
che di Marsiglio Re di Spagna è figlia,
sotto un vel bianco e in feminil gonnella,
finta la voce e il volger de le ciglia,
egli ogni notte si giacea con quella
senza darne sospetto alla famiglia:
ma sì secreto essere alcun non puote,
che al lungo andar non sia chi el veggia o note.
40
Se ne accorse uno, e ne parlò con dui;
li dui con altri, insin che al Re fu detto.
Venne un fedel del Re l’altrhieri a nui,
c’ha preso li duo amanti insieme in letto,
e ne la ròcca fattoli ambedui
divisamente chiudere in distretto:
né credo per tutto hoggi c’habbia spatio
el Gioven, che non mora in pena e in stratio.
41
Fuggita me ne son per non vedere
tal crudeltà; che vivo l’arderanno:
né cosa mi potrebbe più dolere
che faccia di sì bel giovene il danno;
né potrò haver già mai tanto piacere
che non si volga subito in affanno,
che de la crudel fiamma mi rimembri
c’habbia arsi i belli e delicati membri. –
42
Bradamante ode, e par ch’assai le prema
questa novella, e molto il cor le annoi;
né par che men per quel dannato tema
che se fusse un de li fratelli suoi.
Né certo la paura in tutto scema
era di causa, come io dirò poi.
Si volse ella a Ruggier, e disse: – Parmi
ch’in favor di costui sian le nostre armi. –
43
E disse a quella mesta: – Io ti conforto
che tu veggia di porne entro alle mura;
che se ’l giovene anchor non havran morto,
più non l’uccideran, stanne sicura. –
Ruggiero, havendo il cor benigno scorto
de la sua donna e la pietosa cura,
sentì tutto infiammarsi di desire
di non lasciar quel giovene morire.
44
Et a colei c’havea l’humide guance:
– Non pianger – disse, – e di noi fa’ la prova:
trarren di mille spade e mille lance
el giovene, s’anchor vivo si truova.
Forse queste parole estimi ciance,
sì come avien di cosa rara e nuova:
perdere i passi tu arriscar ti puoi,
se s’arrischiàn perder la vita noi. –
45
L’alto parlare e la fiera sembianza
di quella coppia a maraviglia ardita
hebbeno forza di tornar speranza
colà donde era già tutta fuggita.
Restava un dubbio, e per la lontananza
e perch’era la strada ancho impedita:
questo facea la Donna star suspesa
che la fatica invan non fusse spesa.
46
Disse ella lor: – Facendo noi la via
che dritta e piana va sino a quel luoco,
credo che a tempo vi se giungeria
che non serebbe anchor acceso il fuoco:
ma gir convien per così torta e ria,
che ’l termine d’un giorno serìa poco
a reuscirne; e in spatio assai più corto
so ben che fia quel bel giovene morto. –
47
– E perché non andiàn (disse Ruggiero)
per la più corta? – E la donna rispose:
– Perché un castel de’ conti da Pontiero
tra via si truova, ove un costume pose,
non son tre giorni anchora, iniquo e fiero
a cavallieri e donne aventurose,
Pinabello, il peggior huomo che viva,
figliuol del conte Anselmo d’Altariva.
48
Quindi né cavallier né donna passa
che se ne vada senza ingiurie e danni:
l’uno e l’altro a piè resta; ma vi lassa
il guerrier l’arme, e la donzella i panni.
Miglior cavallier lancia non abbassa,
e non abbassò in Francia già molt’anni,
di quattro che giurato hanno al castello
la legge mantener di Pinabello.
49
Come l’usanza (che non è più antiqua
di tre dì) cominciò, ti vuo’ narrare;
e se fu dritta causa o pur obliqua
che tali cavallier fece giurare.
Pinabello ha una donna così iniqua,
così bestial, che al mondo è senza pare;
che con lui, non so dove, andando un giorno,
ritrovò un cavallier che le fe’ scorno.
50
El cavallier, perché da lei beffato
fu d’una vecchia che portava in groppa,
giostrò con Pinabel ch’era dotato
di poca forza e di superbia troppa;
et abbattello, e lei smontar nel prato
fece, e provò s’andava dritta o zoppa:
lasciolla a piede e le levò la gonna,
e ne fe’ dono alla sua vecchia donna.
51
Quella che a piè rimase, dispettosa
e di vendetta ingorda e sitibonda,
congiunta a Pinabel, che d’ogni cosa
dove sia da mal far, ben la seconda,
né giorno mai né notte mai riposa,
e dice che non fia mai più gioconda
se mille cavallier e mille donne
non mette a piedi, e tol lor arme e gonne.
52
Giunsero il dì medesmo (come accade)
quattro gran cavallieri ad un suo luoco,
li quai di remotissime contrade
venuti in queste parti eran di poco;
di tal valor, che non ha nostra etade
tant’altri buoni al bellicoso giuoco:
Aquilante, Griphone e Sansonetto,
et un Guidon Silvaggio giovinetto.
53
Pinabel con sembiante assai cortese
al castel ch’io v’ho detto li raccolse.
La notte poi tutti nel letto prese,
e presi tenne; e prima non li sciolse
che li fece giurar che un anno e un mese
(questo fu a punto il termine che tolse)
stariano quivi, e spogliarebbon quanti
vi capitasson cavallieri erranti;
54
e le donzelle c’havesson con loro
porriano a piedi e torrian lor le vesti.
Così giurâr, così constretti fôro
ad osservar, ben che turbati e mesti.
Non par che sino a qui contra costoro
alcun possa giostrar ch’a piè non resti:
e capitati vi sono infiniti
ch’a piè e senza arme son tutti partiti.
55
È ordine tra lor, che chi per sorte
esce fuor prima, vada a correr solo:
ma se truova il nemico così forte
che resti in sella, e getti lui nel suolo,
sono ubligati li altri insino a morte
pigliar l’impresa tutti tre in un stuolo.
Vedi hor, se ciascun d’essi è così buono,
quel che esser de’ se tutti insieme sono.
56
Poi non conviene alla importantia nostra
che ne vieta ogni indugia, ogni dimora,
che se habbiamo fermare a quella giostra
(e presuppono che vinciate anchora,
che vostra alta presentia lo dimostra);
ma non è cosa da fare in una hora:
et è gran dubbio che ’l giovene s’arda,
se tutto hoggi a soccorrerlo si tarda. –
57
Disse Ruggier: – Non riguardiamo a questo:
facciamo pur quel che si può per nui;
habbia chi regge il ciel cura di questo,
o la Fortuna, se non tocca a lui.
Ti fia per questa giostra manifesto
se buoni semo d’aiutar colui
che per cagion sì frivola e sì leve
(come m’hai detto) hoggi bruciar si deve. –
58
Senza responder altro, la donzella
si messe per la via che era più corta.
Più di tre miglia non andâr per quella,
che si trovaro al ponte et alla porta
dove si perdon l’arme e la gonnella,
e de la vita gran dubbio si porta.
Al primo apparir lor, di su la ròcca
è chi duo botti la campana tocca.
59
Et ecco de la porta con gran fretta,
trottando s’un roncino, un vecchio uscìo;
e quel venìa gridando: – Aspetta, aspetta:
fermatevi, che qui si paga el fio;
e se l’usanza non v’è stata detta
che qui si tiene, hor ve la vuo’ dir io. –
E contar lor incominciò di quello
costume, che servar fa Pinabello.
60
Poi seguitò, volendo dar consigli,
come era usato a gli altri cavallieri:
– Fate spogliar la donna (dicea), figli,
e voi lasciate l’arme e li destrieri;
e non vogliate mettervi a perigli
d’andare incontra a tai quattro guerrieri:
per tutto vesti, arme e cavalli s’hanno;
la vita sol mai non ripara il danno. –
61
– Non più (disse Ruggier), non più; ch’io sono
del tutto informatissimo, e qui venni
per far prova di me, se così buono
in fatti son, come nel cor mi tenni.
Arme, vesti e caval altrui non dono,
s’altro non sento che minaccie e cenni;
e son ben certo anchor, che per parole
el mio compagno le sue dar non vuole.
62
Ma, per dio, fa’ ch’i’ veggia presto in fronte
quei che ne voglion tôrre arme e cavallo;
c’havemo da passar ancho quel monte,
e qui non si può far troppo intervallo. –
Rispose il vecchio: – Eccoti fuor del ponte
chi vien per farlo, – e non lo disse in fallo;
ch’un cavallier n’uscì, che sopraveste
vermiglie havea, di bianchi fior conteste.
63
Bradamante pregò molto Ruggiero
che le lasciasse in cortesia l’assunto
di gettar de la sella il cavalliero
c’havea di fiori il bel vestir trappunto;
ma non puoté impetrarlo, e fu mestiero
a lei far ciò che Ruggier vòlse a punto:
egli vòlse la impresa tutta havere,
e Bradamante si stesse a vedere.
64
Ruggiero al vecchio dimandò chi fosse
questo primo che uscia fuor de la porta.
– Sansonetto è (disse egli), che le rosse
veste trappunte a bianchi fiori porta. –
L’uno di qua, l’altro di là si mosse
senza parlarsi, e fu la indugia corta;
che s’andaro a trovar coi ferri bassi,
molto affrettando i lor destrieri i passi.
65
In questo mezo de la ròcca usciti
eran con Pinabel molti pedoni,
per dispogliar accinti et expediti
s’al scontro uscia Ruggier fuor de li arcioni.
Veniansi incontra i cavallieri arditi
fermando in su le reste i gran lancioni,
grossi duo palmi, di nativo cerro,
che quasi erano uguali insino al ferro.
66
Di tali n’havea più d’una decina
fatto tagliar di su lor ceppi vivi
Sansonetto a una selva indi vicina,
e portatone dui per giostrar quivi:
che sia buon scudo et armatura fina
bisogna ben, che lor percosse schivi.
Haveane fatto dar, tosto che venne,
l’uno a Ruggier, l’altro per sé ritenne.
67
Con questi, che passar devean l’incudi,
sì ben ferrate havean le punte extreme,
di qua e di là fermandoli ne’ scudi
a mezo il corso si scontraro insieme.
Quel di Ruggier, che li demoni ignudi
fece sudar, poco del colpo teme:
parlo del scudo che havea fatto Atlante,
de le cui forze io v’ho già detto inante.
68
Io v’ho già detto che con tanta forza
d’incantato splendor ne li occhi fere,
ch’al discoprirsi ogni veduta ammorza
e trammortito l’huom fa rimanere;
per ciò, s’un gran bisogno non lo sforza,
d’un vel coperto lo solea tenere.
Si crede ch’ancho impenetrabil fosse,
poi che a questo incontrar nulla si mosse.
69
L’altro, c’hebbe l’artifice men dotto,
il gravissimo colpo non sofferse:
come tocco da fulmine, di botto
diè luoco al ferro e pel mezo s’aperse;
diè luoco al ferro, e quel trovò di sotto
il braccio che assai mal si ricoperse;
sì che ne fu ferito Sansonetto,
e de la sella tratto al suo dispetto.
70
Esso fu il primo di quelli compagni,
che quivi mantenian l’usanza fella,
che de le spoglie altrui non fe’ guadagni
e che alla giostra uscì fuor de la sella.
Ragion è ben che Fortuna si cagni,
che sempre non può star propitia e bella.
Quel da la ròcca, replicando il botto,
ne fece a gli altri cavallieri motto.
71
S’era accostato Pinabello intanto
a Bradamante, per saper chi fusse
colui che con prodezza e valor tanto
el cavallier del suo castel percusse.
La giustitia di Dio, per darli quanto
era il merito suo, ve lo condusse
su quel destrier medesimo che inante
tolto havea per inganno a Bradamante.
72
Fornito a punto era l’ottavo mese
che, con lei ritrovandosi a camino,
(s’el vi racorda) questo Maganzese
l’havea gettata in l’antro di Merlino,
quando da morte un ramo la difese
che seco cadde, anzi il suo buon destino;
e trassene, credendo che nel speco
fosse morta e sepolta, il caval seco.
73
Bradamante connosce il suo cavallo
e connosce per lui l’iniquo Conte;
e poi ch’ode la voce, e vicino hallo
con maggiore attention mirato in fronte,
– Questo è il traditor – disse, – senza fallo,
che procacciò di farmi oltraggio et onte:
ecco il peccato suo che l’ha condutto
ove havrà de’ suoi merti il premio tutto. –
74
El minacciare e il por mano alla spada
fu tutto a un tempo, e l’aventarsi a quello;
ma nanzi tratto gli levò la strada,
che non puoté fuggir verso il castello.
Tolta la speme ch’a salvar si vada
questa volpe alla tana, Pinabello,
mercé gridando e senza mai far testa,
fuggendo si cacciò ne la foresta.
75
Pallido e sbigottito il miser sprona,
che posto ha nel fuggir l’ultima speme.
L’animosa Donzella di Dordona
gli ha il ferro a’ fianchi, e lo percuote e preme:
vien con lui sempre e mai non l’abbandona;
grande è il rumor, e il bosco intorno geme.
Nulla al castel di questo anchor s’intende,
perhò ch’ognuno a Ruggier solo attende.
76
Li altri tre cavallier de la fortezza
intanto erano usciti, e in compagnia
havean quella sdegnosa e male avezza
che v’havea posta la costuma ria;
e ciascun d’essi tre, che ’l morir prezza
più c’haver vita che con biasmo sia,
di vergogna arde, e d’ira scoppia e duolo,
che tanti ad assalir vadano un solo.
77
La crudel meretrice, c’havea fatto
poner l’iniqua usanza et osservarla,
il giuramento lor racorda e il patto
ch’essi fatto le havean di vendicarla.
– Se sol con questa lancia ti li abbatto,
perché mi vuoi con altre accompagnarla? –
dicea Guidon Selvaggio; – e s’io ne mento,
levami il capo poi, ch’io son contento. –
78
Così dicea Griphon, così Aquilante;
giostrar da sol a sol volea ciascuno,
e preso e morto rimanere inante
che in la battaglia haver vantaggio alcuno.
La Donna dicea lor: – A che usar tante
parole qui senza profitto alcuno?
Per tôrre a colui l’arme io ve ho qui tratti,
non per far nuove leggi e nuovi patti.
79
Quando io v’havea in pregion, devate farme
queste excuse, et non hor, che sono tarde.
Voi dovete il preso ordine servarme,
non vostre lingue far vane e bugiarde. –
Ruggier gridava lor: – Eccove l’arme,
ecco ’l destrier che ha nuovo e sella e barde;
li panni de la Donna eccove anchora:
se li volete, a che più far dimora? –
80
La Donna del castel da un lato preme,
Ruggier da l’altro chiamali e rampogna,
tanto che a forza si spiccaro insieme,
ma nel viso infiammati di vergogna.
Dinanzi apparve l’uno e l’altro seme
del Marchese honorato di Borgogna;
ma Guidon, che più grave hebbe il cavallo,
seguia lor drieto con poco intervallo.
81
Con la medesima hasta con che havea
Sansonetto abbattuto, Ruggier viene,
coprendosi col scudo che solea
Atlante haver su i monti di Pyrene:
dico quello incantato che splendea
tanto, che humana vista nol sostiene;
a-ccui Ruggier per ultimo soccorso
nei più gravi perigli havea ricorso;
82
ben che sol tre fïate bisognolli,
e certo in gran perigli, usarne il lume:
le prime due, quando dai regni molli
si trasse a più lodevole costume;
la terza, quando i denti mal satolli
lasciò del’Orca in le marine spume,
che devean manicar la bella nuda
che fu a chi la campò poi così cruda.
83
Fuor che queste tre volte, tutto il resto
sotto un velo di seta il tenea ascoso,
in guisa che scoprir lo potea presto
che del suo aiuto fosse bisognoso.
Quivi alla giostra ne venìa con questo,
come io v’ho detto anchora, e sì animoso,
che li tre cavallier che vedea inanti
manco temea che pargoletti infanti.
84
Ruggier scontra Griphon proprio alla penna
del scudo, ove alla vista se congiunge:
quel di cader da ciascun lato accenna,
et al fin cadde, e resta al caval lunge.
Griphon nel scudo a lui mette l’antenna;
ma per traverso e non pel dritto giunge:
e perché lo trovò forbito e netto,
l’andò slisciando e fe’ contrario effetto.
85
Ruppe il velo e squarciò, che gli copria
el spaventoso et incantato lampo,
al cui splendor cader se convenia
con gli occhi ciechi, e non vi s’ha alcun scampo.
Aquilante, che a par seco venìa,
stracciò l’avanzo, e il scudo gettò vampo:
el splendor ferì in li occhi ai duo fratelli
et a Guidon, che correa dopo quelli.
86
Chi di qua, chi di là cade per terra:
el scudo non pur lor li occhi abbarbaglia,
ma fa che ogni altro senso attonito erra.
Ruggier, che non sa il fin de la battaglia,
volta il cavallo; e nel voltare afferra
la spada sua che sì ben punge e taglia:
e nesun vede che gli sia all’incontro;
che tutti eran caduti a quello inscontro.
87
E con li cavallier, quelli che a piede
erano usciti, e così le donne ancho,
e così li destrieri in guisa vede
che par che per morir battano il fianco.
Prima si maraviglia, e poi s’avede
ch’el velo ne pendea dal lato manco:
dico il velo di seta in che solea
chiuder la luce di quel caso rea.
88
Presto si volge, e nel voltar, cercando
con gli occhi va l’amata sua guerriera;
e vien là dove era rimasa, quando
la prima giostra cominciata s’era.
Pensa ch’andata sia (non la trovando)
a divietar che ’l giovene non pèra,
per dubbio ch’ella ha forse che non s’arda
in questo mezo che a giostrar si tarda.
89
Fra gli altri che giacean vede la donna,
la donna che l’havea quivi guidato;
in braccio se la tol sì come assonna,
e via cavalca e par tutto turbato.
D’un manto ch’essa havea sopra la gonna
poi ricoperse quel scudo incantato;
li sensi rëhaver le fece, tosto
ch’el nocivo splendor l’hebbe nascosto.
90
Via se ne va Ruggier con faccia rossa
che per vergogna di levar non osa:
gli par che ognuno improverar gli possa
quella vittoria poco glorïosa.
– Che emenda poss’io fare, onde rimossa
mi sia una colpa tanto obbrobrïosa?
che ciò ch’io vinsi mai, fu per favore,
diran, d’incanti, e non per mio valore. –
91
Mentre così pensando seco giva,
venne in quel che cercava a dar di cozzo;
che in mezo de la strada soprarriva
dove profondo era cavato un pozzo.
Quivi l’armento in la calda hora estiva
si ritrahea, poi c’havea pieno il gozzo.
Disse Ruggier: – Hor proveder bisogna,
che non mi faccia il scudo più vergogna.
92
Più non starà egli meco; e questo sia
l’ultimo biasmo c’ho d’haverne al mondo. –
Così dicendo, smonta ne la via:
piglia una grossa pietra e di gran pondo,
la lega al scudo, e l’uno e l’altro invia
per l’alto pozzo a ritrovarne il fondo;
e dice: – Costà giù stati sepulto,
e teco stia sempre il mio obbrobrio occulto. –
93
Cavo era il pozzo, e pieno al summo d’acque;
grieve era il scudo, e quella pietra grieve:
non si fermò fin che nel fondo giacque;
sopra si chiuse el liquor molle e lieve.
El nobil atto, e di splendor, non tacque
la vaga Fama, e divolgollo in brieve;
e ne fe’ grida publica col corno
per Francia, Spagna e le provincie intorno.
94
Poi che di voce in voce si fe’ questa
strana aventura (che la donna prima
la disse) in ogni parte manifesta,
molti signori e cavallier di stima
per ritrovar se misero in inchiesta
dove sott’acqua il sasso il scudo opprima:
ma non so che ad alcun mai riuscisse;
che dove era quel pozzo ella non disse.
95
Al partir che Ruggier fe’ dal castello,
dove havea vinto con poca battaglia;
che i quattro gran campion di Pinabello
fece restar come huomini di paglia;
levando il scudo, havea levato quello
lume che gli occhi e li animi abbarbaglia:
e quei che giacciuti eran come morti,
pieni di maraviglia eran resorti.
96
Né per tutto quel giorno si favella
altro fra lor che di quel strano caso,
e come fu che ciascun d’essi a quella
horribil luce vinto era rimaso.
Mentre parlan di questo, la novella
vien lor di Pinabel giunto al occaso:
che Pinabello è morto hanno l’aviso,
ma non sanno perhò chi l’habbia ucciso.
97
L’ardita Bradamante in questo mezo
giunto havea Pinabello a un passo stretto;
e cento volte gli havea sin a mezo
messo il brando pei fianchi e per il petto.
Tolto c’hebbe dal mondo il puzzo e il lezo
che tutto intorno havea il paese infetto,
le spalle al bosco testimonio volse,
ma primamente il suo caval si tolse.
98
Vòlse tornar dove lasciato havea
Ruggier; né mai seppe trovar la strada.
Hor per valle hor per monte s’avolgea:
tutta quasi cercò quella contrada;
e mai non vuol la sua fortuna rea
che truovi via donde a Ruggier si vada.
Questo altro canto ad ascoltare aspetto
chi de la historia mia piglia diletto.

CANTO VIGESIMOPRIMO

1
Studisi ognun giovar altrui, che rade
volte esser suol che senza premio sia;
e se pur senza, almen non te ne accade
morte né danno né ignominia ria.
Chi nuoce altrui sia certo, o verno o stade,
ch’a qualche tempo vendetta ne fia:
dice il proverbio ch’a trovar si vanno
li huomini spesso, e i monti immobil stanno.
2
Hor vedi quel che a Pinabello aviene
per essersi portato iniquamente:
è giunto finalmente a dar le pene
de la sua trista e scelerata mente.
E Dio, che le più volte non sostiene
veder perire a torto uno innocente,
salvò la Donna; e salverà ciascuno
che d’ogni fellonia viva digiuno.
3
Credette Pinabel questa Donzella
già d’haver morta, e colà giù sepulta;
né la pensava mai veder, non ch’ella
gli havesse a tôr de’ danni suoi la multa.
Né per trovarsi in mezo le castella
del padre, in alcun utile resulta:
quivi Altaripa era tra monti fieri
vicina al territorio di Pontieri.
4
Tenea quella Altaripa il vecchio conte
Anselmo, di ch’uscì questo malvagio
che, per fuggir la man di Chiaramonte,
d’amici e di soccorso hebbe disagio.
La Donna al traditore a piè d’un monte
tolse l’indegna vita a suo grande agio;
che d’altro aiuto quel non si provede
che d’alti gridi e invan chieder mercede.
5
Morto ch’ella hebbe il falso cavalliero
che lei voluto havea già porre a morte,
vòlse tornar dove lasciò Ruggiero;
ma non lo consentì sua dura sorte,
che la fe’ travïar per un sentiero
che la portò dove più denso e forte
era, e più strano e solitario el bosco,
lasciando il Sol già il mondo all’aer fosco.
6
Né sapendo ella ove potersi altrove
la notte riparar, si fermò quivi
sotto le frasche in su l’herbette nuove,
parte dormendo, sin ch’el giorno arrivi,
parte mirando hora Saturno hor Giove,
Venere e Marte e li altri erranti divi;
ma sempre, o vegghia o dorma, con la mente
contemplando Ruggier come presente.
7
Spesso di cor profondo ella suspira,
di pentimento e di dolor compunta,
c’habbia in lei, più che amor, possuto l’ira.
– L’ira – dicea – m’ha dal mio amor disgiunta:
almen ci havessi io posta alcuna mira,
poi che havea pur la mala impresa assunta,
di saper ritornar donde veniva;
che ben fui d’occhi e di memoria priva. –
8
Queste et altre parole ella non tacque,
e molto più ne ragionò col core;
il vento intanto di suspiri, e l’acque
di pianto facean pioggia di dolore.
Dopo una lunga aspettation, pur nacque
in orïente il disïato albóre:
et ella prese il suo destrier ch’intorno
iva pascendo, et andò contra il giorno.
9
Né molto andò, che si trovò all’uscita
del bosco, appresso u’ dianzi era il palagio,
là dove molti dì l’havea schernita
con tanto error l’incantator malvagio.
Ritrovò quivi Astolfo, che fornita
la briglia all’Hippogrypho havea a grande agio
e stava in gran pensier di Rabicano,
per non sapere a chi lasciarlo in mano.
10
A caso si trovò che fuor di testa
l’elmo allhor s’havea tratto il paladino;
sì che tosto ch’uscì de la foresta,
Bradamante connobbe el suo cugino.
Di lontan salutollo, e con gran festa
gli corse et abbracciò poi più vicino;
e nominossi, e alzando la visera
chiaramente veder gli fece chi era.
11
Non potea ritrovar meglio persona
a proposito Astolfo, a chi lasciasse
quel Rabican, perché devesse buona
custodia haverne fin che egli tornasse,
de la figlia del Duca di Dordona;
e parvegli che Dio gli la mandasse:
vederla volentier sempre solea,
ma pel bisogno hor più, che egli n’havea.
12
Da poi che due e tre volte ritornati
fraternamente ad abbracciar si fôro,
e si fôr l’uno a l’altro dimandati
con molta affettïon del esser loro,
disse Astolfo: – A cercar de li pennati
la regïone homai troppo dimoro; –
et aprendo alla donna il suo pensiero,
veder le fece il volator destriero.
13
A lei non fu di molta maraviglia
veder spiegar a quel destrier le penne,
ch’altra volta, reggendogli la briglia
Atlante incantator, contra le venne;
e le fece doler gli occhi e le ciglia,
drieto al volo di lui sì fissi tenne
quel giorno che da lei per camin strano
fu portato Ruggier tanto lontano.
14
Astolfo disse a lei che le volea
dar Rabican, che sì nel corso affretta,
che s’al scoccar del arco si movea,
si lasciava dirieto la saetta;
e tutte l’arme anchor, quante n’havea,
che vuol che a Monte Alban gli le rimetta
e gli riserbi sino al suo ritorno;
che non gli fanno hor di bisogno intorno.
15
Volendosene andar per l’aria a volo,
haveasi a far quanto potea più leve:
tiense la spada e il corno, anchor che solo
bastargli il corno ad ogni rischo deve.
Bradamante la lancia ch’el figliuolo
portò di Galafrone ancho riceve,
la lancia che di quanti ne percuote
fa le selle restar subito vuote.
16
Salito Astolfo sul destrier volante,
lo fa mover per l’aer, mansueto;
indi lo caccia sì, che Bradamante
non gli può più venir con gli occhi drieto.
Così si parte col pilota inante
di porto infido il marinar discreto,
che poi che ’l lito e i scogli a drieto lassa,
spiega ogni vela e inanzi al vento passa.
17
La donna, poi che fu partito il Duca,
rimase in gran travaglio de la mente;
che non sa come a Montalban conduca
l’armatura e il caval del suo parente;
perhò ch’el cor le cuoce e le manuca
l’ingorda voglia e il desiderio ardente
di riveder Ruggier che, se non prima,
a Valspinosa ritrovar sel stima.
18
Stando quivi suspesa, di ventura
si vide capitar nanzi un villano,
da cui fe’ rassettar quella armatura
come si puòte, e por su Rabicano;
poi di menarse drieto gli diè cura
li dui destrieri, un carco e l’altro a mano:
ella n’havea dui prima; c’havea quello
sopra cui tolse l’altro a Pinabello.
19
Di Valspinosa pensò far la strada,
che trovar quivi il suo Ruggier ha speme;
ma qual più breve o qual miglior vi vada
poco discerne, e d’ire errando teme.
El villan non havea de la contrada
pratica molta; et erraranno insieme.
Pur andare a ventura ella si messe,
dove pensò ch’el luoco esser devesse.
20
Di qua e di là si volse, né persona
incontrò mai da dimandar la via.
Si trovò uscir del bosco in su la nona
dove non lungi un monticel scopria,
di cui la cima un gran castel corona.
Lo mira, e Montalban parle che sia:
et era certo Montalbano; e in quello
havea la matre et alcun suo fratello.
21
Come la Donna connosciuto ha il luoco,
nel cor s’attrista, e più che non so dire:
che fia scoperta se si ferma un poco,
né più le serà lecito a partire;
se non si parte, l’amoroso fuoco
l’arderà sì, che la farà morire;
non vedrà più Ruggier, né farà cosa
di quel ch’era ordinato a Valspinosa.
22
Stette alquanto a pensar; poi si risciolse
di voler dare a Montalban le spalle,
e verso l’Abbadia pur se rivolse;
che quindi ben sapea qual era il calle.
La sua fortuna, o buona o trista, vòlse
che prima ch’ella uscisse de la valle
scontrasse Alardo, un de’ fratelli sui;
e non hebbe agio ascondersi da lui.
23
Veniva da partir li alloggiamenti
per quel contado a cavallieri e fanti;
ch’ad instantia di Carlo nuove genti
fatto havea de le terre circonstanti.
E’ saluti e’ fraterni abbracciamenti
con le grate accoglienze andaro inanti;
e poi, di molte cose a paro a paro
tra lor parlando, in Montalban tornaro.
24
Entrò la bella donna in Montalbano,
dove l’havea con lachrymosa guancia
Beatrice molto disïata invano,
e fattone cercar per tutta Francia.
Quivi li baci e il giunger mano a mano
di matre e de fratelli extimò ciancia
verso li havuti con Ruggier complessi,
c’havrà nel’alma eternamente impressi.
25
Non potendo ella andar, fece pensiero
ch’a Valspinosa altri in suo nome andasse
immantinente ad avisar Ruggiero
de la cagion ch’andar lei non lasciasse;
e lui pregar (s’era pregar mistero)
che quivi per suo amor si battizasse,
e poi venisse a far quanto era detto,
sì che si desse al matrimonio effetto.
26
Pel medesimo messo fe’ disegno
di mandar a Ruggiero il suo cavallo
che gli solea tanto esser caro: e degno
d’essergli caro era ben senza fallo;
che non s’havria trovato in tutto il regno
de’ Saracin, né sotto il signor Gallo,
più bel destrier di questo o più gagliardo,
excetti Brigliador, soli, e Baiardo.
27
Ruggier, quel dì che troppo audace ascese
sul Hippogrypho e verso il ciel levosse,
lasciò Frontino, e Bradamante il prese
(Frontino, ch’el destrier così nomosse);
mandollo a Montalbano, e a buone spese
tener lo fece, e mai non cavalcosse
se non per breve spatio e a piccol passo;
sì ch’era più che mai lucido e grasso.
28
Ogni sua donna presto, ogni donzella
pon seco in opra, e con suttil lavoro
fa sopra seta candida e morella
tesser riccamo di finissimo oro;
e di quel copre et orna briglia e sella
del buon destrier: poi sceglie una di loro,
figlia di Callitrephia sua nutrice,
d’ogni secreto suo fida uditrice.
29
Quanto Ruggier l’era nel core impresso
mille volte narrato havea a costei;
la beltà, la virtù, li modi d’esso
exaltato le havea sopra li dèi.
A sé chiamolla, e disse: – Miglior messo
a tal bisogno elegger non potrei
di te; che di più fido e di più saggio
veder, Hippalca mia, di te non haggio. –
30
Hippalca la donzella era nomata.
– Va’, – le dice (e l’insegna ove debbe ire);
e pienamente poi l’hebbe informata
di quanto havesse al suo signor a dire
in far la scusa se non era andata
al monastier: che non fu per mentire,
ma colpa di Fortuna, che l’havea
fatto in questo ogni ingiuria che potea.
31
Dielle il destrier, e commandò che drieto
se lo menasse vuoto; e se occorresse
alcun tra via, che sì fusse indiscreto
ch’ad una donna il caval tôr volesse;
per farlo star a una parola cheto,
chi ne fusse il patron sol gli dicesse;
che non sapea sì ardito cavalliero
che non tremasse al nome di Ruggiero.
32
Di molte cose l’ammonisce e molte,
che trattar con Ruggier habbia in sua vece;
qual poi che bene Hippalca hebbe raccolte,
si pose in via, né più dimora fece.
Per strade e campi e selve oscure e folte
cavalcò de le miglia più di diece;
che non fu a darle noia chi venisse,
né a dimandarla pur dove ne gisse.
33
Nel mezo giorno, nel calar d’un monte,
in una stretta e malagevol via
si venne ad incontrar con Rodomonte,
ch’armato un piccol Nano e a piè seguia.
El Moro alzò vêr lei l’altiera fronte,
e biastemmiò l’eterna Hierarchia
poi che sì bel caval, sì bene ornato,
non havea in man d’un cavallier trovato.
34
Havea giurato ch’el primo cavallo
torria per forza, che tra via incontrassi.
Hor questo è stato il primo; e trovato hallo
più bello, più per lui che mai trovassi:
ma tôrlo a una donzella gli par fallo;
e pure agogna haverlo, e in dubbio stassi.
Lo mira, lo contempla, e dice spesso:
– Deh perché il suo signor non è con esso! –
35
– Deh ci fusse egli! (gli rispose Hippalca)
che ti faria cangiar forse pensiero.
Assai più di te val chi lo cavalca,
né lo pareggia al mondo altro guerriero. –
– Chi è (le disse il Moro) che sì calca
l’honore altrui? – Rispose ella: – Ruggiero. –
E quel suggiunse: – Adunque il destrier voglio,
poi ch’a Ruggier, sì gran campion, lo toglio.
36
Che se più val di me (come tu parli)
e di quanti altri al mondo vestono arme,
serò sforzato il suo cavallo a darli
qual volta parrà a lui non lo lasciarme.
Che Rodomonte io sono, hai da narrarli;
e se pur gli dà il cor di seguitarme,
havrà di me di giorno in giorno spia:
che non si può occultar la luce mia.
37
Dovunque io vo sì gran vestigio resta,
che non lo lascia il fulmine maggiore. –
Così dicendo, havea tornate in testa
le redine dorate al corridore:
sopra gli salta; e lachrymosa e mesta
rimane Hippalca, e spinta dal dolore
minaccia Rodomonte e gli dice onta:
non l’ascolta esso, e su pel poggio monta.
38
Per quella via, dove lo guida il Nano
per trovar Mandricardo e Doralice,
gli viene Hippalca drieto di lontano,
e lo biastemmia sempre e maledice.
Ciò che di questo avenne altrove è piano:
Turpin, che tutta questa historia dice,
fa qui digresso, e torna in quel paese
dove fu dianzi morto il Maganzese.
39
Dato havea a pena a quel luoco le spalle
la figliuola d’Amon ch’in fretta gìa,
che v’arrivò Zerbin per altro calle
con la fallace vecchia in compagnia:
e giacer vide il corpo ne la valle
del cavallier, che non sa già chi sia;
ma, come quel ch’era cortese e pio,
hebbe pietà del caso acerbo e rio.
40
Giaceva Pinabello in terra spento
versando il sangue per tante ferite,
ch’esser devean assai, se più di cento
spade in sua morte si fussero unite.
Zerbin, ch’a vendicar sempre fu intento
l’ingiurie e’ torti, perché sanza lite
non vadan quei che l’homicidio han fatto,
segue per l’orme a tutta briglia ratto.
41
Et a Gabrina dice che l’aspette;
che senza indugio a lei farà ritorno.
Ella presso il cadavero si mette,
e fisamente vi pon gli occhi intorno;
perché, se cosa v’ha che le dilette,
non vuol ch’un morto invan più ne sia adorno,
come colei che fu, tra l’altre note,
quanto avara esser più femina puote.
42
Se di portarne il furto ascosamente
havesse havuto modo o alcuna speme,
la sopravesta fatta riccamente
gli havrebbe tolta, e le belle arme insieme.
Ma quel che può celarsi agevolmente
si piglia, il resto sin al cor le preme.
Fra l’altre spoglie un bel cinto levonne,
e se ne legò i fianchi infra due gonne.
43
Poco dopo arrivò Zerbin, che havea
seguito invan di Bradamante i passi,
perché trovò il sentier che si torcea
in molti rami ch’ivano alti e bassi:
e poco homai del giorno rimanea,
né volea al buio star fra quelli sassi;
e per trovar albergo diè le spalle
con l’empia vecchia alla funesta valle.
44
Quindi presso a dua miglia ritrovaro
un gran castel che fu detto Altariva,
dove per star la notte si fermaro,
che già a gran volo inverso il ciel saliva.
Non vi ster molto, ch’un lamento amaro
l’orecchie d’ogni parte lor feriva;
e vider lachrymar da tutti gli occhi,
come la cosa a tutto il popul tocchi.
45
Zerbino dimandonne, e gli fu detto
che venuto era al conte Anselmo aviso
che fra dui monti in un sentier istretto
giacea il suo figlio Pinabello ucciso.
Zerbin, per non ne dar di sé suspetto,
di ciò si finge ammirativo in viso;
ma pensa ben che senza dubbio sia
quel ch’egli trovò morto su la via.
46
Dopo non molto la bara funèbre
giunse, a splendor de torchi e di facelle,
là dove fece le strida più crebre
con un batter di man gir alle stelle,
e con più vena fuor de le palpèbre
le lachryme inundar per le mascelle:
ma più di l’altre nubilose et atre
era la faccia del misero patre.
47
Mentre apparecchio si facea solenne
de grandi exequie e funerali pompe,
secondo il modo et ordine che venne
da’ nostri antiqui, et ogni età corrompe;
per non lasciar chi fece il mal indenne,
un bando il popular strepito rompe,
che ricchi doni in nome del signore
promette a chi gli accusa il malfattore.
48
Di voce in voce e d’una in altra orecchia
el grido e il bando per la terra scórse,
sin che l’udì la scelerata vecchia
che di rabbia avanzò le tigri e l’orse;
e quindi alla ruina s’apparecchia
di Zerbino, o per l’odio che gli ha forse,
o per vantarsi pur, che sola priva
d’humanitade in human corpo viva;
49
o fusse pur per guadagnarsi il premio:
a ritrovar andò quel signor mesto;
e dopo un verisimil suo prohemio,
gli disse che Zerbin fatto havea questo:
e quel bel cinto si trasse di gremio
ch’el miser padre riconnobbe presto,
e gli fu, appresso il tristissimo ufficio
de l’empia vecchia, manifesto indicio.
50
Il Maganzese al ciel levò le mani,
che sperò non lasciar il figlio inulto:
fe’ circundar l’albergo a’ terrazzani;
che tutto il popul si levò a tumulto.
Zerbin, che li nemici haver lontani
si credea molto, e non temea d’insulto,
fu preso che dormia nel primo sonno
da quei che a pena al dì servar lo ponno.
51
Fu quella notte in tenebrosa parte
incatenato, e in gravi ceppi messo.
Non havea il Sol anchor le luci sparte,
che l’ingiusto supplicio era commesso:
ch’in la valle medesima si squarte
dove fu il mal c’hanno imputato ad esso.
Altro examine in ciò non si facea:
bastava ch’el signor così credea.
52
Poi che dinanzi a sé la bella Aurora
l’aer seren fe’ bianco e rosso e giallo,
tutto il popul gridando: – Mora, mora! –
vien per punir Zerbin del non suo fallo.
Il sciocco volgo l’accompagna fuora
senza ordine, chi a piede e chi a cavallo;
e ’l cavallier di Scotia a capo chino
ne vien legato in s’un piccol ronzino.
53
Ma Dio, che spesso li innocenti aiuta
né lascia mai chi ’n sua bontà si fida,
tal difesa gli havea già proveduta
che non v’è dubbio più c’hoggi s’uccida.
Era ad Orlando quella via accaduta
il dì medesmo (come Dio lo guida),
e da un monte nel pian vede la gente
che a morir mena il cavallier dolente.
54
Era con lui quella fanciulla, quella
ch’egli trovò ne la silvaggia grotta,
del Re Galego la figlia Issabella,
ch’in man de’ malandrin già fu condotta,
poi che lasciato havea ne la procella
del truculento mar la nave rotta:
quella che più vicino al core havea
questo Zerbin, che l’alma onde vivea.
55
Orlando se l’havea fatta compagna
poi che de la caverna la riscosse.
Quando costei scoperse in la campagna
la turba, al Conte dimandò che fosse.
– Non so, – diss’egli; e poi su la montagna
lasciolla, e verso il pian ratto si mosse.
Guardò Zerbino, e giudicollo a prima
vista che fusse huom di gran pregio e stima.
56
E fattosegli appresso, dimandollo
per che cagion e dove il menin preso.
Levò il dolente cavallier il collo,
e meglio avendo il Paladin inteso,
rispose il vero; e così ben narrollo
che meritò dal Conte esser difeso:
bene havea il Conte alle parole scorto
ch’era innocente, e che moriva a torto.
57
E poi ch’intese che commesso questo
era dal conte Anselmo d’Altariva,
fu certo ch’era torto manifesto;
ch’altro da quel fellon mai non deriva.
Et oltra ciò, l’un era a l’altro infesto
per l’antiquissimo odio che bolliva
tra il sangue di Maganza e Chiaramonte;
e tra lor eran morti e danni et onte.
58
– Slegate il cavallier (gridò), canaglia
(el Conte a’ masnadieri), o ch’io v’uccido. –
– Chi è costui che sì gran colpi taglia?
(rispose un che parer volle il più fido).
Se di cera noi fossimo o di paglia,
e di fuoco egli, assai fôra quel grido; –
e venne contra il Paladin di Francia:
Orlando contra lui chinò la lancia.
59
La lucente armatura il Maganzese,
che levata la notte havea a Zerbino
e postasela indosso, non difese
contro l’aspro incontrar del Paladino.
Sopra la destra guancia il ferro prese:
l’elmo non passò già, perch’era fino;
ma tanto fu de la percossa il crollo,
che la vita gli tolse e ruppe il collo.
60
Tutto in un corso, senza tôr di resta
la lancia, passò un altro in mezo il petto:
quivi lasciolla, e la mano hebbe presta
a Durindana; e nel drapel più stretto
a chi fece due parti de la testa,
a chi levò dal busto il capo netto;
forò la gola a molti; e in un momento
uccise e misse in rotta più di cento.
61
Più del terzo n’ha morto; el resto caccia
e taglia e fende e fere e fora e tronca.
Chi lascia il scudo o l’elmo che l’impaccia,
chi ’l spiedo e chi la lancia e chi la ronca;
chi al lungo, chi al traverso il camin spaccia;
altri s’appiatta in bosco, altri in spelonca.
Orlando, di pietà questo dì privo,
a suo poter non vuol lasciarne un vivo.
62
Di cento venti (che Turpin sottrasse
el conto) ottanta ne periro almeno.
Orlando finalmente se ritrasse
dove a Zerbin tremava il cor nel seno.
S’al ritornar d’Orlando ei s’allegrasse,
non si potria contar in versi a pieno:
se gli saria per honorar prostrato;
ma si trovò sopra il ronzin legato.
63
Mentre ch’Orlando, poi che lo disciolse,
l’aiutava a ripor l’arme sue intorno,
ch’al capitan de’ masnadieri tolse,
che per suo mal se n’era fatto adorno;
Zerbino gli occhi ad Issabella volse,
che sopra il colle havea fatto soggiorno,
e poi che de la pugna vide il fine
portò le sue bellezze più vicine.
64
Quando apparir Zerbin si vide appresso
la donna che da lui fu amata tanto,
la bella donna che per falso messo
credea summersa, e n’ha più volte pianto;
come un giaccio nel petto gli sia messo,
sente dentro aggelarsi, e trema alquanto:
ma presto il freddo manca, et in quel luoco
tutto s’avampa d’amoroso fuoco.
65
Di non tosto abbracciarla lo ritiene
gran riverenza c’ha al signor d’Anglante;
perché si pensa e sanza dubbio tiene
ch’Orlando sia de la donzella amante.
Così cadendo va di pene in pene,
e poco dura il gaudio c’hebbe inante:
vederla hora d’altrui peggio supporta
che non fe’ quando udì ch’ella era morta.
66
E molto più gli duol che la posseda
quello alla cui virtù sua vita debbe:
a lui levarla (anchor che gli succeda)
biasmato da ciascun poi ne sarebbe.
Nessun altro che andasse con tal preda,
senza question lasciar partir vorrebbe:
ma al debito c’ha al Conte si richiede
che se lo lasci por sul collo il piede.
67
Giunsero taciturni ad una fonte,
dove smontaro e fêr qualche dimora.
Trassesi l’elmo il travagliato Conte,
et a Zerbin lo fece trarre anchora.
Vede la Donna el suo amatore in fronte
e di sùbito gaudio si scolora;
poi torna come fior humido suole
dopo gran pioggia al apparir del Sole.
68
E senza indugia e senza altro rispetto
corre al suo caro amante, e al collo abbraccia;
e non può trar parola fuor del petto,
ma di lachryme il sen bagna e la faccia.
Orlando attento al amoroso affetto,
senza che più chiarezza se gli faccia,
vide a tutti l’indicii manifesto
ch’altri esser che Zerbin non potea questo.
69
Come la voce haver poté Issabella,
non bene asciutta anchor l’humida guancia,
sol de la molta cortesia favella
che l’havea usata il paladin di Francia.
Zerbino, che tenea questa donzella
con la sua vita pare a una bilancia,
si getta a piè del Conte, e quello adora
come chi reso gli ha due vite a un’hora.
70
Molti ringraziamenti e molte offerte
erano per seguir tra i cavallieri,
se non udian suonar le vie coperte
da li arbori fronzuti, alti e proceri.
Presto alle teste lor, ch’eran scoperte,
posero li elmi, e presero e’ destrieri:
et ecco un cavallier e una donzella
lor sopravien, ch’a pena erano in sella.
71
Era questo guerrier quel Mandricardo
che drieto Orlando in fretta si condusse
per vendicare Alcirdo e Manilardo,
ch’el paladin con gran valor percusse:
quantunque poi lo seguitò più tardo,
che Doralice in suo poter ridusse;
lei tolto havea con un troncon di cerro
a ducento guerrier carchi di ferro.
72
Non sapea il Saracin perhò che questo,
ch’egli seguia, fusse il signor d’Anglante:
a prova connoscea ben manifesto
ch’esser devea gran cavallier errante.
A lui mirò più che a Zerbino, e presto
gli andò con gli occhi dal capo alle piante;
e’ dati contrasegni ritrovando,
disse: – Tu sei colui ch’io vo cercando.
73
Sono homai dieci giorni – gli soggiunse –
che di cercar non lascio i tuoi vestigi:
tanto la fama stimulommi e punse
che di te venne al campo di Parigi,
quando a fatica un vivo sol vi giunse
di mille che mandasti a i regni stygi;
e la strage contò che da te venne
sopra quei di Noricia e Tremisenne.
74
Non fui, com’io lo seppi, a seguir lento,
e per vederti e per provar tua forza:
assai t’ho connosciuto al guarnimento,
ma non guardo perhò solo alla scorza;
che s’ancho havessi altr’arme e vestimento,
l’altiera tua disposition mi sforza
a giudicar per manifeste note
che tu sei quello, e ch’altri esser non pote. –
75
Rispose Orlando: – Non si può mentire
che cavallier non sii d’alto valore;
perhò che sì magnanimo desire
non credo che albergassi in humil core.
S’el volermi veder ti fa venire,
perché mi veggi meglio io trarrò fuore
de l’elmo tutto il capo, se ti pare
a voglia tua non mi poter mirare.
76
Ma poi che ben m’havrai veduto in faccia,
al altro desiderio anchor attendi:
resta che alla cagion tu satisfaccia
che fa che drieto a me questa via prendi;
che veggi s’el valor mio si confaccia
alla disposition che sì commendi. –
– Horsù (disse il Pagano), al rimanente;
ch’al primo ho satisfatto intieramente. –
77
El Conte tuttavia dal capo al piede
va cercando il Pagan tutto con gli occhi:
mira ambi i fianchi, indi l’arcion; né vede
pender né qua né là mazze né stocchi.
Dimanda lui di che arme si provede,
se avien che con la lancia in fallo tocchi.
Rispose quel: – Non ne pigliar tu cura:
così a molt’altri ho anchor fatto paura.
78
Ho sacramento non portar mai spada
fin ch’io non toglio Durindana al Conte;
e cercando lo vo per ogni strada
acciò più d’una posta meco sconte.
Io lo giurai (se intenderlo t’aggrada)
quando mi posi questo elmo alla fronte,
il qual, con tutte l’altre arme ch’io porto,
era di Hettòr, che già mill’anni è morto.
79
La spada sola manca alle buone arme:
come rubata fu non ti so dire.
Hor che la porti il Paladino parme;
e di qui vien ch’egli ha sì grande ardire.
Ben penso, se con lui posso accozzarme,
farli il mal tolto homai restituire.
Cercolo anchor, che vendicar disio
il famoso Agrican genitor mio.
80
Orlando a tradimento gli diè morte:
ben so che non potea farlo altrimente. –
El Conte più non tacque, e gridò forte:
– E tu e qualunque il dice se ne mente.
Ma quel che cerchi t’è venuto in sorte:
io sono Orlando, e uccisil giustamente;
e questa è quella spada che tu cerchi,
che tua serà se con virtù la merchi.
81
Quantunque sia debitamente mia,
per gentilezza vuo’ che si contenda:
né perché habbi a temer vuo’ che mi stia
al fianco, anzi ad uno arbore s’appenda.
Levala tu liberamente via,
s’avien che tu m’uccida o che mi prenda. –
Così dicendo, Durindana prese
e in mezo il campo a un arbuscello impese.
82
Già l’un da l’altro è dipartito lunge
quanto sarebbe un mezo tratto d’arco;
già l’uno contro l’altro il destrier punge,
né de le lente redine gli è parco;
già l’uno e l’altro di gran colpo aggiunge
dove per l’elmo la veduta ha varco:
parveno l’haste, al rompersi, di gelo,
e in mille scheggie iron volando al cielo.
83
L’una e l’altra hasta è forza che si spezzi;
che non voglion piegarsi i cavallieri:
i cavallieri tornano coi pezzi
che son restati appresso i calci intieri.
Quelli, che sempre fur nel ferro avezzi,
hor, come dui villan per sdegno feri
in differentia d’acque, boschi e prati,
fan crudel ciuffa di dui pali armati.
84
Non stanno l’haste a quattro colpi salde,
e mancan nel furor di quella pugna:
di qua e di là si fan l’ire più calde;
né da ferir lor resta altro che pugna.
Schiodano piastre e straccian maglie e falde,
pur che la man dove s’aggraffi giugna:
non desìderi alcun, perché più vaglia,
martel più grave o più dura tenaglia.
85
Come può il Saracin ritrovar sesto
di finir con suo honore il fiero invito?
Pazzia sarebbe il perder tempo in questo,
che nuoce al feritor più ch’al ferito.
Dunque alle strette è forza venir presto;
così il Pagan Orlando hebbe ingremito:
lo stringe al petto, e crede far le prove
che sopra Anteo fece il figliuol di Giove.
86
Lo piglia con molto impeto a traverso:
quando lo spinge, e quando a sé lo tira;
et è ne la gran chòlera sì immerso,
ch’ove resti la briglia poco mira.
Sta in sé raccolto Orlando, e ne va verso
il suo vantaggio, e alla vittoria aspira:
gli pon la cauta man sopra le ciglia
del cavallo, e cader ne fa la briglia.
87
Il Saracino ogni poter vi mette
che lo soffòghi o de l’arcion lo svella:
il Conte in li urti ha le ginocchia strette,
né piega in questa parte e non in quella.
Per quel tirar che fa il Pagan, constrette
sono le cingie abbandonar la sella:
Orlando è in terra, e a pena lo connosce;
che i piedi ha in staffa, e stringe anchor le cosce.
88
Con quel rumor ch’un sacco d’arme cade,
risuona il Conte come il campo tocca.
Il caval c’ha la testa in libertade,
quello a chi Orlando ha tolto il fren di bocca,
quando ode il suon che da le ombrose strade
e cavi sassi ribombando scocca,
correndo se ne va di timor cieco;
e Mandricardo se ne porta seco.
89
Doralice, che vede la sua guida
uscir del campo e tôrlese d’appresso,
e mal restarne senza si confida,
drieto, correndo, il suo ronzin gli ha messo.
Il Pagan per orgoglio al destrier grida,
e con mani e con sproni el batte spesso;
e come habbia intelletto lo minaccia
perché si fermi, e tuttavia più il caccia.
90
La bestia, ch’era spaventosa e poltra,
sanza guardarsi a i piè, corre a traverso:
già corso havea tre miglia, e seguiva oltra
se un fosso a quel desir non era averso;
che sanza haver nel fondo o letto o coltra,
ricevé l’uno e l’altro in sé riverso.
Diè Mandricardo in terra aspra percossa;
né perhò si fiaccò né si ruppe ossa.
91
Quivi si ferma il corridore al fine;
ma non si può guidar, che non ha freno.
Il Tartaro lo tien preso nel crine,
e tutto è di furor e d’ira pieno:
pensa, e non sa quel che di far destine.
– Pongli la briglia del mio palafreno
(la Donna gli dicea); che non è molto
el mio feroce, o sia col freno o sciolto. –
92
Al Saracin parea discortesia
la proferta accettar di Doralice;
ma fren gli farà haver per altra via
Fortuna, a’ suoi disii molto fautrice.
Quivi Gabrina scelerata invia
che, poi che di Zerbin fu traditrice,
fuggìa come la lupa che lontani
oda venir li cacciatori e i cani.
93
Ella havea anchora indosso la gonnella
e li medesmi giovenili ornati
che furo alla vezzosa damigella
di Pinabel, per lei vestir, levati;
et havea il palafren ancho di quella,
dei buon del mondo e de li avantaggiati.
La vecchia sopra il Tartaro trovosse,
ch’anchor non s’era accorta che vi fosse.
94
L’habito giovenil mosse la figlia
di Stordilano e Mandricardo a riso,
vedendolo a colei che rassimiglia
a un babuino o bertuccione in viso.
Dissegna il Saracin tôrle la briglia
pel suo destriero, e riuscì l’aviso:
toltogli il morso, il palafren minaccia,
gli grida, lo spaventa, e in fuga il caccia.
95
Quel fugge per la selva, e seco porta
la quasi morta vecchia di paura
per valli e monti e per via dritta e torta,
per fossi e per pendici alla ventura.
Ma ’l parlar di costei sì non m’importa,
ch’io non debbia d’Orlando haver più cura,
ch’alla sua sella ciò ch’era di guasto
tutto ben racconciò sanza contrasto.
96
E risalito sul destrier, gran pezzo
stette a mirar ch’el Saracin tornasse;
nol vedendo apparir, vòlse da sezzo
egli esser quel ch’a ritrovar l’andasse:
da Zerbin, c’honorava et havea in prezzo,
tolse licentia, e disse che restasse
con la sua donna; e pregò Dio che amici
li volesse tener sempre e felici.
97
Zerbin di quel partir molto si dolse;
di tenerezza ne piangea Issabella:
d’ir con lui pregaro ambi, ma non vòlse
lor compagnia, ben ch’era buona e bella.
Orlando da’ lor prieghi se disciolse,
dicendo: – Non è infamia sopra quella
del huom che cerchi il suo nemico, e prenda
chi gli faccia la scorta e lo difenda. –
98
Essi pregò, che quando il Saracino,
prima ch’in lui, si riscontrassi in loro,
gli dicesser ch’Orlando havria vicino
anchor tre giorni per quel territoro;
ma dopo, che sarebbe il suo camino
verso l’insegne de i bei gigli d’oro,
per esser con lo exercito di Carlo,
acciò, volendol, sappia onde chiamarlo.
99
Quelli promisser farlo volentieri,
e questa e ogni altra cosa al suo commando.
Preser camin diverso i cavallieri,
di qua Zerbin, e di là il conte Orlando.
Prima che pigli il Conte altri sentieri,
al arbor tolse et a sé pose il brando;
e dove meglio col Pagan pensosse
di potersi incontrar, il caval mosse.
100
Il strano corso che tenne il cavallo
del Saracin pel bosco sanza via
fece ch’Orlando andò dui giorni in fallo,
né lo trovò, né puòte haverne spia.
Giunse ad un rivo che parea crystallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.
101
Faceva il mezo dì grato l’orezo
al duro armento et al pastore ignudo;
sì che né Orlando sentia alcun ribrezo,
gravato d’elmo e di corazza e scudo.
Quivi egli entrò per riposare in mezo
alle belle ombre; e travaglioso e crudo,
e più che dir si possa empio soggiorno
vi ritrovò quel infelice giorno.
102
Volgendosi egli intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva,
e fu, tosto che v’hebbe gli occhi fitti,
certo ch’era di man de la sua diva.
Questo era un de li luochi già descritti,
dove col vil garzon spesso veniva
da casa del pastor quindi vicina
la bella donna del Catai regina.
103
Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme in cento luochi vede:
quante lettere son, tanti son chiodi
de’ quali Amor il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
c’habbia scritto il suo nome in quella scorza.
104
Poi dice: – Connosco io pur queste note,
ch’io n’ho di tal tante vedute e lette.
Questo Medor finto ella haver si pote:
forse che a me questo cognome mette. –
Con tali opinïon dal ver remote,
usando fraude a se medesmo, stette
in quella speme il sfortunato Orlando
che si seppe a se stesso ir procacciando.
105
Come uccellin che cerca ne la nuova
stagion di ramo in ramo più diletto,
tanto che ne la pania si ritruova
o in qualche laccio aviluppato e stretto;
così drieto al error, che pur gli giova,
se ne va Orlando contra il ruscelletto,
tanto che vien dove si curva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.
106
Haveva in su l’entrata il luoco adorno
coi piedi storti hedere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i dui felici amanti:
v’havean li nomi lor dentro e d’intorno,
più ch’in nessun de’ luochi circonstanti,
con carbone, con lapide, con gesso
scritto, e con punte di coltelli impresso.
107
El mesto Conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai che di sua man distese
Medoro havea, che parean scritte allhotta.
Del gran piacer ch’in la spelonca prese,
questa sententia in versi havea ridotta;
che fosse culta in la sua lingua penso,
et era ne la nostra tale il senso:
108
Liete piante, verdi herbe, limpide acque,
spelonca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
sì spesso in le mie braccia nuda giacque;
per la commodità che qui me è data
io povero Medor non posso darvi
altra mercé, se non sempre lodarvi;
109
e supplicar ogni signor amante,
e cavallieri e damigelle e ognuna
persona, o paesana o vïandante,
che meni qui sua voglia o la Fortuna,
che all’herbe, al rivo, al speco et alle piante
dica: Benigne habbiate Sole e Luna
e de le nymphe il choro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia. –
110
Era scritto in Arabico, ch’el Conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte c’havea pronte,
prontissima havea quella il Paladino;
e gli schivò più volte e danni et onte
che si trovò tra ’l popul saracino:
ma non si vanti se già n’hebbe frutto;
ch’un danno hor n’ha, che può scontarli il tutto.
111
Più e più volte rilesse quel scritto
quello infelice, ricercando invano
che non vi fusse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
et ogni volta in mezo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con li occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
112
Fu alhora per uscir di sentimento,
sì tutto in preda del dolor si lassa:
credete a chi n’ha fatto experimento,
che questo è il duol che tutti li altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né puòte haver, ch’el duol l’occupò tanto,
alle querele voce, o humore al pianto.
113
L’impetüosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
c’habbi gran ventre e una via sola e stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
tanto l’humor, che vuol uscir, s’affretta,
che nel stretto camin tutto se incocca,
né spirar pote, e resta ne la bocca.
114
Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamar il nome
de la sua donna, pur desira e spera,
o gravar lui d’insupportabil some
tanto di gelosia, che se ne pèra;
e quel, qualunque sia, con studio puòte
ben finger d’essa et imitar le note.
115
In così poca, in così debil speme
rivoca i spirti e li rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il Sole alla Sorella luoco.
Non molto va, che da le vie supreme
de’ tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiar armento:
viene alla villa e piglia alloggiamento.
116
Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’habbia cura;
altri il disarma, altri li sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l’armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’hebbe alta aventura.
Colcarsi Orlando e non cenar dimanda,
di dolor satio e non d’altra vivanda.
117
Quanto più cerca ritrovar quïete,
tanto ritrova più travaglio e pena;
che del odiato scritto ogni parete,
dovunque gli occhi torca, vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena
la cosa ch’egli stesso (perché debbia
nocergli men) cerca offuscar di nebbia.
118
Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che sanza dimandarne è chi ne parla.
Il pastor, che lo vede così oppresso
di sua tristitia e che vorria levarla,
l’historia nota a sé, che dicea spesso
de li duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
incominciò senza rispetto a dire:
119
come esso a’ prieghi d’Angelica bella
portato havea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente; e che ella
curò la piaga, e in pochi dì guarilla;
ma che nel cor d’una maggior di quella
lei ferì Amor; e di poca scintilla
le accese tanto e sì cocente fuoco,
che n’ardea tutta e non trovava luoco;
120
e sanza haver rispetto ch’ella fusse
figlia del maggior Re c’habbi ’l Levante,
da troppo amor constretta si condusse
a farsi moglie d’un povero fante.
Al ultimo l’historia si ridusse
ch’el pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.
121
Questa conclusïon fu la secure
ch’el capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si sforza Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder puollo:
per lachryme e suspir da bocca e d’occhi,
voglia o non voglia, è forza al fin che scocchi.
122
Poi che allargare il freno al dolor puòte,
che restò solo e sanza altrui rispetto,
giù da gli occhi irrigando per le gote
sparse un fiume di lachryme sul petto:
suspira e geme, e va con spesse ruote
di qua e di là tutto cercando il letto;
e lo ritrova più duro che Selce,
pungente più d’un setoloso Felce.
123
In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto, in che giaceva,
l’ingrata donna col suo drudo a porre
venutase più volte esser deveva.
Non altrimenti hor quella piuma abhorre,
né con minor prestezza se ne lieva,
che de l’herba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e veggia il serpe appresso.
124
Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che sanza aspettar Luna, o che l’albóre
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e ’l destrier, et esce fuore
per mezo il bosco in la più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi et urli apre le porte al duolo.
125
Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né ’l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e in la foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si maraviglia c’habbia in testa
una fontana d’acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:
126
– Queste non son più lachryme che fuore
stillo da gli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lachryme al dolore:
finîr, ch’a mezo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto, hora il vitale humore
fugge per quella via che a gli occhi mena;
et è quel che si versa, e trarrà insieme
il dolore e la vita alle hore estreme.
127
Questi, che indicio fan del mio tormento,
suspir non sono, né i suspir son tali.
Quelli han triegua talhora; io mai non sento
ch’el petto mio men la sua pena exhali.
Amor che m’arde il cor fa questo vento,
mentre dibbatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo produci
che tegni in fuoco un core, e non lo bruci?
128
Non son, non sono io quel che paro in viso:
quel ch’era Orlando è morto et è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io sono il spirto suo da lui diviso,
che in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
exempio a chi in Amor pone speranza. –
129
Pel bosco errò tutta la notte il Conte;
e nel spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro insculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, che non rimase dramma
di lui ch’ira non fusse, odio e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.
130
Tagliò col scritto il sasso, e sino al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quel antro, et ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restâr quel dì, ch’ombra né gelo
a pastor mai non daran più, né a gregge;
e quella dianzi così chiara e pura
fonte non fu da tanta ira sicura:
131
e rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
senza fin gettò Orlando in le belle onde,
che sì contaminò, che sì turbolle,
che non furon mai più chiare né monde.
Egli, al fin stracco, travagliato e molle
di sudor tutto, poi che non risponde
la lena al sdegno ardente, al odio, al’ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.
132
Afflitto e stanco al fin si stende in l’herba
e fige gli occhi al ciel sanza far motto.
Sanza cibo o dormir così si serba
ch’el Sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’hebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si squarciò di dosso.
133
In questa parte l’elmo, in quella il scudo,
là restano li arnesi, e qua l’usbergo:
tutte sue arme, in summa vi concludo,
havean pel bosco differente albergo.
Poi si squarciò li panni, e mostrò ignudo
l’hispido ventre et tutto ’l petto e il tergo;
e cominciò la gran follia, sì horrenda
che de la più non fia che mai s’intenda.
134
In ira, in odio, in rabbia, in furor venne,
e rimase offuscato in ogni senso.
Di tôr la spada in man non gli sovenne;
che fatte havria cose mirabil, penso:
ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove excelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse;
135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fusser finocchi, ebuli o aneti;
e ’l simil fe’ di querce e d’olmi vecchi,
d’antiqui cerri, frassini et abeti.
Come uno uccellator che s’apparecchi
il campo mondo, ove locar le reti,
fa de l’herbe eminenti o stoppia o spini,
quivi Orlando facea de i maggior pini.
136
Alcun’ pastori il gran ribombo udiro,
che di quel danno havean qualche interesse;
e per vietarlo in fretta ne veniro,
né molto loro in utile successe.
Ma qui la briglia al mio cantar ritiro,
che mi par che a quel termine s’appresse,
il qual s’io passo, so ben quanto annoi
a me la voce, e l’udïenza a voi.

CANTO VIGESIMOSECONDO

1
Chi mette il piè su l’amorosa pania
cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale;
che non è in somma Amor se non insania,
a giudicio de’ savi universale;
e se ben come Orlando ognun non smania,
suo furor mostra a qualche altro segnale:
e quale è di pazzia segno più expresso
che, per cercar altrui, perder se stesso?
2
Varii li effetti son, ma la pazzia
è tutt’una perhò, che li fa uscire.
È come una gran selva, ove la via
conviene a forza, a chi vi va, fallire:
chi ’n su, chi ’n giù, chi qua, chi là travìa.
Per concludere in summa io vuo’ ben dire:
a chi in amor s’invecchia, oltra ogni pena,
ch’il ceppo si conviene e la catena.
3
Ben si mi potria dir: – Frate, tu vai
l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. –
Io vi rispondo che comprendo assai,
hor che di mente ho lucido intervallo;
et ho gran cura, e spero farlo hormai,
di riposarmi e lasciar li altri in ballo:
ma come vorrei presto, far nol posso;
ch’el male è penetrato insino al osso.
4
Signori, in l’altro canto io vi dicea
ch’el forsennato e furïoso Orlando
trattese l’arme e sparse al campo havea,
squarciati i panni e via gettato il brando,
svelte le piante, e risonar facea
li cavi sassi e l’alte selve; quando
alcun’ pastori al suon trasse in quel lato
lor stella, o qualche lor grave peccato.
5
Come videro il stolto e le gran prove,
ch’erano indicio di sua forza estrema,
vorrebbeno esser capitati altrove,
che del futuro male haveano tema.
Come vede egli lor, contra si move:
uno ne piglia, e de la testa il scema
con la facilità che torria alcuno
fior dal suo stelo, o dal suo ramo il pruno.
6
Per una gamba il grave tronco prese,
e quello usò per mazza adosso al resto:
un pare in terra addormentato stese,
ch’al novissimo dì forse fia desto.
Li altri sgombraro subito il paese,
c’hebbeno il piede e il buono aviso presto.
Non saria stato il pazzo a seguir lento,
se non ch’era già volto al loro armento.
7
Li agricultori, accorti al’altrui exempli,
lascian ne’ campi aratri e marre e falci:
chi monta su le case, chi su i templi;
che sicuri non hanno Olmi né Salci;
chi su le torri, onde lontan contempli
l’alto furor, ch’a pugni e morsi e calci
cavalli e buoi con l’altro armento strugge;
e ben è corridor chi da lui fugge.
8
Già potreste sentir come ribombe
l’alto rumor ne le propinque ville
d’urli, de corni e rusticane trombe,
e più che d’altro, il spesso suon di squille;
e con spuntoni et archi e spiedi e frombe
veder da’ monti sdrucciolarne mille,
et altritanti andar da basso ad alto,
per fare al pazzo un villanesco assalto.
9
Qual venir suol nel salso lito l’onda
mossa dal Austro ch’a principio scherza,
che maggior de la prima è la seconda,
e con più forza poi segue la terza;
et ogni volta più l’humore abonda,
tanto che li arenosi argini sferza:
tal contra Orlando l’empia turba cresce,
che giù da balze scende e di valli esce.
10
Fece morir diece persone e diece,
che senza ordine alcun gli andaro in mano:
e questo chiaro experimento fece,
ch’era assai più sicur starne lontano.
Trar sangue da quel corpo a nessun lece,
che lo fere e percuote il ferro invano:
al Conte il Re del ciel tal gratia diede
per porlo a guardia di sua santa fede.
11
Era a periglio di morire Orlando,
se fusse di morir stato capace;
potea imparar ch’era a lasciare il brando,
e poi voler senz’arme essere audace.
La turba già s’andava ritirando,
vedendo ogni suo colpo uscir fallace.
Si trasse al fine Orlando sotto un tetto,
ch’a pena il fiato haver potea dal petto.
12
Dentro non vi trovò piccol né grande;
ch’el borgo ognun per tema havea lasciato.
V’erano in copia povere vivande,
convenïenti a un pastorale stato:
senza scernere il pane da le giande,
Orlando in quel che prima hebbe parato,
o cotto o crudo, furïosamente
tutto a un tempo cacciò le mani e il dente.
13
Quindi vagando per tutto il paese,
dava la caccia a gli huomini e alle fiere;
e scorrendo pei boschi talhor prese
li capri snelli e le damme leggiere.
Spesso con orsi e con cingial contese,
e con man nude li pose a giacere:
e d’essi crudi con tutta la spoglia
se n’empì ’l ventre fin che n’hebbe voglia.
14
Di qua di là, di su di giù discorre
per tutta Francia; e un giorno a un ponte arriva,
sotto cui larga e piena d’acqua corre
una rivera, e in su la verde riva
vede ch’edificata era una torre
che d’ognintorno assai lontan scopriva.
Quel che fe’ quivi havete altrove a udire;
che di Zerbin mi convien prima dire.
15
Zerbino, poi ch’Orlando fu partito,
dimorò alquanto, e poi prese il sentiero
ch’el Paladino inanzi gli havea trito,
e mosse a passo lento il suo destriero.
Non credo che duo miglia ancho fusse ito,
che trar vide legato un cavalliero
sopra un ronzino, e in l’uno e in l’altro lato
la guardia haver d’un cavallier armato.
16
Zerbin questo prigion connobbe tosto
che gli fu appresso, e così fe’ Issabella:
era Odorico il Biscaglin, che posto
fu come lupo a guardia de l’agnella.
A tutti li altri amici lui preposto
havea Zerbin, credendosi che quella
fede, ch’in lui vide a gran prove inante,
devesse ancho in amor esser constante.
17
Come era a punto quella cosa stata
venìa Issabella raccontando allhotta:
come nel palaschermo fu salvata
prima c’havesse il mar la nave rotta;
la forza che l’havea Odorico usata;
e come tratta poi fusse alla grotta.
Né giunto era ancho al fin questo sermone,
che trarre il malfattor vider prigione.
18
Li dui ch’in mezo havean preso Odorico,
d’Issabella notitia hebbeno vera;
e per lei si avisaron ch’el suo amico
Zerbin fusse colui che appresso l’era,
ma più perché nel scudo il segno antico
dipinto havea de la sua stirpe altiera:
e trovâr poi, che vider meglio il viso,
che s’era al vero apposto il loro aviso.
19
Scesero de’ cavalli, e con le braccia
aperte se n’andâr verso Zerbino,
e l’abbracciâr dove il maggior s’abbraccia,
col capo nudo e col ginocchio chino.
Zerbin, guardando l’uno e l’altro in faccia,
vide esser l’un Corebo il Biscaglino,
Almonio l’altro, ch’egli havea mandato
con Odorico in sul naviglio armato.
20
Almonio disse: – Poi che piace a Dio
(la sua mercé) che sia Issabella teco,
ben mi posso pensar che, signor mio,
nulla di nuovo alle tue orecchie arreco,
s’i’ vuo’ dir la cagion che questo rio
ti fa veder così legato meco;
che da costei, che più sentì l’offesa,
a punto havrai tutta l’historia intesa.
21
Come dal traditor io fui schernito
quando da sé levommi, saper déi;
e come poi Corebo fu ferito
per tôrse la difesa di costei.
Ma quanto al mio ritorno sia seguito,
né veduto né inteso fu da lei,
sì che l’habbia potuto referire:
di questa parte dunque i’ ti vuo’ dire.
22
Da la cittade al mar ratto io veniva
con cavalli ch’in fretta havea trovati,
sempre con gli occhi intenti s’io scopriva
venir costor ch’a drieto eran restati.
Io vengo inanzi, io vengo in su la riva
del mare, al luoco ove io li havea lasciati;
io guardo, né di loro altro ritruovo
che ne l’arena alcun vestigio nuovo.
23
La pésta seguitai, che mi condusse
nel bosco fier; né molto adentro fui,
ch’el gemito l’orecchie mi percusse
di Corebo ferito: io venni a lui;
gli dimandai che de la donna fusse,
che d’Odorico, egli di man di cui
giacea ferito; e poi ch’el tutto seppi,
molto cercando andai per quelli greppi.
24
Molto aggirando vommi, e per quel giorno
altro vestigio ritrovar non posso.
Dove giacea Corebo al fin ritorno,
che fatto appresso havea ’l terren sì rosso,
che poco più che vi facea soggiorno
gli serìa stato di bisogno un fosso
e li becchini più per sotterrarlo,
che li medici e il letto per sanarlo.
25
Al me’ ch’io seppi in la città portallo,
e posi in casa d’uno hostier mio amico,
che fatto sano in poco termine hallo
per cura et arte d’un chirurgo antico.
Poi d’arme proveduti e di cavallo,
Corebo et io cercammo d’Odorico,
e in corte del Re Alfonso di Biscaglia
trovallo; e quivi fui seco a battaglia.
26
La giustitia del Re, che mi diè franco
el luoco de la pugna, la ragione
ch’era per me, la buona Fortuna ancho,
che spesso la vittoria ove vuol pone,
mi giovâr sì, che di me puoté manco
el traditore, onde fu mio prigione.
Il Re, udito il gran fallo, mi concesse
poterlo trarre ovunque mi piacesse.
27
Non l’ho voluto uccider né lasciarlo,
ma, come vedi, trarloti in catena,
perché vuo’ ch’a te stia di giudicarlo,
se de’ morir o de’ tenersi in pena.
L’haver inteso ch’eri appresso a Carlo,
e il desir di trovarti, qui mi mena:
ringratio Dio che mi fa in questa parte,
prima ch’io lo sperassi, ritrovarte.
28
Ringratiolo ancho che la tua Issabella
io veggio (e non so come) che teco hai;
di cui (per opra del fellon) novella
pensai che non havessi ad udir mai. –
Zerbino ascolta Almonio e non favella,
fermando gli occhi in Odorico assai;
non sì per odio, come che gl’incresce
ch’a sì mal fin tanta amicitia gli esce.
29
Finito c’hebbe Almonio il suo sermone,
Zerbin riman gran pezzo sbigottito,
che chi d’ogn’altro men n’havea cagione
sì expressamente il possa haver tradito.
Ma poi che d’una lunga ammiratione
fu, sospirando, finalmente uscito,
al prigion dimandò se fusse vero
quel c’havea di lui detto il cavalliero.
30
El disleal con le ginocchia in terra
lasciò cadersi, e disse: – Signor mio,
ognun che vive al mondo pecca et erra;
né differisce in altro il buono e il rio,
che l’uno è vinto ad ogni poca guerra
che gli vien mossa da un piccol disio,
l’altro ricorre all’arme e se difende:
ma se ’l nemico è forte, al fin si rende.
31
Se tu m’havessi posto alla difesa
d’una tua ròcca, e ch’al primiero assalto
alzato havessi senza far contesa
de li nemici le bandiere in alto,
di viltà o tradimento, che più pesa,
mi si potrebbe por su gli occhi un smalto:
ma s’io cedessi a forza, son ben certo
che biasmo non havrei, ma gloria e merto.
32
Quanto ha havuto inimico più possente,
tanto chi perde ha più accettabil scusa.
Mia fé guardar devea non altrimente
ch’una fortezza d’ognintorno chiusa:
così, con quanta forza e quanta mente
è stata in me, con la più guardia ch’usa
buon castellan, guardalla fin che, vinto
da intolerando assalto, ne fui spinto. –
33
Così disse Odorico, e poi suggiunse,
che fôra lungo a ricontarvi il tutto,
mostrando che gran stimolo lo punse,
e non per lieve sferza s’era indutto.
Se mai per prieghi ira di cor s’emunse,
s’humiltà di parlar fece mai frutto,
quivi far lo devea; che ciò che muova
di cor durezza, hora Odorico truova.
34
Pigliar di tanta ingiuria alta vendetta
tra ’l sì Zerbino e il non stassi confuso:
el vedere il demerito lo alletta
a far che sia il fellon di vita excluso;
el ricordarsi l’amicitia stretta,
ch’era stata tra lor per sì lungo uso,
con l’acqua di pietà l’accesa rabbia
nel cor gli spegne, e vuol che mercé ne habbia.
35
Parte era in dubbio, e non sapea risciorse
di liberare o di menar captivo;
o pur il disleal da gli occhi tôrse
per morte, o pur tenerlo in pena vivo.
Quivi rignando il palafreno corse
che Mandricardo havea di briglia privo;
e vi portò la vecchia che vicino
dianzi condotto a morte havea Zerbino.
36
El caval, che sentito di lontano
havea quest’altri, era tra lor venuto
e la vecchia portatavi, ch’invano
venìa piangendo e dimandando aiuto.
Come Zerbin lei vide, alzò la mano
al ciel, che sì benigno gli era suto,
che datogli in arbitrio havea li dui
che soli odiati al mondo eran da lui.
37
Zerbin fa ritener la mala vecchia,
tanto che pensi quel che far ne deve:
tagliar le pensa l’una e l’altra orecchia
col naso, e gli par poi la pena lieve;
gli par meglio s’un pasto n’apparecchia,
se li avoltori e i corvi ne riceve.
Punitïon diversa tra sé volve;
e così finalmente se risolve.
38
Si volse alli compagni, e disse: – Io sono
di lasciar vivo il disleal contento;
che s’in tutto non merita perdono,
non merita ancho sì crudel tormento:
che viva e che slegato sia gli dono,
perhò che esser d’Amor la colpa sento;
e per scusa accettabile se admette
quando in Amor la colpa si reflette.
39
Amor ha volto sottosopra spesso
senno più saldo che non ha costui,
et ha condotto a via maggiore excesso
di questo, ch’oltraggiato ha tutti nui.
Ad Odorico debbe esser rimesso:
punito esser debbo io, che cieco fui
a dargli quella impresa, e non por mente
ch’el fuoco arde la paglia facilmente. –
40
Poi mirando Odorico: – Io vuo’ che sia
(gli disse) del tuo error la penitenza
che la vecchia habbi un anno in compagnia,
né di lasciarla mai ti sia licenza;
ma notte e giorno, o tu ne vada o stia,
un’hora mai non te ne trovi senza;
e sin a morte sia da te difesa
contra ciascun che voglia farle offesa.
41
Vuo’, se da lei ti serà commandato,
che pigli contra ognun contesa e guerra:
vuo’ in questo tempo che tu sia ubligato
tutta Francia cercar di terra in terra. –
Così dicea Zerbin; che pel peccato
meritando Odorico andar sotterra,
questo era inanzi ponerli una fossa,
che fia gran sorte che schivar la possa.
42
Haveva e donne e cavallier traditi
la vecchia, e in mille modi offesi tanti,
che chi serà con lei, non senza liti
potrà passar de’ cavallieri erranti.
Così di par seranno ambo puniti:
ella de’ suoi commessi errori tanti,
egli di tôrne la difesa a torto;
non molto potrà andar che ne fia morto.
43
Di dever servar questo, Zerbin diede
ad Odorico un giuramento forte,
con patto che se mai rompe la fede
e ch’inanzi gli càpiti per sorte,
senza udir prieghi e haverne più mercede,
lo debbia far morir di cruda morte.
Ad Almonio e Corebo poi rivolto,
fece Zerbin che fu Odorico sciolto.
44
Corebo, consentendo Almonio, sciolse
il traditore al fin, ma non in fretta;
ch’all’uno e all’altro esser turbato dolse
da sì desiderata sua vendetta.
Quindi partissi il disleale, e tolse
in compagnia la vecchia maledetta.
Non si legge in Turpin che n’avenisse;
ma vidi già uno author che più ne scrisse.
45
Scrive l’authore, il cui nome mi taccio,
che non furo lontani una giornata,
che per tôrse Odorico quello impaccio,
contra li patti et ogni fede data,
al collo di Gabrina gettò un laccio
e che ad un olmo la lasciò impiccata;
e ch’indi a un anno (ma non dice il luoco)
Almonio a lui fece il medesmo giuoco.
46
Zerbin, che drieto era venuto all’orma
del Paladin, né perder la vorrebbe,
manda a dar di sé nuove alla sua torma,
che non senza gran dubbio esser ne debbe:
Almonio manda, e di più cose informa,
che lungo tutto il ricontar sarebbe;
Almonio manda, e a lui Corebo appresso;
né tien, fuor che Issabella, altri con esso.
47
Tanto era l’amor grande che Zerbino,
e non minor del suo quel che Issabella
portava al virtüoso Paladino;
tanto il disir d’intenderne novella
ch’egli havesse trovato il Saracino
che da caval lo trasse con la sella;
che non voleano uscir di quei contorni
se non dopo il successo di tre giorni,
48
el termine che Orlando aspettar disse
el cavallier ch’anchor non porta spada.
Non è alcun luoco dove il Conte gisse
che Zerbin pel medesimo non vada.
Giunse al fin tra quell’arbori che scrisse
l’ingrata donna, perché de la strada
ch’Orlando fatta havea non si partia,
di giorno in giorno havendo di lui spia.
49
Vede in l’herba non sa che luminoso,
e truova la corazza esser del Conte;
e truova l’elmo poi, non quel famoso
ch’armò già il capo all’Aphricano Aimonte.
El caval ne la selva più nascoso
sente annitrire, e leva al suon la fronte:
e vede Brigliador pascer per l’herba,
che da l’arcion pendente il freno serba.
50
Durindana cercò per la foresta,
e ritrovolla senza il fodro starse;
trovò, ma in pezzi, anchor la sopravesta
ch’in cento luochi il miser Conte sparse.
Issabella e Zerbin con faccia mesta
stanno mirando, e non san che pensarse:
pensar potrian tutte le cose, excetto
che fusse Orlando fuor del intelletto.
51
Se di sangue vedessino una goccia,
creduto havrian che fusse stato morto.
Intanto lungo alla corrente doccia
vider venire un pastorello smorto:
costui pur dianzi havea di su la roccia
l’alto furor de l’infelice scorto,
come l’arme gettò, squarciossi i panni,
pastori uccise, e fe’ mill’altri danni.
52
Costui, richiesto da Zerbin, gli diede
vera informatïon di tutto questo.
Zerbin si maraviglia, e a pena il crede;
e tuttavia n’ha indicio manifesto.
Sia come vuole, egli discende a piede,
pien di pietade e suspiroso e mesto;
e ricogliendo da diversa parte
le reliquie ne va ch’erano sparte.
53
Del palafren discende ancho Issabella,
e va quell’arme riducendo insieme.
Ecco lor sopraviene una donzella
dolente in vista, e di cor spesso geme.
Se mi dimanda alcun chi sia, perché ella
così s’afflige, e che dolor la preme,
io gli risponderò che è Fiordiligi
ch’invan del suo amator cerca vestigi.
54
Da Brandimarte senza farle motto
lasciata fu ne la città di Carlo,
dov’ella l’aspettò sei mesi od otto;
e quando al fin non vide ritornarlo,
da un mar all’altro si mise, fin sotto
Pyrene e l’Alpe, e per tutto a cercarlo:
l’andò cercando in ogni parte, fuore
ch’al palazzo d’Atlante incantatore.
55
Se fusse stata ancho al hostel d’Atlante,
veder l’havria potuto andar errando
con Gradasso, Ruggier e Bradamante,
e con Feraù prima e con Orlando;
disfatta la magion del Negromante,
tornato era a Parigi, disïando
trovare il Conte, che non s’era udito
ch’el miser fosse d’intelletto uscito.
56
Come io vi dico, sopraggiunta a caso
alli duo amanti Fiordiligi bella,
connobbe l’arme e Brigliador rimaso
senza il patrone e col freno alla sella.
Vide con gli occhi il miserabil caso,
e n’hebbe per udita ancho novella;
che per certezza il pastorel narrolle
che veduto havea Orlando correr folle.
57
Quivi Zerbin tutte raguna l’arme,
e ne fa come un bel tropheo s’un pino;
e volendo vietar che non se n’arme
cavallier del paese o peregrino,
scrive nel verde ceppo in breve carme:
Armatura d’Orlando paladino;
come volesse dir: nessun la muova
che star non possa con Orlando a prova.
58
Finito c’hebbe la lodevol opra,
tornava a rimontar il suo destriero;
et ecco Mandricardo arrivar sopra,
che visto ha el pin di quelle spoglie altiero:
lo priega che la cosa gli discopra;
e quel gli narra come ha inteso il vero.
Allhora il Re pagan lieto non bada,
che venne al pino e se ne tol la spada,
59
dicendo: – Alcun non me ne può riprendere;
non è pur hoggi ch’io l’ho fatta mia,
e lo possesso giustamente prendere
ne posso in ogni parte ovunque sia.
Orlando per timor di la difendere
s’ha finto pazzo, e l’ha gettata via;
ma quando sua viltà pur così excusi,
non potrà far che mie ragion non usi. –
60
Zerbino a lui gridava: – Non la tôrre,
o pensa non la haver senza questione.
Se togliesti così l’arme di Hettorre,
tu le hai di furto, più che di ragione. –
Senza altro dir l’un sopra l’altro corre,
d’animo e di virtù gran paragone:
di cento colpi già ribomba il suono,
e a pena in la battaglia intrati sono.
61
Di prestezza Zerbin pare una fiamma
a tôrsi ovunque Durindana cada:
di qua e di là saltar come una damma
fa il suo destrier dove è miglior la strada.
E ben convien che non ne perda dramma;
ch’un colpo sol che lui con quella spada
il Pagan giunge, il può mandar fra i spirti
ch’empion la selva de li ombrosi myrti.
62
Come il veloce can che il porco assalta
che fuor del gregge errar veggia ne’ campi,
il va aggirando, e quinci e quindi salta;
e quello attende ch’una volta inciampi:
così Zerbino, che se bassa od alta
venga la spada, e per qual via ne scampi;
come la vita e l’honor salvi a un tempo
tien sempre l’occhio, e fere e fugge a tempo.
63
Da l’altra parte, ovunque il Saracino
la fera spada vibra o piena o vuota,
sembra fra due montagne un vento alpino
ch’una frondosa selva il marzo scuota;
c’hora la caccia a terra e a capo chino,
hora i spezzati rami in aria ruota.
Ben che Zerbin più colpi e fùggia e schivi,
non può schivar al fin ch’un non gli arrivi.
64
Al fin schivar non puote un gran fendente
che tra la spada e il scudo intrò sul petto.
Grosso l’usbergo, e grossa parimente
era la piastra, e il panciron perfetto;
pur non gli steron contra, et ugualmente
alla spada crudel dieron ricetto:
quella tagliò, calando, ciò che prese,
la corazza e l’arcion fin su l’arnese.
65
E se non che fu scarso il colpo alquanto,
pel mezo lo fendea come una canna;
ma penetra nel vivo a pena tanto,
che poco più che la pelle gli danna:
la non profunda piaga è lunga quanto
non si misureria con una spanna.
Le lucide arme il caldo sangue irriga
per sino al piè di rubiconda riga.
66
Così talhor d’un bel purpureo nastro
ho veduto partir tela d’argento
da quella bianca man più ch’alabastro,
da cui partir il cor spesso mi sento.
Quivi poco a Zerbin val esser mastro
di guerra, haver gran forza e più ardimento;
che di finezza d’arme e di possanza,
di troppo il Re de’ Tartari l’avanza.
67
Fu questo colpo del Pagan maggiore
in apparenza, che fusse in effetto;
tal che Issabella se ne sente il core
fender per mezo in l’aggiacciato petto.
Zerbin pien d’ardimento e di valore
tutto se infiamma d’ira e di dispetto;
e quanto più ferire a due man pote,
in mezo l’elmo el Tartaro percuote.
68
Quasi sul collo del caval piegosse
per l’aspra botta il Saracin superbo;
e quando l’elmo senza incanto fosse,
partito il capo gli havria il colpo acerbo.
Con poco differir ben vendicosse,
né disse: A un’altra volta io te la serbo;
e la spada gli alzò verso l’elmetto,
sperandosi tagliarlo insino al petto.
69
Zerbin, che tenea l’occhio ove la mente,
presto il caval alla man destra volse;
ma non puoté fuggir così repente,
che Mandricardo in sul scudo gli colse.
Dal summo ad imo lo partì ugualmente,
e di sotto il braccial ruppe e disciolse;
e lo ferì nel braccio, e poi l’arnese
spezzolli, e ne la coscia gli discese.
70
Zerbin di qua e di là cerca ogni via,
né mai, di quel che vuol, cosa gli aviene;
che l’armatura dove egli ferìa
un piccol segno pur non ne ritiene.
Da l’altra parte il Re di Tartaria
sopra Zerbino a tal vantaggio viene,
che l’ha ferito in sette parti o in otto,
toltogli il scudo e mezo l’elmo rotto.
71
Quel tuttavia più va perdendo il sangue;
manca la forza, e anchor par che nol senta:
el vigoroso cor che nulla langue
val sì, che ’l debil corpo ne sustenta.
Sua donna intanto, pallida et exangue,
piangendo a Doralice s’appresenta,
e la priega e la supplica per Dio
che partir voglia il fero assalto e rio.
72
Cortese come bella, Doralice,
né ben sicura come il fatto segua,
fa volentier quel che Issabella dice,
e dispone il suo amante a pace e triegua.
Così a’ prieghi de l’altra l’ira ultrice
di cor fugge a Zerbino e si dilegua:
et egli, ove a lei par, piglia la strada,
senza finir l’impresa de la spada.
73
Fiordiligi, che mal vede difesa
la buona spada del misero Conte,
tacita duolse, e tanto le ne pesa
che d’ira piange e battesi la fronte.
Vorria haver Brandimarte a quella impresa;
e se mai lo ritruova e gli lo conte,
non crede poi che Mandricardo vada
lunga stagion altier di quella spada.
74
Fiordiligi cercando pure invano
va Brandimarte suo matino e sera;
e fa camin da lui molto lontano,
da lui che già tornato a Parigi era.
Ella tanto vagò per monte e piano
che giunse ove, al passar d’una rivera,
vide e connobbe il stolto Paladino;
ma diciàn quel che avenne di Zerbino:
75
ch’el lasciar Durindana sì gran fallo
gli par, che più d’ogni altro mal gl’incresce,
quantunque a pena star possa a cavallo
pel molto sangue che gli è uscito et esce.
Hor poi che dopo non troppo intervallo
cessa con l’ira il caldo, il dolor cresce:
cresce il dolor sì impetüosamente,
che mancarsi la vita se ne sente.
76
Per debolezza più non potea gire;
sì che fermossi appresso una fontana.
Non sa che farsi o che si debbia dire
per aiutarlo la donzella humana:
sol di disagio lo vede morire;
che quindi è troppo ogni città lontana,
dove in tanto uopo al medico ricorra
che per pietade o premio gli soccorra.
77
Ella non sa se non invan dolersi,
chiamar fortuna e il ciel empio e crudele:
– Perché, ahi lassa! (dicea) non mi summersi
quando levai nel Oceàn le vele? –
Zerbin, che i languidi occhi ha in lei conversi,
sente più doglia ch’essa si querele,
che de la passïon tenace e forte
che l’ha condutto hormai vicino a morte.
78
– Così, cor mio, vogliate – le diceva –
dopo ch’io sarò morto amarmi anchora,
come solo il lasciarvi è che m’aggreva
qui senza guida, e non già perch’io mora:
che se in sicura parte m’accadeva
finir de la mia vita l’ultima hora,
lieto e contento e fortunato a pieno
morto sarei, poi ch’io vi moro in seno.
79
Ma poi ch’el mio destino iniquo e duro
vol ch’io ve lasci, e non so in man di cui;
per questa bocca e per questi occhi giuro,
per queste chiome onde allacciato fui,
che disperato in lo profondo oscuro
vo de lo inferno, ove il pensar di vui,
che habbia così lasciata, assai più ria
serà d’ogn’altra pena che vi sia. –
80
A questo la mestissima Issabella,
declinando la faccia lachrymosa
e congiungendo la sua bocca a quella
di Zerbin, languidetta come rosa,
rosa non colta in sua stagion, sì ch’ella
impallidisca in la siepe spinosa,
disse: – Non vi pensate già, mia vita,
far senza me quest’ultima partita.
81
Di ciò, cor mio, nessun timor vi tocchi;
ch’io vuo’ seguirvi o ’n cielo o ne lo inferno:
convien ch’un spirto e l’altro insieme scocchi,
insieme vada e insieme stia in eterno.
Non sì presto vedrò chiudervi gli occhi,
o che me ucciderà il dolor interno,
o se quel non può tanto, io vi prometto
con questa spada hoggi passarmi il petto.
82
De’ corpi nostri ho anchor non poca speme
che me’ morti che vivi habbian ventura.
Quivi alcun forse venirà ch’insieme,
mosso a pietà, li porrà in sepultura. –
Così dicendo, le reliquie estreme
del vital spirto che morte le fura
ne va cogliendo con le labra meste,
fin che una minima aura ve ne reste.
83
Zerbin, la debil voce riforzando,
disse: – Io vi priego e supplico, mia diva,
per quel amor che mi mostraste quando
per me lasciaste la paterna riva;
e se commandar posso, io vel commando,
che fin che piaccia a Dio restiate viva;
né mai per caso poniate in oblio
che quanto amar si può v’habbia amato io.
84
Dio vi provederà d’aiuto forse
per liberarvi da ogni atto villano,
come fe’ quando alla spelonca torse,
per indi trarve, il Senator Romano.
Così (la sua mercé) già vi soccorse
nel mare e contra il Biscaglin profano:
e se pur averrà che poi si deggia
morir, allhora il minor mal si eleggia. –
85
Non credo che queste ultime parole
potesse exprimer sì, che fusse inteso;
e finì come il debil lume suole,
cui cera manchi od altro in che sia acceso.
Chi potrà dir a pien come si duole,
poi che si vede pallido e disteso,
la giovanetta, e freddo come giaccio
il suo caro Zerbin restare in braccio?
86
Sopra il sanguigno corpo s’abbandona,
e di copiose lachryme lo bagna;
e stride sì, ch’intorno ne risuona
a molte miglia il bosco e la campagna.
Né alle guancie né al petto si perdona,
che l’uno e l’altro non percuota e fragna;
e straccia a torto l’auree crespe chiome,
chiamando sempre invan l’amato nome.
87
In tanta rabbia, in tal furor summersa
l’havea la doglia sua, che facilmente
havria la spada in se stessa conversa,
poco al suo amante in questo ubidïente;
s’uno Eremita, ch’alla fresca e tersa
fonte havea usanza di tornar sovente
da la sua quindi non lontana cella,
non s’opponea (venendo) al voler d’ella.
88
Il venerabil huom, ch’alta bontade
havea congiunta a natural prudentia,
et era tutto pien di charitade,
di buoni exempi ornato e d’eloquentia,
alla dolente giovane suade
con ragioni efficaci patïentia;
e quivi pon di molte inanti il specchio,
volvendo il nuovo Testamento e il vecchio.
89
Poi le fece veder come non fusse
alcun, se non in Dio, vero contento,
e ch’eran l’altre transitorie e flusse
speranze humane, e di poco momento;
e tanto seppe dir, che la ridusse
da quel crudel et ostinato intento,
che sua vita sequente hebbe disio
tutta dicar al servigio di Dio.
90
Non che lasciar del suo signor voglia unque
né il grande amor, né le reliquie morte:
convien che l’habbia ovunque stia et ovunque
vada, che seco e notte e dì le porte.
Quindi aiutando l’Eremita adunque,
ch’era de la sua età valido e forte,
sul mesto caval suo Zerbin tornaro,
e molti dì per quelle selve andaro.
91
Non vòlse il cauto vecchio ridur seco,
sola con solo, la giovane bella
là dove ascosa in un selvaggio speco
non lungi havea la solitaria cella,
fra sé dicendo: Con periglio arreco
in una man la paglia e la facella.
Né si fida in sua età né in sua prudentia,
che di sé faccia tanta experïentia.
92
Di condurla in Provenza hebbe pensiero,
non lontano a Marsilia in un castello,
dove di sante donne un monastiero
ricchissimo era, e d’edificii bello:
e per portarne il morto cavalliero,
composto in una cassa haveano quello,
che in un castel (ch’era tra via) si fece
lunga e capace, e ben chiusa di pece.
93
Più e più giorni gran spatio di terra
cercaro, e sempre per luochi più inculti;
che pieno essendo ogni cosa di guerra,
voleano gir più che poteano occulti.
M’al fine un cavallier la via lor serra,
che lor fe’ oltraggi e dishonesti insulti,
di cui dirò quando il suo luoco fia:
adesso torno al Re di Tartaria.
94
Havuto c’hebbe la battaglia fine
ch’io vi narrai di sopra, si raccolse
alle fresche ombre e a l’onde crystalline;
et al destrier la sella e il freno tolse,
e lo lasciò per l’herbe tenerine
del prato andar pascendo ove egli vòlse:
ma non ste’ guari che vide lontano
calar dal monte un cavallier al piano.
95
Connobel, come prima alzò la fronte,
Doralice, e mostrollo a Mandricardo,
dicendo: – Ecco il superbo Rodomonte,
se non m’inganna di lontano il sguardo.
Per far teco battaglia cala il monte:
hor ti farà mestier l’esser gagliardo.
Perduta havermi a grande ingiuria tiene,
ch’ero sua sposa, e a vendicar si viene. –
96
Qual buon astor che l’anitra o la aceggia,
starna o colombo o simil altro augello
venirsi incontro di lontano veggia,
leva la testa e si fa lieto e bello;
tal Mandricardo, come certo deggia
di Rodomonte far strage e macello,
con letitia e baldanza il destrier piglia,
le staffe a i piedi, e dà alla man la briglia.
97
Quando vicini fur, sì che udir chiare
tra lor poteansi le parole altiere,
con le mane e col capo a minacciare
incominciò gridando il Re d’Algere,
ch’a penitenza gli faria tornare
che per un temerario suo piacere
non havesse rispetto provocarsi
lui ch’altamente era per vendicarsi.
98
Rispose Mandricardo: – Indarno tenta
chi mi vuol impaurir per minacciarmi:
così fanciulli o femine spaventa,
o altri che non sappia che sieno armi;
me non, cui la battaglia più talenta
d’ogni riposo; e son per adoprarmi
a piè, a cavallo, in squadra e nel steccato,
così senza armatura come armato. –
99
Ecco sono alli oltraggi, al grido, al’ire,
al trar de’ brandi, al crudel suon de’ ferri;
come vento che prima agevol spire,
poi cominci a crollar frassini e cerri,
et indi oscura polve in cielo aggire,
indi li arbori svella e case atterri,
summerga in mar, e porti ria tempesta
ch’el sparso armento uccida alla foresta.
100
De’ dui pagani, sanza pare in terra,
li audacissimi cori e forze estreme
parturiscono colpi et una guerra
convenïente a sì feroce seme.
Del grande e horribil suon trema la terra
quando le spade son percosse insieme:
gettano l’arme insino al ciel scintille,
anzi lampadi accese a mille a mille.
101
Sanza mai riposarsi o pigliar fiato
dura fra li dui Regi aspra battaglia,
tentando hora da questo, hor da quel lato
aprir le piastre e penetrar la maglia.
Né perde l’un, né l’altro tol del prato;
ma come intorno sian fosse o muraglia,
o troppo costi ogni oncia di quel luoco,
non si parton d’un cerchio angusto e poco.
102
Fra mille colpi il Tartaro una volta
colse a duo mani in fronte al Re d’Algere;
che gli fece veder girar in volta
quante mai furon fiacole e lumiere.
Come ogni forza al Aphrican sia tolta,
le groppe del destrier col capo fere:
perde la staffa et è, presente quella
che cotanto ama, a risco uscir di sella.
103
Ma come ben composto e valido arco
di fino acciar in buona summa greve,
quanto s’inchina più, quanto è più carco,
e più lo sforzan martinelli e leve;
con tanto più furor, quanto è poi scarco,
ritorna, e fa più mal che non riceve:
così quel Aphrican tosto risorge,
e doppio il colpo allo inimico porge.
104
Colse il nemico ove da lui fu colto,
proprio a quel segno in fronte, et a due mane:
la finezza de l’elmo tenne il volto
difeso al successor del Re Agricane;
ma sì stordito ne restò, che molto
non sapea s’era vespero o dimane.
L’irato Rodomonte non s’arresta,
che mena l’altro, e pur segna alla testa.
105
El destriero del Tartaro, che abhorre
la spada che fischiando cala d’alto,
al suo signor con suo gran mal soccorre,
perché se arretra, per fuggir, d’un salto;
e il brando in mezo il capo gli trascorre,
ch’al signor, non a lui, movea l’assalto:
el miser non havea l’elmo di Troia,
come il patron; onde è ragion che muoia.
106
Quel cade, e Mandricardo in piedi guizza,
non più stordito, e Durindana aggira:
vedere il caval morto entro gli attizza,
e fuor divampa un grave incendio d’ira.
L’Aphrican per urtarlo il caval drizza;
ma non più Mandricardo si ritira
che soglia far da l’onde il scoglio: e avenne
ch’el destrier cadde, et egli in piè si tenne.
107
L’Aphrican, che mancarsi il caval sente,
lascia le staffe e su li arcion si ponta,
e resta in piedi e sciolto agevolmente:
così l’un l’altro poi di pare affronta.
La pugna più che mai ribolle ardente,
e l’odio e l’ira e la superbia monta:
et era per seguir; ma quivi giunse
in fretta un messaggier che li disgiunse.
108
Vi giunse un messaggier del popul Moro,
di molti che per Francia eran mandati
a richiamare alli stendardi loro
e’ capitani e’ cavallier privati;
perché l’Imperator dai gigli d’oro
gli havea li alloggiamenti assedïati;
e non venendo chi l’aiuti, e presto,
connosceva il suo excidio manifesto.
109
Riconnobbe il messaggio i cavallieri,
e non pur all’insegne e sopraveste,
m’al girar de le spade, e a’ colpi fieri
ch’altre man non farebbeno che queste.
Tra lor perhò non osa intrar, che speri
che fra tanta ira sicurtà gli preste
esser messo del Re; né si conforta
per dir ch’ambasciator pena non porta.
110
Ma viene a Doralice, et a lei narra
ch’Agramante, Marsiglio e Stordilano
con pochi dentro a mal sicura sbarra
sono assediati dal popul christiano.
Narrato il caso, con prieghi ne inarra
che farà il tutto ai dui guerrieri piano:
accorderalli insieme, e per lo scampo
del exercito suo condurrà in campo.
111
Tra i cavallier la donna di gran core
si messe, e disse lor: – Io vi commando,
per quanto so che me portate amore,
che riserbiate a miglior uso il brando,
e ne veniate subito in favore
del nostro campo saracino, quando
si truova hora assediato ne le tende,
e presto o aiuto o gran ruina attende. –
112
Indi il messo soggiunse il gran periglio
de’ Saracini, e narrò il fatto a pieno;
e pose d’Agramante e di Marsiglio
lettere in mano al figlio d’Ulïeno.
Si piglia finalmente per consiglio
che i dui guerrier, deposto ogni veneno,
facciano insieme tregua sin al giorno
che sia tolto l’assedio a’ Mori intorno;
113
e senza più dimora, come pria
liberato d’assedio habbian lor gente,
non s’intendano haver più compagnia,
ma crudel guerra e inimicitia ardente,
fin che con l’arme difinito sia
chi de’ la donna haver meritamente.
E quella, in le cui man giurato fue,
fece la sicurtà per amendue.
114
A questo è la Discordia impatïente,
inimica di pace e d’ogni tregua;
e così la Superbia, e non consente
né vuol patir che tale accordo segua.
Ma più di lor può Amor quivi presente,
di cui l’alto valor nessun adegua;
e fe’ ch’indrieto, a colpi di saette,
e la Discordia e la Superbia stette.
115
Fu conclusa la tregua fra costoro,
sì come piacque a chi di lor potea.
Mancavali uno de’ cavalli loro;
che morto quel del Tartaro giacea:
perhò vi venne a tempo Brigliadoro,
che le fresche herbe lungo el rio pascea.
M’al fin del canto io mi truovo esser giunto;
sì ch’io farò, con vostra gratia, punto.

CANTO VIGESIMOTERTIO

1
È gran contrasto in giovenil pensiero
desir di laude et impeto d’amore,
né chi più vaglia, anchor si truova il vero;
che resta hor questo hor quel superïore.
Quivi hebbe in l’uno e in l’altro cavalliero
molta possanza il debito e l’honore;
che l’amorosa lite s’intermesse,
fin che soccorso il campo lor s’havesse.
2
Ma più ve l’hebbe Amor: che se non era
che così commandò la donna loro,
serìa durata la battaglia fera
fin ch’un n’havesse il triumphale alloro;
et Agramante invan con la sua schiera
atteso havria l’aiuto di costoro.
Dunque Amor sempre rio non se ritrova:
se spesso nuoce, ancho talvolta giova.
3
Hor l’uno e l’altro cavallier pagano,
c’ha differito altrove i suoi litigi,
va, per salvar l’exercito Aphricano,
con la donna gentil verso Parigi;
e va con essi anchora il piccol Nano,
che Rodomonte havea per li vestigi
del orgoglioso Re di Tartaria
molti giorni condotto e molta via.
4
Capitaro in un prato ove a diletto
erano cavallieri ad una fonte,
dui disarmati e dui c’havean l’elmetto,
con una donna di serena fronte.
Chi fusser quelli, altrove vi fia detto;
ma prima è convenevol ch’io racconte
del buon Ruggier, di cui vi fu narrato
c’havea summerso il bel scudo incantato.
5
Quindi seguendo il camin preso, venne
(già declinando il Sole) ad una terra
ch’el Re Marsiglio in mezo Francia tenne,
di man di Carlo tolta in quella guerra.
Né al ponte né alla porta si ritenne,
che non gli niega alcuno il passo o serra,
ben ch’intorno al castello e in su le fosse
gran quantità d’huomini e d’arme fosse.
6
Perch’era connosciuta da la gente
quella donzella c’havea in compagnia,
fu lasciato passar liberamente,
né dimandato pur donde venìa.
Giunse alla piazza, e la trovò lucente
del fuoco acceso; e fra la gente ria
vede legato star con viso smorto
un giovene dannato ad esser morto.
7
Ruggier come gli alzò gli occhi nel viso,
che chino a terra e lachrymoso stava,
di veder Bradamante gli fu aviso,
tanto il giovane a lei rassimigliava.
Più dessa gli parea, quanto più fiso
al volto e alla persona il riguardava;
e fra sé disse: – O questa è Bradamante,
o ch’io non son Ruggier come ero inante.
8
Per troppo ardir si deveva esser messa
del garzon condennato alla difesa;
e poi che mal la cosa le è successa,
ne sarà stata (come io veggio) presa.
Deh, perché tanta fretta, che con essa
non potessi trovarmi a questa impresa?
Ma Dio ringratio che ci son venuto,
che a tempo anchora io potrò darle aiuto. –
9
E sanza più indugiar la spada stringe
(c’havea al altro castel rotta la lancia),
e adosso il volgo inerme il caval spinge
su pei fianchi, pel petto e per la pancia.
Mena la spada a cerco, et a chi cinge
la fronte, a chi la gola, a chi la guancia.
Fugge il popul gridando; e la gran frotta
resta o sciancata o con la testa rotta.
10
Come stormo d’augei ch’in ripa a un stagno
vola sicuro e a sua pastura attende,
s’improviso dal ciel falcon grifagno
gli dà nel mezo et un ne batte o prende,
si sparge in fuga, ognun lascia il compagno,
e sol dil scampo suo cura si prende;
così veduto havreste far costoro,
tosto ch’el buon Ruggier diede fra loro.
11
A quattro o sei dal collo i capi netti
levò Ruggier, ch’indi a fuggir fur lenti;
altritanti partinne insino a i petti,
sin a gli occhi infiniti e sin a’ denti.
Conciedo ben che non trovasse elmetti,
ma ben di ferro assai cuffie lucenti:
e s’elmi fini ancho vi fusser stati,
son certo che non men li havria tagliati.
12
La forza di Ruggier non era quale
hor si ritrovi in cavallier moderno,
né in orso né in leon né in animale
altro più fiero, o nostrano od esterno.
Serìale forse il terremuoto uguale,
o il Gran diavol: non quel de lo inferno,
ma quel del mio signor, che va col fuoco
che a cielo e terra e mar dar si fa luoco.
13
D’ogni suo colpo mai non cadea manco
d’un huom in terra, e le più volte un paio;
e quattro a un colpo e cinque n’uccise ancho,
sì che si venne presto al centinaio.
Tagliava il brando che trasse dal fianco,
come un tenero latte, il duro acciaio.
Falerina, per dar morte ad Orlando,
fe’ nel giardin d’Orgagna il crudel brando.
14
Haverlo fatto poi ben le n’increbbe,
ch’el suo giardin disfar vide con esso.
Che stratio dunque, che ruina debbe
far hor ch’in man di tal guerrier è messo?
Se mai Ruggier furor, se mai forza hebbe,
se mai fu l’alto suo valor expresso,
qui l’hebbe, il pose qui, qui fu veduto,
sperando dar alla sua donna aiuto.
15
Qual fa la lepre contra i cani sciolti,
facea la turba contra lui riparo.
Quei che restaro uccisi furon molti;
furo infiniti quei ch’in fuga andaro.
La donna, c’havea intanto i lacci tolti
al giovene, de l’arme che lasciaro
quei che fuggìano, come seppe armollo,
e in man gli diè una spada e un scudo al collo.
16
Et egli, ch’era offeso, più che puòte
si vendicò de la misera gente:
e quivi fur sì le sue forze note,
che lo feron stimar ch’era valente.
Già havea attuffato le dorate ruote
il Sol ne la marina d’Occidente,
quando Ruggier vittorïoso e quello
giovene seco uscîr fuor del castello.
17
Quando il garzon sicuro de la vita
con Ruggier si trovò fuor de le porte,
molta gratia gli rese et infinita
con gentil modi e con parole accorte,
che non lo connoscendo, a dargli aita
si fusse messo a rischo de la morte;
e pregò che per nome gli dicesse
a chi in eterno haverne obligo havesse.
18
– Veggio – dicea Ruggier – la faccia bella
e le belle fattezze e il bel sembiante,
ma la suavità de la favella
non parmi udir de la mia Bradamante;
né la relatïon di gratie è quella
ch’ella usar debbia al suo fedel amante.
Ma se pur questa è Bradamante, hor come
ha sì presto in oblio messo il mio nome? –
19
Per ben spiarne il certo, accortamente
Ruggier gli disse: – T’ho veduto altrove;
et ho pensato e penso, e finalmente
non so né posso racordarmi dove.
Dimmelo tu, per dio, se l’hai a mente;
e dimmi ancho il tuo nome, acciò mi giove
poter narrare ad altri chi tu sei,
c’ho di man tolto a questi huomini rei. –
20
Rispose il cavallier: – Esser potria
che visto m’hai, dove non so né quando:
ben vo pel mondo anch’io la parte mia
strane aventure hor qua hor là cercando.
Forse la mia sorella stata fia,
che veste l’arme e porta al lato il brando;
che nacque meco, e tanto mi somiglia
che non ne può discerner la famiglia.
21
Né primo né secondo né sei quarto
de li huomini ch’errato habbiano in questo:
la donna ch’ambedui produsse a un parto
l’un da l’altro non scorge così presto.
È vero ch’el mio crin raccorcio e sparto
secondo il militar costume honesto,
et il suo lungo e in treccia al capo avolta,
ci solea far già differentia molta:
22
ma poi ch’un giorno ella ferita fu
nel capo (lungo saria a dirti come),
e per sanarla un servo di Iesù
a meza orecchia le tagliò le chiome,
alcun segno tra nui non restò più
di differentia, fuor che ’l sesso e il nome.
Ricciardetto son io, Bradamante ella;
io fratello a Rinaldo, essa sorella.
23
E se non t’increscesse l’ascoltare,
cosa direi che ti faria stupire,
occorsa per l’un l’altro assimigliare,
che fu al principio gioia, al fin martìre. –
Ruggier, che non volea d’altro parlare,
né d’altra historia gli piacea più udire
di quella in che ricordo intervenisse
de la sua donna, il priegò sì, che disse:
24
– Accadde a questi dì, che pei vicini
boschi passando la sorella mia,
ferita fu da un stuol de Saracini
che la trovò senza elmo in su la via,
e le fu forza di scorciarse i crini,
se vòlse risanar la piaga ria
che havea con gran periglio ne la testa;
e così scorcia errò per la foresta.
25
Giunse vagando ad una ombrosa fonte;
e perché afflitta e stanca ritrovosse,
da caval scese, e disarmò la fronte,
e su le tenere herbe addormentosse.
Io non credo che fabula si conte
che più di questa historia bella fosse.
Fiordispina di Spagna soprarriva,
che per cacciar nel bosco ne veniva.
26
E quando ritrovò la mia sirocchia
tutta coperta d’arme, excetto il viso,
c’havea la spada in luoco di connocchia,
le fu veder un cavallier aviso.
La faccia e le viril fattezze adocchia,
tanto ch’el cor se ne sentì conquiso;
l’invita a caccia, e tra le ombrose fronde
lunge da li altri al fin seco s’asconde.
27
Poi che l’ha seco in solitario luoco
dove non teme d’esser sopraggiunta,
con cenni e con parole a poco a poco
le scopre il fisso cor di grave punta.
Et hor con sguardi, hor con suspir di fuoco
le mostra l’alma di disio consunta:
hor si scolora in viso, hor si raccende;
tanto s’arrischia, ch’un bacio ne prende.
28
La mia sorella havea ben connosciuto
che questa donna in cambio l’havea tolta;
né dar poteale a quel bisogno aiuto,
e si trovava in grande impaccio avolta.
Le parve più honorevole e più tuto
dar di sé connoscenza a quella volta,
e dimostrarsi femina gentile,
ch’esser tenuta un huom da poco e vile.
29
Viltade e dapocaggine era expressa,
convenïente ad huom di legno o stucco,
con cui sì bella donna fusse messa,
piena di dolce e di nectareo succo,
e tuttavia stesse a parlar con essa,
tenendo basse l’ale come il cucco.
Con modo accorto il suo parlar ridusse,
che venne a dir come donzella fusse:
30
che gloria, come Hippolyta e Camilla,
cercava in l’arme; e in Aphrica era nata
sul lito estremo in la terra d’Arzilla,
a scudo e lancia da fanciulla usata.
Per questo non si smorza una scintilla
del fuoco ne la donna inamorata;
questo rimedio al’alta piaga è tardo,
tanto havea Amor cacciato inanzi il dardo.
31
Per questo non le par men bello il viso,
men belli i sguardi e men bell’i costumi;
per ciò non torna il cor, che già diviso
da lei, godea dentro li amati lumi.
Vedendola in quel habito, l’è aviso
che può far che ’l desir non la consumi;
e quando che è pur femina ella pensa,
lachryma e geme e mostra doglia immensa.
32
C’havesse il suo ramarico e il suo pianto
quel giorno udito, havria pianto con lei.
«Quai tormenti», dicea, «furon mai tanto
crudel, che più non sian crudeli i miei?
D’ogn’altro amor, o scelerato o santo,
il desïato fin sperar potrei;
saprei partir la rosa da le spine:
solo il mio desiderio è senza fine!
33
Se pur volevi, Amor, darmi tormento
che t’increscesse il mio felice stato,
d’alcun martìr devevi star contento
che fusse anchor ne li altri amanti usato.
Tra li huomini, tra fiere e tra l’armento
femina mai non ha femina amato:
non par la donna a l’altra donna bella,
né a cerva cerva, né alla agnella agnella.
34
In terra, in aria, in mar, sola son io
che patisco da te sì duro scempio;
e questo hai fatto acciò che l’error mio
sia nel imperio tuo l’ultimo exempio.
La moglie del Re Nino hebbe disio,
amando il figlio, scelerato et empio,
e Myrrha il padre, e la Cretense il Toro:
ma gli è più folle il mio ch’alcun di loro.
35
La femina nel maschio hebbe disegno,
speronne il fine, et hebbil, come io odo:
altra si chiuse in la vaccha di legno,
altre per varii mezi e vario modo.
Ma se volasse a me con ogni ingegno
Dedalo, non potria scioglier quel nodo
che fece il mastro troppo diligente,
Natura d’ogni cosa più possente».
36
Così si duole e si consuma e rode
la bella donna, e non s’accheta in fretta.
Maledice Natura e sé, e le frode
d’Amore e l’aspro giogo a che è suggetta.
Da pietà vinta, mia sorella ch’ode
è con lei spesso a suspirar constretta,
e del folle disio si studia trarla:
né vi fa alcun profitto, e invano parla.
37
Ella ch’aiuto cerca, e non conforto,
sempre più si lamenta e più si duole.
Era del giorno il termine homai corto;
che rosseggiava in Occidente il Sole,
hora opportuna da ritrarsi in porto
a chi la notte al bosco star non vuole;
quando la donna invitò Bradamante
a questa terra sua poco distante.
38
Non le seppe negar la mia sorella:
e così insieme ne vennero al luoco
dove la turba scelerata e fella
posto m’havria (se tu non v’eri) al fuoco.
Fece là dentro Fiordispina bella
la mia sirocchia accarezzar non poco:
e rivestita di feminil gonna,
connoscer fe’ a ciascun ch’ella era donna.
39
Perhò che connoscendo che nessuno
util le dava del virile aspetto,
non vòlse che le desse obbrobrio alcuno,
e tanto men che fôra senza effetto:
féllo ancho acciò ch’el mal c’havea da l’uno
virile habito, errando, già concetto,
con l’altro feminil, scoprendo il vero,
provassi di cacciar fuor del pensiero.
40
Commune il letto hebbon la notte insieme,
ma molto differente hebbon riposo;
che l’una dorme, e l’altra piagne e geme
del suo desir che sempre è più focoso.
E se ’l sonno talhor gli occhi le preme,
quel breve sonno è tutto imaginoso:
le par veder ch’el ciel l’habbia concesso
Bradamante cangiata in miglior sesso.
41
Quale all’infermo acceso di gran sete,
se in quella ingorda voglia s’addormenta,
nel’interrotta e turbida quïete
ogni chiaro ruscel se gli ramenta;
tale a costei di far sue voglie liete
l’imagine nel sonno rappresenta.
Si desta; e nel destar mette la mano,
e sempremai truova l’insogno vano.
42
Quanti prieghi la notte, quanti voti,
offerse al suo Machon e a tutti i dèi,
che con miracoli apparenti e noti
immutassero il sesso di costei!
ma tutti vede andar d’effetto vuoti,
e forse anchor ch’el ciel ridea di lei.
Passa la notte; e Phebo il capo biondo
trahea del mar e dava luce al mondo.
43
Poi ch’el dì venne e che lasciaro il letto,
a Fiordispina s’augumenta doglia;
che Bradamante ha del partir già detto,
ch’uscir di questo impaccio havea gran voglia.
La gentil donna un ottimo ginetto
in don da lei vuol che partendo toglia,
guarnito d’oro, et una sopravesta
che riccamente ha di sua man contesta.
44
Accompagnolla un pezzo Fiordispina,
poi lachrymando a’ suoi fece ritorno.
La mia sorella sì ratto camina,
che venne a Montalbano ancho quel giorno.
Noi suoi fratelli e la madre meschina
tutti le semo festeggiando intorno;
che, di lei non sentendo, havammo forte
dubbio havuto e timor de la sua morte.
45
Mirammo, al trar del elmo, il mozzo crine
ch’intorno al capo prima s’avolgeva;
così le sopraveste peregrine
ne fêr maravigliar, ch’indosso haveva.
Et ella il tutto dal principio al fine
narronne (come dianzi io vi diceva):
come ferita fusse al bosco, e come
lasciasse, per guarir, le belle chiome;
46
e come poi, dormendo in ripa al’acque,
la bella cacciatrice sopraggiunse,
a cui la falsa sua sembianza piacque;
e come da la schiera la disgiunse.
Poi del lamento d’essa non ne tacque,
che di pietade l’anima le punse;
e come alloggiò seco, e tutto quello
che fece sin che ritornò al castello.
47
Di Fiordispina gran notitia hebbi io
in Siragoza, e già la vidi in Francia;
e piacquer molto allo appetito mio
li suo’ begli occhi e la polita guancia:
ma non lasciai fermarvisi il disio;
che l’amar senza speme è sogno e ciancia.
Hor quando in tal ampiezza mi si porge,
l’antiqua fiamma subito risorge.
48
Di questa speme Amor ordisce il nodo,
che d’altre fila ordir non lo potea,
onde mi piglia: e mostra insieme il modo
che da la donna havrei quel ch’io chiedea.
A succeder serà facile il frodo;
che come spesso altri ingannato havea
questo, che a mia sorella mi assimiglio,
così farà la figlia di Marsiglio.
49
Faccio o non faccio? In summa i’ mi dispono
provar la mia aventura, o buona o ria.
Del mio pensier con altri non ragiono;
tanto aspettai ch’in casa si dormia.
Tacito vo là dove l’arme sono
e sopraveste de la sora mia:
tolgole col destriero e via camino,
né sto aspettar che luca il matutino.
50
Io me ne vo la notte, Amore è duce,
a ritrovar la bella Fiordispina;
e v’arrivai che non era la luce
del Sole al tutto ascosa in la marina.
Beato è chi correndo si conduce
prima de li altri a dirlo alla Reina,
da lei sperando per lo annoncio buono
acquistar gratia e riportar gran dono.
51
Tutti m’haveano tolto così in fallo,
come hai tu fatto anchor, per Bradamante;
tanto più che le vesti hebbi e il cavallo
con che partita era ella il giorno inante.
Vien Fiordispina di poco intervallo
con feste incontra e con carezze tante,
e con sì allegro viso e sì giocondo
che farne più non si potrebbe al mondo.
52
Le belle braccia al collo indi mi getta,
e dolcemente stringe, e bacia in bocca.
Tu pòi pensar allhor se la saetta
dirizzi Amor, s’en mezo il cor mi tocca.
Per man mi piglia, e in camera con fretta
mi mena; e non ad altri ch’a lei tocca
che da l’elmetto insino al spron mi slacci;
che nessuno ella vuol che se ne impacci.
53
Poi fattasi arrecare una sua veste
adorna e ricca, di sua man la spiega,
e come io fussi femina, mi veste
e in reticella d’oro il crin mi lega.
Io fingea i sguardi e le maniere honeste:
che donna io sia nessun mio gesto niega;
la voce, ch’accusar mi potea forse,
sì bene usai ch’alcun non se ne accorse.
54
Uscimmo poi là dove erano molte
persone in sala, cavallieri e donne,
da’ quali fummo con l’honor raccolte
ch’alle regine fassi e gran madonne.
Quivi d’alcuni mi risi io più volte,
che non sapendo ciò che sotto gonne
si nascondesse valido e gagliardo,
mi vagheggiavan con lascivo sguardo.
55
Poi che si fece la notte più grande,
essendo di gran pezzo già levata
la mensa, che fu d’ottime vivande,
qual la stagion dar puote, apparecchiata;
non aspetta la donna ch’io dimande
quel che m’era cagion del venir stata:
ella m’invita, per sua cortesia,
che quella notte a giacer seco io stia.
56
Poi che levati camerieri e paggi
si furo, e tutti i testimoni intorno,
io cominciai: «Madonna, acciò non haggi
haver ammiration del mio ritorno
e giudicare i modi miei non saggi,
ch’essendomi da te partito un giorno
con volontà di starne molto absente,
io sia tornato poi l’altro seguente,
57
la cagion dirò prima del partire,
acciò intendil del ritorno anchora.
S’io havessi connosciuto al tuo desire
di poter satisfar con mia dimora,
in tuo servigio vivere e morire
voluto havrei, né starti absente un’hora;
ma visto quanto il star mio ti nocessi,
per non poter più inanzi, andare elessi.
58
Fortuna mi tirò fuor del camino
in mezo un bosco d’intricati rami,
dove odo un grido risonar vicino,
come di donna che soccorso chiami.
V’accorro, e sopra un lago crystallino
ritrovo un Fauno c’havea preso alli hami
in mezo l’acqua una donzella nuda,
e mangiarse il crudel la volea cruda.
59
Colà mi trassi, e con la spada in mano,
perché aiutar non la potea altrimente,
tolsi di vita il pescator villano:
ella saltò nel’acqua immantinente.
“Non m’havrai (disse) dato aiuto invano:
ben ne serai premiato e riccamente
quanto chieder saprai, perché son Nympha
che vivo dentro a questa chiara lympha;
60
et ho possanza far cose stupende,
e sforzar li Elementi e la Natura.
Chiedi tu, e in quanto il mio valor s’estende
poi lascia a me di satisfarti cura.
Dal ciel la Luna al mio cantar discende,
s’aggiaccia il fuoco e l’aria si fa dura;
et ho talhor con semplici parole
mossa la terra, et ho fermato il Sole”.
61
A questa offerta io non dimando unire
thesor, né dominar populi e terre,
né in più virtù né in più vigor salire,
né vincer con honor tutte le guerre;
ma sol che qualche via, donde al disire
tuo sodisfaccia, mi schiuda e diserre:
né questa né quell’altra le propono,
ma mi rimetto al suo giudicio buono.
62
Hebbile a pena mia dimanda exposta,
ch’un’altra volta la vidi attuffata;
né fece al mio parlare altra risposta
che di spruzzar vêr me l’acqua incantata:
quel liquor non sì presto mi s’accosta,
ch’io (non so come) son tutta mutata.
Io ’l veggio, io ’l sento, e parmi a pena vero:
maschio son fatto, di femina ch’ero.
63
E se non fusse che la prova è appresso,
io son ben certo che nol crederesti.
Come hebbi in l’altro, ho così in questo sesso
tutti i miei sensi in ubidirti presti:
tu lor commanda, e trovaralli adesso
e sempremai per te vigili e desti».
Così le dissi; e feci ch’ella istessa
trovò con man la veritade expressa.
64
Come interviene a chi già fuor di speme
di cosa sia che nel pensier molto habbia,
che mentre più d’esserne privo geme,
più se n’afflige e se ne strugge e arrabbia;
poi la ritrovi, anchor tanto gli preme
l’haver gran tempo seminato in sabbia,
e la disperation l’ha sì mal uso,
che non crede a se stesso e sta confuso:
65
così la donna, poi che tocca e vede
quel di che havuto havea tanto disire,
a gli occhi, al tatto, a se stessa non crede,
e sta dubbiosa anchor di non dormire;
e buona prova bisognò a far fede
che sentia quel che le parea sentire.
«Fa’, Dio (disse ella), se son sogni questi,
ch’io dorma sempre e mai più non mi desti».
66
Non rumor di tamburi o suon di trombe
furon principio all’amoroso assalto,
ma baci ch’imitavan le colombe
davan segno hor di gire, hor di far alto.
Usammo altre arme che saette o frombe:
io senza scale in su la ròcca salto
et il stendardo piantovi di botto,
e la nemica fo restar di sotto.
67
Se fu quel letto la notte dinanti
pien di suspiri e di querele gravi,
non stette l’altra poi senza altrotanti
risi, feste, gioir, giuochi suavi.
Non con più nodi i flessüosi acanthi
pingonsi intorno alle colonne e i travi,
di quelli con che noi legàmo stretti
e colli e fianchi e braccia e gambe e petti.
68
La cosa stava tacita fra noi,
sì che durò il piacer per alcun mese:
pur si trovò chi se n’accorse poi,
tanto che con mio danno il Re l’intese.
Tu, che me liberasti da li suoi
e da la fiamma che per me s’accese,
comprendere hoggimai pòi tutto il resto;
ma Dio sa ben con che dolor ne resto. –
69
Così a Ruggier narrava Ricciardetto,
e la notturna via facea men grave,
salendo tuttavia verso un poggietto
cinto d’aspre pendici e ripe cave.
Un erto calle e pien di sassi e stretto
apria il camin con faticosa chiave.
Sedea al summo un castel detto Agrismonte,
ch’in guardia havea Aldigier di Chiaramonte.
70
Di Bovo era costui figlio bastardo,
fratel di Malagigi e di Viviano:
chi legittimo dice di Gerrardo
è testimonio temerario e vano.
Fusse come si voglia, era gagliardo,
prudente, liberal, cortese, humano;
e de’ fratelli suoi facea le mura
la notte e il dì guardar con buona cura.
71
Raccolse el cavallier cortesemente
(come devea) il cugin suo Ricciardetto,
ch’amò come fratello; e parimente
fu ben visto Ruggier per suo rispetto.
Ma non gli uscì già incontra allegramente
come era usato, anzi con tristo aspetto,
perché uno aviso il giorno havuto havea
che nel viso e nel cor mesto il facea.
72
A Ricciardetto in cambio di saluto
disse: – Fratello, haven nuova non buona.
Per certissimo messo hoggi ho saputo
che Bertolagi iniquo di Baiona
con Lanfusa crudel s’è convenuto,
che pretïose spoglie esso a lei dona,
et essa a lui dà nostri frati in mano,
il tuo buon Malagigi e il tuo Viviano.
73
Da indi in qua che Ferraù li prese,
sempre essa li ha tenuti a un suo castello,
fin che ’l brutto contratto e discortese
n’ha fatto col fellon di chi favello.
Li de’ mandar dimane al Maganzese
ne li confini di Baiona, e quello
verrà in persona a consegnar la mancia
ch’el miglior sangue compera di Francia.
74
Rinaldo nostro n’ho avisato hor hora,
et ho cacciato il messo di galoppo;
ma non mi par che arrivar possa ad hora
che non sia tarda, che ’l camino è troppo.
Io non ho meco gente da uscir fuora:
l’animo è pronto, ma ’l potere è zoppo.
Se li ha quel traditor, li fa morire;
sì che non so che far, non so che dire. –
75
La dura nuova a Ricciardetto spiace,
e perché spiace a lui, spiace a Ruggiero;
che poi che questo e quel vede che tace,
né trar profitto alcun del lor pensiero,
disse con grande ardir: – Datevi pace:
sopra me questa impresa tutta chero;
e la mia valerà per mille spade
a tornarvi i fratelli in libertade.
76
Io non voglio altra gente, altri sussidi;
che bastar solo credo a questo fatto:
io vi dimando solo un che me guidi
al luoco ove si de’ far il baratto.
Io vi farò sin qui sentir i gridi
di chi serà presente al rio contratto. –
Così dicea; né dicea cosa nuova
all’un di dui, che n’havea visto prova.
77
L’altro non l’ascoltava, se non quanto
s’ascolti un ch’assai parli e sappia poco;
ma Ricciardetto gli narrò da canto
come fu per costui tratto del fuoco;
e ch’era certo che maggior del vanto
faria veder l’effetto a tempo e a luoco:
gli diede allhora udienza più che prima,
e riverillo, e fe’ di lui gran stima.
78
Et alla mensa, ove la Copia fuse
el corno, l’honorò come suo donno.
Quivi senza altro aiuto si concluse
che liberare i dui fratelli ponno.
Intanto sopravenne e gli occhi chiuse
a signori e sergenti il pigro Sonno,
fuor che a Ruggier; che lui, per tener desto,
punse Amor sempre d’un pensier molesto.
79
Che si deggia partir lo cuoce e punge,
e che la donna sua prima non veggia;
e duolo a duolo e pena a pena giunge
ch’andar ch’ella nol sappia se ne deggia.
Gli era l’aviso reuscito lunge
di trovarla al castello, ove l’inveggia
e l’astio cortigian (come v’ho detto)
tratto havea sin al fuoco Ricciardetto.
80
Poi gli sovien ch’egli le havea promesso
di seco a Valspinosa ritrovarsi;
pensa ch’andar v’habbia ella, e quivi, d’esso
che non vi truovi poi, maravigliarsi.
Potesse almen mandar lettera o messo,
sì ch’ella non havesse a lamentarsi
che, oltra ch’egli mal le havea ubidito,
senza far motto anchor fusse partito.
81
Poi che più cose imaginate s’hebbe,
pensa scriverle al fin quanto gli accada;
e ben che egli non sappia come debbe
la lettera inviar, sì che ben vada,
non perhò vuol restar; che ben potrebbe
alcun messo fedel trovar per strada.
Più non s’indugia, e salta de le piume;
si fa dar charta, inchiostro, penna e lume.
82
Li camarier discreti et aveduti
arrecano a Ruggier ciò che commanda.
Egli comincia a scrivere, e i saluti
(come si suol) nei primi versi manda;
poi narra de li avisi che venuti
son dal suo Re, ch’aiuto gli dimanda;
e se l’andata sua non è ben presta,
o morto o in man de li nemici resta.
83
Poi seguitò, ch’essendo a tal partito
e ch’a lui per aiuto si volgea,
vedesse ella che ’l biasmo era infinito
s’a tanto uopo negar gli lo volea;
e ch’esso, a lei devendo esser marito,
guardarsi d’ogni macchia si devea;
che non si convenia con lei, che tutta
era sincera, alcuna cosa brutta.
84
E se mai per a dietro un nome chiaro,
per ben oprar, cercò che se gli desse,
e se tenuto mai se l’havea caro,
né voluto lasciar poi che l’havesse;
hor lo cercava, e gli facea riparo
maggior per conservar, ch’unque facesse,
devendone ella haver (che serìa in dui
corpi seco un voler) parte con lui.
85
E sì come già a bocca le havea detto,
le ridicea per questa charta anchora:
finito il tempo in che per fede astretto
era al suo Re, quando non prima mora,
che si faria christian così d’effetto
come egli fu di volontade ognhora;
e che a Rinaldo e agli altri frati suoi
per moglie dimandar la faria poi.
86
– Vorrei (le soggiungea), quando vi piaccia,
levar al mio signor l’assedio intorno
acciò che l’ignorante volgo taccia,
il qual direbbe, a mia vergogna e scorno:
Ruggier, mentre Agramante hebbe bonaccia,
mai non l’abbandonò notte né giorno;
hor che Fortuna per Carlo si piega,
egli col vincitor l’insegna spiega.
87
Voglio quindici dì termine o venti,
tanto che comparir possa una volta,
sì che de li Aphricani alloggiamenti
la grave ossedïon per me sia tolta;
intanto cercherò convenïenti
cagion, che parran giuste, di dar volta:
io vi dimando per mio honor sol questo;
tutto è poi vostro di mia vita il resto. –
88
In simili parole se diffuse
Ruggier, che tutte non so dirvi appieno;
e seguì con molt’altre, e non concluse
fin che non vide tutto il foglio pieno;
e poi piegò la lettera e la chiuse,
e suggellata la si pose in seno,
con speme che gli occorra il dì seguente
ch’alla donna la dia secretamente.
89
Chiusa c’hebbe la lettera, chiuse ancho
gli occhi sul letto, e ritrovò quïete;
ch’el Sonno venne, e sparse il corpo stanco
col ramo intinto nel liquor di Lethe:
e riposollo insin ch’un rosso e bianco
nembo di fiori in le contrade liete
del lucido Orïente, inanzi il giorno,
a sparger venne il bel sereno intorno.
90
E poi che a salutar la nuova luce
per verdi rami incominciâr li augelli,
Aldigier che devea la guida e il duce
esser de li compagni, e far con quelli
che non fussero in man del fero e truce
Bertolagi condotti i dui fratelli,
fu ’l primo in piede; e quando sentîr lui,
del letto usciro ancho quell’altri dui.
91
Poi che vestiti furo e bene armati,
co i dui cugin Ruggier si mette in via,
già molto indarno havendoli pregati
che questa impresa a lui tutta si dia;
ma essi, pel disir c’han di lor frati
e per non si lasciar di cortesia
vincer cotanto, più duri che sassi
negando fur che senza loro andassi.
92
Sul luoco fur quel dì che si devea
Malagigi mutar ne’ carrïaggi:
era un’ampla campagna che sedea
tutta scoperta alli celesti raggi;
né quivi allòr né mirto si vedea,
né cypressi né frassini né faggi,
ma nuda giara e qualche humìl virgulto
non mai da marra o mai da vomer culto.
93
Fermaronsi i campioni in un sentiero
che segnava per mezo la pianura.
Et ecco apparir loro un cavalliero
c’havea d’oro fregiata l’armatura;
ritratto havea nel scudo e sul cimiero
l’unico Augel che più d’un secol dura:
signor, non più, che giunto al fin mi veggio
del canto, e spatio a riposarmi chieggio.

CANTO VIGESIMOQUARTO

1
Cortesi donne hebbe l’antiqua etade,
che le virtù, non le ricchezze, amaro:
al tempo nostro si ritrovan rade
a cui, più del guadagno, altro sia caro;
ma quelle poche, c’han tanta bontade
che non seguon di molte il stilo avaro,
vivendo, degne son viver contente,
e fama eterna haver poi che sian spente.
2
Degna d’immortal laude è Bradamante,
che non amò thesor, non amò impero,
ma la virtude e l’animo prestante
e l’alta gentilezza di Ruggiero;
e meritò che ben le fusse amante
un così valoroso cavalliero,
e per piacere a lei facesse cose
ne’ secoli avenir miracolose.
3
Lasciai nel altro canto che Ruggiero
con dui di Chiaramonte era venuto,
dico con Ricciardetto et Aldigiero,
per dar a’ dui fratei prigioni aiuto.
Vi dissi anchor che armato un cavalliero
era comparso lor, non connosciuto,
che portava l’augel che se ritruova
unico al mondo, e al fuoco si rinuova.
4
Quel cavallier, che de li tre s’accorse,
che sul sentiero insieme erano stretti,
in prova disegnò di voler porse
per sentir come saldi haveano i petti.
E poi ch’a lor vicino il caval torse,
– È di voi (disse) alcuno a chi diletti
far un colpo di lancia meco o dui,
sì che si veggia chi è miglior di nui? –
5
– Farei (disse Aldigier) teco, o volessi
menar la spada a cerco o correr l’hasta;
ma un’alta impresa, che se qui tu stessi
veder potresti, questa turba e guasta;
di parlar teco, non che ci trahessi
a correr giostra, a pena tempo basta:
seicento huomini al varco o più attendemo,
co’ quali hoggi provarsi obligo havemo.
6
Per tôr lor dui de’ nostri, che prigioni
quinci trarran, pietade e amor n’ha mosso. –
E seguitò narrando le cagioni
che li fece venir con l’arme indosso.
– Sì giusta è questa excusa che m’opponi
(disse il guerrier), che contradir non posso;
e fo certo giudicio che voi siate
tre cavallier che pochi pari habbiate.
7
Io chiedea un colpo o dui con voi scontrarme
per veder quanto fusse il valor vostro;
ma quando al’altrui spese dimostrarme
lo vogliate, mi basta, e più non giostro.
Ben priego che vi piaccia tra quest’arme
annoverar la lancia e il scudo nostro;
e spero dimostrar, se con voi vegno,
che di tal compagnia non sono indegno. –
8
Parmi veder ch’alcun saper disia
el nome di costui, che quivi giunto
a Ruggier e compagni s’offeria
compagno d’arme al periglioso punto:
costei, non più costui detto vi sia,
era Marphisa, c’havea il mal assunto
dato al miser Zerbin de la ribalda
vecchia Gabrina, ad ogni mal sì calda.
9
Li dui di Chiaramonte e il buon Ruggiero
accettaron Marphisa in la sua schiera,
ch’esser credeano certo un cavalliero,
e non donzella, e non quella ch’ella era.
Non molto dopo scoperse Aldigiero
e mostrò alli compagni una bandiera
che facea l’aura tremolare in volta,
e intorno havea gente a caval raccolta.
10
E poi che più lor fur fatti vicini
e che meglio notâr l’habito Moro,
connobbero che li eran Saracini,
e videro i prigioni in mezo loro
legati e tratti su piccol ronzini
a’ Maganzesi, per cambiarli in oro.
Disse Marphisa a li altri: – Hora che resta,
poi che son qui, di cominciar la festa? –
11
Ruggier rispose: – L’invitati anchora
non ci son tutti, e manca una gran parte.
Gran ballo s’apparecchia di far hora;
e perché sia solenne, usiamo ogni arte:
ma far non ponno homai lunga dimora. –
Così dicendo, veggono in disparte
venir li traditori di Maganza:
sì che eran presso a comminciar la danza.
12
Giungean da l’una parte i Maganzesi,
e conducean con loro i muli carchi
d’oro e di vesti et altri ricchi arnesi;
dal’altra in mezo a lance, spade et archi,
stavan dolenti i duo germani presi,
ch’attesi si vedeano essere ai varchi:
e Bertolagi, empio inimico loro,
udian parlar col capitano Moro.
13
Né il figliuolo di Bovo né d’Amone,
veduto il Maganzese, indugiar pote.
La lancia in resta l’uno e l’altro pone,
e l’uno e l’altro il traditor percuote;
l’un gli passa la pancia e il primo arcione,
e l’altro il viso per mezo le gote:
così n’andasser tutti li malvagi
come a quei colpi n’andò Bertolagi.
14
Marphisa con Ruggiero a questo segno
si move, e non attende altra trombetta;
né prima rompe l’arrestato legno
che tre, l’un dopo l’altro, in terra getta.
De l’hasta di Ruggier fu il pagan degno,
che guidò li altri, e uscì di vita in fretta;
e per quella medesima con lui
uno et un altro andò ne’ regni bui.
15
Di qui nacque uno error tra li assaliti,
che lor causò lor ultima ruina.
Quinci li Maganzesi esser traditi
credeansi da la squadra saracina;
quindi li Mori in tal modo feriti
l’altra schiera chiamaveno assassina:
e tra lor comminciâr con fera clade
a tirar archi e vibrar lancie e spade.
16
Salta hor in questa squadra et hora in quella
Ruggiero, e ne tol via quindici o venti:
altritanti per man de la donzella
di qua e di là ne son scemati e spenti.
Tanti si veggiono ir morti di sella,
quanti ne toccan le spade taglienti,
a cui dàn l’elmi e le corazze luoco
come nel bosco i legni secchi al fuoco.
17
Se mai d’haver veduto vi racorda
o rapportato v’ha fama all’orecchie
come, quando il collegio si discorda,
uscendo in aria a guerreggiar le pecchie,
entri fra lor la Rondinella ingorda,
e mangi e uccida e guastine parecchie;
devete imaginar che simelmente
Ruggier fusse e Marphisa in quella gente.
18
Non così Ricciardetto e il suo cugino
tra le due genti varïavan danza,
perché, lasciando il campo saracino,
solo havean l’occhio a quelli di Maganza.
Il fratel di Rinaldo paladino
con molto animo havea molta possanza,
e quivi raddoppiar gli la facea
l’odio che contra Maganzesi havea.
19
Facea parer questa medesma causa
un leon fiero il bastardo di Bovo,
che con la spada senza indugia e pausa
fende ogni elmo, o lo schiaccia come un ovo.
E qual persona non serìa stata ausa
e non serìa comparsa un Hettòr nuovo,
Marfisa havendo in compagnia e Ruggiero,
ch’era l’eletta e il fior d’ogni guerriero?
20
Marphisa tuttavolta combattendo,
spesso a’ compagni gli occhi rivoltava;
e di lor forza paragon vedendo,
con maraviglia tutti li lodava:
ma di Ruggier pur il valor stupendo
senza uguaglianza alcuna le sembrava;
e talhor si credea che fusse Marte
sceso dal quinto cielo in quella parte.
21
Mirava quelle horribili percosse,
miravale non mai calare in fallo.
Parea che contra Balisarda fosse
el ferro charta, e non duro metallo:
fendeva li elmi e le corazze grosse
da’ capi fin al ventre, e da cavallo
in parti ugual facea caderli al prato,
così da l’un come da l’altro lato.
22
Continuando la medesma botta,
uccidea col signore il caval anche;
li capi da le spalle alzava in frotta,
e li busti partia spesso da l’anche.
Cinque e se’ a un colpo ne tagliò talhotta:
e se non che pur dubito che manche
credenza al ver c’ha faccia di menzogna,
di più direi; ma di men dir bisogna.
23
El buon Turpin, che sa che dice il vero
e lascia creder poi quel che al huom piace,
narra mirabil cose di Ruggiero,
ch’udendo il stimareste voi mendace.
Così parea di giaccio ogni guerriero
contra Marphisa, et ella ardente face;
e non men di Ruggier gli occhi a sé trasse,
ch’ella di lui l’alto valor mirasse.
24
E s’ella lui Marte stimato havea,
stimato egli havria lei forse Bellona
se per donna così la connoscea,
come parea il contrario alla persona.
Forse emulatïon tra lor nascea
per quella gente misera, non buona,
perché alle spese d’altrui sangue et ossa
provavan chi di lor havea più possa.
25
Bastò di quattro l’animo e il valore
a far ch’un campo e l’altro andasse rotto.
Non restava arme, a chi fuggìa, migliore
che quella che si porta più di sotto:
beato chi ’l cavallo ha corridore,
ch’in prezzo non è quivi ambio né trotto;
e chi non ha destrier, quivi s’avede
quanto il mistier de l’arme è tristo a piede.
26
Riman la preda e il campo a’ vincitori,
che non è fante o mulatier che resti:
là Maganzesi, e qua fùggieno i Mori;
quei lasciano i prigion, le some questi.
Furon, con lieti visi e più co i cori,
li dui di Chiaramonte a scioglier presti
Malagigi e Viviano, e fur lor paggi
non manco d’essi presti a i carrïaggi.
27
Oltra una buona quantità d’argento
ch’in diverse vasella era formato,
et alcun mulïebre vestimento
di lavoro bellissimo fregiato,
e per stanze reali un paramento
d’oro e di seta in Fiandra lavorato,
et altre cose ricche in copia grande;
fiaschi di vin trovâr, pane e vivande.
28
Al trar de l’elmi, tutti vider come
havea lor dato aiuto una donzella:
fu connosciuta all’auree crespe chiome
et alla faccia delicata e bella.
L’honoran molto, e pregano ch’el nome
di gloria degno non ascondi; et ella,
che sempre tra li amici era cortese,
di sé buon conto volentier lor rese.
29
Non si ponno satiar di riguardarla;
che la vider sì fera in la battaglia.
Sol mira ella Ruggier, sol con lui parla:
altri non prezza, altri non par che vaglia.
Vengono i servi intanto ad invitarla
con li compagni, ove la vittuaglia
apparecchiata havean sopra una fonte
che difendea dal raggio estivo un monte.
30
Era una de le fonti di Merlino,
di quattro che per Francia n’havea fatte,
d’intorno cinta di bel marmo fino,
lucido e terso, e bianco più che latte.
Quivi d’intaglio havea in lavor divino,
d’huomini e fiere, imagini retratte:
direste che spiravano, e se prive
non fussero di voce, ch’eran vive.
31
Quivi una bestia uscir de la foresta
parea, di crudel vista, odiosa e brutta,
c’havea l’orecchie d’asino, e la testa
di lupo e’ denti, e per gran fame asciutta;
branche havea di leon; l’altro che resta
tutto era volpe: e parea scorrer tutta
l’Alemagna, la Francia e l’Inghilterra,
Italia, Spagna, e al fin tutta la terra.
32
Per tutto havea genti ferite e morte,
né più la bassa plebe che li capi
de cittadi e provincie: anzi più forte
noceva a Regi, a Principi e Satràpi.
Facea più danno in la Romana corte,
che v’havea uccisi Cardinali e Papi:
contaminato havea la bella sede
di Pietro, e messo scandalo in la fede.
33
Non sta dinanzi a questa Bestia horrenda
alcun ripar: cade ogni mur che tocca;
non si vede città che se difenda:
se le apre incontra ogni castello e ròcca.
Par che a li honor divini ancho s’estenda
e sia adorata da la gente sciocca,
e che le chiavi s’arrogi d’havere
del cielo e del abysso in suo potere.
34
Poi si vedea d’Imperïale alloro
cinto le chiome un cavallier venire
con tre gioveni a par, che i gigli d’oro
tessuti havean nel lor real vestire;
e con insegna simile, con loro
parea un Leon contra quel Mostro uscire:
havean lor nomi chi sopra la testa,
e chi nel lembo scritto de la vesta.
35
L’un c’havea sin a l’elsa ne la pancia
la spada immersa alla maligna fiera,
Francesco primo, havea scritto, di Francia;
Maximigliano d’Austria a par seco era,
e Carlo di Borgogna, che di lancia
havea passato il Mostro alla gorgiera;
l’altro era, che di stral gli figea il petto,
Enrigo ottavo d’Inghilterra detto.
36
Decimo havea il Leon scritto sul dosso,
c’havea attaccate l’Asinine orecchi;
e tanto il Mostro havea fermato e scosso,
che v’erano arrivati altri parecchi.
Parea del mondo ogni timor rimosso;
et in emenda de li errori vecchi
nobil gente accorrea, non perhò molta,
donde alla Belva era la vita tolta.
37
Li cavallieri stavano, e Marphisa,
con desiderio di connoscer questi,
per le cui mani era la Bestia uccisa,
che fatti havea tanti luochi atri e mesti.
Avegna che la pietra fusse incisa
de’ nomi lor, non eran manifesti.
Si pregano tra lor, che se sapesse
l’historia alcuno, agli altri la dicesse.
38
Volse Viviano a Malagigi gli occhi,
che stava a udire e non facea lor motto:
– A te (disse) narrar l’historia tocchi,
ch’esser ne déi, per quel ch’io veggia, dotto.
Chi son costor che con saette e stocchi
e lance a morte han l’Animal condotto? –
Rispose Malagigi: – Non è historia
di che sin qui ne faccia author memoria.
39
Questi (havete a saper) che li nomi hanno
scritti nel marmo, al mondo mai non furo;
ma fra settecento anni vi seranno,
con gran splendor del secolo futuro.
Merlino, il savio incantator Britanno,
fe’ far la fonte al tempo del Re Arturo;
e de cose ch’al mondo hanno a venire
la fe’ da buoni artìfici sculpire.
40
Questa bestia crudele uscì del fondo
del inferno a quel tempo che fur fatti
li termini alli campi, e che fu il pondo
trovato e la misura, e scritti i patti.
Ma non andò a principio in tutto il mondo;
di sé lasciò molti paesi intatti:
al tempo nostro in molti luochi sturba;
ma populari offende e la vil turba.
41
Dal suo principio insino al secol nostro
sempre è cresciuto, et anderà crescendo:
sempre crescendo, al lungo andar fia il Mostro
lo maggior che mai fusse e lo più horrendo.
Quel Phython, che per charte e per inchiostro
s’ode che fu sì horribile e stupendo,
alla metà di questo non fu tutto,
né tanto abominevol né sì brutto.
42
Crudel strage farà, né serà luoco
che non guasti, contamini et infetti:
e quanto mostra la scultura è poco
de li nefandi suoi crudeli effetti.
Al mondo, di gridar mercé già roco,
questi di chi li nomi havemo letti,
che chiari splenderan più che piropo,
verranno a dare aiuto al maggior uopo.
43
Alla fiera crudele il più molesto
non serà di Francesco Re de’ Franchi:
e ben convien che molti exceda in questo,
e nessun prima, e pochi n’habbia a’ fianchi;
quando in real splendor, quando nel resto
di virtù farà molti parer manchi,
che già parver compiuti; come cede
tosto ogn’altro splendor, ch’el Sol si vede.
44
L’anno primier del fortunato regno,
non ferma anchor ben la corona in fronte,
passerà l’Alpe, e romperà il disegno
di chi all’incontro havrà occupato il monte,
da giusto spinto e generoso sdegno,
che vendicate anchor non sieno l’onte
che dal furor da paschi e mandre uscito
l’exercito di Francia havrà patito.
45
E quindi scenderà nel ricco piano
di Lombardia, col fior di Francia drieto,
e su gli occhi del popul di Milano
ucciderà l’Elvetio immansueto;
né il campo de la Chiesa, né l’Hispano,
né il Fiorentin gli potrà far divieto:
expugnerà il castel, che prima suto
serà non expugnabile tenuto.
46
Sopra ogn’altre arme, ad expugnarlo, molto
più gli varrà quella honorata spada
con che già prima havrà di vita tolto
el Monstro corruttor d’ogni contrada:
convien ch’inanzi a quella sia rivolto
in fuga ogni stendardo, o a terra vada;
né fossa, né ripar, né grosse mura
potran da lei tener città sicura.
47
Questo principe havrà quanta excellenza
haver felice Imperator mai debbia:
l’animo del gran Cesar, la prudenza
di chi mostrolla a Transimeno e a Trebbia,
con la fortuna d’Alexandro, senza
cui serìa fumo ogni disegno e nebbia.
Serà sì liberal, ch’io lo contemplo
non haver qui né paragon né exemplo. –
48
Così diceva Malagigi, e messe
disire a’ cavallier d’haver contezza
del nome d’alcun altro ch’uccidesse
l’infernal bestia, uccider li altri avezza.
Quivi un Bernardo tra’ primi si lesse,
che Merlin molto nel suo scritto apprezza:
– Per lui fia nota (dice) Bibïena
quanto Fiorenza sua vicina e Siena. –
49
Quivi non è chi piedi inanzi pona
a Hippolyto, a Gismondo, a Ludovico:
da Este, da Gonzaga, d’Aragona,
ciascuno al fiero Mostro aspro nemico.
V’è Francesco di Mantua, né abbandona
le sua vestigie il figlio Federico;
et ha il cognato e il genero vicino,
quel di Ferrara, e quel Duca d’Urbino.
50
Ma Consalvo Ferrante ove ho lasciato,
l’Hispano honor, ch’in tanto pregio v’era,
che fu da Malagigi sì lodato,
che pochi il pareggiâr di quella schiera?
Guglielmo si vedea di Monferrato
fra quei che morto havean la brutta fiera;
et eran pochi verso l’infiniti
ch’ella v’havea chi morti e chi feriti.
51
In giuochi honesti e parlamenti lieti,
dopo mangiar, spesero il caldo giorno,
corcati su finissimi tapeti
tra li arbuscelli ond’era il rivo adorno.
Malagigi e Vivian, perché quïeti
più fusser li altri, tenean l’arme intorno;
quando una donna senza compagnia
vider, che verso lor dritto venìa.
52
Questa era quella Hippalca a chi fu tolto
el caval di Ruggier da Rodomonte.
L’havea il dì inanzi ella seguito molto,
pregandolo hora, hora dicendogli onte;
ma non giovando, havea il pensier rivolto
d’ire a trovar Ruggiero; e in Agrismonte,
dove sua via la trasse, le fu detto
che quivi il troveria con Ricciardetto.
53
E perché il luoco ben sapea (che v’era
stata altre volte), se ne venne al dritto
all’ombrosa fontana; e in la maniera
lo ritrovò, ch’io v’ho di sopra scritto.
Ma come buona e cauta messaggiera
che sa meglio essequir che non l’è ditto,
quando vide il fratel di Bradamante,
non connoscer Ruggier fece sembiante.
54
A Ricciardetto tutta rivoltosse,
sì come drittamente a lui venisse;
e quel, che la connobbe, se le mosse
incontra e dimandò dove ne gisse.
Ella, ch’anchora havea le luci rosse
del pianger lungo, suspirando disse
(ma disse forte, acciò che fusse expresso
a Ruggier il suo dir, ch’era lui presso).
55
– Mi trahea drieto (disse) per la briglia,
come imposto m’havea la tua sorella,
un bel cavallo e buono a maraviglia,
ch’ella molto ama e che Frontino appella,
credendolo condur sin a Marsiglia,
dove in breve devea poi venire ella;
e l’havea tratto de le miglia venti
senza mai ritrovar impedimenti.
56
Era sì baldanzoso il creder mio,
ch’io non stimavo alcun di cor sì saldo
che me l’havesse a tôr, dicendogli io
ch’era de la sorella di Rinaldo.
Ma vano il mio disegno hieri m’uscìo,
che me lo tolse un Saracin ribaldo;
né per udir di chi Frontino fusse,
mai a volerlo rendermi s’indusse.
57
Tutto hieri lo pregai, l’ho pregato hoggi;
e poi che nulla valse, al fin lasciallo
di qui poco lontano, oltra quei poggi,
là dove ha gran mistier del buon cavallo;
perché con li occhi più che fuoco roggi
dianzi lo vidi in periglioso ballo
contra un guerrier ch’in tal travaglio il mette,
che spero c’habbia a far le mie vendette. –
58
Ruggier a quel parlar salito in piede,
c’havea potuto a pena il tutto udire,
si volta a Ricciardetto, e per mercede
e premio e guidardon del ben servire
(prieghi aggiungendo senza fin) gli chiede
che con la donna sol lo lasci gire
tanto ch’el Saracin gli sia mostrato,
ch’el buon destrier di man le havea levato.
59
A Ricciardetto, anchor che discortese
el concedere altrui troppo paresse
di terminar le a sé debite imprese,
al voler di Ruggier pur se rimesse:
e quel licentia da’ compagni prese,
e con Hippalca a ritornar si messe,
lasciando, a quei che rimanean, stupore,
non maraviglia pur del suo valore.
60
Poi che da li altri allontanato alquanto
Hippalca l’hebbe, gli narrò che ad esso
era mandata da colei che tanto
havea nel core il suo valore impresso;
et senza finger più, seguitò quanto
la sua Donna al partir le havea commesso,
e che se dianzi havea altrimente detto,
per la presentia fu di Ricciardetto.
61
Disse che chi le havea tolto il destriero,
anchor detto l’havea con molto orgoglio:
– Perché so ch’el cavallo è di Ruggiero,
più volentier per questo te lo toglio.
S’egli di ricovrarlo havrà pensiero,
fagli saper, ch’asconder non gli voglio,
che io son quel Rodomonte il cui valore
nel mondo appar con immortal splendore. –
62
Ascoltando, Ruggier mostrò nel volto
di quanto sdegno acceso il cor gli sia,
sì perché caro havria Frontino molto,
sì perché venìa il don donde venìa,
sì perché in suo dispregio gli par tolto;
vede che biasmo e dishonor gli fia
se tôrlo a Rodomonte non s’affretta,
e sopra lui non fa degna vendetta.
63
La donna Ruggier guida, e non soggiorna,
che por lo brama col Pagano a fronte;
e giunge ove la strada fa dua corna:
l’un va giù al piano, e l’altro va su al monte;
e quello e questo in la vallea ritorna,
dove ella havea lasciato Rodomonte.
Aspra, ma breve, era la via del colle;
l’altra più lunga assai, ma piana e molle.
64
El desiderio che conduce Hippalca
d’haver Frontino e vendicar l’oltraggio
fa ch’el sentier de la montagna calca,
donde molto più curto era il vïaggio.
Per l’altra intanto il Re d’Algier cavalca
con Mandricardo e li altri che detto haggio;
e giù nel pian la via più facil tiene,
né con Ruggiero ad incontrar si viene.
65
Come habbian le querele differite
quelli dui Re, fin che soccorso sia
al Re Agramante, et habbian de lor lite
la cagion, Doralice, in compagnia,
so che v’è a mente; hora il successo udite.
Alla fontana fu lor dritta via,
dove Aldigier, Marphisa, Ricciardetto,
Malagigi e Vivian stanno a diletto.
66
Marphisa a’ prieghi de’ compagni havea
veste da donna et ornamenti presi,
di quelli ch’a Lanfusa si credea
mandare il traditor de’ Maganzesi;
e ben che veder raro si solea
senza l’usbergo e li altri buoni arnesi,
pur quel dì se li trasse; e come donna,
a’ prieghi lor lasciò vedersi in gonna.
67
Tosto che vede il Tartaro Marphisa,
per la credenza c’ha di guadagnarla,
in ricompensa e in cambio ugual s’avisa,
di Doralice, a Rodomonte darla;
sì come Amor si regga a questa guisa,
che vender la sua donna o commutarla
possa l’amante, né a ragion s’attrista
se quando una ne perde, una ne acquista.
68
Per dunque provedergli di donzella,
acciò per sé quest’altra si ritegna,
Marphisa, che gli par liggiadra e bella
e d’ogni cavallier femina degna,
come habbia ad haver questa, come quella,
subito cara, a lui donar disegna;
e quelli cavallier che con lei vede,
a giostra seco et a battaglia chiede.
69
Malagigi e Vivian, che l’arme haveano
come per guardia e sicurtà del resto,
si mossero dal luoco ove sedeano
e s’acconciaro alla battaglia presto,
perché giostrar con amendui credeano;
ma l’Aphrican, che non venìa per questo,
non ne fe’ segno o movimento alcuno:
sì che la giostra restò lor contra uno.
70
Viviano è il primo, e con gran cor si muove,
e nel venire abbassa un’hasta grossa;
e ’l Re Pagan da le famose pruove
da l’altra parte vien con maggior possa.
Dirizza l’un e l’altro, e segna dove
crede meglio fermar l’aspra percossa:
Viviano indarno a l’elmo il Pagan fere;
che non lo fa piegar, non che cadere.
71
El Re Pagan, c’havea più l’hasta dura,
fe’ il scudo di Vivian parer di giaccio;
e fuor di sella, in mezo la verdura,
lo mandò all’herbe et alli fiori in braccio.
Vien Malagigi, e ponsi in aventura
di vendicare il suo fratello avaccio;
ma poi d’andargli appresso hebbe tal fretta,
che gli fe’ compagnia più che vendetta.
72
L’altro fratel fu prima del cugino
coll’arme indosso e sul caval salito;
e disfidato contra il Saracino
venne a scontrarlo a tutta briglia ardito.
Risonò il colpo in mezo a l’elmo fino
di quel Pagan sotto la vista un dito:
volò al ciel l’hasta in quattro tronchi rotta;
ma non mosse il Pagan per quella botta.
73
El Pagan ferì lui dal lato manco;
e la ferita fu di sì gran forza,
che poco il scudo e la corazza manco
gli valse, che s’aprîr come una scorza.
Passò il ferro crudel l’homero bianco:
piegò Aldigier ferito a poggia e ad orza;
tra fiori et herbe al fin si vide avolto,
rosso su l’arme, e pallido nel volto.
74
Con molto ardir vien Ricciardetto appresso;
e nel venire arresta sì gran lancia,
che mostra ben, come ha mostrato spesso,
che degnamente è paladin di Francia:
et al Pagan ne facea segno expresso
se fusse stato pare alla bilancia;
ma sossopra n’andò, perché il cavallo
gli cadde adosso, e non già per suo fallo.
75
Poi ch’altro cavallier non se dimostra
ch’al Pagan per giostrar volti la fronte,
pensa haver guadagnato de la giostra
la donna, e venne a lei presso alla fonte;
e disse: – Damigella, sète nostra,
s’altro non è per voi ch’in sella monte.
Non potete negarlo o farne excusa;
che di ragion di guerra così s’usa. –
76
Marphisa, alzando con un viso altiero
la faccia, disse: – Il tuo parer molto erra.
Io ti concedo che diresti il vero,
ch’i’ serìa tua per la ragion di guerra,
quando mio signor fusse o cavalliero
alcun di questi c’hai gettato in terra.
Io sua non son, né son d’altri che mia:
dunque me tolga a me chi mi disia.
77
So scudo e lancia adoperare anch’io,
e più d’un cavalliero in terra ho posto. –
– Presto arrecate l’arme e il destrier mio! –
gridò a’ scudier, che l’ubidiron tosto.
Trasse la gonna, et in farsetto uscìo;
e le belle fattezze e il ben disposto
corpo mostrò, ch’in ciascuna sua parte,
fuor che nel viso, assimigliava a Marte.
78
Poi che fu armata, la spada se cinse
e sul caval montò d’un leggier salto;
e qua e là tre volte e quattro il spinse,
e quinci e quindi il fe’ girare in alto;
e poi, sfidando il Saracino, strinse
la grossa lancia e comminciò l’assalto:
tal ne’ campi Troiani esser devea
contra il Thessalo Achil Pantesilea.
79
Le lancie insin al calce si fiaccaro,
a quello horribil scontro, come vetro;
né perhò chi le corsero piegaro,
che si notasse, un dito solo a dietro.
Marphisa, che volea connoscer chiaro
s’a più stretta battaglia simil metro
servaria contra sé il fiero Pagano,
se gli rivolse con la spada in mano.
80
Biastemmiò il cielo e li elementi il crudo
Pagan, poi che restar la vide in sella;
Marphisa, che pensò rompergli il scudo,
non men sdegnosa contra il ciel favella.
Già l’uno e l’altro ha in mano il ferro nudo,
e su le fatali arme si martella:
l’arme fatali han parimente intorno,
che mai non bisognâr più di quel giorno.
81
Sì buona è quella piastra e quella maglia,
che spada o lancia non la taglia o fora;
sì che potea seguir l’aspra battaglia
tutto quel giorno e l’altro appresso anchora.
Ma Rodomonte in mezo lor si scaglia,
e dice al suo rival: – Se far dimora
per singular battaglia qui far vuoi,
finiàn la comminciata hoggi fra noi.
82
Facemmo (come sai) triegua con patto
di dar soccorso alla militia nostra;
e non devemo, prima che sia fatto,
incomminciare altra battaglia o giostra. –
Indi a Marphisa riverente in atto
si volta, e humanamente le dimostra
el messo, e narra come sia venuto
a chieder lor per Agramante aiuto.
83
La priega poi che le piaccia non solo
lasciar quella battaglia o differire,
ma che voglia in aiuto del figliuolo
del Re Troian con essi lor venire;
onde la fama sua con maggior volo
potrà far meglio insin al ciel salire,
che, per querela di poco momento,
dando a tanto disegno impedimento.
84
Marphisa, che fu sempre disïosa
di provar quei di Carlo a spada e lancia,
né l’havea indutta a venire altra cosa
di sì lontana regïone in Francia,
se non per esser certa se famosa
lor nominanza era per vero o ciancia,
tosto d’andar con lor partito prese
che d’Agramante il gran bisogno intese.
85
Ruggiero in questo mezo havea seguito
indarno Hippalca per la via del monte;
e trovò, giunto al luoco, che partito
per altra via se n’era Rodomonte:
e pensando che lungi non era ito
e ch’el sentier tenea dritto alla fonte,
trottando in fretta drieto gli venìa
per l’orme che eran fresche in su la via.
86
Vòlse che Hippalca a Montalban pigliasse
la via, ch’una giornata era vicino;
perché s’alla fontana ritornasse,
si torria troppo dal dritto camino.
E disse a lei che già non dubitasse
che non s’havesse a ricovrar Frontino:
ben le farebbe a Montalbano, o dove
si trovasse ella, udir presto le nuove.
87
E le diede la lettera che scrisse
in Agrismonte, e che se portò in seno;
e molte cose a bocca ancho le disse,
e la pregò che lo excusasse a pieno.
El tutto Hippalca in la memoria fisse,
prese licentia e voltò il palafreno;
e non cessò la buona messaggiera,
ch’in Montalban si ritrovò la sera.
88
Ruggier seguiva Rodomonte in fretta
per l’orme che apparian ne la via piana,
ma non ne puòte haver prima vedetta
che fusse ritornato alla fontana.
Già fatta era la tregua ch’io v’ho detta;
perché alla gente d’Aphrica e alla Hispana,
senza più differir, fusse soccorso
prima che Carlo lor ponesse il morso.
89
Quivi giunto Ruggier, Frontin connobbe,
e connobbe per lui chi adosso gli era;
e su la lancia fe’ le spalle gobbe,
e sfidò l’Aphrican con voce altiera.
Rodomonte quel dì fe’ più che Iobbe,
poi che domò la sua superbia fiera;
e recusò la pugna che havea usanza
di sempre egli cercar con ogni instanza.
90
El primo giorno e l’ultimo, che pugna
mai recusasse il Re d’Algier, fu questo;
ma tanto il desiderio che si giugna
in soccorso al suo Re gli par honesto,
che se credesse haver Ruggier in l’ugna
più c’habbia tigre mai cervio mal presto,
non se vorria fermar tanto con lui
che fêsse un colpo de la spada o dui.
91
Giùngevi che sapea ch’era Ruggiero
che seco per Frontin volea battaglia,
tanto famoso, ch’altro cavalliero
non è ch’a par di lui di gloria saglia,
l’huom che bramato ha di saper per vero
experimento quanto in arme vaglia;
e pur non vuol seco accettar l’impresa:
tanto l’assedio del suo Re gli pesa.
92
Trecento miglia sarebbe ito e mille,
se ciò non fusse, a comperar tal lite;
ma se l’havesse hoggi sfidato Achille,
più fatto non havria di quel che udite:
tanto a quel punto sotto le faville
le fiamme havea del suo furor sopite.
Narra a Ruggier perché pugna rifiuti;
e prega anchor ch’el suo disegno aiuti:
93
che facendol, farà quel che far deve
al suo signore un cavallier fedele.
Sempre che questo assedio poi si leve,
havranno tempo a terminar querele.
Ruggier rispose a lui: – Mi serà lieve
differir questa pugna fin che de le
forze di Carlo si traggia Agramante,
pur che mi rendi il mio Frontino inante.
94
Se lo provarti c’hai fatto gran fallo
e fatto hai cosa indegna a un hom forte,
d’haver tolto a una donna il mio cavallo,
vuoi ch’io prolunghi fin che siamo in corte,
lascia Frontino, e nel mio arbitrio dàllo.
Non pensar altrimente ch’io supporte
che la battaglia qui tra noi non segua,
né ch’io ti faccia sol d’un’hora tregua. –
95
Mentre Ruggiero al Aphrican dimanda
o Frontino o battaglia allhora allhora,
e quello in lungo l’uno e l’altro manda,
né vuol dar il destrier, né far dimora;
Mandricardo ne vien da un’altra banda,
e mette in campo un’altra lite anchora,
poi che vede Ruggier che per insegna
porta l’augel che sopra li altri regna.
96
Nel scudo azur l’Aquila bianca havea,
che de’ Troiani fu l’insegna bella:
perché Ruggier l’origine trahea
dal fortissimo Hettòr, portava quella.
Ma questo Mandricardo non sapea;
né vuol patire, e grande ingiuria appella,
che debbia, altro che sé, nel scudo porre
l’Aquila bianca del famoso Hettorre.
97
Portava egli nel scudo similmente
l’augel che rapì in Ida Ganymede:
l’hebbe, poi ch’in l’impresa fu vincente
al castel de la fata, per mercede.
Credo che ben vi sia l’historia a mente,
quando insieme la fata gli lo diede
col resto di quell’arme che Vulcano
già havea donate al cavallier Troiano.
98
Altra volta a battaglia erano stati
Mandricardo e Ruggier solo per questo;
e per che caso fusser destornati
io nol dirò, che già v’è manifesto.
Dopo non s’eran mai più raccozzati,
se non adesso; e Mandricardo presto
che mirò il scudo, alzò il superbo grido
minacciando, e a Ruggier disse: – Io te sfido.
99
Tu la mia insegna, temerario, porti;
né questo è il primo dì ch’io te l’ho detto.
E credi, pazzo, anchor che lo comporti,
per una volta ch’io t’hebbi rispetto?
Ma poi che né minaccie né conforti
ti pôn questa follia levar dal petto,
ti mostrerò quanto miglior partito
t’era d’havermi subito ubidito. –
100
Come ben riscaldato àrrido legno
a piccol soffio subito s’accende,
così s’avampa di Ruggiero il sdegno
al primo motto che di questo intende.
– Ti pensi (disse) farmi stare al segno
perché quest’altro anchor meco contende?
Ma mostrerotti ch’i’ son buon per tôrre
a lui Frontino, a te il scudo d’Hettorre.
101
Un’altra volta pur per questo venni
teco a battaglia, e non è gran tempo ancho;
ma d’ucciderti allhora mi contenni,
perché tu non havevi spada al fianco.
Io farò fatti adesso, allhor fur cenni;
e mal serà per te quel augel bianco
ch’antiqua insegna è stata di mia gente:
tu te l’usurpi, io ’l porto giustamente. –
102
– Anzi t’usurpi tu l’insegna mia! –
rispose Mandricardo; e trasse il brando,
quello che poco inanzi per follia
havea gettato alla foresta Orlando.
El buon Ruggier, che di sua cortesia
non può non sempre ricordarsi, quando
vide il Pagan c’havea tratta la spada,
la lancia c’havea in man gettò in la strada.
103
E quasi a un tempo Balisarda stringe,
la buona spada, e meglio il scudo imbraccia:
ma l’Aphrican in mezo ’l caval spinge,
e Marphisa con lui presto si caccia;
e l’uno questo, e l’altro quel respinge,
e pregano amendui che non si faccia.
Rodomonte si duol che rotto il patto
due volte ha Mandricardo, che fu fatto:
104
prima, credendo guadagnar Marphisa,
s’era fermato a correr tante lance;
et hor col figlio del guerrier di Risa
s’era attaccato per favole e ciance.
– Se pur (dicea) déi fare a questa guisa,
alla battaglia nostra ritorniance,
convenïente e più debita assai
ch’alcuna di quest’altre che prese hai.
105
Con tal conditïon fu stabilita
la tregua e questo accordo ch’è fra nui.
Come la pugna teco havrò finita,
poi del destrier responderò a costui.
Tu del tuo scudo, rimanendo in vita,
la lite havrai da terminar con lui;
ma ti darò da far tanto, mi spero,
che non avanzerà troppo a Ruggiero. –
106
– La parte che ti pensi, non havrai, –
rispose Mandricardo a Rodomonte:
– io te ne darò più che non vorrai,
e ti farò sudar dal piè alla fronte;
e me ne rimarrà per darne assai,
come non manca mai l’acqua del fonte,
et a Ruggiero et a mill’altri seco,
e a tutto il mondo che la voglia meco. –
107
Moltiplicavan l’ire e le parole
quando da questo e quando da quel lato:
con Rodomonte, con Ruggier la vuole
tutto in un tempo Mandricardo irato;
Ruggier, ch’oltraggio sopportar non suole,
non vuol più accordo, anzi litigio e piato.
Marphisa hor va da questo, hor da quel canto
per riparar, ma non può sola tanto.
108
Come il villan, se per le fragil sponde
penetra il fiume e cerca nuova strada,
frettoloso a vietar che non affonde
li verdi paschi e la sperata biada,
chiude una via et un’altra, e si confonde;
che se ripara quinci che non cada,
quindi vede lassar li argini molli
e fuor l’acqua spicciar con più rampolli:
109
così, mentre Ruggiero e Mandricardo
e Rodomonte son tutti sossopra,
ch’ognun vuol dimostrarsi più gagliardo
de li compagni e rimaner di sopra,
Marphisa, ch’acchetarli havea riguardo,
molto s’affanna, e perde il tempo e l’opra;
che, come ne spicca uno e lo ritira,
li altri dui risalir vede con ira.
110
Marphisa, che volea porli d’accordo,
dicea: – Signori, udite il mio consiglio:
differire ogni lite è buon ricordo
fin che Agramante sia fuor di periglio.
S’ognun vuole al suo fatto esser ingordo,
anch’io con Mandricardo mi ripiglio;
e vuo’ vedere al fin se guadagnarme
(come egli ha detto) è buon per forza d’arme.
111
Ma se si de’ soccorrere Agramante,
soccorrasi, e tra noi non si contenda. –
– Per me non si starà d’andare inante, –
disse Ruggier, – pur ch’el caval si renda.
O che mi dia il cavallo, a far di tante
una parola, o che da me il difenda:
o che qui morto ho da restare, o ch’io
in campo ho da tornar sul destrier mio. –
112
Rispose Rodomonte: – Ottener questo
non fia così, come quell’altro, lieve. –
E seguitò dicendo: – Io ti protesto
che s’alcun danno il nostro Re riceve,
fia per tua colpa; ch’io per me non resto
di far a tempo quel che far si deve. –
Ruggiero a quei protesti poco bada;
ma stretto dal furor stringe la spada.
113
Al Re d’Algier come Cingial si scaglia,
e l’urta sì del scudo e de la spalla,
e in modo lo disordina e sbarraglia,
che fa che d’una staffa il piè gli falla.
Mandricardo gli grida: – O la battaglia
differisci, Ruggiero, o meco fàlla; –
e crudele e fellon più che mai fosse,
Ruggier su l’elmo in questo dir percosse.
114
Fin sul collo al destrier Ruggier s’inchina,
né quando vuolsi rilevar si pote;
perché gli sopraggiunge la ruina
del figlio d’Ulïen che lo percuote:
se non che l’elmo era di tempra fina,
gli fendea il capo per mezo le guote.
Ruggier stordito ambe le mani aperse,
e l’una il fren, l’altra la spada perse.
115
Porta il caval Ruggier per la campagna;
drieto gli resta in terra Balisarda.
Marphisa, che quel dì fatta compagna
se gli era d’arme, par che avampi et arda
che fra que’ dui Ruggier solo rimagna:
e come era magnanima e gagliarda,
si drizza a Mandricardo, e col potere
c’havea maggior, sopra la testa il fiere.
116
Rodomonte a Ruggier drieto si spinge:
vinto è il caval, s’un’altra gli n’appicca;
ma Ricciardetto con Vivian si stringe,
e tra Ruggiero e il Saracin si ficca.
L’uno urta Rodomonte e lo rispinge,
e da Ruggier per forza lo dispicca;
l’altro la spada sua, che fu Viviano,
pone a Ruggier, già risentito, in mano.
117
Tosto ch’el buon Ruggiero in sé ritorna
e che Vivian la spada gli appresenta;
pien d’ira sì, che ne trabbocca l’orna,
per vendicarsi al Re d’Algier s’aventa,
come il leon che tolto su le corna
dal bue sia stato, e ch’el dolor non senta:
sì l’ira, il sdegno, l’impeto l’affretta,
stimola e sferza a far la sua vendetta.
118
Ruggier sul capo al Saracin tempesta:
e se la spada sua si ritrovasse,
che, come ho detto, al comminciar di questa
pugna di man gran fellonia gli trasse,
mi credo che a difendere la testa
di Rodomonte l’elmo non bastasse,
l’elmo che fece il Re far di Babelle
quando muover pensò guerra alle stelle.
119
La Discordia, credendo non potere
altro esser quivi che contese e risse,
né vi devesse mai più luoco havere
o pace o tregua, alla sorella disse
c’homai sicuramente a rivedere
li monachetti suoi seco venisse.
Lasciànle andare, e stiàn qui dove in fronte
Ruggiero havea ferito Rodomonte.
120
Fu ’l colpo di Ruggier di sì gran forza,
che fece in su la groppa di Frontino
percuoter l’elmo e quella dura scorza
di che havea armato il dosso il Saracino,
e lui tre volte e quattro a poggia et orza
piegar per ire in terra a capo chino;
e la spada egli anchora havria perduta,
se legata alla man non fusse suta.
121
Havea Marphisa a Mandricardo intanto
fatto sudar la fronte, il viso, il petto,
et egli a lei havea fatto altrotanto;
ma sì l’usbergo d’ambi era perfetto,
che mai potêr falsarlo in nessun canto,
e stati eran sin qui pari in effetto:
ma in un voltar che fece il suo destriero,
bisogno hebbe Marphisa di Ruggiero.
122
El caval di Marphisa in un voltarsi
che fece stretto, ove era molle il prato,
sdrucciolò in guisa che non puoté aitarsi
di non cader tutto sul destro lato;
e nel volere in fretta rilevarsi,
da Brigliador fu pel traverso urtato,
con che il Pagan poco cortese venne;
sì che cader di nuovo gli convenne.
123
Ruggier, che la Donzella a mal partito
vide giacer, non differì il soccorso
hor che l’agio n’havea, poi che stordito
da sé lontan quel altro era trascorso:
ferì sul elmo il Tartaro; e partito
quel colpo gli havria il capo come un torso,
se Ruggier Balisarda havesse havuta,
o Mandricardo in capo altra barbuta.
124
El Re d’Algier, che se risente in questo,
si volge intorno, e Ricciardetto vede;
e se ricorda che gli fu molesto
dianzi, quando soccorso a Ruggier diede.
A lui si drizza, e gli havria dato presto
del male ufficio suo mala mercede,
se con grande arte e nuovo incanto tosto
non se gli fusse Malagigi opposto.
125
Malagigi, che sa d’ogni malia
quel che ne sappia alcun Mago excellente,
anchor ch’el libro suo seco non sia,
con che fermare il Sole era possente,
pur la scongiuratione onde solia
commandare a’ demonii haveva a mente:
presto con essa in corpo un ne constringe
d’un palafren, sì che in furor lo spinge.
126
Nel palafren, che sul guarnito dosso
la bella figlia havea di Stordilano,
fece intrar un de li angel di Minosso
sol con parole il frate di Viviano:
e quel che dianzi mai non s’era mosso,
se non quanto ubidì al sprone e alla mano,
hor d’improviso spiccò in aria un salto
che trenta piè fu lungo e sedici alto.
127
Fu grande il salto, non perhò di sorte
che ne devesse alcun perder la sella.
Quando si vide in alto, gridò forte,
che si tenne per morta, la Donzella.
Quel ronzin, come il diavol se lo porte,
dopo un gran salto se ne va con quella,
che pur grida soccorso, in tanta fretta,
che non l’havrebbe giunto una saetta.
128
Da la battaglia il figlio d’Ulïeno
si levò al primo suon di quella voce;
e dove furïava il palafreno,
per la Donna aiutar n’andò veloce.
Mandricardo di lui non fece meno:
non più a Ruggier, non più a Marphisa nuoce;
ma, senza chieder loro o paci o tregue,
e Rodomonte e Doralice segue.
129
Marphisa intanto si levò di terra,
e tutta ardendo di disdegno et ira,
credesi far la sua vendetta, et erra;
che troppo lungi il suo nemico mira.
Ruggier, c’haver tal fin vede la guerra,
rugge come un leon, non che sospira.
Ben sanno che Frontino e Brigliadoro
giunger non pôn con li cavalli loro.
130
Ruggier non vuol cessar fin che decisa
col Re d’Algier non l’habbia del cavallo;
non vuol quietar il Tartaro Marphisa,
che provato a suo senno ancho non hallo:
lasciar la sua querela a questa guisa
parrebbe a l’uno e a l’altro troppo fallo.
Di commune parer disegno fassi
di chi offesi li havea seguire i passi.
131
Quando non possan ritrovarli prima,
nel campo Saracin li troveranno;
che nanzi ch’el Re Carlo il tutto opprima,
per tôrlo da l’assedio iti seranno.
Quivi facendo ritrovarli stima,
al hoste Saracin diritti vanno.
Già non andò Ruggier così di botto,
che non facesse alli compagni motto.
132
Ruggier se ne ritorna ove in disparte
era il fratel de la sua donna bella,
et al servigio suo per ogni parte
per fortuna se gli offre e buona e fella:
indi lo priega (e lo fa con bella arte)
che saluti in suo nome la sorella;
e questo così ben gli venne detto,
che né a lui diè né alli altri alcun sospetto.
133
E da lui, da Vivian, da Malagigi,
dal ferito Aldigier tolse commiato:
et essi s’offeriro alli servigi
di lui, debitor sempre in ogni lato.
Marphisa havea sì il cor ire a Parigi
che salutar li amici havea scordato;
ma Malagigi andò tanto e Viviano,
che pur la salutaron di lontano,
134
e così Ricciardetto; ma Aldigiero
giace, e convien che suo mal grado resti.
Verso Parigi havean preso il sentiero
quelli dui prima, et hor lo piglian questi.
Dirvi, signor, ne l’altro canto spero
miracolosi e soprahumani gesti,
che con danno de li huomini di Carlo
ambe le coppie fêr, di chi vi parlo.

CANTO VIGESIMOQUINTO

1
Molti consigli de le donne sono
meglio improviso, che a pensarvi, usciti;
che questo è spetïale e proprio dono
fra tanti e tanti lor dal ciel largiti.
Ma può mal quel de li huomini esser buono,
che maturo discorso non aiti
e non vi s’habbia a ruminarvi sopra,
speso alcun tempo e molto studio et opra.
2
Parve, e non fu perhò buono il consiglio
di Malagigi, anchor che, come ho detto,
per questo di grandissimo periglio
liberassi il cugin suo Ricciardetto.
A levare indi Rodomonte e il figlio
del Re Agrican, il spirto havea constretto,
non avertendo che serebbon tratti
dove i Christian ne rimarrian disfatti.
3
Ma se spatio a pensarvi havesse havuto,
creder si può che dato similmente
al suo Cugino havria debito aiuto,
né fatto danno alla Christiana gente:
commandare a quel spirto havria potuto
ch’alla via di Levante o di Ponente
sì dilungata havesse la donzella,
che non ne udisse Francia più novella.
4
Così li amanti suoi l’havrian seguita,
come a Parigi, ancho in ogn’altro luoco;
ma fu questa avertenza inavertita
da Malagigi, per pensarvi poco:
e la Malignità dal ciel bandita,
di sangue avida sempre e ferro e fuoco,
prese la via donde più Carlo afflisse,
poi ch’el Mastro nessuna gli prescrisse.
5
El palafren c’havea il demonio a fianco
portò la spaventata Doralice,
che non la puòte arrestar fiume, e manco
fossa, boscho, palude, erta o pendice;
fin che per mezo il campo Inglese e il Franco,
e l’altra moltitudine fautrice
de l’insegne di Christo, rassegnata
non l’hebbe al padre suo Re di Granata.
6
Rodomonte e il figliuol del Re Agricane
el primo dì la seguitaro un pezzo,
che le vedean le spalle, ma lontane:
poi di vista la persero da sezzo,
e venner per la traccia, come il cane
a ritrovar la lepre o ’l caprio avezzo;
né si fermâr, che furo in parte dove
di lei (ch’era col padre) hebbono nuove.
7
Guàrdati, Carlo, ch’el ti viene adosso
tanto furor, che non ti veggio scampo;
e non pur questi, ma Gradasso è mosso
con Sacripante a danno del tuo campo.
Fortuna, per toccarti sin all’osso,
ti tolle a un tempo l’uno e l’altro lampo
di forza e di saper, che vivea teco;
e tu rimaso in tenebre sei cieco.
8
Io ti dico d’Orlando e di Rinaldo:
che l’uno al tutto furïoso e folle,
al sereno, alla pioggia, al freddo, al caldo,
nudo va discorrendo il piano e il colle;
l’altro, con senno non troppo più saldo,
d’appresso al gran bisogno ti si tolle;
che non trovando Angelica in Parigi,
si parte e va cercandone vestigi.
9
Un fraudolento vecchio incantatore
fatto gli havea (come a principio dissi)
creder per un fantastico suo errore
che con Orlando Angelica venissi:
onde di gelosia tocco nel core,
de la maggior ch’amante mai sentissi,
venne a Parigi, e come apparve in corte
d’ire in Bertagna gli toccò per sorte.
10
Hor fatta la battaglia, onde portonne
egli l’honor d’haver chiuso Agramante,
tornò a Parigi, e monastier di donne
e case e ròcche cercò tutte quante:
se non era murata in le colonne,
l’havria trovata il curïoso amante.
Vedendo al fin ch’ella non v’è né Orlando,
ambi li va con gran disio cercando.
11
Pensò che nel suo Anglante o in la sua Brava
se la godesse Orlando in festa e in giuoco;
e qua e là per ritrovarla andava,
né la trovò né in l’un né in l’altro luoco.
A Parigi di nuovo ritornava,
fra sé dicendo: – Orlando devria poco
tardar homai di capitare al varco;
ch’absente esser non può senza suo incarco. –
12
Un giorno o dui ne la città soggiorna
Rinaldo; e poi che Orlando non arriva,
hor verso Anglante, hor verso Brava torna,
spiando se di lui novella udiva.
Cavalca e quando annotta e quando aggiorna,
in la fredda alba, in l’ardente hora estiva;
e fa a lume hor del Sole, hor de la Luna
ducento volte questa via, non che una.
13
Quel antiquo Aversario, che fece Eva
al divietato pomo alzar la mano,
a Carlo un giorno i lividi occhi lieva,
che ’l buon Rinaldo era da lui lontano;
e vedendo la rotta che poteva
darsi in quel punto al populo Christiano,
quanta excellentia d’arme al mondo fusse
fra tutti i Saracini, ivi condusse.
14
Al Re Gradasso e al buon Re Sacripante,
ch’eran fatti compagni all’uscir fuore
de la piena d’error casa d’Atlante,
di venire in soccorso messe in core
alle genti assediate d’Agramante,
e destruttion di Carlo Imperatore:
et egli per l’incognite contrade
fe’ lor la scorta e agevolò le strade.
15
E diede a un altro de li suoi negotio
d’affrettar Rodomonte e Mandricardo
per le vestigie donde l’altro sotio
a trar non era Doralice tardo.
Mandonne anchora un altro, perché in otio
non stia Marphisa né Ruggier gagliardo;
ma chi guidò l’ultima coppia tenne
la briglia più, né quando li altri venne.
16
La coppia di Marphisa e di Ruggiero
di meza hora più tarda si condusse;
perhò che astutamente l’angel nero,
volendo alli Christian dar de le busse,
provide che la lite del destriero
per impedire il suo desir non fusse,
che rinovata si saria, se giunto
fusse Ruggiero e Rodomonte a un punto.
17
Li quattro primi si trovaro insieme
onde potean veder li alloggiamenti
de l’exercito oppresso e di chi ’l preme,
e le bandiere in che feriano i venti.
Si consigliaro alquanto; e fur l’estreme
conclusïon de’ lor ragionamenti
di dare aiuto, mal grado di Carlo,
al Re Agramante, e de l’assedio trarlo.
18
Stringonsi insieme, e prendono la via
per mezzo le trabacche di Christiani,
gridando: Aphrica e Spagna! tuttavia;
e si scopriro in tutto esser pagani.
Pel campo arme, arme risonar s’udia;
ma menar si sentîr prima le mani:
e già del retroguardo una gran frotta,
non che assalita sia, ma fugge in rotta.
19
L’exercito Christian mosso a tumulto
sozopra va senza sapere il fatto:
extima alcun che sia uno usato insulto
che Svizari o Vasconi habbiano fatto.
Ma perché alla più parte è il caso occulto,
s’aduna insieme ogni nation di fatto,
altri a suon di tamburo, altri di tromba:
grande è il rumore, e sino al ciel ribomba.
20
El magno Imperator, fuor che la testa,
è tutto armato, e i paladini ha presso;
e dimandando vien che cosa è questa
che le squadre in disordine gli ha messo;
e minacciando, hor questi hor quelli arresta;
e vede a molti il viso o ’l petto fesso,
ad altri insanguinare o ’l capo o ’l gozzo,
alcun tornar con mano o braccio mozzo.
21
Giunge più inanzi, e ne ritrova molti
giacer in terra in spaventoso lago
nel proprio sangue horribilmente involti,
ch’uopo non han di medico o di mago;
vede da spalle e busti i capi sciolti
e l’altre membra con crudele imago;
e si trovan per tutto huomini spenti,
da li primi alli estremi alloggiamenti.
22
Dove passato era il piccol drapello,
di chiara fama eternamente degno,
per lunga riga era rimaso quello
al mondo sempre memorabil segno.
Carlo mirando va il crudel macello,
maraviglioso, e pien d’ira e di sdegno
come alcuno, in cui danno il fulgur venne,
cerca per casa ogni sentier che tenne.
23
Non era alli ripari ancho arrivato
del Re Aphrican questo primiero aiuto,
che con Marphisa fu da un altro lato
l’animoso Ruggier sopravenuto.
Poi ch’una volta o due l’occhio aggirato
hebbe la degna coppia, e ben veduto
qual via più breve per soccorrer fosse
l’assediato signor, ratta si mosse.
24
Come, quando si dà fuoco alla Mina,
pel lungo solco de la negra polve
licentïosa fiamma arde e camina
sì che occhio drieto a pena se le volve;
e qual si sente poi l’alta ruina
che ’l duro sasso o ’l grosso muro solve:
così Ruggiero e Marphisa veniro,
e tali in la battaglia si sentiro.
25
Per lungo e per traverso a fender teste
incominciaro, e tagliar braccia e spalle
de le turbe che mal erano preste
ad expedire e lor sgombrare il calle.
C’ha notato il passar de le tempeste,
ch’una parte d’un monte o d’una valle
offende e l’altra lascia, s’appresenti
la via di questi dui fra quelle genti.
26
Molti che dal furor di Rodomonte
e di quell’altri primi eran fuggiti,
Dio ringratiando c’havea lor sì pronte
gambe concesse e piedi sì expediti,
vennero a dar del petto e de la fronte
in Marphisa e in Ruggiero, onde scherniti
vider che né per star né per fuggire
alcuno al suo destin può contradire.
27
Da l’un fugge la turba, e cade in mane
de l’altro, e paga il fio d’ossa e di polpe:
così cader co i figli in bocca al cane
suol, sperando fuggir, timida volpe,
poi che la caccia de l’antique tane
il suo vicin che le dà mille colpe,
e cautamente con fumo e con fuoco
turbata l’ha da non temuto luoco.
28
Ne li ripari intrò de’ Saracini
Marphisa con Ruggiero a salvamento:
quivi tutti con gli occhi al ciel supini
Dio ringratiâr di sì opportuno avento.
Hor non v’è più timor de’ paladini:
el più tristo pagan ne sfida cento;
et è concluso che senza riposo
si torni a fare il campo sanguinoso.
29
Corni, bussoni, timpani moreschi
empieno il ciel di formidabil suoni;
ne l’aria tremolare a’ venti freschi
si veggon le bandiere e i gonfaloni.
Da l’altra parte i capitan Carleschi
stringono insieme Alemanni e Britoni,
Lombardi, Franchi e quelli d’Inghilterra;
e si mesce aspra e sanguinosa guerra.
30
La forza del terribil Rodomonte
e del Tartaro audace e furibondo,
e di Marphisa l’intrepida fronte,
del Re Gradasso, sì famoso al mondo,
di Ruggier, di virtù, d’ogni ben fonte,
di Sacripante a pochi altri secondo,
feron chiamar san Gianni e san Dionygi
al Re di Francia, e ritrovar Parigi.
31
Di questi cavallieri e di Marphisa
l’ardire invitto e la mirabil possa
non fu, signor, di sorte, non fu in guisa
ch’imaginar, non che descriver possa.
Quindi si può stimar che gente uccisa
fusse quel giorno, e che crudel percossa
havesse Carlo; arroge poi con loro
di Spagna e Lybia alcun famoso Moro.
32
Molti per fretta s’affogaro in Senna,
ch’el ponte non potea supplire a tanti,
e desïâr, come Icaro, la penna,
perché la morte havean drieto e dinanti.
Excetto Ugieri e il Marchese di Vienna,
li paladin fur presi tutti quanti;
Olivier ritornò ferito sotto
la spalla destra, Ugier col capo rotto.
33
E se, come Rinaldo e come Orlando,
lasciato Brandimarte havesse il giuoco,
Carlo n’andava di Parigi in bando,
se potea vivo uscir di sì gran fuoco.
Fe’ Brandimarte ciò che puòte, e quando
non puòte più, diede alla furia luoco.
Così Fortuna ad Agramante arrise,
ch’un’altra volta a Carlo assedio mise.
34
De vedovelle i gridi e le querele,
e d’orphani fanciulli e di vecchi orbi,
nel eterno seren nanzi a Michele
saliron fuor di questi aeri torbi;
e lo fecer mirar dove il fedele
populo in preda era de lupi e corbi,
di Francia, d’Inghilterra e di Lamagna,
che tutta havea coperta la campagna.
35
Nel viso s’arroscì l’Angel beato,
parendogli che mal fusse ubidito
al Creatore, e si chiamò ingannato
da la Discordia perfida, e tradito.
Di poner liti intra pagani dato
l’havea l’assunto, e mal era exequito;
anzi tutto il contrario al suo disegno
parea haver fatto, a chi guardava al segno.
36
Come servo fedel, che più d’amore
che di memoria abondi, e che s’aveggia
haver messo in oblio cosa che a core
quanto la vita e l’anima haver deggia,
studia con fretta d’emendar l’errore,
né vuol che prima il suo signor lo veggia;
così l’Angelo a Dio salir non vòlse,
se de l’obligo prima non si sciolse.
37
Al monastier, dove altre volte havea
la Discordia veduta, drizzò l’ali.
Trovolla che in capitulo sedea
a nuova elettïon de li ufficiali;
e di veder diletto si prendea
volar pel capo a’ frati i brevïali.
La man le pose l’Angelo nel crine,
e pugna e calci le diè senza fine.
38
Indi le ruppe un manico di croce
per la testa, pel dosso e per le braccia.
Mercé grida la misera a gran voce,
e le genocchia al divin nontio abbraccia.
Michel non l’abbandona, che veloce
nel campo del Re d’Aphrica la caccia;
e poi le dice: – Aspettati haver peggio,
se fuor di questo campo più ti veggio. –
39
Come che la Discordia havesse rotto
tutto il dosso e le braccia, pur temendo
un’altra volta ritrovarsi sotto
a que’ gran colpi, a quel furor tremendo,
corse a pigliare i mantici di botto,
et alli accesi fuochi esca aggiungendo,
et accendendone altri, fe’ salire
da molti cori un alto incendio d’ire.
40
Questo fuoco arde Rodomonte, e insieme
Mandricardo e Ruggiero, e al signor Moro
li fa venire inanzi, hor che non preme
Carlo i pagani, anzi il vantaggio è il loro.
E quivi de le ingiurie e liti estreme
dette le cause pienamente fôro;
e tutti si rimettono al parere
del Re, chi prima il campo debbia havere.
41
Marphisa del suo caso ancho favella,
e dice che la pugna vuol finire
che cominciò col Tartaro; perch’ella
provocata da lui vi fu a venire:
né vuol, per dar all’altre luoco, quella
di più tre giorni o quattro differire;
ma d’esser prima fa l’instantia grande,
che nel steccato il Tartaro dimande.
42
Non men vuol Rodomonte il primo campo
da terminar col suo rival l’impresa,
che per soccorrer l’Aphricano campo
ha già interrotta e sin a qui suspesa.
Mette Ruggier le sue parole a campo,
e dice che patir troppo gli pesa
che Rodomonte il caval suo gli tegna,
e ch’a pugna con lui prima non vegna.
43
Per più intricarla il Tartaro viene anche,
e nega che Ruggiero ad alcun patto
debbia l’Aquila haver da l’ale bianche;
e d’ira e di furor è così matto,
che vuol (quando da gli altri tre non manche)
tutte combatter le querele a un tratto.
Né più da gli altri anchor saria mancato,
se ’l consenso del Re vi fusse stato.
44
Con prieghi il Re Agramante e buon ricordi
fa quanto può perché la pace segua;
e quando al fin tutti li vede sordi
e non voler udir di pace o tregua,
si pensa come a cedersi li accordi
ch’el primo campo alcun d’essi consegua:
e pel miglior partito al fin gli occorre
ch’ognuno a sorte il campo s’habbia a tôrre.
45
Fe’ poner quattro brevi: un Mandricardo
e Rodomonte insieme scritto havea;
ne l’altro era Ruggiero e Mandricardo;
Rodomonte e Ruggier l’altro dicea;
dice l’altro Marphisa e Mandricardo.
Indi all’arbitrio de la instabil dea
li fece trar: nel primo fu il signore
di Sarza e Mandricardo ch’uscì fuore;
46
Mandricardo e Ruggier fu nel secondo;
nel terzo fu Ruggiero e Rodomonte;
restò Marphisa e Mandricardo in fondo,
di che la donna hebbe turbata fronte.
Né Ruggier più di lei parve giocondo;
che di dui primi connoscea sì pronte
le forze, che potrà poco avanzare
sì che egli haver con lor possa più a fare.
47
Giacea non lungi da Parigi un luoco
che volgea un miglio o poco meno intorno:
lo cingea tutto un argine non poco
sublime, e quasi era un theatro adorno.
Un castel già vi fu, ma a ferro e a fuoco
le mura e i tetti et a ruina andorno:
un simil può vederne in su la strada,
qual volta a Borgo il Parmigiano vada.
48
In questo luoco fu la lizza fatta,
di brevi legni d’ogni intorno chiusa,
per giusto spatio quadra, al bisogno atta,
con due capaci porte, come s’usa.
Giunto il dì ch’al Re par che si combatta
tra li guerrier che non ricercan scusa,
presso alle sbarre fur d’amendui i lati
contra i rastelli i padiglion tirati.
49
Nel padiglion che è più verso Ponente
sta il Re d’Algier, c’ha membra di gigante;
gli pone indosso il scoglio del serpente
l’ardito Ferraù con Sacripante.
El Re Gradasso e Falsiron possente
sono in quell’altro al lato di Levante,
e metton di sua man l’arme Troiane
indosso al successor del Re Agricane.
50
Sedeva in tribunale amplo e sublime
il Re d’Aphrica, e seco era l’Hispano;
poi Stordilano, e l’altre genti prime
che riveria l’exercito Pagano.
Beato a chi pôn dare argini e cime
d’arbori stanza che l’alzi dal piano!
Grande è la calca del populo armato
ch’ondeggia intorno al martïal steccato.
51
Eran con la Reina di Castiglia
reine e principesse e nobil donne
d’Aragon, di Granata e di Siviglia,
e fin di presso al’Atlantee colonne;
tra quali si sedea la bella figlia
di Stordilano, et al pensier le gonne
convenïenti havea quel giorno indosso:
giungea col verde un scolorito rosso.
52
In habito succinta era Marphisa,
qual si convenne a donna et a guerriera:
Thermoodonte forse a quella guisa
vide Hippolyta ornarsi e la sua schiera.
Già, con la cotta d’arme alla divisa
del Re Agramante, in campo venuto era
l’Araldo a divietar con dure leggi
che non sia in fatto o in detto chi parteggi.
53
La densa turba aspetta disïando
la pugna, e spesso incolpa il venir tardo
di dui famosi cavallieri; quando
s’ode dal padiglion di Mandricardo
alto rumor che vien moltiplicando.
Hor sappiate, signor, ch’el Re gagliardo
di Sericana e il Tartaro possente
fanno il tumulto e il grido che si sente.
54
Havendo armato il Re di Sericana
di sua man tutto il Re di Tartaria,
per porgli al fianco la spada soprana
che già d’Orlando fu, se ne venìa;
quando nel pome scritto Durindana
vide, e il quartier di smalto, che solia
esser l’insegna di quel fiero Aimonte
a cui la tolse Orlando in Aspramonte.
55
Vedendola, fu certo ch’era quella
tanto famosa del signor d’Anglante,
per cui con grande armata, e la più bella
che già mai si partisse di Levante,
soggiogato havea il regno di Castella
e Francia vinta esso poch’anni inante:
ma non può imaginarsi come avegna
c’hor Mandricardo in suo poter la tegna.
56
E dimandògli se per forza o patto
l’havesse tolta al Conte, e dove e quando.
E Mandricardo disse c’havea fatto
gran battaglia per essa con Orlando;
e come finto quel s’era poi matto
sol per paura di morir, cercando
idonea scusa per gettar in terra
Durindana, cagion di far lui guerra;
57
e che imitato in questo havea il Castore,
il qual si strappa i genitali sui
vedendose alle spalle il cacciatore,
che sa che non ricerca altro da lui.
Gradasso non udì tutto ’l tenore,
che disse: – Non darolla a te né altrui:
tanto oro, tanto affanno e tanta gente
ci ho speso, che è ben mia debitamente.
58
Cércati pur fornir d’un’altra spada,
ch’io voglio questa, e non ti paia nuovo;
pazzo o saggio che Orlando se ne vada,
haverla intendo ovunque io la ritrovo.
Tu senza testimoni in su la strada
te l’usurpasti; io qui lite ne muovo:
la mia ragion dirà mia semitarra,
e faremo il giudicio ne la sbarra.
59
Prima, di guadagnarla t’apparecchia,
che tu l’adopri contra Rodomonte:
comperar prima l’arme è usanza vecchia,
ch’in la battaglia il cavallier s’affronte. –
– Più dolce suon non mi viene all’orecchia, –
rispose alzando il Tartaro la fronte,
– di quel ch’alla battaglia mi richieda;
ma, per dio, fa’ ch’el Re d’Algier ti ceda.
60
Fa’ che ceder la prima si contente,
e per sé tolga la pugna seconda;
e non ti dubitar ch’immantinente
a te con tutto il mondo i’ non risponda. –
Grida Ruggier, che è appresso e che li sente:
– Non vuo’ che più la sorte si confonda:
o il primo o il terzo Rodomonte sia,
la seconda battaglia ha d’esser mia.
61
Se di Gradasso la ragion prevale,
prima acquistar che porre in opra l’armi,
né tu l’Aquila mia da le bianche ale
prima usar déi, che non me ne disarmi:
ma poi ch’è stato il mio voler già tale,
di mia sententia non voglio appellarmi,
che sia seconda la battaglia mia,
quando del Re d’Algier la prima sia.
62
Se turbarete voi l’ordine in parte,
io totalmente turbarollo anchora.
Io non intendo il mio scudo lasciarte
se contra me non lo combatti hor hora. –
– Se l’uno e l’altro di voi fosse Marte
(rispose Mandricardo irato allhora),
non serìa l’un né l’altro atto a vietarmi
la buona spada o quelle nobili armi. –
63
E tratto da la chòlera, aventosse
col pugno chiuso al Re di Sericana;
e la man destra in modo gli percosse,
ch’abbandonar gli fece Durindana.
Gradasso, non credendo ch’egli fosse
di così folle audacia e poco sana,
colto improviso fu, che stava a bada,
e tolta si trovò la buona spada.
64
Così scornato, di vergogna e d’ira
nel viso avampa, e par che getti fuoco;
e più l’afflige il caso e lo martira,
poi che l’accade in sì palese luoco.
Bramoso di vendetta, si ritira,
a trar la simitarra, a drieto un poco.
Mandricardo in sé tanto si confida,
che Ruggier ancho alla battaglia sfida.
65
– Venite pur inanzi ambedui insieme,
e vengane pel terzo Rodomonte,
Aphrica e Spagna e tutto l’human seme;
ch’io son per sempremai volger la fronte. –
Così dicendo, quel che nulla teme
mena d’intorno la spada d’Aimonte;
e il scudo imbraccia, disdegnoso e fiero,
contra Gradasso e contra il buon Ruggiero.
66
– Lascia la cura a me (dicea Gradasso),
ch’io guarisca costui de la pazzia. –
– Per dio (dicea Ruggier), non te la lasso,
ch’esser convien questa battaglia mia. –
– Va’ indrieto tu! – Vagli pur tu! – né passo
perhò tornando, gridan tuttavia;
et attaccossi la battaglia in terzo,
et era per uscirne un strano scherzo,
67
se molti non si fussero interposti
a quel furor, con non troppo consiglio;
ch’a spese lor quasi imparâr che costi
voler altri salvar con suo periglio.
Né tutto il mondo mai li havria composti
se non venìa il Re d’Aphrica e Marsiglio,
al cui verendo signoril conspetto
hebbero molto i cavallier rispetto.
68
Fecese tutta il Re Agramante exporre
de’ famosi guerrier la lite ardente;
e molto affaticosse per disporre
che per quella giornata solamente
a Mandricardo la spada d’Hettorre
concedesse Gradasso humanamente,
tanto c’havesse fin l’aspra contesa
c’havea già contra Rodomonte presa.
69
E mentre quivi studia il Re Agramante
se mezo può trovar che li compona,
da l’altro padiglion tra Sacripante
e Rodomonte un’altra lite suona.
Il Re Circasso (come è detto inante)
con Ferraù si stava alla persona
di Rodomonte, e gli havea l’arme indotte
che fur del suo progenitor Nembrotte.
70
Et eran poi venuti ove il destriero
facea, mordendo, il ricco fren spumoso;
i’ dico il buon Frontin, per cui Ruggiero
stava iracondo e più che mai sdegnoso.
Sacripante, che a por tal cavalliero
in campo havea, mirava curïoso
se ben ferrato e ben guarnito e in punto
era il caval, come deveasi a punto.
71
E venendo a guardargli più a minuto
li segni, le fattezze isnelle et atte,
hebbe, fuor d’ogni error, riconnosciuto
che questo era il destrier suo Frontalatte,
che tanto caro già s’havea tenuto;
che poi che gli fu tolto, oltra le fatte
querele, durò un tempo che andar vòlse
a piedi sempre, in modo gli ne dolse.
72
Dinanzi Albracca gli l’havea Brunello
tolto di sotto, quel medesmo giorno
ch’ad Angelica poi tolse l’annello,
al Conte Orlando Balisarda e il corno,
e la spada a Marphisa: et havea quello,
dopo che fece in Aphrica ritorno,
con Balisarda insieme a Ruggier dato,
il qual l’havea Frontin poi nominato.
73
Quando connobbe non s’apporre in fallo,
disse il Circasso, al Re d’Algier rivolto:
– Sappi, signor, che questo è mio cavallo,
ch’ad Albracca per furto mi fu tolto.
Ben havrei testimoni da provallo;
ma perché son da noi lontani molto,
s’alcun lo niega i’ gli vuo’ sostenere
con l’arme in man le mie parole vere.
74
Ben son contento, per la compagnia
in questi pochi dì stata tra noi,
che prestato il cavallo hoggi ti sia,
che veggio ben che senza far non puoi;
perhò con patto, se per cosa mia
e prestata da me connoscer vuoi:
altrimente d’haverlo non far stima,
o se non lo combatti meco prima. –
75
Rodomonte, di cui né il più orgoglioso
cavallier venne mai né il più iracondo
da indi in qua ch’el fiero e coraggioso
Nino prima insegnò militia al mondo,
rispose: – Qualunqu’altro che fusse oso
(ma con un viso altiero e furibondo)
dirmi così, già si serìa aveduto
che meglio era per lui di nascer muto.
76
– Ma per la compagnia che (come hai detto)
novellamente insieme havemo presa,
ti son contento haver tanto rispetto,
ch’io t’ammonisca a tardar questa impresa
fin che de la battaglia veggi effetto,
che fra il Tartaro e me presto fia accesa;
dove pórti uno exempio inanzi spero
c’havrai di gratia dirmi: Habbi il destriero. –
77
– È teco cortesia l’esser villano, –
disse il Circasso pien d’ira e di sdegno;
– ma più chiaro ti dico hora e più piano
che tu non faccia in quel caval disegno:
che te lo defendo io, tanto ch’in mano
questa vindice mia spada sostegno;
e metteròvi insin a l’ugna e il dente,
se non potrò difenderlo altrimente. –
78
Venner da le parole alle contese,
ai gridi, alle minaccie, alla battaglia,
che per molt’ira in più fretta s’accese
che s’accendesse mai per fuoco paglia.
Rodomonte ha l’usbergo et ogni arnese,
Sacripante non ha piastra né maglia;
ma pare (in modo col schermir s’adopra)
che tutto con la spada si ricopra.
79
Non era la possanza e la fierezza
di Rodomonte (anchor ch’era infinita)
più che la providenza e la destrezza
con che sue forze Sacripante aita.
Non voltò ruota mai con più prestezza
il macigno sovran ch’el grano trita,
che faccia Sacripante hor mano hor piede
di qua e di là, dove il bisogno vede.
80
Ma Ferraù, ma Serpentino arditi
trasson le spade e si cacciâr tra loro,
dal Re Grandonio, da Isolier seguiti
et altri cavallier del popul Moro.
Questi erano i rumor che furo uditi
nel altro padiglione da costoro,
ch’eran per accordar venuti invano
col Tartaro e Ruggiero e il Sericano.
81
Venne chi la novella al Re Agramante
riportò certa, come pel destriero
havea con Rodomonte Sacripante
incomminciato un aspro assalto e fiero.
Il Re, confuso di discordie tante,
disse a Marsiglio: – Habbi tu qui pensiero
che fra questi guerrier non segua peggio,
mentre al altro disordine io proveggio. –
82
El Re d’Algier, ch’el suo signor rimira,
frena l’orgoglio, e torna indrieto il passo;
né con minor rispetto se ritira
al venir d’Agramante il Re Circasso.
Quel dimanda la causa di tanta ira
con real viso e parlar grave e basso:
e cerca, poi che n’ha compreso il tutto,
porli d’accordo; e non vi fa alcun frutto.
83
El Re Circasso al Re d’Algier non vuole
ch’el suo destrier più lungamente resti,
se non s’humilia tanto di parole
che lo venga a pregar che gli lo presti.
Rodomonte, superbo come suole,
gli risponde: – Né tu, né il ciel faresti
che cosa che per forza haver potessi
da altri, che da me, mai connoscessi. –
84
El Re chiede al Circasso che ragione
ha nel cavallo, e come gli fu tolto:
e quel di parte in parte il tutto expone,
et exponendo s’arrossisce in volto
quando gli narra ch’el suttil ladrone,
ch’in un alto pensier l’haveva colto,
la sella su quattro haste gli suffolse,
e di sotto il caval nudo gli tolse.
85
Marphisa, che tra li altri al grido venne,
tosto ch’el furto del cavallo udì,
in viso si turbò, che le sovenne
che la sua spada perse ella quel dì:
e quel caval, che parve haver le penne
a fuggir nanzi a lei, connobbe qui;
e connobbe ancho il buon Re Sacripante,
che connosciuto anchor non havea inante.
86
Li altri ch’eran intorno, e che vantarsi
Brunel di questo haveano udito spesso,
verso lui comminciaro a rivoltarsi
e far palesi cenni che egli era esso;
Marphisa suspettando, ad informarsi
da questo e da quel altro c’havea appresso,
tanto che venne a ritrovar che quello
che le tolse la spada era Brunello:
87
e seppe che pel furto, onde era degno
che gli annodasse il collo un capestro unto,
dal Re Agramante al Tingitano regno
fu, con exempio inusitato, assunto.
Marphisa, rifrescando il vecchio sdegno,
disegnò vendicarsene a quel punto,
e punir scherni e scorni che per strada
fatti le havea sopra la tolta spada.
88
Da un suo scudier l’elmo allacciar si fece;
che del resto de l’arme era guarnita.
Senza usbergo io non truovo che mai diece
volte fusse veduta alla sua vita,
dal giorno ch’a portarlo assuefece
la sua persona, oltra il prescritto ardita.
Con l’elmo in capo andò dove fra i primi
Brunel sedea ne li argini sublimi.
89
Gli diede a prima giunta ella di piglio
in mezo il petto, e da terra levollo,
come levar suol col falcato artiglio
talvolta la rapace aquila il pollo;
e là dove la lite inanzi il figlio
era del Re Troian, così portollo.
Brunel, che giunto in male man si vede,
pianger non cessa e dimandar mercede.
90
Sopra tutti i rumor, strepiti e gridi
di ch’el campo era pien quasi ugualmente,
Brunel, c’hora pietade hora sussidi
dimandando venìa, così si sente,
che al suono de’ ramarichi e de’ stridi
si fa d’intorno accor tutta la gente.
Giunta inanzi al Re d’Aphrica, Marphisa
con viso altier gli dice in questa guisa:
91
– Io voglio questo ladro tuo vassallo
con le mie mane impender per la gola,
perché il giorno medesmo ch’el cavallo
a costui tolle, a me la spada invola.
Ma se gli è alcun che voglia dir ch’io fallo,
facciasi inanzi e dica una parola;
ch’in tua presentia gli vuo’ sostenere
che se ne mente, e ch’io fo il mio devere.
92
Ma perché si potria forse imputarme
c’ho atteso a farlo in mezo a tante liti,
mentre che questi più famosi in arme
d’altre querele son tutti impediti,
tre giorni ad impiccarlo i’ vuo’ indugiarme:
intanto o vien, o manda chi l’aiti;
che dopo, se non fia chi me lo vieti,
farò di lui mille uccellacci lieti.
93
Di qui presso a tre leghe a quella torre,
che siede inanzi ad un piccol boschetto,
senza più compagnia mi vado a porre
che d’una mia donzella e d’un valletto.
S’alcuno ardisce di venirmi a tôrre
questo ladron, là venga, ch’io l’aspetto. –
Così disse ella; e dove disse, prese
tosto la via, né più risposta attese.
94
Sul collo inanzi del destrier si pone
Brunel, che tuttavia tien per le chiome.
Piange il misero e grida, e le persone
in che sperar solia chiama per nome.
Resta Agramante in tal confusïone
di questi intrichi, che non vede come
poterli sciorre; e via gli par più greve
che Marphisa Brunel così gli lieve.
95
Non che l’apprezzi o che gli porti amore,
anzi più giorni son che l’odia molto;
e spesso ha d’impiccarlo havuto in core
dopo che gli era stato l’annel tolto.
Ma questo atto gli par contra il suo honore,
sì che n’avampa di vergogna in volto;
e si dispone di seguire in fretta
esso Marphisa, e far di ciò vendetta.
96
Ma il Re Sobrino, il quale era presente,
da questa impresa molto il dissuade,
dicendogli che mal convenïente
era all’altezza di sua maestade:
ch’anchor c’havesse d’esserne vincente
infallibil speranza e sicurtade,
gli fia, più c’honor, biasmo che si dica
c’habbia vinta una femina a fatica.
97
Poco l’honore, e molto era il periglio
d’ogni battaglia che con lei pigliasse;
e che gli dava per miglior consiglio
che Brunello alle forche haver lasciasse;
e se credesse ch’uno alzar di ciglio
a tôrlo dal capestro gli bastasse,
non devea alzarlo, per non contradire
che s’habbia la giustitia ad exequire.
98
– Mandar potrassi un che Marphisa prieghi
ch’in questa causa giudice ti faccia,
con promission che al ladroncel si leghi
il laccio al collo, e a lei si sodisfaccia;
e quando ancho ostinata te lo nieghi,
se l’habbia, e il suo disir tutto compiaccia:
pur che da tua amicitia non si spicchi,
Brunello e li altri ladri tutti impicchi. –
99
El Re Agramante volentier s’attenne
al parer di Sobrin, sempre discreto;
e Marphisa lasciò, che non le venne,
né patì ch’altri le venisse drieto;
né mandarla a pregar ancho sostenne:
e vòlse in questo rimanersi cheto,
per poter acchetar liti maggiori
e del suo campo tôr tanti romori.
100
Di ciò si ride la Discordia pazza,
che Pace o Tregua homai più teme poco;
scorre di qua e di là tutta la piazza,
né può trovar per allegrezza luoco.
La Superbia con lei salta e gavazza,
e legna et esca va aggiungendo al fuoco:
e gridò sì, che fin nel alto regno
diede a Michel de la vittoria segno.
101
Tremò Parigi e turbidossi Senna
alla terribil voce di quella ebra;
ribombò il suon fin alla selva Ardenna,
sì che le fiere uscîr d’ogni latebra.
Udiron l’Alpi e il monte di Gebenna,
e il lago di Costanza e di Genebra;
Rodano e Sonna udì, Garonna e il Rheno:
si strinsero le madri i figli al seno.
102
Son cinque cavallier c’han fisso il chiodo
d’essere i primi a terminar sua lite,
che l’una in l’altra era intricata in modo
che non l’havrebbe Apolline expedite.
Commincia il Re Agramante a sciorre il nodo
de le prime tenzon c’haveva udite,
che per la figlia del Re Stordilano
eran tra il Re di Scythia e un suo Aphricano.
103
El Re Agramante andò per porre accordo
di qua e di là più volte a questo e a quello,
e a questo e a quel più volte diè ricordo
da signor giusto e da fedel fratello:
e quando parimente trova sordo
l’un come l’altro, indomito e rubello
di voler esser quel che resti senza
la donna da cui vien lor differenza;
104
tol finalmente per miglior partito,
di che amendui si contentâr li amanti,
che de la bella donna sia marito
l’un d’essi dui, quel che vuole essa inanti;
e da quanto per lei sia stabilito,
più non si possa andar drieto né inanti.
A l’uno e a l’altro piace il compromesso,
sperando ch’esser debbia a favor d’esso.
105
El Re di Sarza, che gran tempo prima
che Mandricardo amava Doralice,
et ella l’havea posto in su la cima
d’ogni favor che a donna casta lice,
che debbia in util suo venire extima
la gran sententia ch’el può far felice:
né egli havea questa credenza solo,
ma con lui tutto il Barbaresco stuolo.
106
Ognun sapea ciò ch’egli havea già fatto
per essa in giostre, in torniamenti, in guerra;
e che stia Mandricardo a questo patto,
dicono tutti che vaneggia et erra.
Ma quel che, più fïate e più, di piatto
con lei fu mentre il Sol stava sotterra,
e sapea quanto havea di certo in mano,
ridea del popular giudicio vano.
107
Poi lor conventïon ratificaro
in man del Re li dui prochi famosi,
et indi alla donzella se n’andaro.
Et ella abbassò gli occhi vergognosi,
e disse che più il Tartaro havea caro:
di che tutti restâr maravigliosi;
Rodomonte sì attonito e smarrito,
che di levar non era il viso ardito.
108
Ma poi che l’usata ira cacciò quella
vergogna che gli havea la faccia tinta,
ingiusta e falsa la sententia appella;
et impugnò la spada, c’havea cinta,
dicendo che volea che gli desse ella
perduta in campo questa causa o vinta;
e non l’arbitrio di femina leve,
che sempre inchina a quel che men far deve.
109
Di nuovo Mandricardo era risorto,
dicendo: – Vada pur come ti pare: –
sì che prima ch’el legno intrasse in porto
v’era a solcare un gran spatio di mare;
se non ch’el Re Agramante diede torto
a Rodomonte, che non può chiamare
più Mandricardo per quella querela;
e cader fece al suo furor la vela.
110
Hor Rodomonte, che notar si vede
nanzi a tanti signor di doppio scorno,
dal suo Re, a cui per reverentia cede,
e da la donna sua, tutto in un giorno,
quivi non vòlse più fermare il piede;
e de la molta turba c’havea intorno
seco non tolse più che dui sergenti,
et uscì de’ Moreschi alloggiamenti.
111
Come, partendo, afflitto tauro suole,
che la giuvenca al vincitor cesso habbia,
cercar le selve e le rive più sole
lungi dai paschi, o qualche àrrida sabbia,
dove muggir non cessa all’ombra e al sole,
né perhò scema l’amorosa rabbia:
così sen va di gran dolor confuso
il Re d’Algier da la sua donna excluso.
112
Per rïhavere il suo destrier si mosse
Ruggier, che già per questo s’era armato;
ma poi di Mandricardo ricordosse,
a cui de la battaglia era ubligato;
né seguì Rodomonte, e ritornosse
per intrar col Re Tartaro in steccato
prima ch’intrasse il Re di Sericana,
che l’altra lite havea di Durindana.
113
Veder tôrsi Frontin troppo gli pesa
dinanzi a gli occhi, e non poter vietarlo;
ma dato c’habbia fine a questa impresa,
ha ferma intentïon di ricovrarlo.
Ma Sacripante, che non ha contesa,
come Ruggier, che possa distornarlo,
e che non ha da far altro che questo,
per l’orme vien di Rodomonte presto.
114
E presto l’havria giunto, se non era
un strano caso che trovò tra via,
che lo fe’ dimorar sino alla sera
e perder le vestigie che seguia.
Trovò una donna che ne la rivera
di Senna era caduta, e vi peria
s’a darle tosto aiuto non veniva:
saltò ne l’acqua, e la ritrasse a riva.
115
Poi quando in sella vòlse risalire,
aspettato non fu dal suo destriero,
che fin a sera si fece seguire
e non si lasciò prender di liggiero;
preselo al fin, ma non seppe venire
più donde s’era tolto del sentiero:
ducento miglia errò tra piano e monte
prima che ritrovasse Rodomonte.
116
Dove trovollo, e come fu conteso
con disvantaggio assai di Sacripante,
come perse il cavallo e restò preso,
hor non dirò; c’ho da narrarvi inante
di quanto sdegno e di quant’ira acceso
contra la donna e contra il Re Agramante
del campo Rodomonte si partisse,
e ciò che contra l’uno e l’altro disse.
117
Di cocenti suspir l’aria accendea
dovunque andava il Saracin dolente:
Eccho, per la pietà che gli n’havea,
da’ cavi sassi rispondea sovente.
– Oh feminile ingegno (egli dicea),
come ti volgi e muti facilmente,
contrario oggetto proprio de la fede!
Oh infelice, oh miser chi ti crede!
118
Né lunga servitù, né grande amore
che ti fu a mille prove manifesto
hebbono forza di tenerti il core,
ch’almen non si cangiasse così presto.
Non perché a Mandricardo inferïore
io ti sia parso, di te privo resto;
né so trovar cagion ai casi miei
fuor questa sola, che femina sei.
119
Credo che t’habbia la Natura e Dio
produtto, o scelerato sesso, al mondo
per una soma, per un grave fio
del huom, che senza te serìa giocondo:
come ha produtto ancho il serpente rio
e il lupo e l’orso, e fa l’aer fecondo
e di mosche e di vespe e di tafani,
e mescie avena e loglio tra li grani.
120
Perché fatto non ha l’alma Natura
che senza te potesse nascer l’huomo,
come s’inesta per humana cura
l’un sopra l’altro il pero, il sorbo e il pomo?
Ma quella non può far sempre a misura:
anzi, s’io vuo’ guardar come io la nomo,
veggio che non può far cosa perfetta,
poi che Natura e femina vien detta.
121
Non siate perhò tumide e fastose,
donne, per dir che l’huom sia vostro figlio;
che de le spine anchor nascon le rose,
e d’una fetida herba nasce il giglio:
importune, superbe, dispettose,
prive d’amor, di fede e di consiglio,
temerarie, crudeli, inique, ingrate,
per pestilentia eterna al mondo nate. –
122
Con queste et altre et infinite appresso
querele il Re di Sarza se ne giva,
hor ragionando in un parlar summesso,
quando in un suon che di lontan s’udiva,
in onta e in biasmo del femineo sesso:
e certo da ragion si dippartiva;
che per una o per due che sono ree,
che cento buone sien creder si dee.
123
E se ben, di quantunque io n’habbia amate,
mai non ne ritrovassi una fedele,
perfide tutte io non vuo’ dir né ingrate,
ma darne colpa al mio destin crudele.
Molte hor ne sono, e più già ne son state,
che non dàn causa ad huom che si querele;
ma mia fortuna vuol che s’una ria
ne sia tra cento, io di lei preda sia.
124
El Saracino havea non minor sdegno
contra il suo Re, che contra la donzella;
e così di ragion passava il segno
biasmando lui, come biasmando quella.
Desidera veder che sopra il regno
gli cada tanto mal, tanta procella,
ch’in Aphrica ogni casa se funesti,
né pietra salda sopra pietra resti;
125
e che spinto del Regno, in duolo e in lutto
viva Agramante, misero e mendico;
e che esso sia che poi gli renda il tutto,
e lo riponga in l’alto seggio antico,
e de la fede sua produca il frutto:
e gli faccia veder ch’un vero amico
a dritto e a torto esser devea preposto,
se tutto il mondo se gli fusse opposto.
126
E così quando al Re, quando alla donna
volgendo il cor turbato, il Saracino
cavalca a gran giornate e non assonna,
e puoco riposar lascia Frontino.
El dì seguente o l’altro in su la Sonna
si ritrovò, c’havea dritto il camino
verso il mar di Provenza, con disegno
di navigare in Aphrica al suo regno.
127
Era di barche e sottil legni tutto
fra l’una ripa e l’altra il fiume pieno,
ch’ad uso del exercito condutto
d’Aphrica e Spagna vittuaglie havièno;
perché in poter de’ Mori era ridutto,
venendo da Parigi al lito ameno
d’Acquamorta e voltando invêr la Spagna,
ciò che v’è da man destra di campagna.
128
Le vittuaglie in carra et in iumenti,
tolte fuor de le navi, erano carche
e tratte con la scorta de le genti
ove venir non si potea con barche.
Havean piene le ripe i grassi armenti
quivi condotti da diverse marche;
e conduttori intorno alla rivera
per varii tetti albergo havean la sera.
129
El Re d’Algier, perché gli sopravenne
quivi la notte e l’aer nero e cieco,
d’un hostier paesan l’invito tenne,
che lo pregò che rimanesse seco.
Adagiato il destrier, la mensa venne
di varii cibi, e con buon Corso e Greco;
ch’el Saracin nel resto alla Moresca,
ma vòlse far nel bere alla Francesca.
130
L’hoste con buona mensa e miglior viso
studiò di fare a Rodomonte honore;
che la presentia gli diè certo aviso
ch’era hom illustre e pien d’alto valore:
ma quel che da se stesso era diviso,
né quella sera havea ben seco il core
(che mal suo grado s’era ricondotto
alla donna già sua), non facea motto.
131
El buono hostier, che fu de’ diligenti
che mai si sian per Francia ricordati,
quando tra le nemiche e strane genti
l’albergo e’ beni suoi s’havea salvati;
per servir quivi, alcuni suoi parenti,
a tal servigio pronti, havea chiamati;
di quai non era alcun di parlar oso,
vedendo il Saracin muto e pensoso.
132
Di pensier in pensier andò vagando
da se stesso lontano il Pagan molto,
col viso a terra chino, né levando
sì gli occhi mai, ch’alcun guardasse in volto.
Dopo un lungo star cheto, suspirando,
sì come d’un gran sonno allhora sciolto,
tutto si scosse e insieme alzò le ciglia,
e voltò gli occhi al hoste e alla famiglia.
133
Indi ruppe il silentio, e con sembianti
più dolci un poco, e viso men turbato,
dimandò l’hoste e li altri circonstanti
se d’essi alcuno havea femina a lato.
Che l’hoste e che quelli altri tutti quanti
l’haveano, per risposta gli fu dato.
Dimanda lor quel che ciascun si crede
de la sua donna nel servargli fede.
134
Excetto l’hoste, fêr tutti risposta
che si credeano haverle caste e buone.
Disse l’hoste: – Credete a vostra posta;
ch’io so c’havete falsa opinïone.
El vostro sciocco credere vi costa
ch’io stimi ognun di voi senza ragione;
e così far questo signor deve ancho,
se non vi vuol mostrar nero per bianco.
135
Perché, sì come è sola la Phenice,
né mai più d’una in tutto ’l mondo vive,
così né mai più d’uno esser si dice
che de la moglie i tradimenti schive.
Ognun si crede d’esser quel felice,
d’esser quel sol ch’a questa palma arrive.
Come è possibil che v’arrivi ognuno,
se non ne può nel mondo esser più d’uno?
136
Io fui già nel error che sète voi,
che donna casta ancho più d’una fusse.
Un gentilhuomo di Vinegia poi,
che qui mia buona sorte già condusse,
seppe far sì, con veri exempi suoi,
che fuor del’ignoranza mi ridusse:
Gianfrancesco Valerio era nomato;
ch’el nome suo non mi s’è mai scordato.
137
Le fraudi che le mogli e che l’amiche
sogliano usar sapea tutte per conto:
e sopra ciò moderne historie e antiche,
e proprie experïenze havea sì in pronto,
che mi mostrò che mai donne pudiche
non si trovaro, o povere o di conto;
e s’una parea casta più de l’altra,
venìa perché a celarsi era più scaltra.
138
E fra l’altre, che tante me ne disse
che non ne posso il terzo ricordarmi,
sì nel capo una historia mi si scrisse,
che non si scrisse mai più saldo in marmi:
e ben parria a ciascuno che l’udisse,
di queste rie, quel ch’a me parve e parmi.
E se, Signor, a voi non spiace udire,
a lor confusïon la vi vuo’ dire. –
139
Rispose il Saracin: – Che puoi tu farmi
che più al presente mi diletti e piaccia,
che dirmi historia e qualche exempio darmi
che con l’opinïon mia si confaccia?
Perché i’ possa udir meglio, e tu narrarmi,
siedemi incontra, ch’io ti veggia in faccia. –
Ma nel canto che segue io v’ho da dire
quel che fe’ l’hoste a Rodomonte udire.

CANTO VIGESIMOSEXTO

1
Donne, e voi che le donne havete in pregio,
per dio, non date a questa historia orecchia,
a questa che l’hostier dire in dispregio
e vostra infamia e biasmo s’apparecchia;
ben che né macchia vi può dar né fregio
lingua sì vile, e sia l’usanza vecchia
ch’el volgare ignorante ognun riprenda,
e parli più di quel che meno intenda.
2
Lasciate questo canto, che senza esso
può star l’historia, e non serà men chiara.
Mettendolo Turpino, anch’io l’ho messo,
non per malivolentia né per gara.
Ch’io v’ami, oltra mia lingua che l’ha expresso,
che mai non fu di celebrarvi avara,
n’ho fatto mille prove; e v’ho dimostro
ch’io son, né potrei esser se non vostro.
3
Passi, chi vuol, tre charte o quattro senza
leggerne verso, e chi pur legger vuole,
lor dia quella medesima credenza
che si suol dare a fittïoni e fole.
Ma tornando al dir nostro, poi che udienza
apparecchiata vide a sue parole
e darsi luoco incontra al cavalliero,
così l’historia incomminciò l’hostiero:
4
– Aistulfo, Re de’ Longobardi, quello
che costui che regna hor tenne per padre,
fu ne la giovinezza sua sì bello,
di sì conte fattezze e sì liggiadre,
ch’un simil non s’havria fatto a penello
se li pittor vi fusser stati a squadre.
Bello era, et a ciascun così parea:
ma di molto egli anchor più si tenea.
5
Non stimava egli tanto per l’altezza
del grado suo vedersi ognun minore,
né tanto, che di genti e di ricchezza
di tutti i Re vicini era il maggiore;
quanto d’aspetto e corporal bellezza
haver per tutto ’l mondo il primo honore:
godea di questo, udendosi dar loda,
quanto di cosa volentier più s’oda.
6
Tra li altri di sua corte havea assai grato
Fausto Latini, un cavallier Romano;
con cui sovente essendosi lodato
hor del bel viso, hor de la bella mano,
et havendolo un giorno dimandato
se mai veduto havea, presso o lontano,
altro huom di forma così ben composto,
contra quel che credea gli fu risposto.
7
«Dico (rispose Fausto) che, secondo
ch’i’ veggio e che parlarne odo a ciascuno,
ne la bellezza hai pochi pari al mondo;
e questi pochi io li restringo in uno.
Quest’uno è un fratel mio detto Iocondo:
(excetto lui) ben crederò che ognuno
di beltà molto a drieto tu ti lassi;
ma questo sol credo te adegui e passi».
8
Al Re parve impossibil cosa udire,
che sua la palma insino allhora tenne;
e d’haver connoscenza alto disire
di sì lodato giovene gli venne.
Fe’ sì con Fausto, che di far venire
quivi il fratel prometter gli convenne;
ben che a poterlo indur che ci venisse
serìa fatica, e la cagion gli disse:
9
ch’el suo fratello era huom che mosso il piede
mai non havea di Roma alla sua vita,
che del ben che Fortuna gli concede
tranquilla e senza affanni havea notrita;
la roba di ch’el padre il lasciò herede
né mai cresciuta havea né minuita;
e che parrebbe a lui Pavia lontana
più che non parria a un altro ire alla Tana.
10
E la difficulttà serìa maggiore
a poterlo spiccar da la mogliere,
con cui legato era di tanto amore
che, non volendo lei, non può volere.
Pur per ubidir lui che gli è signore,
disse d’andare e fare oltra il potere.
Giunse il Re a’ prieghi tali offerte e doni,
che di negar non gli lasciò ragioni.
11
Partissi, e in pochi giorni ritrovosse
dentro da Roma in le paterne case.
Quivi tanto pregò, ch’el fratel mosse
sì che a venire al Re gli persuase;
e fece anchor (ben che difficil fosse)
che la cognata tacita rimase,
proponendole il ben che n’usciria,
oltra ch’esso lor sempre obligo havria.
12
Fisse Iocondo alla partita il giorno:
trovò cavalli e servitori intanto,
vesti fe’ far per comparire adorno;
che talhor cresce una beltà un bel manto.
La notte a lato, el dì la moglie intorno,
con gli occhi ad hor ad hor pregni di pianto,
gli dice che non sa come patire
potrà sì lunga absentia, e non morire;
13
che pensandovi sol, da la radice
sveller si sente il cor nel lato manco.
«Deh, vita mia, non piagnere (le dice
Iocondo)», e seco piagne egli non manco;
«così mi sia questo camin felice,
come tornar vuo’ fra dui mesi almanco;
né mi faria passar d’un giorno il segno
se mi donasse il Re mezo ’l suo regno».
14
Né la donna per ciò si riconforta:
dice che troppo termine si piglia;
e s’al ritorno non la truova morta,
esser non può se non gran maraviglia.
Sempre è in affanno, e più quel dì ne porta,
che de la lor partenza era vigiglia;
tal che per la pietà Iocondo spesso
si pente ch’al fratello habbia promesso.
15
Dal collo un suo monile ella si sciolse,
ch’una crocetta havea ricca di gemme,
e di sante relliquie che raccolse
da molti luoghi un peregrin Boemme;
et il padre di lei, ch’in casa il tolse
tornando infermo di Hierusalemme,
venendo a morte poi ne lasciò herede:
questa levossi, et al marito diede;
16
e che la porti per suo amore al collo
lo prega, sì che ognhor gli ne sovegna.
Piacque il dono al marito, et accettollo;
non perché dar ricordo gli convegna:
che né tempo né absentia mai dar crollo,
né buona o ria fortuna che gli avegna,
potrà a quella memoria salda e forte
c’ha di lei sempre e havrà dopo la morte.
17
La notte ch’andò inanzi a quella aurora
che fu il termine estremo alla partenza,
al suo Iocondo par ch’in braccio mora
la moglie, che n’ha presto da star senza.
Mai non si dorme; e nanzi il giorno un’hora
viene il marito all’ultima licenza.
Montò a cavallo, e si partì in effetto;
e la moglier si ricorcò nel letto.
18
Iocondo anchor dua miglia ito non era
che gli venne la croce raccordata,
c’havea sotto il guancial messa la sera;
poi per oblivïon l’havea lasciata.
«Lasso! (dicea tra sé) di che maniera
troverò scusa che mi sia accettata,
che mia moglie non creda che gradito
poco da me sia l’amor suo infinito?».
19
Pensa l’excusa, e poi gli cade in mente
che non serà accettabile né buona,
mandi famigli, mandivi altra gente,
s’egli medesmo non vi va in persona.
Si ferma, e al fratel dice: «Hor pianamente
sin a Baccano al primo albergo sprona;
che dentro a Roma è forza ch’io rivada:
e credo ancho di giugnerti per strada.
20
Non potria fare altri il bisogno mio:
né dubitar, ch’io serò presto teco».
Voltò il caval di trotto, e disse a dio;
né di famigli suoi vòlse alcun seco.
Già cominciava, quando passò il rio,
dinanzi al Sole a fuggir l’aer cieco.
Smonta in casa, va al letto, e la consorte
quivi ritrova addormentata forte.
21
La cortina levò senza far motto,
e vide quel che men veder credea:
che la sua casta e fedel moglie, sotto
la coltra, in braccio a un giovene giacea.
Riconnobbe l’adultero di botto
per la pratica lunga che n’havea;
ch’era de la famiglia sua un garzone,
allevato da lui, d’humil natione.
22
S’attonito restasse e mal contento,
meglio è pensarlo e darne fede altrui,
ch’esserne mai per far l’experimento
che con suo gran dolor ne fe’ costui.
Assalito dal sdegno, hebbe talento
di trar la spada e ucciderli ambedui:
ma da l’amor che porta, al suo dispetto,
a l’ingrata moglier, gli fu interdetto.
23
Né lo lasciò questo ribaldo Amore
(vedi se sì l’havea fatto vassallo)
destarla pur, per non le dar dolore
che fusse da lui colta in sì gran fallo.
Quanto puoté più tacito uscì fuore,
scese le scale, e rimontò a cavallo;
e punto egli d’amor, sì il caval punse
ch’al albergo non fu, ch’el fratel giunse.
24
Cambiato a tutti parve esser nel volto;
vider tutti ch’el cor non havea lieto:
ma non v’è chi s’apponga già di molto
e possa penetrar nel suo secreto.
Credeano che da lor si fusse tolto
per ire a Roma, et ito era a Corneto.
Ch’Amor sia del mal causa ognun s’avisa;
ma non è già chi dir sappia in che guisa.
25
Estimasi il fratel che dolor habbia
d’haver la moglie sua sola lasciata;
e pel contrario duolsi egli et arrabbia
che rimasa era troppo accompagnata.
Con fronte crespa e con gonfiate labbia
sta l’infelice, e sol la terra guata;
Fausto, che a confortarlo usa ogni prova,
perché non sa la causa, poco giova.
26
Di contrario liquor la piaga gli unge,
e dove tôr devria, gli accresce doglie;
dove devria saldar, più l’apre e punge:
questo gli fa col ricordar la moglie.
Né dì posa né notte: il sonno lunge
fugge col gusto, e mai non si raccoglie;
e la faccia che dianzi era sì bella
si cangia sì, che più non sembra quella.
27
Par che li occhi s’ascondin ne la testa,
et esca il naso più del viso scarno:
de la beltà sì poca gli ne resta,
che ne potrà far paragone indarno.
Col duol venne una febre sì molesta,
che lo fe’ soggiornare al Arbia e al Arno:
e se di bello havea serbata cosa,
più presto andò che da spin colta rosa.
28
Oltra che a Fausto incresca del fratello
che veggia a simil termine condutto,
via più gl’incresce che bugiardo a quello
Principe, a chi lodollo, parrà in tutto:
mostrar de tutti li huomini il più bello
gli havea promesso, e mostrarà il più brutto.
Ma pur continuando la sua via,
seco lo trasse al fin drento a Pavia.
29
Già non vuol che lo veggia il Re improviso,
per non mostrarsi di giudicio privo:
ma per lettere inanzi gli dà aviso
ch’el suo fratel ne viene a pena vivo;
e ch’era stato all’aria del bel viso
un affanno di cor tanto nocivo,
accompagnato da una febre ria,
che più non parea quel ch’esser solia.
30
Grata hebbe la venuta di Iocondo
quanto potesse il Re d’amico havere;
che non havea desiderato al mondo
cosa altrotanto, che di lui vedere.
Non gli spiace vederlosi secondo,
e di bellezza drieto rimanere;
ben che connosca, se non fusse il male,
che gli serìa superïore o uguale.
31
Giunto, lo fa alloggiar nel suo palagio,
lo visita ogni giorno, ogn’hora n’ode;
fa gran provisïon che stia con agio,
e d’honorarlo assai si studia e gode.
Langue Iocondo, ch’el pensier malvagio
de l’ingrata moglier sempre lo rode:
né il veder giuochi, né musici udire,
dramma del suo dolor può minuire.
32
Nanzi alle stanze sue, che presso ’l tetto
eran l’estreme, havea una sala antica.
Quivi solingo (perché ogni diletto,
perché ogni compagnia gli era nemica)
si ritrahea, sempre aggiungendo al petto
di più gravi pensier nuova fatica:
e trova quivi (hor chi lo crederia?)
chi lo sanò de la sua piaga ria.
33
In capo de la sala, ove è più scuro,
che mai non v’usa le finestre aprire,
vede ch’el palco mal si giunge al muro,
e fa d’aria più chiara un raggio uscire.
Pon l’occhio quindi, e vede quel che duro
a creder fôra a chi l’udisse dire:
egli d’altrui non l’ode, anzi sel vede;
et ancho agli occhi suoi propri non crede.
34
Quindi scopria de la Reina tutta
la più secreta stanza e la più bella,
dove persona non verria introdutta,
se per molto fedel non l’havesse ella.
Quindi mirando, vide in strana lutta
ch’un Nano avinticchiato era con quella:
et era quel piccin stato sì dotto,
che la Reina havea messa di sotto.
35
Attonito Iocondo e stupefatto,
e credendo sognarsi, un pezzo stette;
e quando vide pur che egli era in fatto
e non in sogno, a se stesso credette.
«Dunque a un sgrignuto (disse) e contrafatto
sì ricca e sì gran donna si sommette,
ch’el maggior Re del mondo ha per marito,
più bello e più cortese? oh che appetito!».
36
E de la moglie sua, che così spesso
più d’ogn’altra biasmava, ricordosse,
perch’el ragazzo s’havea tolto appresso:
et hor gli parve che excusabil fosse.
Non era colpa sua più che del sesso,
che d’un solo huomo mai non contentosse:
e s’han tutte una macchia d’uno inchiostro,
almen la sua non s’havea tolto un mostro.
37
Fa il dì seguente, alla medesima hora,
al spiraglio medesimo ritorno;
e la Reina e il Nano vede anchora
ch’al signor lor fanno il medesmo scorno.
Truova l’altro dì pur che si lavora,
e l’altro; e al fin non se ne festa giorno:
e la Reina, che gli par più strano,
sempre si duol che poco l’ami il Nano.
38
Stette fra li altri un giorno a veder ch’ella
era turbata e in gran manenconia,
che due volte chiamar per la donzella
il Nano fatto havea, né anchor venìa.
Mandò la terza volta, et udì quella,
che: «Madonna, egli giuoca» riferia;
«e per non star in perdita d’un soldo,
a voi niega venire il manigoldo».
39
A sì strano spettacolo Iocondo
raserena la fronte e gli occhi e il viso;
e quale in nome, diventò giocondo
d’effetto anchora, e tornò il pianto in riso.
Allegro torna, grasso e rubicondo,
che sembra un cherubin del paradiso;
ch’el Re, il fratello e tutta la famiglia
di tal mutatïon si maraviglia.
40
Se da Iocondo il Re bramava udire
donde venisse il sùbito conforto,
non men Iocondo lo bramava dire
e fare il Re di tanta ingiuria accorto;
ma non vorria che, più di sé, punire
volesse il Re la moglie di quel torto;
sì che per dirlo e non far danno a lei,
il Re fece giurar su l’agnusdei.
41
Giurar lo fe’ che né per cosa detta,
né che gli sia mostrata che gli spiaccia,
anchora che connosca che diretta-
mente a sua Maestà danno si faccia,
tardi o per tempo mai farà vendetta;
e di più vuole anchor che se ne taccia,
sì che né il malfattor giamai comprenda,
in fatto o ’n detto, ch’el Re il caso intenda.
42
El Re, che ogn’altra cosa se non questa
creder potria, gli giurò largamente.
Iocondo la cagion gli manifesta
onde era molti dì stato dolente:
perché trovata havea la dishonesta
sua moglie in braccio d’un suo vil sergente;
e che tal pena al fin l’havrebbe morto
se tardato a venir fusse il conforto.
43
Ma in casa di sua Altezza havea veduto
cosa che molto gli scemava il duolo;
che se bene in obbrobrio era caduto,
era almen certo di non v’esser solo.
Così dicendo, e al bucolin venuto,
gli dimostrò il bruttissimo homicciuolo
che la giumenta altrui sotto si tiene,
tocca di sprone e fa giuocar di schene.
44
Se parve al Re vituperoso l’atto,
lo crederete ben, senza ch’io ’l giuri.
Ne fu per arrabbiar, per venir matto;
ne fu per dar del capo in tutti i muri;
fu per gridar, fu per non stare al patto:
ma forza è che la bocca al fin si turi
e che l’ira trangugi amara et acra,
poi che giurato havea su l’hostia sacra.
45
«Che debbio far, che mi consigli, frate
(disse a Iocondo), poi che tu mi tolli
che con degna vendetta e crudeltate
questa giustissima ira io non satolli?».
«Lasciàn (disse Iocondo) queste ingrate,
e proviamo se son l’altre sì molli;
facciàn de le lor femine ad altrui
quel ch’altri de le nostre han fatto a nui.
46
Ambi gioveni semo, e di bellezza
che facilmente non troviamo pari:
qual femina serà che n’usi asprezza,
se contra i brutti anchor non han ripari?
Se beltà non varrà né giovinezza,
varranne almen l’haver con noi denari.
Non vuo’ che torni, che non habbi prima
di mille moglie altrui la spoglia opima.
47
La lunga absentia, il veder vari luochi,
praticare altre femine di fuore
par che sovente disacerbi e sfochi
de l’amorose passïoni il core».
Al Re piacque il consiglio; indi fra pochi
non voglio giorni dir, ma fra poche hore,
con dui scudieri, oltra la compagnia
del cavallier Roman, si messe in via.
48
Travestiti cercaro Italia e Francia,
le terre de’ Fiaminghi e de l’Inglesi;
e quante ne vedean di bella guancia
trovavan tutte a’ prieghi lor cortesi.
Davano, e dato loro era la mancia;
e rimettean sovente i denar spesi.
Molte vi fôr che pregaro essi, e fôro
anch’altre tante che pregaron loro.
49
In questa terra un mese, in quella dui
soggiornando, accertârsi a vera prova
che come ne le lor, così in l’altrui
femine, castità mal se ritrova.
Dopo alcun tempo increbbe ad ambedui
di sempre procacciar di cosa nuova;
che mal poteano intrar ne l’altrui porte
senza ponersi a rischio de la morte.
50
È meglio una trovarne che di faccia
e di costumi ad ambi grata sia;
che lor communamente sodisfaccia,
e non habbiano haver mai gelosia.
«E perché (dicea il Re) vuo’ che mi spiaccia
haver più te che un altro in compagnia?
So ben ch’in tutto il gran femineo stuolo
una non è che stia contenta a un solo.
51
Una, senza sforzar nostro potere,
ma quando il natural bisogno inviti,
in festa goderemosi e in piacere,
che non n’havremo mai contese o liti.
Né credo che si debbia ella dolere:
che s’ancho ogn’altra havesse dui mariti,
più ch’a un huom solo, a dui serìa fedele;
né forse s’udirian tante querele».
52
Di quel che disse il Re, molto contento
rimaner parve il giovene Romano.
Dunque fermati in tal proponimento,
cercâr molte montagne e molto piano:
trovaro al fin, secondo il loro intento,
una figliuola d’uno hostiero Hispano,
che tenea albergo al porto di Valenza,
bella de modi e bella di presenza.
53
Era anchor sul fiorir di primavera
sua tenerella e quasi acerba etade.
Di molti figli il padre aggravato era
e nemico mortal di povertade;
sì che a disporlo fu cosa liggiera
che desse lor la figlia in potestade;
ch’ove piacesse lor potesson trarla,
poi che promesso havean di ben trattarla.
54
Pigliano la fanciulla, e piacer n’hanno
hor l’uno hor l’altro in charitade e in pace,
come a vicenda i mantici che dànno,
hor l’uno hor l’altro, fiato alla fornace.
Per veder tutta Spagna indi ne vanno,
e passar poi nel regno di Siphace:
el dì che da Valenza si partiro,
ad albergare a Ciattiva veniro.
55
Li patroni a veder strade e palazzi
andaro, e luochi publici e divini;
ch’usanza havean pigliar simil solazzi
in ogni terra ov’eran peregrini.
La fanciulla all’albergo e li ragazzi
restaro, ad acconciar letti e roncini,
e proveder che fusse alla tornata
de’ signori la cena apparecchiata.
56
Ne l’albergo un garzon stava per fante,
ch’in casa de la giovene già stette
a’ servigi del padre, e d’essa amante
fu da’ primi anni, e del suo amor godette.
Ben s’adocchiâr, ma non ne fêr sembiante,
ch’esser notato ognun di lor temette:
ma quando li padroni e la famiglia
lor dieron luoco, alzâr tra lor le ciglia.
57
El fante dimandò dove ella gisse
e qual de’ dui signor l’havesse seco.
A punto la Fiammetta il fatto disse;
così havea nome, e quel garzone il Greco.
«Quando sperai ch’el tempo, ohimè! venisse
(el Greco le dicea) di viver teco,
Fiammetta, anima mia, tu te ne vai,
e non so più di rivederti mai.
58
Fannosi i dolci miei disegni amari,
poi che sei d’altri, e tanto mi ti scosti.
Io disegnavo (havendo alcun’ denari
con gran fatica e gran sudor reposti,
ch’avanzato m’havea de’ miei salari
e de le bene andate di molti hosti)
di tornare a Valenza, e dimandarte
al padre tuo per moglie, e di sposarte».
59
La fanciulla ne li homeri si stringe,
e risponde che fu tardo a venire.
Piange il Greco e suspira, e parte finge:
«Vommi (dice) lasciar così morire?
Vita mia, un poco almen meco ti avinge,
lasciami disfogar tanto disire;
che nanzi che tu parta, ogni momento
che teco stia mi fa morir contento».
60
La pietosa fanciulla rispondendo:
«Credi (dicea) che men di te no ’l bramo;
ma né luoco né tempo ci comprendo
qui, dove in mezo di tanti occhi siamo».
El Greco suggiungea: «Certo mi rendo,
che s’un terzo ami me di quel ch’io t’amo,
in questa notte almen troverai luoco
che si potren godere insieme un puoco».
61
«Come potrò (diceagli la fanciulla),
che sempre in mezo a dui la notte giaccio,
e meco hor l’uno hor l’altro si trastulla,
e sempre al un di dui mi truovo in braccio?».
«Mai (disse il Greco) fu impossibil nulla,
pur che del far ti vogli tôrre impaccio,
se fussi chiusa in un castel d’acciaio
e d’occhi habbia ogni merlo un centinaio».
62
Pensa ella alquanto, e poi dice che vegna
quando creder potrà ch’ognuno dorma;
e pianamente come far convegna,
e de l’andare e del tornar, l’informa.
El Greco (sì come ella gli disegna),
quando sente dormir tutta la torma,
viene al uscio e lo spinge, e quel gli cede:
entra pian piano, e va a tenton col piede.
63
Fa lunghi i passi, e sempre in quel di retro
tutto si ferma, e l’altro par che muova
a guisa che di dar tema nel vetro,
non ch’el terreno habbia a calcar, ma l’ova;
tiene la mano inanzi simil metro,
va brancolando sin ch’el letto truova:
e di là dove li altri havean le piante
tacito si cacciò col capo inante.
64
Fra l’una e l’altra gamba di Fiammetta,
che supina giacea, diritto venne;
e quando le fu a par, l’abbracciò stretta,
e sopra lei sin presso al dì si tenne.
Cavalcò forte, e non andò a staffetta;
che mai bestia mutar non gli convenne:
che questa pare a lui che sì ben trotte,
che scender non ne vuol per tutta notte.
65
Havea Iocondo et havea il Re sentito
il calpistar che sempre il letto scosse;
e l’uno e l’altro, d’uno error schernito,
s’havea creduto ch’el compagno fosse.
Poi c’hebbe il Greco il suo camin fornito,
sì come era venuto, ancho tornosse.
Saettò il Sol dal Orizonte i raggi;
surge Fiammetta, e fece intrare i paggi.
66
El Re disse al compagno motteggiando:
«Frate, molto camin fatto haver déi;
e tempo è ben che ti riposi, quando
stato a caval per tutta notte sei».
Iocondo a lui rispose di rimando,
e disse: «Tu di’ quel ch’io a dire havrei:
a te tocca a posare, e pro ti faccia,
che tutta notte hai cavalcato a caccia».
67
«Anch’io (suggiunse il Re) senza alcun fallo
lasciato havria ’l mio can correr un tratto
s’havesse havuto in prestito il cavallo,
tanto ch’el mio bisogno havessi fatto».
Iocondo replicò: «Son tuo vassallo,
e puoi far meco e rompere ogni patto:
sì che non convenia tal cenni usare;
bastavamiti dir: lasciala stare».
68
Tanto replìca l’un, tanto soggiunge
l’altro, che sono a grave lite insieme;
vengon da’ motti ad un parlar che punge,
ch’ad amendue l’esser beffato preme.
Chiaman Fiammetta, che non era lunge,
e de la fraude esser scoperta teme,
per far l’un l’altro in viso il fatto dire,
che negando pareano ambi mentire.
69
«Dimmi (le disse il Re con fiero sguardo),
e non temer di me né di costui:
chi tutta notte fu quel sì gagliardo
che ti godeo senza far parte altrui?».
Credendo l’un provar l’altro bugiardo,
la risposta aspettavano ambedui.
A piè lor si gettò Fiammetta, incerta
di viver più, vedendosi scoperta.
70
Dimandò lor perdono, che d’amore,
ch’a un giovinetto havea portato, spinta,
e da pietà d’un tormentato core,
che molto havea per lei patito, vinta,
caduta era la notte in quello errore;
e seguitò senza dir cosa finta,
come tra lor con speme si condusse
ch’ambi credesson ch’el compagno fusse.
71
Il Re e Iocondo si guardaro in viso,
di maraviglia e di stupor confusi;
né d’haver ancho udito lor fu aviso
ch’altri dui fusson mai così delusi.
Poi scoppiaro ugualmente in tanto riso
che con la bocca aperta e li occhi chiusi,
potendo a pena il fiato haver dal petto,
adrieto si lasciâr cader sul letto.
72
Poi c’hebbon tanto riso, che dolere
se ne sentiano il petto e pianger li occhi,
disson tra lor: «Come potremo havere
guardia che la moglier non ne l’accocchi,
se non giova tra dui questa tenere,
e stretta sì, che l’uno e l’altro tocchi?
Se più che crini havesse occhi ’l marito,
non potria far che non fusse tradito.
73
Provate mille havemo e tutte belle;
e manco sempre ritrovate caste.
Se proviàn l’altre, ancho peggior fian quelle;
ma per ultima prova costei baste.
Dunque possemo creder che men felle
le nostre sien ch’a casa son rimaste:
e se men triste, o come l’altre sono,
che tornamo a godersile fia buono».
74
Conchiuso c’hebbon questo, chiamar fêro
per Fiammetta medesima il suo amante;
e ’n presentia di molti gli la diero
per moglie, e dote che fu lor bastante.
Poi montaro a cavallo, e il lor sentiero,
ch’era a Ponente, volsero a Levante;
et alle mogli lor se ne tornaro,
di che affanno mai più non si pigliaro.
75
El Re il primo figliuol che poi gli nacque
nomò a battesmo Strano Desiderio;
ma poi, crescendo, Strano se gli tacque,
che pel Nano alla madre era improperio.
L’historia è vera, e per ciò più mi piacque:
e dal dì ch’io parlai con quel Valerio,
sempre ho detto, e convien che anchora io dica,
che non si truova femina pudica. –
76
L’hostier qui fine alla sua historia pose,
che fu con molta attentïone udita.
Udilla il Saracin, né gli rispose
parola mai, fin che non fu finita.
Poi disse: – Io credo ben che de l’ascose
feminil frode sia copia infinita;
né si potria de la millesma parte
tener memoria con tutte le charte. –
77
Quivi era un huom d’età, c’havea più retta
opinïon de li altri, e ingegno e ardire;
né potendo horamai, che sì negletta
ogni femina fusse, più patire,
si volse a quel c’havea l’historia detta,
e dissegli: – Assai cose udimo dire
che veritade in sé non hanno alcuna:
e ben di queste è la tua favola una.
78
A chi te la narrò non do credenza,
s’evangelista ben fusse nel resto;
ch’opinïone, più che experïenza
c’habbia di donne, lo facea dir questo.
L’havere ad una o due malivolenza
fa ch’odia e biasma l’altre oltra l’honesto;
ma se gli passa l’ira, io vuo’ tu l’oda,
più c’hora biasmo, ancho dar lor gran loda.
79
E se vorrà lodarle, havrà maggiore
el campo assai, ch’a dirne mal non hebbe:
di cento potrà dir degne d’honore
verso una trista che biasmar si debbe.
Non biasmar tutte, ma serbarne fuore
la bontà d’infinite si devrebbe;
e s’el Valerio tuo disse altrimente,
disse per ira, e non per quel che sente.
80
Ditemi un poco: è di voi forse alcuno
c’habbia servato alla sua moglie fede?
che nieghi andar, quando gli sia opportuno,
all’altrui donna, e darle anchor mercede?
credete in tutto ’l mondo trovarne uno?
Chi ’l dice mente, e folle è ben chi ’l crede.
Trovatene vo’ alcuna che vi chiami?
non parlo de le publiche et infami.
81
Connoscete alcun voi, che non lasciasse
la moglie sola, anchor che fusse bella,
per seguire altra donna, se sperasse
in breve e facilmente ottener quella?
Che farebbe egli, quando lo pregasse
o desse premio a lui donna o donzella?
Credo, per compiacere hor queste hor quelle,
che tutti lasciaremmovi la pelle.
82
Quelle che lor mariti hanno lasciati,
le più volte cagione havuta n’hanno:
del suo di casa veggon lor svogliati,
e che fuor, de l’altrui bramosi, vanno.
Devriano amar, volendo essere amati,
o tôr con la misura ch’a-llor dànno.
Io farei (s’a me stesse il darla e tôrre)
tal legge, c’huom non vi potrebbe opporre.
83
Serìa la legge, ch’ogni donna colta
in adulterio, fusse messa a morte,
se provar non potesse ch’una volta
havesse adulterato il suo consorte:
se provar lo potesse, anderia assolta,
né temeria il marito né la corte.
Christo lasciò ne li precetti suoi:
non far altrui quel che patir non vuoi.
84
L’incontinenza è quanto mal si pote
imputar lor, né perhò a tutto ’l stuolo.
Ma in questo, c’ha di noi più brutte note?
che continente non si truova un solo.
E molto più n’ha da arroscir le gote
quando biastemmia, ladroneccio, dolo,
usura et homicidio, e se v’è peggio,
raro, se non da li huomini, far veggio. –
85
Appresso alle ragioni havea il sincero
e giusto vecchio in pronto alcuno exempio
di donne, che né in fatto né in pensiero
mai di lor castità patiron scempio.
Ma ’l Saracin, che fuggìa udire il vero,
lo minacciò con viso crudo et empio,
sì che lo fece per timor tacere;
ma già non lo mutò di suo parere.
86
Posto c’hebbe alle liti e alle contese
termine il Re Pagan, lasciò la mensa;
indi nel letto per dormir si stese
fin al partir de l’aria scura e densa:
ma de la notte a suspirar l’offese
più de la donna, ch’a dormir, dispensa.
Quindi parte all’uscir del nuovo raggio,
e far disegna in nave il suo vïaggio.
87
Perhò c’havendo tutto quel rispetto
c’haver de’ a buon caval buon cavalliero,
a quel suo bello e buono, ch’a dispetto
tenea di Sacripante e di Ruggiero;
vedendo per dui giorni haverlo stretto
più che non si devria sì buon destriero,
lo pon, per riposarlo, e lo rassetta
in un naviglio, e per andar più in fretta.
88
Senza indugia al Nochier varar la barca,
e dar fa i remi all’acqua da la sponda.
Quella, non molto grande e poco carca,
se ne va per la Sonna giù a seconda.
Non fugge il suo pensier, non se ne scarca
Rodomonte per terra né per onda:
lo truova in su la proda e in su la poppa;
e se cavalca, il porta drieto in groppa.
89
Anzi nel capo, o sia nel cor, gli siede,
e di fuor caccia ogni conforto e serra.
Di ripararsi il misero non vede,
da poi che li nemici ha ne la terra;
non sa da chi sperar possa mercede
se gli fanno i domestici suoi guerra:
la notte e il giorno e sempre è combattuto
da quel crudel che devria dargli aiuto.
90
Naviga il giorno e la notte seguente
Rodomonte col cor d’affanni grave;
e non si può l’ingiuria tôr di mente,
che da la donna e dal suo Re havuto have;
e la pena e il dolor medesmo sente,
che sentiva a cavallo, anchora in nave:
né spegner può, per star nel’acqua, il fuoco,
né può stato mutar, per mutar luoco.
91
Come l’infermo, che dirotto e stanco
di febre ardente va cangiando lato,
o sia su l’uno o sia su l’altro fianco
spera haver, se si volge, miglior stato;
né sul destro riposa né sul manco,
e per tutto ugualmente è travagliato:
così il Pagano al male onde era infermo
mal truova in terra e mal in acqua schermo.
92
Non puòte in nave haver più patïenza,
e si fe’ porre in terra Rodomonte.
Passò Lione e Vienna, indi Valenza,
e vide in Avignone il ricco ponte;
che queste terre et altre ubidïenza,
che son tra il fiume e il Celtiberio monte,
rendean al Re Agramante e al Re di Spagna
dal dì che fur signor de la campagna.
93
Verso Acquamorta a man ritta si tenne
con animo in Algier passare in fretta;
e sopra un fiume ad una villa venne,
da Baccho insieme e Pallade diletta,
che restar, per l’ingiurie che sostenne
da li soldati, vuota fu constretta.
Quinci il mar vede, quindi ne l’apriche
valli ondeggiar le cereali spiche.
94
Quivi ritrova una piccola chiesa
di nuovo edificata su una mota,
che poi ch’intorno fu la guerra accesa
li sacerdoti havean lasciata vuota.
Per stanza fu da Rodomonte presa;
che per il sito e perché era remota
dai campi, onde havea in odio udir novella,
gli piacque sì, che lasciò Algier per quella.
95
Mutò d’andare in Aphrica pensiero,
sì commodo gli parve il luoco e bello.
Famigli e carrïaggi e il suo destriero
seco alloggiar fe’ nel medesmo hostello.
Vicino a poche leghe a Mompoliero
e ad alcun altro ricco e buon castello
siede il villaggio allato alla riviera;
sì che d’havervi ogni agio il modo v’era.
96
Standovi un giorno il Saracin pensoso
(come pur era il più del tempo usato),
vide venir per mezo un prato herboso,
che da un piccol sentiero era segnato,
una donzella di viso amoroso
in compagnia d’un monacho barbato;
e si traeano drieto un gran destriero
sotto una soma coperta di nero.
97
Chi la donzella, chi ’l monacho sia,
chi portin seco, vi debbe esser chiaro:
connoscere Issabella si devria,
ch’el corpo havea del suo Zerbino caro.
Lasciai che vêr Provenza ne venìa
sotto la scorta del vecchio preclaro,
che suaso le havea che tutto ’l resto
votasse a Dio del suo vivere honesto.
98
Come ch’in viso pallida e smarrita
sia la donzella, et habbia i crini inconti;
e facciano i suspir continua uscita
del petto acceso, e li occhi sien due fonti;
et altri testimoni d’una vita
misera e grave in lei si veggian pronti;
tanto perhò di bello ancho le avanza,
che con le Gratie Amor vi può haver stanza.
99
Tosto ch’el Saracin vide la bella
donna apparir, messe il pensier al fondo
c’havea di biasmar sempre e d’odiar quella
schiera gentil che pur adorna il mondo.
E ben gli par dignissima Issabella
in cui locar debbia il suo amor secondo,
e spenger totalmente il primo, a modo
che da l’asse si trahe chiodo con chiodo.
100
Incontra se le fece, e col più molle
parlar che seppe e col miglior sembiante,
di sua conditïone dimandolle:
et ella ogni pensier gli spiegò inante;
come era per lasciare il mondo folle
e farsi amica a Dio con opre sante.
Ride il Pagano altier, che in Dio non crede,
d’ogni legge inimico e d’ogni fede;
101
e chiama intentïone erronea e lieve,
e dice che per certo ella troppo erra;
né men biasmar che l’avaro si deve
ch’el suo ricco thesor mette sotterra:
alcuno util per sé non ne riceve,
e da l’uso de li altri humaini il serra.
Diensi chiuder leoni, orsi e serpenti,
ma non le cose belle et innocenti.
102
El Monacho, che a questo havea l’orecchia,
e per soccorrer la giovane incauta,
che ritratta non sia per la via vecchia,
sedea al governo qual pratico nauta,
quivi di spirtüal cibo apparecchia
presto una mensa sontüosa e lauta.
Ma ’l Saracin, che con mal gusto nacque,
non pur la saporì, che gli dispiacque;
103
e poi che invano il monacho interroppe
e non puoté mai far sì che tacesse,
e che di patïenza il freno roppe,
le mano adosso con furor gli messe.
Ma le parole mie parervi troppe
potriano homai, se più se ne dicesse:
sì che finirò il canto; e mi fia specchio
quel che per troppo dire accadde al vecchio.

CANTO VIGESIMOSETTIMO

1
O de li huomini inferma e instabil mente!
come siàn presti a varïar disegno!
Tutti i pensier mutamo facilmente,
più quei che nascon d’amoroso sdegno.
Io vidi dianzi il Saracin sì ardente
contra le donne, e passar tanto ’l segno,
che non che spegner l’odio, ma pensai
che non devesse intepidirlo mai.
2
Donne gentil, per quel ch’a biasmo vostro
parlò contra ’l dever, sì offeso sono,
che fin che con suo mal non gli dimostro
quanto habbia errato, il sdegno non depono.
I’ farò sì con penna e con inchiostro,
ch’ognun vedrà che gli era utile e buono
haver tacciuto, e mordersi più presto
la lingua, che di voi mai dicer questo.
3
Ma che parlò come ignorante e sciocco
ve lo dimostra chiara experïentia:
trasse de l’ira contra tutte il stocco,
e non vi fece alcuna differentia;
poi d’Issabella un sguardo sì l’ha tocco,
che subito gli fa mutar sententia.
Già in cambio di quell’altra la disia:
l’ha vista a pena, e non sa dir chi sia.
4
E come il nuovo amor lo punge e scalda,
muove alcune ragion di poco frutto
per romper quella mente intiera e salda
ch’ella havea fissa al Creator del tutto.
Ma l’Eremita che l’è scudo e falda,
perché il casto pensier non sia distrutto,
con argumenti più validi e fermi
le fa ripari e insuperabil schermi.
5
Poi che l’empio Pagan molto ha sofferto
con lunga noia quel monacho audace,
e che gli ha detto invan ch’al suo deserto
senza lei può tornar quando gli piace;
e che nuocer si vede a viso aperto,
e che seco non vuol tregua né pace:
la mano al mento con furor gli stese,
e tanto ne pelò quanto ne prese.
6
E sì cresce la furia, che nel collo
con man lo stringe a guisa di tenaglia;
e poi ch’una e due volte raggirollo,
da sé per l’aria e verso il mar lo scaglia.
Che n’avenisse, né dico né sollo:
varia fama è di lui, né si raguaglia.
Dice alcun che sì rotto a un sasso resta,
ch’el piè non si discerne da la testa;
7
et altri, ch’a cadere andò nel mare,
che quindi era lontan più di sei miglia,
e che morì per non saper nuotare,
e il corpo si trovò presso a Marsiglia;
altri, ch’un santo lo venne aiutare,
di cui digiunò sempre la vigiglia.
Di queste, qual si vuol, la vera sia:
di lui non parla più l’historia mia.
8
Rodomonte crudel, poi che levato
s’hebbe da canto il garrulo Eremita,
si ritornò con viso men turbato
verso la donna mesta e sbigottita;
e col parlar ch’è fra li amanti usato
le diceva il suo core e la sua vita,
el suo conforto e la sua cara speme,
et altri nomi tai che vanno insieme.
9
E si mostrò sì costumato allhora,
che non le fece alcun segno di forza.
El sembiante gentil, che l’innamora,
l’usato orgoglio in lui spegne et ammorza:
e ben che il frutto trar ne possa fuora,
passar non perhò volle oltra la scorza;
che non gli par che potesse esser buono
quando da lei non l’accettasse in dono.
10
Et così di disporre a poco a poco
a’ suoi piaceri Issabella credea.
Ella, che in sì solingo et strano luoco
qual sorce in piede al gatto si vedea,
vorria trovarsi inanzi in mezo il fuoco;
et seco tuttavolta rivolgea
s’alcun partito, alcuna via fusse atta
a trarla quindi immaculata e intatta.
11
Fa nel animo suo proponimento
di darsi con sua man prima la morte,
ch’el barbaro crudel n’habbia il suo intento,
et che le sia cagion d’errar sì forte
contra quel cavallier ch’in braccio spento
le havea crudele e dispietata sorte;
a cui fatto have col pensier devoto
de la sua castità perpetuo voto.
12
Vede ella ben che l’appetito cieco
del Saracin non è per star a questo,
et che vorrà venir all’atto bieco
se la provisïon non si fa presto.
Ultimamente rivolgendo seco
di molte cose, vi trovò tal sesto,
che la sua castità fu salva, come
io vi dirò, con lungo e chiaro nome.
13
Al brutto Saracin, che le venìa
già contra con parole e con effetti
privati hormai di quella cortesia
che monstrata le havea ne’ primi detti,
disse: – Signor, se fate che la mia
castità in don da voi libera accetti,
io vi farò all’incontro un don, che molto
più vi varrà c’havermi l’honor tolto.
14
Per un piacer di sì poco momento,
di che n’ha sì abondanza tutto il mondo,
non disprezzate un perpetuo contento,
un vero gaudio a nullo altro secondo.
Potete tuttavia ritrovar cento
et mille donne di viso giocondo;
ma chi dar possa il don ch’io vi propono,
nessuno al mondo, o pochi altri ne sono.
15
Ho notitia d’una herba, e l’ho veduta
venendo, e so dove trovarne appresso,
che bollita con helera e con ruta
ad un fuoco di legna di cypresso,
e fra mano innocenti indi premuta,
manda un liquor, che chi tre volte d’esso
bagna il corpo di fuor, tanto l’indura,
che dal ferro e dal fuoco l’assicura.
16
Io dico, se tre volte se n’immolla,
un mese invulnerabile si truova.
Oprar conviensi ogni mese l’ampolla;
che a sua virtù più termine non giova.
Io so far l’acqua, et hoggi anchor farolla,
et hoggi anchor ne vederete prova:
et vi può (s’io non fallo) esser più grata
che d’haver tutta Europa hoggi acquistata.
17
Da voi dimando, in guiderdon di questo,
che su la fede vostra mi giuriate
che n’in detto n’in opera molesto
mai più sarete alla mia castitate. –
Così dicendo, Rodomonte presto
fece restar; che in tanta voluntate
venne ch’invïolabil si facesse,
che più ch’ella non disse, le promesse:
18
e servaralle fin che veggia fatto
de la mirabil acqua experïentia;
et sforzerasse intanto a non far atto,
a non far segno alcun di vïolentia.
Ma ’l suo pensiero è poi rompere il patto,
perché non ha timor né reverentia
di Dio o di santi; e nel mancar di fede
tutta a lui la bugiarda Aphrica cede.
19
Ad Issabella con mille scongiuri
promisse di non mai darle più noia,
pur ch’ella lavorar l’acqua procuri
che far lo può qual fu già Achille a Troia.
Per campi e selve e luochi aprichi e scuri
cogliendo l’herbe, il Saracino soia,
che le sta appresso e per monte e per valle
sempre, hor dinanzi un poco, hora alle spalle.
20
Poi ch’in più parti quanto era a bastanza
colson de l’herbe e con radici e senza,
tardi si ritornaro alla lor stanza;
dove quel paragon di continenza
tutta la notte spende, che le avanza,
a bollir herbe con molta avertenza:
e a tutta l’opra e a tutti quei mestieri
si truova ognhor presente il Re d’Algieri,
21
che producendo quella notte in giuoco
con quelli pochi servi ch’eran seco,
sentia, per il calor del vicin fuoco
ch’era rinchiuso in quello angusto speco,
tal sete, che bevendo hor molto hor poco,
dui barili vuotâr pieni di greco,
c’haveano tolto uno o dui giorni inanti
gli suoi scudieri a certi vïandanti.
22
Non era Rodomonte usato al vino,
perché la legge sua lo vieta e danna;
e poi che lo gustò, liquor divino
gli par, miglior ch’el nectare o la manna;
e riprendendo il rito saracino,
gran tazze e piene e spesse ne tracanna:
li fiaschi vanno in volta così crebri,
che tutti in summa se ritrovan ebri.
23
La donna in questo mezo la caldaia
dal fuoco tolse, ove quell’herbe cosse;
et disse a Rodomonte: – Acciò che paia
che mia parole al vento non ho mosse,
quella ch’el ver da la bugia dispaia
et può far dotte ancho le genti grosse,
te ne farò l’experïenza adesso,
prima che in altri, nel mio corpo istesso.
24
Io voglio a far il saggio esser la prima
del felice liquor di virtù pieno,
acciò che forse non facessi stima
che ce fusse mortifero veneno.
Di questo bagnerommi da la cima
del capo giù pel collo et per il seno:
tu poi tua forza in me prova e tua spada,
se questo habbia vigor, se quella rada. –
25
Bagnossi come disse, et lieta porse
all’incauto Pagano il collo ignudo,
il qual pel vin che tutta notte sorse
si ritrovava più cotto che crudo.
Quel huom bestial, che le credeva, scórse
tanto con l’empia man, ch’el ferro crudo
quel capo, che fu già d’Amore albergo,
spiccò dal petto e dal candido tergo.
26
Quel fe’ tre balzi; e funne udita chiara
voce, ch’uscendo nominò Zerbino,
per cui seguire, astutia strana e rara
s’imaginò a schernire il Saracino.
Alma, c’havesti più la fede cara
e il nome, quasi ignoto e peregrino
al tempo nostro, de la castitade,
che la tua vita e la tua prima etade,
27
vattene in pace, alma beata e bella!
Così potessen li miei versi, come
ben mi affaticherei con tutta quella
arte che tanto il parlar orna et còme,
perché mille et mill’anni, e più, novella
sentisse il mondo del tuo chiaro nome.
Vattene in pace alla superna sede,
et lascia all’altre exempio di tua fede.
28
Al atto incomparabile e stupendo
dal cielo il Creator giù gli occhi volse,
et disse: – Più di quella ti commendo
la cui morte a Tarquino il regno tolse;
et per questo una legge fare intendo
tra quelle mie, che mai tempo non sciolse,
la qual per l’inviolabil acque giuro
che non muterà secolo futuro.
29
Per lo avenir vuo’ che ciascuna c’haggia
il nome tuo sia di sublime ingegno,
e sia bella, gentil, cortese e saggia,
e di vera honestade arrivi al segno:
onde a’ scrittori ampla materia caggia
di celebrare il nome inclyto e degno;
tal che Parnasso, Pindo et Elicone
sempre Issabella, Issabella risuone. –
30
Dio così disse, et serenò d’intorno
l’aria, et fe’ il mar tranquil più che mai fusse.
Fe’ l’alma casta al terzo ciel ritorno,
e in braccio al suo Zerbin si ricondusse.
Rimase in terra con vergogna e scorno
quel fier senza pietà, nuovo Breusse;
che poi ch’el troppo vino hebbe digesto,
biasmò il suo error, et ne restò funesto.
31
Placar o in parte satisfar pensosse
a l’anima beata d’Issabella,
che, poi che a morte il corpo le percosse,
desse almen vita alla memoria d’ella.
Trovò per mezo (acciò che così fosse)
di convertirle quella chiesa, quella
dove habitava e dove ella fu uccisa,
in un sepolchro; et vi dirò in che guisa.
32
Di tutti i luochi intorno fe’ venire
mastri, chi per amor et chi per tema,
e più di se’ mila huomini fe’ unire;
con questi i monti de i gran sassi scema,
et ne fa una gran massa stabilire,
che da la cima era alla parte estrema
novanta braccia; et vi rinchiude dentro
la chiesa, che i dui amanti havea nel centro.
33
Imita quasi la superba mole
che fe’ Adriano all’onda tyberina.
Presso al sepolchro una torre alta vuole;
c’habitarvi alcun tempo si destina.
Un ponte stretto e di due braccia sole
fece su l’acqua che correa vicina:
lungo il ponte, ma largo era sì poco,
che dava a pena a dui cavalli luoco;
34
a dui cavalli che venuti a paro,
o che insieme si fussero scontrati;
et non havea né sponda né riparo,
et si potea cader da tutti i lati.
Il passar quindi vuol che costi caro
a guerrieri o pagani o battezati;
che de le spoglie lor mille trophei
promette al cimiterio di costei.
35
In minor spatio fu, che non ricovra
la nuova Luna el già scemato lume,
finita del sepolchro tutta l’ovra,
la ròcca, il ponticel che passa il fiume.
Star una guardia a la vedetta sovra
la torre il dì et la notte havea costume,
che d’ogni cavallier che venìa al ponte
col corno facea segno a Rodomonte.
36
Et quel si armava, e se gli venìa opporre
hora su l’una, hora su l’altra riva;
che se ’l guerrier venìa di vêr la torre,
su l’altra proda il Re d’Algier veniva.
Il ponticello è il campo ove si corre;
et se ’l caval poco del segno usciva,
cadea nel fiume, ch’alto era e profondo:
ugual periglio a quel non havea il mondo.
37
Haveasi imaginato il Saracino
che, per star sempre a rischo di cadere
del ponte in la riviera a capo chino,
dove li converria molta acqua bere,
del fallo a che l’indusse el troppo vino
devesse netto e mondo rimanere;
pur come l’acqua il vino, così extingua
l’error che fa pel vino o mano o lingua.
38
Molti fra pochi dì vi capitaro:
altri che la via lor ve li condusse,
ch’a quei che di Provenza in Spagna andaro
non era strada che più trita fusse;
altri, c’havean strane aventure a caro,
disio d’honor a far tal prova indusse.
Tutti del’arme l’honorata salma,
et molti vi lasciaro insieme l’alma.
39
Di quelli ch’abbattea, se eran pagani,
si contentava haver le spoglie e l’armi;
e di chi prima fur, li nomi piani
vi facea sopra, e suspendeale a i marmi:
ma ritenea in pregion tutti i christiani,
e che in Algier poi li mandasse parmi.
Finita anchor non era l’opra, quando
vi venne a capitar il pazzo Orlando.
40
A caso venne il furïoso Conte
a capitar su questa gran riviera,
dove (come io vi dico) Rodomonte
far in fretta facea, né finito era
il sepolchro e la torre e il stretto ponte:
di tutte l’arme, fuor che la visera,
a quell’hora il Pagan si trovò in punto,
ch’Orlando al fiume e al ponte è sopraggiunto.
41
Orlando (come el suo furor lo caccia)
salta la sbarra e sopra il ponte corre.
Ma Rodomonte con turbata faccia,
a piè, come era innanzi a la gran torre,
gli grida di lontano e gli minaccia,
né si gli degna con la spada opporre:
– Ritorna, temerario asino, indrieto,
importuno villan poco discreto!
42
Sol per signori et cavallieri è fatto
il ponte, non per te, bestia balorda. –
Orlando, ch’era in gran pensier distratto,
vien pur inanzi e fa l’orecchia sorda.
– Bisogna ch’io castighi questo matto, –
disse il Pagano; e con la voglia ingorda
se ne venìa per trabboccarlo in l’onda,
non pensando trovar chi gli risponda.
43
In questo tempo una gentil donzella,
per passar sovra il ponte, al fiume arriva,
liggiadramente ornata e in viso bella,
e ne’ sembianti accortamente schiva.
Era (se vi ricorda, signor) quella
ch’in ogni altro sentier cercando giva
di Brandimarte, il suo amator, vestigi,
fuor che dove era, drento da Parigi.
44
Nel arrivar di Fiordiligi al ponte
(che così la donzella nomata era),
Orlando si attaccò con Rodomonte
che venìa per gettarlo in la riviera.
La donna, che havea pratica del Conte,
subito n’hebbe connoscenza vera:
e ne restò di maraviglia piena
de la follia che così ignudo il mena.
45
Fermasi a riguardar che fine havere
habbia il furor de’ dui tanti possenti.
Per far del ponte l’un l’altro cadere
a por tutta lor forza sono intenti.
– Come è che un pazzo debbia sì valere? –
seco il fiero Pagan dice tra’ denti;
e qua e là si volge et si raggira,
pieno di sdegno et di superbia et ira.
46
Con l’una e l’altra man va ricercando
far nuova presa, ove il suo meglio vede;
hor tra le gambe, hor fuor gli pone quando
con arte il destro, et quando il manco piede.
Simiglia Rodomonte intorno a Orlando
il stolido orso che sveller si crede
l’arbor onde è caduto; e come n’habbia
quello ogni colpa, odio gli porta e rabbia.
47
Orlando, che l’ingegno haveva immerso
io non so dove, et sol la forza usava,
l’estreme forze a cui per l’universo
nessuno o raro paragon si dava,
cader del ponte si lasciò riverso
col Pagano abbracciato come stava.
Cadon nel fiume et vanno al fondo insieme:
ne salta in aria l’onda, e il lito geme.
48
Feceli l’acqua distaccare in fretta.
Orlando è nudo, e nuota come un pescie:
di qua le braccia e di là i piedi getta,
e viene a proda; e come di fuor escie,
correndo va, né per mirare aspetta
se ’n biasmo o loda questo gli riescie.
Ma il Pagan, che da l’arme era impedito,
tornò più tardo e con più affanno al lito.
49
Sicuramente Fiordiligi intanto
havea passato el ponte e la riviera;
e guardato il sepolchro in ogni canto
se del suo Brandimarte insegna v’era,
poi che né l’arme sue vede n’il manto,
di ritrovarlo in altra parte spera.
Ma ritorniamo a ragionar del Conte,
che lascia a drieto e torre e fiume e ponte.
50
Pazzia serà se le pazzie d’Orlando
prometto raccontarvi ad una ad una;
che tante e tante fur, ch’io non so quando
finir: ma ne anderò scegliendo alcuna
solenne et atta da narrar cantando,
e ch’all’historia mi parrà opportuna;
né quella tacerò miraculosa
che fu nei Pyrenei sopra Tolosa.
51
Trascorso havea molto paese il Conte,
come dal grave suo furor fu spinto;
et al fin capitò sopra quel monte
per cui dal Franco è il Taracon distinto;
tenendo tuttavia volta la fronte
verso là dove el Sol ne viene extinto:
et quivi giunse in uno angusto calle
che pendea sopra una profonda valle.
52
Scontraronsi in costui nel stretto varco
dui boscharecci giovani, che inante
havean di legna un lor asino carco;
et perché ben s’accorsero al sembiante
ch’egli ha di cervel sano il capo scarco,
gli gridano con voce minacciante
o che a drieto o da parte se ne vada,
e che si levi di mezo la strada.
53
Orlando non risponde altro a quel detto,
se non che con furor tira d’un piede,
et giunge a punto l’asino nel petto
con quella forza che tutte altre excede;
et alto il leva sì, ch’uno augelletto
che voli in aria sembra a chi lo vede.
Quel va a cader a la cima d’un colle,
che un miglio oltra la valle il giogo extolle.
54
Indi verso i dui gioveni s’aventa,
de’ quali un, più che senno, hebbe aventura
che da la balza, che due volte trenta
braccia cadea, si gettò per paura.
A mezo il tratto trovò molle e lenta
una macchia di rubi e di verdura,
a cui bastò graffiargli un poco il volto:
del resto lo mandò libero e sciolto.
55
L’altro s’attacca ad un scheggion ch’usciva
fuor de la roccia, per salirvi sopra;
perché si spera, se alla cima arriva,
di trovar via che dal pazzo lo copra.
Ma quel nei piedi, che non vuol che viva,
lo piglia, mentre di salir s’adopra:
e quanto più sbarrar pote le braccia,
le sbarra sì, che in dui pezzi lo straccia,
56
a quella guisa che veggiàn talhora
el falconier far d’aerone o pollo,
quando vuol de le calde interïora
che l’affamato augel resti satollo.
Quanto è bene accaduto che non mora
quel che fu a risco di snodarsi il collo!
ch’ad altri poi questo miracol disse,
sì che l’udì Turpino, e a noi lo scrisse.
57
Et queste et altre assai cose stupende
fece nel traversar de la montagna.
Depois molto cercar, al fin discende
verso Meriggie in la terra di Spagna;
e lungo la marina il camin prende,
che intorno a Taracona il lito bagna:
e come vuol la furia che lo mena,
pensa farsi uno albergo in quella arena,
58
dove dal sole alquanto si ricopra;
e nel sabbion si caccia àrrido e trito.
Stando così, gli venne a caso sopra
Angelica la bella e suo marito,
che eran (sì come io vi narrai di sopra)
scesi dai monti in su l’Hispano lito.
A men d’un braccio ella arrivògli appresso,
perché non s’era accorta anchora d’esso.
59
Che fusse Orlando, nulla le sovenne:
troppo è diverso da quel ch’esser suole.
Da indi in qua ch’in tanto furor venne,
era sempre ito ignudo all’ombra e al sole:
se fusse nato in la aprica Sïenne,
o dove la Phenice apparir suole,
o presso ai monti onde il gran Nilo spiccia,
non devrebbe la carne haver più arsiccia.
60
Quasi ascosi havea gli occhi ne la testa,
la faccia magra, et come un osso asciutta,
la chioma rabuffata, horrida e mesta,
la barba folta, spaventosa e brutta.
Non più a vederlo Angelica fu presta,
che fusse a ritornar fuggendo: e tutta
tremando e empiendo il ciel d’acuti gridi,
al suo Medoro addimandò sussidi.
61
Come di lei si accorse Orlando stolto,
per ritenerla si levò di botto:
così gli piacque il delicato volto,
sì ne divenne immantinente giotto.
D’haverla amata e riverita molto
havea in memoria anchora; ma condotto
dal gran furor, la caccia in la maniera
che si farebbe una selvaggia fiera.
62
El giovene ch’el pazzo seguir vede
la donna sua, gli urta il cavallo adosso,
e tutto a un tempo lo percuote e fiede,
come lo truova che gli volta il dosso.
Spiccar dal busto il capo se gli crede:
ma la pelle trovò dura come osso,
anzi via più ch’acciar; ch’Orlando nato
impenetrabile era et affatato.
63
Come Orlando sentì battersi rietro,
girossi, et nel girar il pugno strinse,
e con la forza che passa ogni metro
ferì il caval ch’el Saracino spinse.
Feril su ’l capo, e come fusse vetro
tutto il spezzò, sì che il destrier extinse:
e rivoltosse in un medesmo instante
drieto a colei che li fuggiva inante.
64
Caccia Angelica in fretta la giumenta,
e con sferza e con spron tocca e ritocca;
che le parrebbe a quel bisogno lenta
se ben volasse più che stral da cocca.
Del annel c’ha nel dito si ramenta,
che può salvarla, e se lo getta in bocca:
e l’annel, che non perde il suo costume,
la fa sparir come ad un soffio il lume.
65
O fusse la paura, o che pigliasse
tanto disconcio nel mutar l’annello,
o pur che la giumenta trabbocasse,
che non posso affermar questo né quello;
nel medesmo momento che si trasse
l’annel in bocca e celò il viso bello,
levò le gambe et uscì del arcione,
et si trovò riversa in sul sabbione.
66
Duo dita che quel salto era più curto,
aviluppata rimanea col matto,
che uccider la potea solo con l’urto;
ma gran ventura l’aiutò a quel tratto.
Provedasi ella pur con nuovo furto
d’un’altra bestia, come prima ha fatto;
che più non è per rïhaver mai questa
che inanzi al Paladin l’arena pesta.
67
Non dubitate già ch’ella non s’habbia
a proveder; e seguitiamo Orlando,
in cui non cessa l’impeto e la rabbia
perché si vada Angelica celando.
Segue la bestia per la nuda sabbia,
e se le vien più sempre approssimando:
già già la tocca, et ecco l’ha nel crine,
indi nel freno, et la ritiene al fine.
68
Con quella festa il Paladin la piglia
che un altro havrebbe fatto una donzella:
le rassetta le redine et la briglia,
e spicca un salto et entra ne la sella;
e correndo la caccia molte miglia,
senza riposo, in questa parte e in quella:
mai non le leva né sella né freno,
né le lascia gustar herba né fieno.
69
Volendosi cacciar oltra una fossa,
sozopra se ne va con la cavalla:
non nocque a lui, né sentì la percossa;
ma nel fondo la misera si spalla.
Non vede Orlando come trar la possa;
e finalmente se l’arreca in spalla,
e su torna, e ne va con tutto il carco
quanto in tre volte non trarrebbe un arco.
70
Sentendo poi che gli gravava troppo,
la pose in terra, et volea trarla a mano.
Ella il seguia con passo lento e zoppo;
dicea Orlando: – Camina! – e dicea invano.
Se l’havesse seguito di galoppo,
assai non era al desiderio insano.
Al fin dal capo le levò il capestro,
e drieto la legò sopra ’l piè destro;
71
et così la strassina, e la conforta
che lo potrà seguir con maggior agio.
Qual leva il pelo et quale il coio porta
de’ sassi ch’eran nel camin malvagio:
la mal condutta bestia restò morta
finalmente di stratio e di disagio.
Orlando non le pensa e non la guarda,
e via correndo il suo camin non tarda.
72
Trassela seco più di sette giorni,
continoando il corso ad Occidente;
predando tuttavia per quei contorni
ciò che trovava in che adoprar il dente;
e frutte e carne e pan, pur che egli inforni,
togliea ogni cosa, e sforzava ogni gente:
et uccideva et stroppiava con busse
chi per vietarlo temerario fusse.
73
Havrebbe così fatto, o poco manco,
de la sua donna, se non s’ascondea;
perché non discernea il nero dal bianco,
e di giovar, nocendo, si credea.
Deh maledetto sia l’annello, et ancho
il cavallier che dato le l’havea!
che se non era, havrebbe Orlando fatto
di sé vendetta e di mille altri a un tratto.
74
Né sola questa, ma fusser pur state
in man d’Orlando quante hoggi ne sono;
che ad ogni modo tutte sono ingrate,
né si truova tra lor oncia di buono.
Ma prima che le chorde rallentate
al canto disugual rendano il suono,
fia meglio differirlo a un’altra volta,
acciò men sia noioso a chi l’ascolta.

CANTO VIGESIMOTTAVO

1
Deh, come invan si piange e si suspira
drieto all’error, e non gli vale emenda,
se avien ch’el sdegno e l’impeto de l’ira
a cacciar d’alto la ragione ascenda,
quando con forza irreparabil tira
o lingua o man, sì che li amici offenda.
Lasso! io mi doglio e affligo invan di quanto
dissi per ira al fin de l’altro canto.
2
Ma simile son fatto ad uno infermo,
che dopo molta patïentia e molta,
quando contra il dolor non ha più schermo,
cede a la rabbia e a bestemmiar si volta.
Manca il dolor, né l’impeto sta fermo,
che la lingua al dir mal facea sì sciolta;
l’huom si ravede e pente et stassi cheto:
ma non può il detto ritornar più a drieto.
3
Ben spero, donne (vostra cortesia),
haver da voi perdon, poi ch’io vel chieggio;
voi scusarete che per frenesia,
vinto da l’aspra passïon, vaneggio.
Date la colpa alla nemica mia,
che mi fa star ch’io non potrei star peggio,
e mi fa dir quel di ch’io son poi gramo:
sallo Idio s’ella ha il torto, essa s’io l’amo.
4
Non men son fuor di me che fusse Orlando;
non manco son di lui di scusa degno,
c’hor per li monti, hor per le spiagge errando,
scórse in gran parte di Marsiglio il regno,
molti dì la cavalla strassinando
morta come era, senza alcun ritegno;
ma giunto ove un gran fiume entra nel mare,
gli fu forza il cadavero lasciare.
5
E perché sa nuotar come una lontra,
entra nel fiume, et surge all’altra riva.
Ecco un pastor sopra un cavallo incontra,
che per abeverarlo al fiume arriva.
Colui, ben che gli vada Orlando contra,
perché egli è solo e nudo, non lo schiva.
– Vorrei del tuo caval (gli disse il matto)
con la giumenta mia far un baratto.
6
Io te la mostrerò di qui, se vuoi;
che morta là su l’altra ripa giace:
tu la potrai far medicar dapoi;
altro diffetto in lei non mi dispiace.
Senza altra giunta il caval dar mi puoi:
smontane in cortesia, perché mi piace. –
El pastor ride, e senza altra risposta
va verso il guado, e dal pazzo si scosta.
7
– Io voglio il tuo cavallo: oh là, non odi? –
suggiunse Orlando, e con furor si mosse.
Havea un baston con nodi spessi e sodi
quel pastor seco, e il Paladin percosse.
La rabbia e il sdegno passò tutti i modi
del Conte; e parve fier più che mai fosse:
sul capo del pastor un pugno serra,
che spezza l’osso, e morto il lascia in terra.
8
Salta a cavallo, e per diversa strada
va discorrendo, e molti pone a sacco.
Non gusta il caval mai fieno né biada,
tanto ch’in pochi dì ne riman fiacco:
ma non perhò ch’Orlando a piedi vada,
che di vetture vuol vivere a macco;
e quante ne trovò, tante ne mise
in uso, poi che lor patroni uccise.
9
Capitò al fin a Malega, e più danno
vi fece, ch’egli havesse altrove fatto:
che oltra che ponesse a saccomanno
il popul sì, che ne restò disfatto;
né si puoté rifar quel né l’altro anno,
tanti n’uccise il periglioso matto;
vi spianò tante case e tante accese,
che disfe’ più ch’el terzo del paese.
10
Quindi partito, venne ad una terra,
Zizera detta, che siede sul stretto
di Zibeltarro, o vuoi di Zibelterra,
che l’uno e l’altro nome gli vien detto;
dove una barca che sciogliea da terra
vide piena di gente da diletto,
che solazzando al’aura matutina
gìa per la tranquilissima marina.
11
Cominciò il pazzo a gridar forte: – Aspetta! –
che gli venne disio d’andare in barca;
ma vanamente e gridi et urli getta,
che volentier tal merce non si carca.
Per l’acqua il legno va con quella fretta
che va per l’aria hirondine che varca.
Orlando per la briglia il caval stringe,
e con un mazzafrusto all’acqua el spinge.
12
Forza è ch’al fin ne l’acqua il cavallo entre,
ch’invan contrasta, e spende invano ogni opra:
bagna i genocchi, e poi la groppa e il ventre,
indi la testa, e a pena appar di sopra.
Tornare a dietro non si speri, mentre
la verga tra l’orecchie se gli adopra.
Misero! o si convien tra via affogare,
o nel lito Aphrican passare il mare.
13
Non vede Orlando più poppe né sponde
del legno che l’ha in mar tratto dal sciutto,
perch’è troppo lontano, e lo nasconde
a gli occhi bassi l’alto e mobil flutto:
e tuttavia il destrier caccia tra l’onde,
ch’andar di là dal mar dispone in tutto.
El destrier, d’acqua pieno e d’alma vuoto,
finalmente finì la vita e il nuoto.
14
Andò nel fondo; e vi trahea la salma,
se non si tenea il stolto in su le braccia.
Mena le gambe e l’una e l’altra palma,
soffia l’onda e respinge da la faccia.
Era l’aria suave e il mare in calma:
e ben vi bisognò più che bonaccia;
che ogni poco ch’el mar fusse più sorto,
restava il Paladin ne l’acqua morto.
15
Ma la Fortuna, che de’ pazzi ha cura,
del mar lo trasse nel lito di Setta
in una spiaggia, lungi da le mura
quanto serian dui tratti di saetta.
Lungo il mar molti giorni alla ventura
verso Levante andò correndo in fretta;
fin che trovò, dove tendea sul lito,
di nera gente exercito infinito.
16
Lasciàn ch’el pazzo errando se ne vada:
ben di parlar di lui tornerà tempo.
Quanto, signor, ad Angelica accada
dopo ch’uscì di man d’Orlando a tempo;
e come a ritornare in sua contrada
trovasse e buon naviglio e miglior tempo,
e de l’India Medoro havesse il settro,
forse altri canterà con miglior plettro.
17
Io sono a dir tante altre cose intento,
che di seguir più questa non mi cale.
Volger conviemmi il bel ragionamento
al Tartaro, che spinto il suo rivale,
quella bellezza si godea contento,
a cui non resta in quei contorni uguale,
poi che d’Europa Angelica è partita
e la casta Issabella al ciel salita.
18
De la sententia Mandricardo altiero,
ch’in suo favor la bella donna diede,
non può fruir tutto il diletto intiero;
che contra lui son nuove liti in piede.
L’una gli muove il giovene Ruggiero,
perché l’aquila bianca non gli cede;
l’altra il famoso Re di Sericana,
che da lui vuol la spada Durindana.
19
E non potea il Re d’Aphrica accordarli,
de la querela principal non dico,
c’hanno li dui col Tartaro, per trarli
a buona pace, e l’un sia a l’altro amico;
ma che tra lor si diano luoco, e parli
questo e poi quello, e nel steccato aprico
l’uno lasci intrar l’altro, e fuore aspetti
tanto che l’una lite si rassetti.
20
Ruggier non vuol che Mandricardo vada
col scudo suo, né il Re Gradasso vuole
che porti più la glorïosa spada;
e di non esser primo ognun si duole.
– Al fin veggiamo in chi la sorte cada –
disse Agramante, – e non sian più parole:
preposto sia quel ch’el destin prepone;
l’altro stia cheto a quel ch’el ciel dispone.
21
Se compiacere a punto mi volete,
sì che io ve n’habbia haver obligo ognhora,
chi de’ di voi combatter sortirete;
con patto, a quel che prima uscirà fuora,
ch’amendue le querele in man porrete:
sì che, per sé vincendo, vinca anchora
pel compagno; e perdendo l’un di vui,
così perduto habbia per ambidui.
22
Tra Gradasso e Ruggier credo che sia
di valor nulla o poca differenza;
sì che venga qual vuol d’essi fuor pria,
so ch’in arme farà per excellenza.
Poi la vittoria da quel canto stia
che vorrà la divina providenza:
el cavallier non havrà colpa ignuna,
ma il tutto imputerassi alla Fortuna. –
23
Stero taciti al detto d’Agramante
li dui guerrieri; e fêro insieme liga
che quel di lor che sorte porria inante
havesse a tòrsi l’una e l’altra briga.
Così in dui brevi pari, e simigliante
l’uno con l’altro, il nome lor si riga;
e dentro una orna poi li hanno rinchiusi,
versati molto, e sozopra confusi.
24
Un semplice fanciul pose ne l’orna
la sortilega mano; e venne a caso
che fuor col nome di Ruggier ritorna,
e quel del Re Gradasso entro è rimaso.
Quindi Ruggiero alla pugna s’adorna,
poi ch’el suo nome è primo a uscir del vaso:
riman Gradasso pien d’ira e di doglia;
ma quel che gli dà il ciel, forza è che toglia.
25
Ogni suo studio, intentïone et opra
a favorire, ad aiutar converte
Ruggier, per farlo rimaner di sopra:
e le cose in suo pro, c’havea già experte,
come hor di spada, hor di scudo si copra,
qual sien botte fallaci e quali certe,
quando tentar, quando schivar fortuna
si de’, tutte l’insegna ad una ad una.
26
El resto di quel dì, che da l’accordo
e dal trar de le sorti sopravanza,
è speso da li amici a dar ricordo,
chi a l’un guerrier, chi a l’altro, come è usanza.
El popul, di veder la pugna ingordo,
s’affretta a gara d’occupar la stanza:
né basta a molti inanzi giorno andarvi,
che voglion tutta notte ancho vegghiarvi.
27
La sciocca turba disïosa attende
che li dui cavallier vengano in prova;
che non mira più lungi o più comprende
di quel ch’inanzi a li occhi si ritrova.
Ma Sobrino e Marsiglio, e chi più intende
e vede ciò che nuoce e ciò che giova,
biasma questa battaglia, et Agramante
che voglia comportar che vada inante.
28
Né cessan racordargli il grave danno
che n’ha d’haver il popul saracino,
mora Ruggier o ’l Tartaro tyranno,
quel d’essi c’ha prefisso il suo destino:
d’un sol di lor via più bisogno havranno
per contrastare al figlio di Pipino,
che di dieci altri mila che ci sono,
tra’ quai fatica è ritrovar un buono.
29
Connosce il Re Aphrican che dicon vero,
ma non può più negar ciò c’ha promesso:
ben priega Mandricardo e il buon Ruggiero
che gli ridonin quel c’ha lor concesso;
et tanto più, che il lor litigio è un Zero,
né degno in prova d’arme esser rimesso;
e s’in ciò pur no ’l vogliono ubidire,
vogliano almen la pugna differire.
30
Cinque o sei mesi il singular certame,
o meno o più, si differisca, tanto
che cacciato habbian Carlo del Reame,
toltogli il scettro, la corona e ’l manto.
Ma l’un e l’altro, anchor che voglia et brame
il Re ubedir, pur sta duro da canto;
che tal accordo obbrobrïoso stima
a chi ’l consenso suo vi darà prima.
31
Ma più del Re, ma più d’ognun che invano
spenda a piegar il Tartaro parole,
la bella figlia del Re Stordilano
supplice il priega, si lamenta et duole:
lo priega che consenta al Re Aphricano
et voglia quel che tutto il campo vuole;
si lamenta et si duol che per lui sia
timida sempre et piena d’angonia.
32
– Lassa! (dicea) che ritrovar poss’io
rimedio mai ch’a riposar mi vaglia,
s’hor contra questo, hor quel, nuovo disio
vi trarrà sempre a vestir piastra e maglia?
C’ha potuto giovare al petto mio
il gaudio che sia spenta la battaglia
che contra Rodomonte havate presa,
s’un’altra non minor se n’è già accesa?
33
Ohimè! che invano io me n’andavo altiera
ch’un Re sì degno, un cavallier sì forte
per me si fusse in perigliosa et fiera
battaglia posto al risco de la morte;
c’hor veggio per cagion tanto liggiera
anchor exporvi alla medesma sorte:
fu natural ferocità di core
che combatter vi fe’, più ch’el mio amore.
34
Ma se gli è ver ch’el vostro amor sia quello
che vi sforzate persuadermi ognhora,
per lui vi priego, et per quel gran flagello
che mi traffige l’alma et che m’accora,
che non vi caglia se ’l candido augello
nel scudo azurro ha quel Ruggiero anchora:
utile o danno a voi non so ch’importi,
che lasci quella insegna o che la porti.
35
Poco guadagno, e perdita uscir molta
de la battaglia può, che per far sète:
quando habbiate a Ruggier l’aquila tolta,
poca mercé d’un gran travaglio havrete;
ma se Fortuna le spalle vi volta,
che non perhò nel crin presa tenete,
causate un danno, ch’a pensarvi solo
mi sento il petto già sparrar di duolo.
36
Quando la vita a voi per voi non sia
cara, e più amate una aquila dipinta,
vi sia almen cara per la vita mia:
non serà l’una senza l’altra extinta.
Non già morir con voi grave mi fia:
son di seguirvi in vita e in morte accinta;
ma non vorrei morir sì mal contenta
come io serò, se dopo voi son spenta. –
37
Con tal parole et simili altre assai,
che lachryme accompagnano et suspiri,
pregar non cessa tutta notte mai
perché alla pace il suo amator ritiri;
e quel, suggendo da li humidi rai
quel dolce pianto, et quei dolci martìri
da le vermiglie labra più che rose,
lachrymando egli anchor, così rispose:
38
– Deh, vita mia, non vi mettete affanno,
deh non, per dio, di così lieve cosa;
che se Carlo e il Re d’Aphrica, e ciò c’hanno
qui di gente Moresca et di Franciosa,
spiegasse le bandiere in mio sol danno,
pur non ne devereste esser pensosa.
Ben mi mostrate in poco conto havere,
se per me un Ruggier sol vi fa temere.
39
Et vi devria pur ramentar che, solo
(et spada io non havea né scimitarra),
con un troncon di lancia a un grosso stuolo
d’armati cavallier tolsi la sbarra.
Gradasso, anchor che con vergogna et duolo
lo dica, pur, a chi ’l dimanda, narra
che fu in Sorìa a un castel mio prigionero;
et è pur d’altra fama che Ruggiero.
40
Non niega similmente il Re Gradasso,
et sallo Isolier vostro et Sacripante,
io dico Sacripante, il Re Circasso,
e il famoso Griphone et Aquilante,
cent’altri et più, che pur a questo passo
stati eran presi alcuni giorni inante,
macomettani et gente di batesmo,
che tutti liberai quel dì medesmo.
41
Non cessa anchor la maraviglia loro
de la gran prova ch’io feci quel giorno,
maggior che se l’exercito del Moro
et del Franco inimici havessi intorno.
Et hor potrà Ruggier, giovene soro,
farmi da solo a solo o danno o scorno?
Et hor c’ho Durindana et l’armatura
d’Hettòr, vi de’ Ruggier metter paura?
42
Perché con Rodomonte non venni io
a far di voi, con l’arme in mano, acquisto?
So che v’havrei sì aperto il valor mio,
che havreste il fin già di Ruggier previsto.
Sciugate queste lachryme, et per dio
non mi fate un augurio così tristo;
et siate certa ch’el mio honor m’ha spinto,
et non l’augel ch’è nel scudo dipinto. –
43
Così disse egli; et molto ben risposto
gli fu da la mestissima sua donna,
che non pur lui mutato di proposto,
ma di luoco havria mossa una colonna.
Ella era per dever vincer lui tosto,
anchor ch’armato, e ch’ella fusse in gonna;
e l’havea indutto a dir, che se ’l Re parla
d’accordo più, che volea contentarla.
44
Et lo facea; se non che come al Sole
la vaga Aurora fe’ l’usata scorta,
l’animoso Ruggier, che mostrar vuole
che con ragion la bella Aquila porta,
per non udir più d’atti e di parole
dilatïon, ma far la lite corta,
sonando il corno s’appresenta armato
dove circonda il populo il steccato.
45
Hor come sente il Tartaro superbo
l’altiero suon ch’alla battaglia il sfida,
non vuol più de l’accordo intender verbo,
ma si lancia del letto, et arme grida;
et si dimostra sì nel viso acerbo,
che Doralice istessa non si fida
dirgli né più di pace né di tregua:
et forza è ’nfin che la battaglia segua.
46
Subito s’arma, et a fatica aspetta
da’ suoi scudieri i debiti servigi;
poi monta sopra quel cavallo in fretta,
che del buon difensor fu di Parigi;
et vien correndo invêr la piazza eletta
per terminar con l’arme i gran litigi.
Vi giunse il Re et la corte allhora allhora;
sì che all’assalto fu poca dimora.
47
Posti lor furo et allacciati in testa
li lucidi elmi, et dato lor le lancie.
Segue la tromba a dar il segno presta,
che fece a mille impallidir le guancie.
Posero l’haste i Cavallieri in resta,
e’ corridori punsero alle pancie;
e venner con tal impeto a ferirsi,
che parve il ciel cader, la terra aprirsi.
48
Quinci et quindi venir si vede il bianco
augel che Giove per l’aria sostenne;
come ne la Thessalia si vide ancho
venir più volte, ma con altre penne.
Quanto sia l’uno et l’altro guerrier franco
mostra ’l portar de le massiccie antenne,
et più al ferir; et più, ch’al scontro duro
qual torri a’ venti o scogli a l’onde furo.
49
Li tronchi sin al ciel ne sono ascesi:
scrive Turpin, verace in questo luoco,
che dui o tre giù ne tornaro accesi,
ch’eran saliti alla spera del fuoco.
Li Cavallieri i brandi haveano presi:
et come quei che si temeano poco,
si ritornaro incontra; e a prima giunta
ambi alla vista si ferîr di punta.
50
Ferîrsi alla visera al primo tratto;
et non miraron, per mettersi in terra,
dar a’ cavalli morte, ch’è mal atto,
perch’essi non han colpa de la guerra.
Chi pensa che tra lor fusse tal patto,
non sa l’usanza antiqua, et di molto erra:
senz’altro patto, era vergogna et fallo
et biasmo eterno a chi ferìa il cavallo.
51
Ferîrsi alla visera, ch’era doppia,
et a pena ancho a tanta furia resse.
L’un colpo appresso l’altro si radoppia:
le botte più che grandine son spesse,
grandine che lo gran strugga et la stoppia,
et fraudi altrui de la sperata messe.
Sapete ben se Durindana è fina,
e quanto il brando può di Falerina.
52
Ma degno di sé colpo anchor non fanno,
sì l’un et l’altro ben sta su l’aviso.
Uscì da Mandricardo il primo danno
per cui fu quasi il buon Ruggier ucciso:
d’uno de quei gran colpi che far sanno
gli fu per mezo il bel scudo diviso,
et la corazza apertagli di sotto;
et fin sul vivo il crudel brando ha rotto.
53
L’aspra percossa agiacciò ’l cor nel petto,
per dubbio di Ruggier, a i circonstanti,
nel cui favore inclinava l’affetto
ben de li più, se non di tutti quanti.
Et se Fortuna ponesse ad effetto
quel che la maggior parte vorria inanti,
già Mandricardo serìa morto o preso:
sì ch’el suo colpo ha tutto il campo offeso.
54
Io credo che qualche angel s’interpose
per salvar da quel colpo il Cavalliero.
Ma ben senza più indugia gli rispose,
terribil più che mai fusse, Ruggiero:
la spada in capo a Mandricardo pose;
ma tanto il sdegno fu sùbito et fiero,
et tal fretta gli fe’, ch’io men l’incolpo
se non venne a ferir di taglio il colpo.
55
Se Balisarda lo giungea pel dritto,
l’elmo d’Hettorre era incantato invano.
Fu sì del colpo Mandricardo afflitto,
che si lasciò la briglia uscir di mano;
et per andar tre volte a capo fitto
in terra fu, mentre scorreva il piano
quel Brigliador che connoscete al nome,
dolente anchor de le mutate some.
56
Calcata serpe mai tanto non hebbe,
né ferito leon, sdegno et furore
quanto il Tartaro, poi che si rïhebbe
del spasmo che di sé lo trasse fuore.
Et quanto l’ira et la superbia crebbe,
tanta et più crebbe in lui forza e valore:
fece spiccar a Brigliadoro un salto
verso Ruggiero, e alzò la spada in alto.
57
Levossi in su le staffe, et a l’elmetto
segnolli; et se credette veramente
partirlo a quella volta sin al petto:
ma fu di lui Ruggier più diligente;
che, pria ch’el braccio scenda al duro effetto,
gli caccia sotto la spada pungente,
et gli fa ne la maglia ampla finestra,
ch’era a difesa de l’ascella destra.
58
Et Balisarda al suo ritorno trasse
di fuor il sangue tepido et vermiglio,
e vietò a Durindana che calasse
impetüosa con tanto periglio;
ben che fin su la groppa si piegasse
Ruggier, et per dolor strignesse il ciglio:
et s’elmo in capo havea di peggior tempre,
gli era quel colpo memorabil sempre.
59
Ruggier non cessa, et spigne il suo cavallo,
e Mandricardo al destro fianco truova.
Quivi scelta finezza di metallo
e ben condutta tempra poco giova
contra la spada che non scende in fallo;
che fu incantata e solo a cotal prova
da Fallerina, perché piastra e maglia
che sia incantata contra lei non vaglia.
60
Taglionne quanto ella ne prese, e insieme
lasciò ferito il Tartaro nel fianco,
ch’el ciel bestemmia, et di tanta ira freme,
ch’el tempestoso mare è horribil manco.
Hor s’apparecchia a por le forze estreme:
il scudo ove in azurro è l’augel bianco,
dal sdegno vinto, si gettò lontano,
e messe al brando e l’una e l’altra mano.
61
– Ah (disse lui Ruggier), senza più basti
a mostrar che non merti quella insegna,
c’hor tu la getti, e dianzi la tagliasti;
né potrai dir mai più che ti convegna. –
Così dicendo, forza è ch’egli attasti
con quanta furia Durindana vegna;
che sì gli grava e sì gli pesa in fronte,
che più liggier potea cadergli un monte.
62
Et per mezo gli aperse la visera:
buon fu che da la faccia era discosta;
poi calò su l’arcion che ferrato era,
né lo difese haverne doppia crosta:
giunse al fin su l’arnese, et come cera
l’aperse con la falda sopraposta;
et ferì gravemente ne la coscia
Ruggier, sì che assai stette a guarir poscia.
63
De l’un come de l’altro fatte rosse
il sangue l’arme havea con doppia riga;
tal che diverso era il parer, chi fosse
de li dui sul vantaggio in quella briga.
Ma Ruggier presto tal dubbio rimosse
con la spada che tanti ne castiga:
mena di punta, et drizza il colpo crudo
donde il Tartaro havea gettato il scudo.
64
Dal lato manco la corazza aperse,
e un palmo vi cacciò dentro la spada:
entrò la punta fra l’ossa traverse,
e il core andò a ferir per quella strada.
Mandricardo così l’aquila perse;
et è forza ch’insieme se ne vada
la vita, che gli fu di più iattura
che spada e scudo e tutta l’armatura.
65
Il miser non morì senza vendetta;
ch’a quel medesmo tempo che fu colto,
la spada poco sua menò di fretta;
et a Ruggier havria partito il volto,
se già Ruggier non gli havesse intercetta
prima la forza, e assai del vigor tolto:
di forza e di vigor troppo gli tolse
dianzi, che sotto il destro braccio il colse.
66
Da Mandricardo fu Ruggier percosso
nel punto ch’egli a lui tolse la vita;
tal ch’el cerchio di ferro, anchor che grosso,
e la cuffia d’acciar ne fu partita.
Durindana tagliò cotenna et osso,
e nel capo a Ruggier entrò dua dita:
Ruggier stordito in terra si riversa,
e di sangue un ruscel dal capo versa.
67
Il primo fu Ruggier ch’andò per terra;
e dapoi stette l’altro a cader tanto,
che quasi crede ognun che de la guerra
riporti Mandricardo il pregio e ’l vanto:
et Doralice sua, che con li altri erra,
et che quel dì più volte ha riso e pianto,
Dio ringratiò con mani al ciel supine
c’havesse havuta la pugna tal fine.
68
Ma poi ch’appar a manifesti segni
vivo chi vive, et senza vita il morto,
nel cor de li fautor mutano regni:
di là mestitia, e di qua vien conforto.
Li Re, li Duci et Principi più degni
con Ruggier, ch’a fatica era risorto,
a rallegrarsi et abbracciarsi vanno,
et senza fin gloria et honor gli dànno.
69
Ognun s’allegra con Ruggiero, et sente
il medesmo nel cor, c’ha ne la bocca.
Sol Gradasso il pensiero ha differente
tutto da quel che fuor la lingua scocca:
mostra gaudio nel viso, e occultamente
del glorïoso acquisto invidia il tocca;
e maledice o sia destino o caso
che inanzi a sé Ruggier trasse del vaso.
70
Che dirò del favor, che de le tante
carezze e tante, affettüose et vere,
che fece a quel Ruggiero il Re Agramante,
senza il qual dar al vento le bandiere,
né vòlse mover d’Aphrica le piante,
né senza lui si fidò in tante schiere?
Hor che del Re Agricane ha spento il seme,
stima più lui che tutto il mondo insieme.
71
Nemeno di tal volontà li huomini soli
eran verso Ruggier, ma le donne ancho
che d’Aphrica et di Spagna fra li stuoli
eran venute al territorio Franco.
Et Doralice istessa, che con duoli
piangea l’amante suo pallido et bianco,
forse con l’altre ita sarebbe in schiera,
se di vergogna un duro fren non era.
72
Io dico forse, non ch’io ve l’accerti;
ma potrebbe esser stato di liggiero:
tal la bellezza e tal erano i merti,
i costumi e i sembianti di Ruggiero.
Ella, per quel che già ne semo experti,
sì facile era a varïar pensiero,
che per non si veder priva d’amore
potuto havria porre in Ruggiero il core.
73
Per lei buono era vivo Mandricardo:
ma che ne volea far dopo la morte?
Proveder le convien d’un che gagliardo
sia notte e dì ne’ suoi bisogni, e forte.
Non era stato intanto a venir tardo
el più perito medico di corte,
che di Ruggier veduta ogni ferita,
l’haveva assicurato de la vita.
74
Con molta diligentia il Re Agramante
fece colcar Ruggier ne le sue tende;
che notte e dì veder sel vuole inante:
sì l’ama, sì di lui cura si prende.
Al letto il scudo e l’arme tutte quante,
che fur di Mandricardo, il Re gli appende;
tutte le appende, excetto Durindana,
che fu lasciata al Re di Sericana.
75
Con l’arme l’altre spoglie a Ruggier sono
date di Mandricardo, e insieme dato
gli è Brigliador, quel destrier bello e buono
che per furor Orlando havea lasciato;
poi quello al Re diede Ruggier in dono,
che s’avide ch’assai gli serìa grato.
Non più di questo; che tornar bisogna
a chi Ruggiero invan suspira e agogna.
76
L’amorosi tormenti che sostenne
Bradamante aspettando, io v’ho da dire.
A Montalbano Hippalca a lei rivenne,
e nuova le arrecò del suo desire:
prima, di quanto di Frontin le avenne
con Rodomonte l’hebbe a referire;
poi di Ruggier, che ritrovò alla fonte
con Ricciardetto e’ frati da Agrismonte,
77
e che con essolei s’era partito
con speme di trovare il Saracino,
e punirlo di quanto havea fallito
d’haver tolto a una donna il suo Frontino;
e ch’el disegno poi non gli era uscito,
perché diverso havea fatto il camino.
La cagione ancho, perché non venisse
a Montalban Ruggier, tutta le disse;
78
e riferille le parole a pieno
ch’in sua scusa Ruggier l’havea commesse;
e si trasse la lettera di seno
c’hebbe da lui perché a costei la desse.
Con viso più turbato che sereno
prese la charta Bradamante e lesse,
che, se non fusse la credenza stata
già di veder Ruggier, fôra più grata.
79
L’haver Ruggiero ella aspettato, e invece
di lui vedersi hora appagar d’un scritto,
del bel viso turbar l’aria le fece
di timor, di cordoglio e di dispitto.
Baciò la charta diece volte e diece,
havendo a chi la scrisse il cor diritto;
le lachryme vietâr, che su vi sparse,
che con suspiri ardenti ella non l’arse.
80
Lesse la charta quattro volte e sei,
e vòlse ch’altretante l’ambasciata
replicata le fusse da colei
che l’una e l’altra havea quivi arrecata;
e piangea tuttavolta: e crederei
che mai non si serìa più racchetata,
se non havesse havuto pur conforto
di rivedere il suo Ruggier di corto.
81
Termine a ritornar quindici o venti
giorni havea Ruggier tolto, et affermato
l’havea ad Hippalca poi con giuramenti
da non temer che mai fusse mancato.
– Chi m’assicura, ohimè! de li accidenti
(ella dicea), c’han forza in ogni lato,
ma ne le guerre più, che non distorni
alcun tanto Ruggier, che più non torni?
82
Ohimè! Ruggiero, ohimè! c’havria creduto
c’havendote amato io più di me stessa,
tu più di me, non ch’altri, ma potuto
habbi amar gente tua inimica expressa?
A chi opprimer devresti, doni aiuto;
chi tu devresti aitar, è da te oppressa:
non so se biasmo o laude esser ti credi,
ch’al premiar e al punir sì poco vedi.
83
Fu morto da Troian (non so se ’l sai)
el padre tuo; ma fin a’ sassi il sanno:
e tu del figlio di Troian cura hai
che non riceva alcun dishnor né danno.
È questa la vendetta che ne fai?
Rendi tu questo premio a quei che l’hanno
poi vendicato, che del sangue loro
me fai morir di stratio e di martoro? –
84
Dicea la donna al suo Ruggiero absente
queste parole et altre, lachrymando,
non una sola volta, ma sovente.
Hippalca la venìa pur confortando,
che Ruggier servarebbe intieramente
sua fede, e ch’ella l’aspettasse, quando
altro far non potea, sin a quel giorno
c’havea Ruggier prescritto al suo ritorno.
85
Li conforti d’Hippalca, e la speranza
che de li amanti suole esser compagna,
alla tema e al dolor tolgon possanza
di far che Bradamante ognhora piagna;
in Montalban senza mutar mai stanza
voglion che sin al termine rimagna:
sin al promesso termine e giurato,
che poi fu da Ruggier mal osservato.
86
Ma ch’egli alla promessa sua mancasse
non perhò debbe haver la colpa affatto;
ch’una causa et un’altra sì lo trasse,
che gli fu forza preterire il patto.
Convenne che nel letto si colcasse,
e più d’un mese si stesse di piatto
in dubbio di morir, sì il dolor crebbe
dopo la pugna che col Tartaro hebbe.
87
L’innamorata giovane l’attese
tutto quel tempo e disïollo invano,
né mai ne seppe, fuor quanto n’intese
hora da Hippalca, e poi dal suo germano,
che le narrò che Ruggier lui difese,
e Malagigi liberò e Viviano.
Questa novella, anchor c’havesse grata,
pur di qualche amarezza era turbata:
88
che di Marphisa in quel discorso udito
l’alto valore e le bellezze havea;
udì come Ruggier s’era partito
con essolei, e che d’andar dicea
là dove con disagio in debil sito
mal sicuro Agramante si tenea.
Sì degna compagnia la donna lauda,
ma non che se n’allegri o che ne applauda.
89
Né piccolo è il sospetto che la preme;
che se Marphisa è bella come ha fama,
et che sin a quel dì siano iti insieme,
è maraviglia se Ruggier non l’ama.
Pur non vuol creder ancho, e spera e teme;
e quel dì, che la può far lieta et grama,
misera attende; e suspirando stassi,
da Montalban mai non movendo i passi.
90
Stando ella quivi, il principe, il signore
del bel castello, il primo de’ suoi frati,
io non dico di etade, ma d’honore,
che di lui prima dui n’erano nati;
Rinaldo, che di gloria e di splendore
li ha, come il Sol le stelle, illuminati,
giunse al castello un giorno in su la nona;
né, fuor ch’un servo, era con lui persona.
91
Del suo venir fu causa, che da Brava
ritornandosi un dì verso Parigi,
come v’ho detto che sovente andava
per ritrovar d’Angelica vestigi,
havea sentita la novella prava
del suo Viviano et del suo Malagigi,
ch’eran per esser dati al Maganzese;
e per ciò ad Agrismonte la via prese.
92
Dove intendendo poi ch’eran salvati,
e li aversarii lor morti e destrutti,
e Marphisa e Ruggier erano stati
che li haveano a quei termini ridutti;
et suoi fratelli et suoi cugin tornati
a Montalbano insieme erano tutti;
gli parve un’hora un anno di trovarsi
con essolor là dentro ad abbracciarsi.
93
Venne Rinaldo a Montalbano, e quivi
madre, moglie abbracciò, figli e fratelli,
e i cugini che dianzi eran captivi;
e parve, quando egli arrivò tra quelli,
dopo gran fame hirondine che arrivi
col cibo in bocca a’ pargoletti augelli.
E poi ch’un giorno vi fu stato o dui,
partisse, e fe’ partir altri con lui.
94
Ricciardo, Alardo e Ricciardetto, e d’essi
figli d’Amone il più vecchio Guicciardo,
Malagigi et Vivian, si furon messi
in arme dietro al Paladin gagliardo.
Bradamante aspettando che s’appressi
il tempo ch’al disio suo ne vien tardo,
inferma disse a gli fratelli ch’era,
et non vòlse venir con loro in schiera.
95
Et ben lor disse ’l ver, ch’ella era inferma;
ma non di febre o corporal dolore:
era ’l disio che l’alma dentro inferma,
et fa alteratïon patir d’amore.
Rinaldo in Montalban più non si ferma,
et seco mena di sua gente il fiore:
come a Parigi ne venisse, e quanto
Carlo aiutasse, io dirò in l’altro canto.

CANTO VIGESIMONONO

1
Che dolce più, che più giocondo stato
serìa di quel d’un amoroso core?
che viver più felice e più beato,
che ritrovarsi in servitù d’Amore?
se non fusse l’huom sempre stimulato
da quel suspetto rio, da quel timore,
da quel martìr, da quella frenesia,
da quella rabbia detta gelosia.
2
Perhò ch’ogni altro amaro che si pone
tra questa suavissima dolcezza
è un augumento, una perfettïone,
et è un condurre amore a più finezza:
l’acque parer fa saporite e buone
la sete, e il cibo pel digiun s’apprezza;
non connosce la pace e non l’estima
chi provato non ha la guerra prima.
3
Se ben non veggion li occhi ciò che vede
ognhor il cor, in pace si sopporta;
perché l’absentia, poi quando si riede,
quanto più lunga fu, più riconforta.
El stare in servitù senza mercede
(pur che non resti la speranza morta)
patir si può: che premio al ben servire
pur viene al fin, se ben tarda venire.
4
Li sdegni, le repulse, e finalmente
tutti i martìr d’Amor, tutte le pene,
fan per lor rimembranza che si sente
con miglior gusto un piacer quando viene.
Ma se l’infernal peste una egra mente
avien che infetti, ammorbi et avelene;
se ben festa e gioir poi le vien drieto,
non può uno amante mai più viver lieto.
5
Questa è la cruda e venenata piaga
a cui non val liquor, non val impiastro,
né murmure, né imagine di saga,
né val lungo osservar di benigno astro,
né quanta experïentia d’arte maga
fece mai l’inventor suo Zoroastro:
piaga crudel, che sopra ogni dolore
conduce l’huom, che disperato more.
6
Oh incurabil piaga che nel petto
d’un amator sì facile s’imprime,
non men per falso che per ver suspetto!
piaga che l’huom sì crudelmente opprime,
che la ragion gli offusca et l’intelletto,
et lo tra’ fuor de le sembianze prime!
Oh iniqua Gelosia, che così a torto
levasti a Bradamante ogni conforto!
7
Io non dico di questo ch’el fratello
le havea nel cor amaramente impresso,
ma d’un annontio più crudele e fello
che le fu dato pochi giorni appresso.
Questo era nulla a paragon di quello
ch’io vi dirò, ma non dirollo adesso.
Di Rinaldo ho da dir primeramente,
che vêr Parigi vien con la sua gente.
8
Scontraro il dì seguente invêr la sera
un cavallier c’havea una donna a fianco,
con scudo e sopravesta tutta nera,
se non che per traverso ha un fregio bianco.
Sfidò alla giostra Ricciardetto, ch’era
dinanzi, e vista havea di guerrier franco:
et quel, che mai nessun recusar vòlse,
girò la briglia, et spatio a correr tolse.
9
Senza dir altro, o più notitia darsi
de l’esser lor, si vengono all’incontro.
Rinaldo et li altri cavallier fermârsi
per veder come seguiria quel scontro.
– Costui per terra presto ha da versarsi,
s’in luoco fermo a mio modo lo ’ncontro –
dicea tra se medesmo Ricciardetto;
ma contrario al pensier seguì l’effetto:
10
perhò che lui sotto la vista offese
di tanto colpo il cavalliero istrano,
che lo levò di sella, et lo distese
più di due lance al suo caval lontano.
Di vendicarlo incontinente prese
l’assunto Alardo, et ritrovossi al piano
stordito et mal acconcio: sì fu crudo
il scontro, che lo giunse a mezo ’l scudo.
11
Pone Guicciardo incontinente in resta
l’hasta, che vede i dui germani in terra,
ben che Rinaldo gridi: – Resta, resta;
che mia convien che sia la terza guerra: –
ma l’elmo anchor non ha allacciato in testa,
sì che Guicciardo al corso se diserra;
né più de li altri si seppe tenere,
e ritrovossi subito a giacere.
12
Vuol Ricciardo, Viviano et Malagigi,
e l’un prima del altro, essere in giostra:
ma Rinaldo pon fin a’ lor litigi;
ch’inanzi a tutti armato si dimostra,
dicendo loro: – È tempo ir a Parigi;
et serìa troppo la tardanza nostra,
s’io volesse aspettar fin che ciascuno
di voi fosse abbattuto ad uno ad uno. –
13
Dissel tra sé, ma non che fusse inteso,
che serìa stato a gli altri ingiuria e scorno.
L’un et l’altro del campo havea già preso,
et si faceano contra aspro ritorno.
Non fu Rinaldo per terra disteso,
che valea tutti li altri c’havea intorno;
le lance si fiaccâr, come di vetro,
né li guerrier si piegâr oncia adietro.
14
L’un et l’altro caval si diede d’urto,
et in terra amendue poser le groppe:
Baiardo immantinente fu risurto,
tanto ch’a pena il correre interroppe;
l’altro rimase, e poi morì di curto
perché sfilossi, et la spalla si roppe.
Il cavallier ch’el caval morto vede
lascia le staffe, et è subito in piede.
15
Et al figlio d’Amon, che già rivolto
tornava a lui con la man vuota, disse:
– Signor, il buon destrier che tu m’hai tolto,
perché caro mi fu mentre che visse,
me faria uscir del mio debito molto
se così invendicato si morisse:
sì che vientene, e fa’ ciò che tu puoi,
perché battaglia esser convien tra noi. –
16
Disse Rinaldo a lui: – Se ’l caval morto,
et non altro, ne de’ porre a battaglia,
un de’ miei ti darò, piglia conforto,
che men del tuo non crederò che vaglia. –
Colui soggiunse: – O cavallier mal scorto,
se crederai che d’un destrier mi caglia!
Ma poi che non comprendi ciò ch’io voglio,
ti spiegherò più chiaramente il foglio.
17
Vuo’ dir che mi parria commetter fallo
se con la spada non ti provassi ancho,
et non sapessi s’in quest’altro ballo
tu mi sia pare, o se più vali o manco.
Come ti piace, o scendi o sta a cavallo:
pur che le man tu non ti tegna a fianco,
io son contento ogni vantaggio darti,
tanto alla spada bramo di provarti. –
18
Rinaldo molto non lo tenne in lunga,
e disse: – La battaglia ti prometto;
e perché tu sia ardito, et non ti punga
di questi c’ho d’intorno alcun suspetto,
se n’anderanno fin ch’io li raggiunga;
né meco resterà fuor ch’un valletto
che mi tenga il cavallo: – et così disse
alla sua compagnia che se ne gisse.
19
La cortesia del Paladin gagliardo
commendò molto il cavallier extrano.
Smontò Rinaldo, et del destrier Baiardo
diede al valletto le redine in mano;
et poi che più non vide il suo stendardo
(che già di lungo spatio era lontano),
imbracciò ’l scudo et strinse il brando fiero,
et sfidò alla battaglia il cavalliero.
20
Et quivi incominciossi aspra battaglia
di ch’altra mai non fu più fiera in vista.
Non crede l’un che tanto l’altro vaglia,
che troppo lungamente gli resista:
ma poi ch’el paragon ben li raguaglia
e veggon che tra lor non troppo dista,
pongon l’orgoglio et il furor da parte,
et al vantaggio lor usano ogn’arte.
21
S’odon lor colpi dispietati e crudi
intorno ribombar con suono horrendo,
levando hor li canton de’ grossi scudi,
schiodando hor piastre, et hor le maglie aprendo.
Né qui bisogna tanto che si studi
a ben ferir, quanto a parar, volendo
star l’uno a l’altro par; ch’eterno danno
lor può causar il primo error che fanno.
22
Durò l’assalto un’hora et più ch’el mezo
d’un’altra; et era il Sol già sotto l’onde,
et era sparso il tenebroso rezo
de l’orizon fin all’estreme sponde;
né riposato o fatto altro intermezo
haveano alle percosse furibonde
questi guerrier, che non ira o rancore,
ma tratto a l’arme havea disio d’honore.
23
Rivolve tuttavia tra sé Rinaldo
chi sia l’extrano cavallier sì forte,
che non pur gli sta contra ardito et saldo,
ma spesso il mena a risco de la morte;
et già tanto travaglio et tanto caldo
gli ha posto, che del fin dubita forte:
et volentier, se con suo honor potesse,
vorria che quella pugna rimanesse.
24
Da l’altra parte il cavallier extrano,
che parimente havea poca notitia
che fusse il paladin da Montalbano
costui, che per sì poca inimicitia
sì crudelmente seco era alle mano,
dicea tra sé che in tutta la militia
un altro a quel guerrier non potria fare
d’ardir, di forza et d’accortezza pare.
25
Vorrebbe del’impresa esser digiuno,
c’havea di vendicar il suo cavallo;
et se potesse senza biasmo alcuno,
si trarria fuor del periglioso ballo.
Il mondo era già tanto oscuro et bruno,
che tutti i colpi quasi ivano in fallo:
poco ferir et men parar sapeano,
ch’a pena in mano i brandi si vedeano.
26
Fu quel da Montalban il primo a dire
che non volesson far battaglia al scuro,
ma quella indugiar tanto et differire,
c’havesse dato volta il pigro Arcturo;
può intanto al padiglion seco venire,
dove di sé non men serà sicuro,
et vi sarà honorato et ben veduto
quanto in luoco ove mai fosse venuto.
27
Il cortese guerrier tenne l’invito,
che non gli bisognò più d’una prece;
et seguitò Rinaldo dove era ito
il suo stendardo, che gran via non fece,
essendo sopra un buon caval salito,
che Francia non havea tal altri diece;
et Rinaldo di quel gli fece un dono,
tanto più volentier perch’era buono.
28
Tra via connobbe il cavalliero extrano
(come sovente ragionando accade)
che questo era ’l signor di Montalbano,
sì famoso per tutte le contrade:
e perché egli era a lui frate germano,
sentì che la pietà trovò le strade
d’entrar nel petto a intenerirgli il core,
et lachrymò per gaudio et per amore.
29
Questo campion era Guidon Silvaggio,
del qual io vi contai come disceso
era a Marsiglia, et indi qual vïaggio
havea con li altri suoi compagni preso.
Venìa per ritrovare il suo lignaggio,
che ripararsi a Montalbano ha inteso;
ma fu da Pinabel tra via impedito,
come havete, signor, di sopra udito.
30
Guidon, che questo esser Rinaldo udio,
famoso sopra ogni famoso duce,
c’havuto havea più di veder disio
che non ha ’l cieco la perduta luce,
con molto gaudio disse: – O signor mio,
qual fortuna a combatter mi conduce
con voi, che lungamente ho amato et amo,
e sopra tutto ’l mondo honorar bramo?
31
Io son Guidon, che ne le ripe estreme
del freddo Euxino partorì Gostanza
del medesmo, onde usciste, inclyto seme,
che per quanto il sol scopre ha nominanza.
Per voi veder e li altri nostri insieme,
io mi parti’ da la materna stanza;
et dove il mio desir fu d’honorarvi,
mi veggio esser venuto a ingiurïarvi.
32
Ma scusimi apo voi d’un error tanto,
ch’io non ho voi né li altri connosciuto;
et se emendar si può, ditemi quanto
far debbio, ch’in ciò far nulla rifiuto. –
Poi che si fu da l’un et l’altro canto
de’ complessi iterati al fin venuto,
rispose a lui Rinaldo: – Non vi caglia
meco scusarvi più de la battaglia:
33
che per certificarne che voi sète
di nostra antiqua stirpe un vero ramo,
dar miglior testimonio non potete
del gran valor ch’in voi chiaro proviamo.
Se havesse più pacifiche et quïete
altre maniere, mal vi credevamo;
che la damma non genera il leone,
né le colombe l’aquila o ’l falcone. –
34
Non, per andar, di ragionar lasciando,
non di seguir, per ragionar, lor via,
vennero a i padiglioni; ove narrando
il buon Rinaldo alla sua compagnia
che questo era Guidon, che disïando
vedere, havea molt’anni atteso pria,
molto gaudio apportò ne le sue squadre;
e parve a tutti assimigliarsi al padre.
35
Non dirò l’accoglienze che gli fêro
Alardo, Ricciardetto e li altri dui
figli d’Amon, Viviano et Aldigiero,
et Malagigi, frati e cugin sui,
ogni signor in summa e cavalliero;
ciò che egli disse a loro, eglino a lui:
da parenti, d’amici, e finalmente
fu ben veduto da tutta la gente.
36
Caro Guidone alli fratelli stato
credo serebbe in ogni tempo assai;
ma lor fu a sì grande uopo hora più grato
pel suo valor, ch’esser potesse mai.
Poscia che l’altro Sole incoronato
del mar uscì di luminosi rai,
Guidon co i frati et con parenti in schiera
se ne tornò sotto la lor bandiera.
37
Tanto un giorno et un altro se n’andaro,
che alla famosa villa Parigina
a men di diece miglia s’accostaro;
là dove in ripa Senna una matina
Griphon et Aquilante ritrovaro,
li dui guerrier da l’armatura fina:
Griphon il bianco et Aquilante il nero,
che partorì Gismonda d’Oliviero.
38
Con essi ragionava una donzella,
non già di vil conditïon in vista,
che di samito bianco la gonnella
fregiata intorno havea d’aurata lista;
molto liggiadra in apparenza e bella,
fusse quantunque lachrymosa et trista:
e mostrava ne’ gesti e nel sembiante
di cosa ragionar molto importante.
39
Connobbe i cavallier, come essi lui,
Guidon, che fu con lor pochi dì inanzi;
et a Rinaldo disse: – Eccovi dui
a cui van pochi di valor inanzi;
e se per Carlo veniran con nui,
non ne staranno i Saracini inanzi. –
Rinaldo di Guidon conferma il detto,
che l’uno e l’altro era guerrier perfetto,
40
perché li riconnobbe egli non manco;
perhò che quelli sempre erano usati
l’un tutto nero e l’altro tutto bianco
vestir su l’arme, e molto andare ornati.
Et essi il Paladin connobber ancho,
e si son quivi insieme accarezzati;
quelle ire havendo e quelli sdegni obliti
che già tra lor poser discordie e liti.
41
Tosto che la donzella più vicino
vide Rinaldo, e connosciuto l’hebbe,
che havea notitia d’ogni paladino,
gli disse una novella che gl’increbbe;
e cominciò: – Signore, il tuo cugino,
a cui la Chiesa e l’alto Imperio debbe,
quel già sì saggio et sì honorato Orlando,
è fatto stolto, e va pel mondo errando.
42
Onde causato così strano e rio
accidente gli sia, non so narrarte.
La sua spada et l’altre arme ho vedute io,
che per li campi havea gettate e sparte;
e vidi un cavallier cortese e pio
che l’andò raccogliendo d’ogni parte,
e poi di tutte quelle uno arbuscello
fe’, a guisa di tropheo, pomposo e bello.
43
Ma la spada ne fu presto levata
dal superbo figliuol del Re Agricane:
ben pòi considerar quanto sia stata
grave e dannosa perdita, che in mane
a gli nemici nostri è ritornata;
e più fia, se gran tempo vi rimane.
E così Brigliador, che errava sciolto
intorno a l’arme, dal pagan fu tolto.
44
Né sono molti giorni che lui vidi
senza alcuna vergogna correr nudo,
con urli spaventevoli e con gridi:
ch’Orlando è fatto pazzo io ti conchiudo;
e non havrei, fuor che a questi occhi fidi,
creduto mai sì acerbo caso e crudo; –
e seguitò come lo vide al ponte,
che seco trasse in l’acqua Rodomonte.
45
– A qualunque io non creda esser nemico
d’Orlando (suggiungea) di ciò favello,
né per dargli dolor questo gli dico;
ma perché, palesando il caso fello,
molti per l’orme di sì degno amico
porransi, e cercheran di sanar quello.
So ben che Brandimarte, come questa
novella intenda, si porrà in l’inchiesta. –
46
Era costei la bella Fiordiligi,
da Brandimarte unicamente amata,
che per lui ritrovar venìa a Parigi.
Suggiunse anchor, che Durindana stata
causa era di discordie e di litigi;
e sì come ella ben n’era informata,
narrò che poi che Mandricardo casso
di vita fu, la spada hebbe Gradasso.
47
Di così strano e misero accidente
Rinaldo senza fin si lagna e duole;
né il cor intenerir men se ne sente
che soglia intenerirsi il giaccio al sole:
e con disposta et immutabil mente,
ovunque sia, cercando andar lo vuole,
con speme, poi che ritrovato l’habbia,
di farlo risanar di quella rabbia.
48
Ma vedendo c’havea qui fatto unire,
sia volontà del ciel o sia aventura,
quei cavallier, vuol prima far fuggire
li Saracini e liberar le mura;
e consiglia l’assalto differire,
per suo vantaggio, sino a notte scura,
in la seconda o in la terza vigiglia,
l’hora ch’el sonno più grava le ciglia.
49
Tutta la gente alloggiar fece al bosco,
e quivi la posò per tutto il giorno;
ma poi ch’el Sol, lasciando il mondo fosco,
alla nutrice sua fece ritorno,
et orse e capre e serpe senza tòsco
e l’altre fere, onde è sì il ciel adorno,
si videro apparir con chiaro lampo,
mosse Rinaldo il taciturno campo:
50
et venne con Griphon, con Aquilante,
con Vivian, con Alardo e con Guidone,
a tutti li altri più d’un miglio inante,
a cheti passi e senza alcun sermone,
fin che trovò l’ascolta d’Agramante;
e la trovò dormir, e fe’ prigione.
Indi arrivò tra quella gente Mora
con tutti i suoi, che non fu udito anchora.
51
Del campo d’infedeli a prima giunta
la guardia che fu colta all’improviso
lasciò Rinaldo sì rotta e consunta,
ch’un sol non fu che non restasse ucciso.
Spezzata che lor fu la prima punta,
li Saracin non l’havean più da riso;
che sonnolenti, timidi et inermi,
poteano a tal guerrier far pochi schermi.
52
Fece Rinaldo per maggior spavento
de’ Saracini, al mover de lo assalto,
a trombe e corni dar subito vento,
et gridando, il suo nome alzar in alto.
Spinse Baiardo, et quel non parve lento;
che dentro all’alte sbarre entrò d’un salto,
e versò cavallier, pestò pedoni,
et atterrò trabacche e padiglioni.
53
Non fu sì ardito tra ’l popul pagano
a cui non s’arricciassero le chiome,
come sentì: Rinaldo e Montalbano!
suonar per l’aria, il formidato nome.
Fugge col campo d’Aphrica l’Hispano,
né perde tempo a caricar le some;
che quella furia attender più non vuole,
c’haver provata anchor si piagne e duole.
54
Guidon lo segue, e non fa men di lui;
né fanno men li figli d’Oliviero,
Alardo et Ricciardetto, e li altri dui:
col brando nudo s’apreno il sentiero;
fa l’audace Vivian provar altrui
quanto nel’arme è vigoroso e fiero:
così ciascun che segue il bel stendardo
di Montalban fa da guerrier gagliardo.
55
Settecento con lui tenea Rinaldo
in Montalbano e intorno a quelle ville,
usati a portar l’arme al freddo e al caldo,
non già più rei de i Myrmidon d’Achille.
Ciascun d’essi al bisogno era sì saldo,
che cento insieme non fuggìan per mille;
e se ne potean molti sceglier fuori,
che d’alcun’ più famosi eran migliori.
56
Et se Rinaldo ben non era molto
ricco né di città né di thesoro,
facea sì con parole e con buon volto,
et ciò c’havea partendo ognhor con loro,
ch’un di quel numer mai non gli fu tolto
per offerir ch’altri gli facesse oro.
Questi da Montalban mai non rimuove,
se non lo stringe un gran bisogno altrove.
57
Et hor, perché habbia il magno Carlo aiuto,
lasciò con poca guardia il suo castello.
Tra li Aphrican questo drapel venuto,
questo drapel del cui valor favello,
ne fece quel che del gregge lanuto
sul Phalanteo Galeso il lupo fello,
o quel che suol de lo barbato, appresso
il barbaro Cinyphio, il leon spesso.
58
Carlo, ch’aviso da Rinaldo havuto
havea che presso era a Parigi giunto,
e che la notte il campo sproveduto
volea assalir, stato era in arme e in punto;
e quando bisognò, venne in aiuto
co i paladini; e a i paladini aggiunto
havea il figliuol del ricco Monodante,
di Fiordiligi il fido e saggio amante,
59
ch’ella più giorni per sì lunga via
cercato havea per tutta Francia invano.
Quivi all’insegne che portar solia
fu da lei connosciuto di lontano.
Come lei Brandimarte vide pria,
lasciò la guerra, et tornò tutto humano,
e corse ad abbracciarla; et d’amor pieno,
mille volte baciolla o poco meno.
60
Gran fede ch’in lor donne e lor donzelle
haveano i cavallier di quella etade!
Lasciano andar senza sua scorta quelle
per piani e monti e per strane contrade;
e come tornan, l’han per buone e belle,
né mai tra lor suspitïone accade.
Fiordiligi narrò quivi al suo amante
che fatto stolto era il signor d’Anglante.
61
Non hebbe in vita sua peggior novella
Brandimarte di questa, né potuto
l’havrebbe ad altri credere, ch’a quella
in che fede ha, sì come sempre ha havuto.
Non pur d’haverlo udito gli dice ella,
ma che con li occhi proprii l’ha veduto,
e quanto ogn’altro ella connosce Orlando:
e gli disegna et dove et come et quando.
62
Et gli narrò del ponte periglioso
che Rodomonte a’ cavallier difende,
ove un sepolchro adorna et fa pomposo
di sopraveste et arme di chi prende.
Narrò che vide Orlando furïoso
far quivi cose horribili e stupende;
ch’in l’acqua il Re d’Algier mandò riverso,
con gran periglio di restar summerso.
63
Brandimarte, ch’el Conte amava quanto
si può compagno amar, fratello o figlio,
si dispose cercarlo, et poi far tanto,
non recusando affanno né periglio,
che per opra di medico o d’incanto
gli ritrovassi al mal qualche consiglio.
Così come trovossi armato in sella,
si misse in via con la sua donna bella.
64
Verso la parte ove la donna il Conte
havea veduto, il lor camin drizzaro.
Poi che fur molto andati errando, al ponte
che guarda il Re d’Algier si ritrovaro.
La guardia ne fe’ segno a Rodomonte,
e li scudieri a un tempo gli recaro
l’arme e il cavallo: et quel si trovò in punto
quando fu Brandimarte al passo giunto.
65
Con voce qual conviene al suo furore
il Saracino a Brandimarte grida:
– Qualunque tu ti sia, che per errore
di via o di mente qui tua sorte guida,
spògliati l’arme, e fanne a i marmi honore
di quel sepolchro, inanzi ch’io te uccida
e che vittima all’ombre tu sia offerto:
ch’io ’l farò poi, né te n’havrò alcun merto. –
66
Non vòlse Brandimarte a quel altiero
altra risposta dar, che de la lancia:
sprona Batoldo, el suo gentil destriero,
e verso lui con tanto ardir si lancia,
che mostra che può star d’animo fiero
con qual si voglia al mondo alla bilancia.
El Saracin vien con la lancia in resta,
e il stretto ponte a tutta briglia pesta.
67
El suo caval c’havea continuo uso
corrervi sopra, e far di quel sovente
quando uno e quando un altro cader giuso,
alla giostra venìa sicuramente;
l’altro, del corso insolito confuso,
venìa dubbioso, timido e tremente.
Trema ancho il ponte, e par che cada in l’onda,
oltra che stretto e privo sia di sponda.
68
Li cavallieri, ch’ambi eran maestri
di giostra, et havean lancie come travi,
tali qual furo in lor ceppi silvestri,
si dieron colpi non troppo soavi.
A i lor cavalli esser possenti e destri
poco giovò; che li aspri colpi e gravi
fêr che ugualmente si versâr sul ponte,
e seco i signor lor tutti in un monte.
69
Nel volersi levar con quella fretta
ch’el gran spronar de’ fianchi insta e richiede,
l’asse del ponticel lor fu sì stretta
che non trovaro ove fermar il piede;
sì che una sorte ugual ambi li getta
ne l’acqua; et gran ribombo al ciel ne riede,
simile a quel ch’uscì del nostro fiume,
quando ci cadde il mal rettor del lume.
70
Li dui cavalli andâr con tutto il pondo
de li signor, che steron fermi in sella,
a cercar la riviera sino al fondo,
se v’era ascosa alcuna nympha bella.
Questo non era il primo né il secondo
salto che giù del ponte havesse in quella
onda spiccato il Saracino audace;
perhò sa ben come quel fondo giace:
71
sa dove è saldo e sa dove è più molle,
sa dove è l’acqua bassa e dove è l’alta.
La spada e il scudo minacciando extolle,
et Brandimarte a gran vantaggio assalta.
Brandimarte il corrente in giro tolle;
e il destrier nel sabbion ch’el fondo smalta
tutto si ficca, e non può rïhaversi,
e sono a rischio ambi restar summersi.
72
L’onda si lieva e li fa andar sozopra,
e dove è più profonda li trasporta:
va Brandimarte sotto, e il caval sopra.
Fiordiligi dal ponte afflitta e smorta
le lachryme e li voti e i prieghi adopra:
– Ah Rodomonte, per colei che morta
tu riverisci, non esser sì fiero,
che affogar lasci un tanto cavalliero!
73
Deh, cortese signor, s’unque tu amasti,
di me ch’amo costui pietà ti venga.
Di farlo tuo prigion, per dio, ti basti;
che, s’orni il sasso tuo di quella insegna,
di quante spoglie mai tu gli arrecasti
questa fia la più bella e la più degna. –
Così piegar pregando il Pagan puòte,
a cui d’amore eran le fiamme note;
74
e puòte far ch’el suo amator soccorse,
che sotto acqua il caval tenea sepolto,
e venuto era di sua vita in forse,
e senza sete havea bevuto molto.
Ma ’l Saracin non prima aiuto porse
che gli hebbe il brando e dopo l’elmo tolto:
de l’acqua mezo morto il trasse, e porre
lo fece con molti altri in la sua torre.
75
Fu ne la donna ogni allegrezza spenta
quando prigion vide il suo amante gire;
ma di questo pur meglio si contenta
che di vederlo nel fiume perire.
Di se stessa, e non d’altri, si lamenta;
ch’essa gli diè cagion quivi venire,
quando narrògli haver sopra quel ponte
riconnosciuto il furïoso Conte.
76
Quindi si parte, e statuisce in petto
di menarvi Rinaldo paladino,
o il Selvaggio Guidone, o Sansonetto,
od altri de la corte di Pipino,
alcun che in arme sia tanto perfetto
che possa contrastar col Saracino:
e col favor di quel, far ogni prova
perché il suo amante di pregion rimuova.
77
Va molti giorni, prima che s’abbatta
in alcun cavallier c’habbia sembiante
d’esser com’ella el vuol, perché combatta
col Saracino e liberi il suo amante.
Dopo molto cercar di persona atta
al suo bisogno, un le vien pur inante,
che sopravesta havea ricca et ornata,
a tronchi di cypressi riccamata.
78
Chi costui fusse, altrove ho da narrarvi;
che prima ritornar voglio a Parigi,
e la crudel sconfitta seguitarvi
che a’ Mori diè Rinaldo e Malagigi.
Quei che fuggiro io non saprei contarvi,
né quei che fur cacciati ai fiumi stygi:
tolse a Turpin la notturna aria oscura
poter contarli, e pur vi messe cura.
79
Nel primo sonno dentro al padiglione
dormia Agramante; e un camarier lo desta,
dicendogli che fia fatto prigione
se la fuga non è via più che presta.
Guarda il Re intorno, e la confusïone
vede de’ suoi, che van senza far testa
chi qua chi là fuggendo inermi e nudi,
che non han tempo di pur tôrre i scudi.
80
Tutto confuso e privo di consiglio
si facea porre indosso la corazza,
quando con Ferraù giunse Marsiglio,
Falsiron, Balugante e quella razza,
che tutti d’un parer dissero al figlio
di Troian che lasciar devea la piazza:
e che può dir, salvando la persona,
che Fortuna gli sia propitia e buona.
81
Così Re Stordilan, così Sobrino,
e così dicon li altri ad una voce,
che a sua destruttïon tanto è vicino
quanto a Rinaldo, il qual ne vien veloce;
che se sprovisto attende il paladino
con tanta gente, e un huom tanto feroce,
esser può certo ch’egli e li suo’ amici
rimarran morti o in man de li nemici.
82
Ma dentro ad Arli o sia dentro a Narbona
si può ridur con questi che ha d’intorno;
che l’una e l’altra terra è forte e buona
da mantener la guerra più d’un giorno:
e quando salva sia la sua persona,
si potrà vendicar di questo scorno;
che rifarà l’exercito in un tratto,
onde al fin Carlo ne serà disfatto.
83
Il Re Agramante al lor parer s’attenne,
ben ch’el partito fusse acerbo e duro;
e notte e dì verso Acquamorta venne
per quel camin che più trovò sicuro.
Oltra le guide, l’aiutò et sovenne
che sua partita fu per l’aer scuro:
ventimila tra d’Aphrica e di Spagna
fur che a Rinaldo uscîr fuor de la ragna.
84
Quei ch’egli uccise e quei che li fratelli,
quelli che i figli del signor di Vienna,
quei che provaro empi nemici e felli
li settecento a cui Rinaldo accenna,
quelli che spense il buon Guidon, e quelli
che ne la fuga s’affogaro in Senna,
chi potesse contar, conteria anchora
ciò che sparge d’April Favonio e Flora.
85
Estima alcun che Malagigi parte
havesse in la vittoria quella notte:
non che di sangue le campagne sparte
fusser per lui, né per lui teste rotte;
ma che li dannati angeli per arte
facesse uscir da le tartaree grotte,
e con tante bandiere e tante lancie,
ch’insieme più non ne porrian due Francie;
86
e che facesse udir tanti metalli,
tanti tamburi e tanti varii suoni,
tanti annitriri in voce de cavalli,
tanti gridi e tumulti di pedoni,
che risonare e piani e monti e valli
devessen di longinque regïoni;
e che a’ Mori con questo un timor diede,
che li fece voltare in fuga il piede.
87
Non si scordò il Re d’Aphrica Ruggiero,
ch’era ferito e stava anchora grave;
e più che puòte acconcio s’un destriero
lo fece por, c’havea l’andar soave;
e poi che l’hebbe tratto ove il sentiero
fu più sicuro, il fe’ posar in nave,
e verso Arlì portar commodamente,
dove s’havea a raccôr tutta la gente.
88
Quei che a Rinaldo e a Carlo dier le spalle;
fur, credo, centomila o poco manco;
per campagne, per boschi e monte e valle
cercaro uscir di man del popul Franco;
ma la più parte trovò chiuso il calle,
e fece rosso ove era verde e bianco.
Così non fece il Re di Sericana,
c’havea da lor la tenda più lontana:
89
anzi, come egli sente ch’el signore
di Montalbano è questo che li assalta,
gioisce di tal iubilo nel core,
che qua e là per allegrezza salta.
Loda e ringratia il suo sommo Fattore
che quella notte gli occorrea tanta alta
e sì rara aventura d’acquistare
Baiardo, quel destrier che non ha pare.
90
Havea quel Re gran tempo disïato
(credo che altrove voi l’habbiate letto)
portar la buona Durindana a lato
e cavalcar quel corridor perfetto.
E già con più di centomila armato
era venuto in Francia a questo effetto;
e con Rinaldo già sfidato s’era
per quel cavallo alla battaglia fiera;
91
e nel lito del mar s’era condutto,
e vi devea la pugna diffinire;
ma Malagigi a turbar venne il tutto,
e fe’ il cugin (mal grado suo) partire,
havendol sopra un legno in mar ridutto:
lungo serìa tutta l’historia dire.
Da indi in qua stimato ignavo e vile
Gradasso havea quel Paladin gentile.
92
Hor che Gradasso esser Rinaldo intende
costui che assale il campo, se n’allegra.
Vestesi l’arme, e la sua alfana prende,
e cercando lo va per l’aria negra;
e quanti ne riscontra, a terra stende,
et in confuso lascia afflitta et egra
la gente, o sia di Lybia o sia di Francia:
tutti li mena a un par la buona lancia.
93
Lo va di qua di là tanto cercando,
chiamandol spesso et quanto può più forte,
e sempre a quella parte declinando
dove più spesse son le genti morte,
ch’al fin s’incontra in lui brando per brando,
poi che le lancie loro ad una sorte
eran salite in mille scheggie rotte
sin al carro stellato de la Notte.
94
Come Gradasso il Paladin gagliardo
connosce, e non perché ne veggia insegna,
ma per li horrendi colpi e per Baiardo,
che par che sol tutto quel campo tegna;
non è (gridando) a improverarli tardo
la prova che di lui fece non degna:
ch’al dato campo il giorno non comparse,
che tra lor la battaglia devea farse.
95
Suggiunse poi: – Tu forse havevi speme,
se potevi nasconderti quel punto,
che non mai più per raccozzarsi insieme
fussimo al mondo: hor vedi ch’io t’ho giunto.
Sie certo, anchor che s’in le fosse estreme
vai del inferno, o sie nel cielo assunto,
ti seguirò, quando habbi il caval teco,
nel splendor summo et giù nel aer cieco.
96
Se d’haver meco a far non ti dà il core,
e vedi già non poter starmi a paro
e più stimi la vita che l’honore,
senza periglio ci puoi far riparo
quando mi lasci in pace il corridore;
e viver puoi, se sì t’è il viver caro:
ma vivi a piè, che non merti cavallo,
s’alla cavalleria fai sì gran fallo. –
97
A quel parlar si ritrovò presente
con Ricciardetto il cavallier Selvaggio;
e le spade ambi trassero ugualmente
per far parer il Serican mal saggio.
Ma Rinaldo si oppose immantinente,
e non patì che se gli fêsse oltraggio,
dicendo: – Senza voi dunque non sono
a chi mi oltraggia per risponder buono? –
98
Poi se ne ritornò verso il Pagano,
e disse: – Odi, Gradasso; io voglio farte,
se tu m’ascolti, manifesto e piano
ch’io venni alla marina a ritrovarte:
poi te sostenerò con l’arme in mano
che t’havrò detto il vero in ogni parte,
e che menti ogni volta che dirai
ch’alla cavalleria mancassi mai.
99
Ma ben ti priego che prima che sia
pugna tra noi, che pianamente intenda
la giustissima et vera scusa mia,
acciò che a torto più non mi riprenda;
e poi Baiardo al termine di pria
tra noi vorrò che a piedi si contenda
da solo a solo in solitario lato,
sì come a punto fu da te ordinato. –
100
Era cortese il Re di Sericana,
come ogni cor magnanimo esser suole;
et è contento udir la cosa piana
che dir per scusa il paladin gli vuole.
Con lui ne viene in ripa alla fiumana,
dove Rinaldo in semplici parole
alla sua vera historia trasse il velo,
e chiamò in testimonio tutto il cielo.
101
Fece chiamar poi lo figliuol di Bovo,
l’huom che di questo era informato a pieno,
che a parte a parte replicò di nuovo
l’incanto suo, né disse più né meno.
Suggiunse poi Rinaldo: – Ciò ch’io provo
col testimonio, io vuo’ che l’arme sièno,
che adesso e in ogni tempo che ti piace
te n’habbiano a far prova più verace. –
102
Il Re Gradasso, che lasciar non volle
per la seconda la querela prima,
le scuse di Rinaldo in pace tolle,
ma se son vere o false in dubbio stima.
Non tolgon campo più sul lito molle
di Barcelona, ove lo tolser prima;
ma s’accordaro per l’altra matina
trovarsi a una fontana indi vicina,
103
dove Rinaldo seco habbia il cavallo,
che posto sia communamente in mezo:
se ’l Re uccide Rinaldo o fa vassallo,
se ne pigli il caval senza altro mezo;
ma se Gradasso è quel che faccia fallo,
che sia condutto al ultimo ribrezo
o, per più non poter, che gli si renda,
da lui Rinaldo Durindana prenda.
104
Con maraviglia molta et più dolore
(come v’ho detto) havea Rinaldo udito
da Fiordiligi bella ch’era fuore
del intelletto il suo cugino uscito.
Havea de l’arme inteso ancho il tenore,
e del litigio che n’era seguito;
e che in summa Gradasso havea quel brando
ch’ornò di mille e mille palme Orlando.
105
Poi che furon d’accordo, ritornossi
il Re Gradasso a li sergenti sui,
ben che dal Paladin pregato fossi
che ne venisse ad alloggiar con lui.
Come fu giorno, il Re pagano armossi;
così Rinaldo: e giunsero ambedui
ove devea non lungi alla fontana
combattersi Baiardo e Durindana.
106
De la battaglia che Rinaldo havere
con Gradasso devea da solo a solo
parean li amici suoi tutti temere,
e nanzi il caso ne faceano il duolo.
Molto ardir, molta forza, et più sapere
havea Gradasso; et hor che del figliuolo
del gran Milone havea la spada al fianco,
di timor per Rinaldo era ognun bianco.
107
E più de li altri il frate di Viviano
stava di questa pugna in dubbio e ’n tema,
e v’havria posto volentieri mano
per farla rimaner di effetto scema:
ma non vorria che quel da Montalbano
seco venisse a inimicitia estrema;
ch’ancho havea di quell’altra seco sdegno,
che gli turbò quando il levò sul legno.
108
Ma stiano li altri in dubbio, in tema, in doglia:
Rinaldo va sicuro, ardito e lieto,
sperando c’hor il biasmo se gli toglia
ch’al partir che fe’ già gli venne drieto;
sì che quei da Pontier e d’Altafoglia
et ogni Maganzese habbia a star cheto.
Va con baldanza et sicurtà di core
di riportarne il triomphal honore.
109
Poi che l’un quinci e l’altro quindi giunto
fu quasi a un tempo in su la chiara fonte,
si accarezzaro, et si fecero a punto
così serena et amichevol fronte,
come di sangue et amistà congiunto
fusse Gradasso a quel di Chiaramonte.
Ma come poi s’andassero a ferire
vi voglio a un’altra volta differire.

CANTO TRIGESIMO

1
Soviemmi che cantar già vi devea,
già lo promissi, et poi m’uscì di mente,
d’una suspitïon che fatto havea
la bella donna di Ruggier dolente,
molto più dispiacevole et più rea,
e di più acuto e venenoso dente,
de l’altra che pel dir di Ricciardetto
a divorare il cor l’entrò nel petto.
2
Devea cantarne, et altro incominciai,
perché Rinaldo in mezo sopravenne;
e poi Guidon mi diè che fare assai,
che tra camino a bada un pezzo il tenne.
D’una cosa in un’altra in modo entrai,
che mal di Bradamante mi sovenne:
sovienmene hora, et vuo’ narrarne inanti
che di Rinaldo e di Gradasso canti.
3
Ma bisogna ancho, prima ch’io ne parli,
che d’Agramante vi ragioni un poco,
che havea ridutte le reliquie in Arli
che gli restâr del gran notturno fuoco,
quando a raccôrre il sparso campo et darli
soccorso et vittuaglie era atto il luoco:
l’Aphrica ha contra, et la Spagna vicina,
et è in sul fiume assiso alla marina.
4
Per tutto il regno fa scriver Marsiglio
gente a piedi e a cavallo, et trista et buona;
per forza e per amor ogni naviglio
atto a battaglia s’arma a Barcelona.
Agramante, che vede il suo periglio,
a spender largamente non perdona;
intanto gravi exattïoni e spesse
han tutte le città d’Aphrica oppresse.
5
Havea fatto offerire a Rodomonte,
perché tornasse, et impetrar nol puòte,
una cugina sua, figlia d’Aimonte,
et il regno d’Oran dargli per dote.
Non si vòlse l’altier mover dal ponte,
dove tant’arme e tante selle vuote
di quei che capitati erano al passo
raccolte havea, che già copriane il sasso.
6
Intanto Bradamante iva accusando
che così lunghi eran quei venti giorni,
li quai finiti, il termine era, quando
a lei Ruggiero et alla fede torni.
A chi aspetta di carcere o di bando
uscir, non par ch’el tempo più soggiorni
a darli libertade, o de l’amata
patria vista gioconda e disïata.
7
In quel duro aspettare ella talvolta
pensa che Eto e Pyròo sia fatto zoppo;
o sia la ruota guasta, che a dar volta
le par che tardi, oltra l’usato, troppo.
Più lungo di quel giorno, a cui per molta
fede nel cielo il giusto Hebreo fe’ intoppo,
più de la notte che Hercole produsse,
parea lei ch’ogni notte, ogni dì fusse.
8
Oh quante volte da invidiar le diero
li orsi, li ghiri e i sonnacchiosi tassi!
che quel tempo voluto havrebbe intiero
tutto dormir, che mai non si destassi;
né poter altro udir, fin che Ruggiero
dal pigro sonno lei non richiamassi.
Ma non pur questo non può far, ma anchora
non può dormir di tutta notte un’hora.
9
Di qua di là va le noiose piume
tutte premendo, e mai non si riposa.
Spesso aprir la finestra ha per costume,
per veder s’ancho di Tithon la sposa
sparge dinanzi al matutino lume
el bianco giglio e la vermiglia rosa:
non meno anchor, poi che nasciuto è il giorno,
brama vedere il ciel di stelle adorno.
10
Poi che fu quattro o cinque giorni appresso
il termine a finir, piena di spene
stava aspettando d’hora in hora il messo
che le apportasse: – Ecco Ruggier che viene. –
Montava sopra un’alta torre spesso,
che i folti boschi e le campagne amene
scopria d’intorno, e parte de la via
donde di Francia a Montalban si gìa.
11
Se di lontano o splendor d’arme vede
o cosa tal ch’a cavallier simiglia,
che sia il suo desïato Ruggier crede,
e rasserena i belli occhi e le ciglia;
se disarmato o vïandante a piede,
che sia messo di lui speranza piglia:
e se ben poi fallace la ritrova,
pigliar non cessa una et un’altra nuova.
12
Credendolo incontrar, talhora armossi,
scese dal monte e giù smontò nel piano;
né lo trovando, si sperò che fossi
per altra strada giunto a Montalbano;
e col disir con che havea i piedi mossi
fuor del castel, ritornò dentro invano:
né qua né là trovollo; e passò intanto
il termine aspettato da lei tanto.
13
El termine passò d’uno, di dui,
quattro, sei, dieci dì, quindici e venti;
né vedendo il suo sposo, né di lui
sentendo nuova, incomminciò lamenti
c’havria mosso a pietà ne i regni bui
quelle Furie crinite de serpenti;
e fece oltraggio a’ belli occhi divini,
al bianco petto, all’aurei crespi crini.
14
– Dunque fia ver (dicea) che mi convegna
cercar un che mi fugge e mi s’asconde?
Dunque debbio prezzar un che mi sdegna?
Debbio pregar chi mai non mi risponde?
Patirò che chi m’odia, il cor mi tegna?
un che sì stima sue virtù profonde,
che bisogno serà che dal ciel scenda
immortal dea ch’el cor d’amor gli accenda?
15
Sa questo altier ch’io l’amo e ch’io l’adoro,
né mi vuol per amante né per serva;
el crudel sa che per lui spasmo e moro,
e dopo morte a darmi aiuto serva:
e perché non gli narri il mio martoro
atto a piegar la sua voglia proterva,
da me s’asconde, come aspide suole,
che, per star empio, il canto udir non vuole.
16
Deh ferma, Amor, costui che così sciolto
dinanzi al lento mio correr s’affretta;
o tornami nel grado onde m’hai tolto
quando né a te né ad altri ero suggetta!
Deh, come è il sperar mio fallace e stolto,
ch’in te con prieghi mai pietà si metta;
che ti diletti, anzi ti pasci e vivi
di trar da li occhi lachrymosi rivi!
17
Ma di che debbio lamentarmi (ahi lassa!)
fuor che del mio disire irrationale?
ch’alto mi lieva, e tanto in l’aria passa,
che arriva in parte ove s’abbrucia l’ale;
poi non potendo sostener, mi lassa
dal ciel cader, né qui finisce il male;
che le rimette, e di nuovo arde, onde io
non ho mai fine al precipitio mio.
18
Anzi assai più che del desir, mi deggio
di me doler, che sì gli apersi il seno;
onde cacciata ha la ragion di seggio,
et ogni mio poter può di lui meno.
Quel mi trasporta ognhor di mal in peggio,
né lo posso frenar, che non ha freno:
e mi fa certa che mi mena a morte,
perché aspettando il mal noccia più forte.
19
Deh perché voglio ancho di me dolermi?
Ch’error, se non d’amarti, unqua commessi?
Che maraviglia, se fragili e infermi
feminil sensi fur subito oppressi?
Perché devevo usar ripari o schermi
che la summa beltà non me piacessi,
li alti sembianti e le saggie parole?
Misero è quel che veder schiva il Sole!
20
Et oltra el mio destino, io ci fui spinta
da li conforti altrui degni di fede:
summa felicità mi fu dipinta,
ch’esser devea di questo amor mercede.
Se la persuasione, ohimè! fu finta,
se fu inganno il consiglio che mi diede
Merlin, posso di lui ben lamentarmi,
ma non d’amar Ruggier posso ritrarmi.
21
Di Merlin posso e de la Maga insieme
dolermi, e mi dorrò d’essi in eterno,
che dimostrare i frutti del mio seme
mi fêro da li spirti de lo inferno
per pormi sol con questa falsa speme
in servitù; né la cagion discerno,
se non ch’erano forse invidïosi
de li sicuri miei lunghi riposi. –
22
Sì l’occùpa il dolor, che non avanza
luoco ove in lei conforto habbia ricetto;
ma, mal grado di quel, vien la speranza
e vi vuole alloggiar in mezo il petto,
rifrescandole pur la rimembranza
di quel ch’al suo partir l’ha Ruggier detto:
e vuol, contra il parer de li altri affetti,
che d’hora in hora il suo ritorno aspetti.
23
Questa speranza dunque la sostenne,
finito i venti giorni, un mese appresso;
sì che il dolor sì forte non le tenne,
come tenuto havria, l’animo oppresso.
Un dì che per la strada se ne venne,
che per trovar Ruggier solea far spesso,
udì cose a sue voglie in modo averse,
che drieto a l’altro ben la speme perse.
24
Venne a incontrare un cavallier Vascone
che dal campo Aphrican venìa diritto,
dove era stato da quel dì prigione
che fu inanzi a Parigi il gran conflitto.
Bradamante lo messe per ragione
di molte cose, e là dove prescritto
havea ch’el fin de sue dimande fosse,
venne a Ruggiero, et in Ruggier fermosse.
25
Il cavallier buon conto le ne rese,
che connosceva tutta quella corte;
e narrò di Ruggier, come contese
da sol a sol con Mandricardo forte;
e come egli l’uccise, e più d’un mese
poi ne restò ferito e presso a morte:
e s’era la sua historia qui conclusa,
fatto havria di Ruggier la vera escusa.
26
Ma come poi vi giunse, una donzella
esser nel campo, nomata Marphisa,
che men non era, che gagliarda, bella,
d’arme experimentata in ogni guisa;
e che Ruggier l’amava, e Ruggiero ella,
e lor compagnia raro era divisa;
e si credea per publico parere
ch’eran insieme marito e mogliere,
27
e che come Ruggier si faccia sano,
il matrimonio publicar si deve;
e ch’ogni Re, ogni Principe pagano
gran piacere e letitia ne riceve,
che de l’uno e de l’altro soprhumano
connoscendo il valor, sperano in breve
far una razza d’huomini da guerra
la più gagliarda che mai fusse in terra…
28
Credea il Vascon quel che dicea, non senza
cagion, perché in l’exercito pagano
era di questo universal credenza,
e in secreto e in palese e forte e piano
se ne dicea, per la benivolenza
che poi ch’infermo, e quando prima sano
era Ruggier, gli havea con grande affetto
dimostrato Marphisa in fatto e in detto.
29
L’esser venuta a’ Mori ella in aita
con lui, né senza lui comparir mai,
havea questa credenza stabilita;
ma poi l’havea accresciuta pur assai,
ch’essendosi del campo già partita
portandone Brunel (come io contai),
senza esservi d’alcuno richiamata,
sol per veder Ruggier v’era tornata.
30
Sol per lui visitar, che gravemente
languia ferito, in campo venuta era,
non una sola volta, ma sovente;
vi stava il giorno e si partia la sera:
e molto più da dir dava alla gente,
ch’essendo connosciuta così altiera
che tutto il mondo a sé le parea vile,
solo a Ruggier fusse benigna e humìle.
31
... come le aggiunse, et affermò per vera
questa altra nuova, fu di tanta pena
Bradamante assalita e così fiera,
che nel petto celar la puòte a pena
e non ne fare accorto chi seco era.
Dunque di gelosia, di rabbia piena,
da sé scacciata havendo ogni speranza,
ritornò furibonda alla sua stanza;
32
e senza disarmarsi, sopra il letto,
col viso volta in giù, tutta si stese,
dove per non gridar, sì che sospetto
di sé facesse, i panni in bocca prese;
e ripetendo quel che le havea detto
il cavalliero, in tal dolor discese,
che più non lo potendo sofferire,
fu forza a disfocarlo, e così dire:
33
– A chi (misera!) mai creder più deggio?
Ognuno (ahi lassa!) è perfido e crudele,
poi che crudele e perfido l’huom veggio
ch’io tenni il più constante e il più fedele.
Qual crudeltà, qual fu perfidia peggio,
qual più degna di pianto e di querele,
di questa fatta mai, qual fu men degna
donzella mai di me che lo sostegna?
34
Perché, Ruggier, come di te non vive
cavallier di più ardir, di più bellezza,
né che a gran pezzo al tuo valore arrive,
né a’ tuoi costumi, né a tua gentilezza;
perché non fai che fra tue illustri e dive
virtù si dica anchor c’habbi fermezza?
si dica c’habbi invïolabil fede?
a che ogni altra virtù s’inchina e cede.
35
Non sai che non compar, se non v’è quella,
alcun valore, alcun nobil costume?
come né cosa (e sia quanto vuol bella)
si può veder dove non splenda lume.
Facil ti fu ingannar una donzella
di cui tu signor eri, idolo e nume,
a cui potevi far con tue parole
creder che fusse oscuro e freddo il Sole.
36
Crudel, di che peccato a doler t’hai,
se d’uccider chi t’ama non ti penti?
Se ’l mancar di tua fé sì liggier fai,
di ch’altro peso il cor gravar ti senti?
Come tratti il nemico, se tu dài
a me, che t’amo sì, questi tormenti?
Ben dirò che giustitia in ciel non sia,
s’a veder tardo la vendetta mia.
37
Se più di tutti li peccati quello
de l’empia ingratitudine l’huom grava,
e per questo del ciel l’angel più bello
fu relegato in parte oscura e cava;
e se gran fallo aspetta gran flagello
quando debita emenda il cor non lava,
guarda ch’aspro flagello in te non scenda,
che mi se’ ingrato e non vuoi farne emenda.
38
Di furto anchora, oltra ogni vitio rio,
di te, crudel, ho da dolermi molto.
Che tu mi tenga il cor, non ti dico io:
di questo, io vuo’ che te ne vada assolto;
dico di te che t’eri fatto mio,
e poi contra ragion mi ti sei tolto.
Renditi, iniquo, a me; che tu sai bene
che non si può salvar chi l’altrui tene.
39
Tu m’hai, Ruggier, lasciata: io te non voglio,
né lasciarte volendo, ancho potrei;
ma per uscir d’affanno e di cordoglio
posso e voglio finire i giorni miei.
Di non morirti in gratia sol mi doglio;
che se concesso m’havessero i dèi
ch’io fussi morta quando t’ero grata,
morte non fu già mai tanto beata. –
40
Così dicendo, di morir disposta,
salta del letto, e di rabbia infiammata
si pon la spada alla sinistra costa;
ma si ravede poi che è tutta armata.
Il miglior spirto in questo le s’accosta,
e nel cor le ragiona: – O donna nata
di tanto alto lignaggio, adunque vuoi
finir con sì gran biasmo i giorni tuoi?
41
Non è meglio che al campo tu ne vada,
dove morir si può con laude ognhora?
Quivi, se avien che inanzi a Ruggier cada,
del morir tuo si dorrà forse anchora:
ma se a morir te avien per la sua spada,
chi serà mai che più contenta mora?
Ragion è ben che di vita te privi,
poi che egli è causa anchor che tu non vivi.
42
Verrà forse ancho che prima che mori
farai vendetta di quella Marphisa
che t’ha con fraudi e dishonesti amori,
da te Ruggiero alïenando, uccisa. –
Questi pensieri parveno migliori
alla donzella; e presto una divisa
si fe’ su l’arme, che volea inferire
disperatione e voglia di morire.
43
Senza scudiero e senza compagnia
scese dal monte, e si pose in camino
verso Parigi la più dritta via,
dove era dianzi il campo Saracino;
che la novella anchora non se udia
che l’havesse Rinaldo paladino,
aiutandolo Carlo e Malagigi,
fatto tôr da l’assedio di Parigi.
44
Alloggiò quella notte ad un castello
ch’alla via di Parigi si ritrova,
e del notturno assalto del fratello,
che ruppe il Re Agramante, udì la nuova.
Quivi hebbe buona mensa e buono hostello:
ma questo et ogn’altro agio poco giova;
che poco mangia e poco dorme, e poco,
non che posar, ma ritrovar può luoco.
45
Pur chiuse alquanto appresso all’alba i lumi,
e di veder le parve il suo Ruggiero
che le dicesse: – Perché ti consumi,
dando credenza a quel che non è vero?
Tu vedrai prima all’erta andare i fiumi
ch’ad altri mai, ch’a te, volga il pensiero.
S’io non amassi te, né il cor potrei
né le pupille amar de li occhi miei. –
46
E parea suggiungesse: – Io son venuto
per battizarmi e far quanto ho promesso;
e s’io son stato tardi, m’ha tenuto
altra ferita, che d’amore, oppresso. –
Fuggise in questo il Sonno, né veduto
fu più Ruggier, che si fuggì con esso.
Rinuova allhora i pianti la donzella,
e ne la mente sua così favella:
47
– Fu quel che piacque un falso sogno, e questo
che mi tormenta (ahi lassa!) è un vegghiar vero.
El ben fu sogno, e dileguòsi presto,
ma non è sogno il martìr aspro e fiero.
Perc’hor non ode e vede il senso desto
quel ch’udire e veder parve al pensiero?
A che conditïone, occhi miei, sète,
che chiusi il bene, aperti il mal vedete?
48
El dolce sogno mi promesse pace,
e l’amaro vegghiar mi torna in guerra:
el dolce sogno è ben stato fallace,
ma l’amaro vegghiar, ohimè! non erra.
Se ’l vero annoia, e il falso sì mi piace,
non oda o veggia mai più vero in terra:
se ’l dormir mi dà gaudio, e il vegghiar guai,
poss’io dormir senza destarmi mai.
49
O felici animal ch’un sonno forte
sei mesi tien senza mai li occhi aprire!
Che s’assimigli tal sonno alla morte,
tal vegghiare alla vita, io non vuo’ dire;
ch’a tutte altre contraria la mia sorte
sente morte a vegghiar, vita a dormire:
ma s’a tal sonno morte s’assimiglia,
deh, Morte, hor hora chiudimi le ciglia! –
50
Ma costei seguitar non voglio tanto,
ch’io non ritorni a quei dui cavallieri
che d’accordo legato haveano a canto
la solitaria fonte i lor destrieri.
La pugna lor, di che vuo’ dirvi alquanto,
non fu per acquistar terre né imperi,
ma perché Durindana il più gagliardo
habbia ad havere, e cavalcar Baiardo.
51
Senza che tromba o che tambur cennasse
quando a mover s’havean, senza maestro
ch’el schermo e il ben ferir lor raccordasse,
e stimulasse il cor d’animoso estro,
l’uno e l’altro d’accordo il ferro trasse,
e si venne a trovare agile e destro.
Li spessi e gravi colpi a farsi udire
incominciaro, et a scaldarsi l’ire.
52
Due spade altre non so per prova elette
ad esser ferme e solide e ben dure,
che a tre colpi di quei si fusser rette,
ch’erano fuor di tutte le misure:
ma quelle fur di tempre sì perfette,
per tante experïentie sì sicure,
che ben poteano insieme riscontrarsi
con mille colpi e più, senza spezzarsi.
53
Hor qua Rinaldo, hor là mutando il passo,
con gran destrezza e molta industria et arte
fuggìa di Durindana il gran fraccasso,
che sa ben come spezza il ferro e parte.
Ferìa maggior percosse il Re Gradasso;
ma quasi tutte al vento erano sparte:
se coglieva talhor, coglieva in luoco
dove potea gravar e nuocer poco.
54
L’altro con più ragion sua spada inchina,
e fa spesso al Pagan stordir le braccia;
quando alli fianchi e quando ove confina
la corazza con l’elmo, gli la caccia;
ma truova tanto l’armatura fina
che piastra non ne rompe o maglia straccia:
se dura e forte la trovava tanto,
venìa perché era fatta per incanto.
55
Senza prender riposo erano stati
gran pezzo tanto alla battaglia fisi,
che volti li occhi in nessun mai de’ lati
haveano, fuor che ne i turbati visi;
quando da un’altra zuffa distornati,
e da tanto furor furon divisi:
ambi voltaro a un gran strepito il ciglio,
e videro Baiardo in gran periglio.
56
Vider Baiardo a zuffa con un mostro
ch’era più di lui grande, et era augello:
havea più lungo di tre braccia il rostro;
l’altre fattezze havea di pipistrello:
havea la piuma negra come inchiostro;
havea l’artiglio grande, acuto e fello;
li occhi di fuoco, il sguardo havea crudele;
l’ale havea grandi, che parean due vele.
57
Forse era vero augel, ma non so dove
o quando un altro mai ne fusse tale.
Non ho veduto mai né letto altrove,
fuor ch’in Turpin, d’un sì fatto animale:
questo rispetto a credere mi muove
che l’augel fusse un diavolo infernale
che Malagigi in quella forma trasse,
acciò che la battaglia disturbasse.
58
Rinaldo il credette ancho, e gran parole
e sconcie poi con Malagigi n’hebbe.
Egli già confessar non gli lo vuole;
e perché tôr di colpa si vorrebbe,
giura pel lume che dà lume al Sole
che di questo imputato esser non debbe.
Fusse augello o demonio, il mostro scese
sopra Baiardo, e con l’artiglio il prese.
59
Le redine il destrier, che era possente,
subito rompe, e con sdegno e con ira
contra l’augello i calci adopra e il dente:
ma quel veloce in aria si ritira;
indi ritorna, e con l’ugna pungente
lo va battendo e d’ognintorno aggira.
Baiardo offeso, e che non ha ragione
di schermo alcun, ratto a fuggir si pone.
60
Fugge Baiardo, e in la vicina selva
va ricercando le più spesse fronde.
Segue di sopra la pennuta belva
con li occhi fisi ove la via seconde:
ma pur il buon destrier tanto s’inselva,
ch’al fin sotto una grotta si nasconde.
Poi che l’alato la traccia ne perse,
altrove a batter l’aria si converse.
61
Rinaldo e il Re Gradasso, che partire
veduta han la cagion de la lor pugna,
restâr d’accordo quella differire
fin che si salvi dal grifo e da l’ugna
di quel augel che sì lo fa fuggire;
con patto che qual d’essi lo ragiugna,
a quella fonte lo restituisca,
dove la lite lor poi se finisca.
62
Seguendo, si partîr da la fontana,
l’herbe novellamente in terra peste.
Così da lor Baiardo s’allontana,
c’hebbon le piante in seguir lui mal preste.
Gradasso, che non lungi havea l’alfana,
sopra vi salse, e per quelle foreste
lasciò Rinaldo di gran spatio drieto,
di sì strana aventura poco lieto.
63
Perse Rinaldo l’orme in pochi passi
del suo destrier, che fe’ strano vïaggio:
rivi profondi, e dove iniqui sassi
e dense spine havea ’l luoco selvaggio,
andò cercando, acciò che si celassi
da l’animal che gli faceva oltraggio.
Rinaldo, dopo la fatica vana,
tre giorni anchor l’attese alla fontana,
64
se da Gradasso vi fusse condutto,
sì come tra lor dianzi si convenne:
ma poi che far si vide poco frutto,
dolente e a piedi in campo se ne venne.
Ma torniamo a quell’altro, c’hebbe tutto
contrario caso a questo: egli via tenne,
non per ragion, ma per suo buon destino,
dove annitrir udì il caval vicino;
65
e ritrovollo in la spelonca cava,
che del timor c’havea del strano augello
anchor smarrito e tremebondo stava:
quivi il prese il Pagan, quivi suo féllo.
Ben la conventïon si ricordava,
che alla fonte tornar devea con quello;
ma non gli parve allhora di observarla,
e così in mente sua tacito parla:
66
– Pazzo è colui che cerca haver con guerra
quel che può haver con pace. Già venn’io
da l’un a l’altro capo de la terra
acciò questo destrier facessi mio.
Chi crederà ch’io ’l lasci havendol, erra;
che se di ricovrarlo havrà disio
il patron suo, non mi par cosa indegna,
come io già in Francia, hor egli in India vegna.
67
Non men sicura a lui fia Sericana,
che già due volte Francia a me sia stata. –
Così dicendo, per la via più piana
ne venne in Arli, e vi trovò l’armata;
e quindi con Baiardo e Durindana
si partì sopra una galea spalmata.
Ma questo a un’altra volta; che hor Gradasso,
Rinaldo e tutta Francia drieto lasso.
68
Voglio Astolfo seguir, ch’a sella e morso
a uso facea andar di palafreno
l’Hippogrypho per l’aria a sì gran corso,
che l’aquila e il falcon vola assai meno.
Poi che de’ Galli hebbe il paese scorso
da un mare a l’altro e da Pyrene al Rheno,
tornò verso Ponente alla montagna
che separa la Francia da la Spagna.
69
Passò in Navarra, et indi in Aragona,
lasciando a chi ’l vedea gran maraviglia.
Restò lungi a sinistra Taracona,
Biscaglia a destra, et arrivò in Castiglia.
Vide Gallicia e il regno d’Ulispona,
poi volse il corso a Cordova e Siviglia;
né lasciò presso al mar né fra campagna
città che non vedesse in tutta Spagna.
70
Vide le Gade e la meta che pose
a’ primi naviganti Hercole invitto.
Per l’Aphrica vagar poi si dispose
dal mar d’Atlante ai termini d’Egytto.
Vide le Baleariche famose
e l’Isola d’Evizza al camin dritto.
Poi volse il freno, e tornò verso Arzilla
sopra al mar che da Spagna dipartilla.
71
Vide Marocco, Feza, Orano, Hippona,
Algier, Buzea, tutte città superbe
c’hanno d’altre città tutte corona,
corona d’oro, e non di fronde o d’herbe.
Verso Biserta e Tunisi poi sprona:
vede Capisse e l’Isola del Zerbe
e Tripoli e Berniche e Tolomitta,
sin dove il Nilo in Asia si traghitta.
72
Tra la marina e la selvosa schiena
del fiero Atlante vide ogni contrada.
Poi diè le spalle ai monti di Carena,
e sopra i Cyrenei prese la strada;
e traversando i campi de l’arena,
venne a’ confin di Nubia in Albaiada.
Rimase drieto il Cimitier di Batto
e il gran tempio d’Amon, c’hoggi è disfatto.
73
Indi giunse ad un’altra Tremisenne,
che segue pur di Macometto il stilo.
Poi volse a gli altri Ethïopi le penne,
che contra questi son di là dal Nilo:
alla città di Nubia il camin tenne
tra Dobada e Coalle in aria a filo.
Questi Christiani son, quei Saracini;
e stan con l’arme in man sempre a’ confini.
74
Senapo Imperator de la Ethïopia,
che in luoco tien di settro in man la croce,
di gente, di cittadi e d’oro ha copia
quindi sin là dove il mar Rosso ha foce;
e serva a punto nostra fede propia,
che può salvarlo dal exilio atroce:
è (s’io non piglio error) questo quel luoco
dove al battesmo lor usano il fuoco.
75
Dismontò il duca Astolfo alla gran corte
dentro da Nubia, e visitò il Senapo.
Il Castello è più ricco assai che forte
dove dimora de’ Ethïòpi il capo:
le catene de’ ponti e de le porte,
gangheri e chiavistei da piede a capo,
e finalmente tutto quel lavoro
che nui di ferro usiamo, ivi usan d’oro.
76
Anchor che del finissimo metallo
vi sia tale abondanza, è pur in pregio.
Colonnate di limpido chrystallo
eran le loggie del palazzo Regio;
facean di verde, rosso, azuro e giallo
d’intorno a’ vòlti un relucente fregio,
divisi tra proportionati spati,
rubin, smeraldi, zaphiri e topati.
77
In muri, in tetti, in pavimenti sparte
eran le perle, eran le gemme fine.
Quindi il muschio odorifero si parte
che vien portato per tante marine:
le belle cose in summa in questa parte
nascon, che van pel mondo peregrine.
El gran Soldano è a questo Re suggetto:
qui Prete Ianni, e là Senapo è detto.
78
Di quanti Re mai d’Ethïopia fôro,
il più ricco fu questo e il più possente;
ma con tutta sua possa e suo thesoro,
li occhi perduti havea miseramente.
Et era questo il men del suo martoro:
molto era più noioso e più spiacente
che, quantunque ricchissimo se chiame,
crucïato era da perpetua fame.
79
Se per mangiar o ber quello infelice
venìa, cacciato dal bisogno grande,
tosto apparia l’infernal schiera ultrice
di monstrüose Harpie brutte e nefande,
che col grifo e con l’ugna predatrice
spargeano i vasi, e rapian le vivande;
e quel che non capia lor ventre ingordo,
vi rimanea contaminato e lordo.
80
E questo, perché essendo d’anni acerbo
e vìstose levato in tanto honore,
che, oltra le ricchezze, di più nerbo
era di tutti li altri e di più core,
divenne, come Lucifer, superbo,
e pensò mover guerra al suo Fattore.
Con la sua gente la via prese al dritto
al monte onde esce il gran fiume d’Egytto.
81
Inteso havea che su quel monte alpestre,
ch’oltra le nubi sino al ciel si lieva,
era quel paradiso che terrestre
si dice, ove habitò già Adamo et Eva.
Con cameli, elephanti e con pedestre
exercito, orgoglioso si moveva
con gran desir, se v’habitava gente,
di farla alle sue leggi ubidïente.
82
Dio gli ripresse il temerario ardire,
e mandò l’Angel suo tra quelle frotte,
che centomila ne fece morire
e condennò lui a perpetua notte.
Alla sua mensa poi fece venire
l’horrendo mostro dal’infernal grotte,
che gli rape e contamina li cibi,
né lascia che ne gusti o ne delibi.
83
In desperatïon continua il messe
uno che già gli havea prophetizato
che le sue mense non seriano oppresse
da la rapina e dal odor ingrato,
come dentro di Nubia si vedesse
volar per l’aria un cavallier armato:
perché dunque impossibil parea questo,
privo d’ogni speranza vivea mesto.
84
Hor che con gran stupor vede la gente
sopra ogni muro e sopra ogni alta torre
intrar l’armato cavallier, repente
a noncïarlo al Re di Nubia corre,
a cui la prophetia ritorna a mente;
et oblïando per letitia tôrre
la fedel verga, con le mane inante
vien brancolando al cavallier volante.
85
Astolfo ne la piazza del castello
con spatïose ruote in terra scese.
Poi che fu il Re condutto inanzi ad ello,
inginocchiossi, e le man giunte stese,
e disse: – Angel di Dio, Messia novello,
ben che perdon non mertino mie offese,
mira che proprio è a noi peccar sovente,
a voi perdonar sempre a chi si pente.
86
Del mio error consapevole, io non chieggio
né chiederti ardirei li antiqui lumi;
che tu lo possa far, ben creder deggio,
che sei de’ cari a Dio beati numi.
Ti basti il gran martìr ch’io non ci veggio,
senza ch’ognhor la fame me consumi:
almen discaccia le fetide Harpie,
che non rapiscan le vivande mie.
87
E di marmore un tempio ti prometto
edificar de l’alta Regia mia,
che tutte d’oro habbia le porte e il tetto,
e dentro e fuor di gemme ornato sia;
e dal tuo santo nome serà detto,
e del miracol tuo sculpito fia. –
Così dicea quel Re che nulla vede,
cercando invan baciar al Duca il piede.
88
Rispose Astolfo: – Né l’Angel di Dio,
né son Messia novel, né dal ciel vegno;
ma son mortal e peccatore anch’io,
di tanta gratia a me concessa indegno.
Io farò ogni opra acciò ch’el mostro rio,
per morte o fuga, io ti levi del regno.
S’io ’l fo, me non, ma Dio ne loda solo,
che per tuo aiuto qui mi drizzò il volo.
89
Fa’ questi voti a Dio, debiti a lui;
a lui li templi edifica e li altari. –
Così parlando, andavano ambidui
verso il castel fra li baron preclari.
Il Re commanda alli sergenti sui
che subito il convivio si prepari,
sperando che non debbia esserli tolta
la vivanda di mano a quella volta.
90
Dentro una ricca sala incontinente
apparecchiossi il convivio solenne.
Col Senapo s’assise solamente
il duca Astolfo, e la vivanda venne.
Ecco il stridor che per l’aria si sente,
percossa intorno da l’horribil penne;
ecco venir l’Harpie brutte e nefande,
tratte dal cielo a odor de le vivande.
91
Erano sette in una schiera, e tutte
volto di donna havean, pallide e smorte,
per lunga fame attenuate e sciutte,
horribili a veder più che la Morte.
L’alaccie grandi havean, deformi e brutte;
le man rapaci, e l’ugne incurve e torte;
grande e fetido il ventre, e lunga coda,
come di serpe che s’aggira e snoda.
92
Si sentono venir per l’aria, e quasi
si vedon tutte a un tempo in su la mensa
rapir li cibi e riversar i vasi:
e molta feccia il ventre lor dispensa,
tal che gli è forza d’atturare i nasi;
che non si può soffrir la puzza immensa.
Astolfo, come l’ira lo sospinge,
contra li ingordi uccelli il ferro stringe.
93
Uno sul collo, un altro su la groppa
percuote, e chi nel petto, e chi nel’ala;
ma come fera in s’un sacco di stoppa,
poi langue il colpo, e senza effetto cala.
E quelli non lasciâr piatto né coppa
che fusse intatto, né sgombrâr la sala
che le rapine lor, lor fiero pasto
il tutto havea contaminato e guasto.
94
Havuto havea quel Re ferma speranza
nel Duca, che l’Harpie gli discacciassi;
et hor che nulla ove sperar gli avanza,
sospira e geme, e disperato stassi.
Viene al Duca del corno rimembranza,
che suole aitarlo a’ perigliosi passi;
e conchiude tra sé che questa via
per discacciare i mostri ottima sia.
95
E prima fa ch’el Re con soi baroni
di calda cera l’orecchie si serra,
acciò che tutti, come il corno suoni,
non habbiano a fuggir fuor de la terra.
S’arma egli, e si rassetta in su li arcioni
del Hippogrypho, et il bel corno afferra;
et accennando al scalco, poi commanda
che ripona e la mensa e la vivanda.
96
E così in una loggia s’apparecchia
con altra mensa altra vivanda nuova.
Ecco l’Harpie che fan l’usanza vecchia:
Astolfo il corno subito ritrova.
Li augelli, che non han chiusa l’orecchia,
udito il suon, non puon star alla prova;
ma vanno in fuga pieni di paura,
che né del cibo o d’altro hanno più cura.
97
Subito il Paladin dietro lor sprona:
volando escie il caval fuor de la loggia
e col castel la gran città abbandona,
e per l’aria, cacciando i mostri, poggia.
Astolfo il corno tuttavolta suona:
fuggon l’Harpie verso la Zona roggia,
tanto che sono a l’altissimo monte
dove il Nilo ha (se in alcun luoco ha) fonte.
98
Quasi de la montagna alla radice
entra sotterra una profonda grotta,
che certissima porta esser si dice
di chi all’inferno vuol scender talhotta.
Quivi si fu la turba predatrice,
come in sicuro albergo, ricondotta,
e giù sin di Cocito in su la proda
scese, e più là, dove quel suon non oda.
99
All’infernal caliginosa buca
ch’apre la strada a chi si tol dal lume,
finì l’horribil suon l’inclyto Duca,
e fe’ raccôrre al suo caval le piume.
Ma prima che più inanzi lo conduca,
per non mi dispartir dal mio costume,
poi che da tutti i lati ho pieno il foglio,
finire il canto e riposar mi voglio.

CANTO TRIGESIMOPRIMO

1
Oh famelice, inique e fiere Harpie
ch’alla acciecata Italia e d’error piena,
per punir forse antique colpe rie,
in ogni mensa alto giudicio mena!
Innocenti fanciulli e madri pie
cascan di fame, e veggion ch’una cena
di questi monstri rei tutto divora
ciò che del viver lor sostegno fôra.
2
Troppo fallò chi le spelonche aperse
che già molti anni erano state chiuse;
onde il fetore e l’ingordigia emerse,
che ad amorbar Italia si diffuse.
La Pace allhora e il buon viver si perse;
e la Quïete in tal modo se excluse,
ch’in guerre, in povertà, sempre in affanni
è dopo stata, et è per star molti anni:
3
fin ch’ella un giorno a i neghitosi figli
scuota la chioma, e cacci fuor di Lethe,
gridando lor: – Non fia chi rassimigli
alla virtù di Calai e di Zete?
che le mense dal puzzo e da li artigli
liberi, e torni a lor monditia liete,
come essi già quelle di Phineo, e dopo
fe’ il Paladin quelle del Re Ethïòpo? –
4
El Paladin col suono horribil venne
le brutte Harpie cacciando in fuga e in rotta,
tanto ch’a piè d’un monte se ritenne,
dove esse erano intrate in una grotta.
L’orecchie attente a quel spiraglio tenne,
e l’aria ne sentì percossa e rotta
di pianto e strida e di lamento eterno:
segno evidente quivi esser l’inferno.
5
Astolfo si pensò d’intrarvi dentro
e veder quei c’hanno perduto il giorno,
e penetrar la terra sino al centro
e le bolgie infernal cercare intorno.
– Di che debbo temer (dicea) s’io v’entro,
che mi posso aiutar sempre col corno?
Farò fuggir Plutone e Sathanasso,
e il Can trifauce leverò dal passo. –
6
De l’alato destrier presto discese,
e lo lasciò legato a un arbuscello;
poi si calò ne l’antro; e prima prese
il corno, havendo ogni sua speme in quello.
Non andò molto inanzi, che gli offese
el naso e li occhi un fumo oscuro e fello,
via più noioso che di pece o solpho:
non sta per questo andare inanzi Astolfo.
7
Ma quanto va più inanzi, più s’ingrossa
il fumo e la caligine, e gli pare
ch’andare hoggimai più troppo non possa;
che serà forza a dietro ritornare.
Ecco, non sa che sia, vede far mossa
da la volta di sopra, come fare
il cadavero impeso al vento suole,
che molti dì sia stato al’acqua e al sole.
8
Sì poco e quasi nulla era di luce
in quella affumicata e nera strada,
che non comprende e non discerne il Duce
che questo sia che sì per l’aria vada;
e per notitia haverne, si conduce
a darli uno o dui colpi de la spada.
Estima poi che un spirto esser quel debbia;
che gli par di ferir sopra la nebbia.
9
Allhor sentì parlar con voce mesta:
– Deh, senza fare altrui danno, giù cala!
Pur troppo il negro fumo mi molesta,
che dal fuoco infernal qui tutto exhala. –
Il Duca stupefatto allhor se arresta,
e dice all’ombra: – Se Dio tronchi ogni ala
al fumo, sì ch’a te più non ascenda,
non te dispiaccia ch’el tuo stato intenda.
10
E se vuoi che di te porti novella
nel mondo su, per satisfarti sono. –
Rispose il spirto: – In la luce alma e bella
tornar per fama anchor sì mi par buono,
che le parole è forza che mi svella
il gran disir c’ho d’haver poi tal dono,
e ch’el mio nome e l’esser mio ti dica,
ben che mi sia il parlar noia e fatica. –
11
E cominciò: – Signor, Lydia sono io,
del Re di Lydia in grande altezza nata,
qui dal giudicio altissimo di Dio
al fumo eternamente condennata,
per esser stata al fido amante mio,
mentre io vissi, spiacevole et ingrata.
D’altre infinite è questa grotta piena,
poste per simil fallo in simil pena.
12
Sta la cruda Anaxarete più al basso,
dove è maggior il fumo e più martìre:
restò converso al mondo il corpo in sasso
e l’anima qua giù venne a patire,
poi che per lei veder l’afflitto e lasso
suo amante impeso puòte sofferire.
Qui presso è Daphne, c’hor s’avede quanto
errasse a fare Apollo correr tanto.
13
Lungo serìa se l’infelici spirti
de le femine ingrate che qui stanno
volesse ad uno ad uno riferirti;
che tanti son, che in infinito vanno.
Più lungo anchor serìa li huomini dirti
a cui l’essere ingrato ha fatto danno,
e che puniti sono in peggior luoco,
dove il fumo li accieca, e cuoce il fuoco.
14
Perché più al creder son facil le donne,
ch’inganna lor, di più supplicio è degno;
Theseo col figlio il sa, sallo Iasonne
col grande occupator del Latin regno,
e quel che contra sé il frate Assalonne
per Tamar trasse a sanguinoso sdegno,
et altri et altre; che sono infiniti
che lasciato han chi moglie e chi mariti.
15
Ma per narrar di me, più che d’altrui,
e palesar l’error che qui mi trasse,
bella, ma altiera più, sì in vita fui,
che non so s’altra mai mi s’uguagliasse;
né ti saprei ben dir qual de li dui,
l’orgoglio o la beltade, in me avanzasse,
quantunque il fasto e l’alterezza nacque
da la beltà ch’a tutti li occhi piacque.
16
Era in quel tempo in Thracia un cavalliero
estimato il miglior del mondo in arme,
il qual da più d’un testimonio vero
di singular beltà sentì lodarme;
tal che spontaneamente fe’ pensiero
di volere il suo amor tutto donarme,
stimando meritar per suo valore
che caro haver di lui devessi il core.
17
In Lydia venne; e d’un laccio più forte
vinto restò, poi che veduta m’hebbe.
Con li altri cavallier se messe in corte
del padre mio, dove in gran fama crebbe:
l’alto valor, e le più d’una sorte
prodezze che mostrò, lungo serebbe
a raccontarti, e il suo merto infinito,
quando egli havesse a più grato huom servito.
18
Pamphylia e Caria e il regno de’ Cilici
per opra di costui mio padre vinse;
che l’exercito suo contra i nemici,
se non quanto costui volea, mai spinse.
Costui, poi che gli parve i benefici
suoi meritarlo, un dì col Re si strinse
a dimandarli, in premio de le spoglie
tante arrecate, ch’io fussi sua moglie.
19
Fu repulso dal Re, ch’in un gran stato
maritar disegnava la figliuola,
non a costui, che cavallier privato
altro non tien che la virtude sola:
el padre mio, troppo al guadagno dato
e all’avaritia, d’ogni vitio schola,
tanto apprezza costumi, o virtù ammira,
quanto l’asino fa il suon de la lira.
20
Alceste, il cavallier di ch’io ti parlo
(che così nome havea), poi che si vede
repulso da chi più gratificarlo
era più debitor, combiato chiede;
e lo minaccia, nel partir, di farlo
pentir che la figliuola non gli diede.
Se n’andò al Re d’Armenia, emulo antico
del Re di Lydia e capital nemico;
21
e tanto stimulò, che lo dispose
a pigliar l’arme e far guerra a mio padre.
Esso per l’opre sue chiare e famose
fu fatto capitan di quelle squadre.
Pel Re d’Armenia tutte l’altre cose
disse che acquisteria: sol le liggiadre
e belle membra mie volea per frutto
de l’opra sua, vinto che havesse il tutto.
22
Io non ti potria exprimere il gran danno
che Alceste al padre mio fa in quella guerra:
quattro exerciti roppe, e in men d’un anno
lo mena a tal, che non gli lascia terra
fuor ch’un castel ch’alte pendici fanno
fortissimo; e là dentro il Re si serra
con la famiglia che più gli era accetta,
e col thesor che trar vi puote in fretta.
23
Quivi assedionne Alceste; et in non molto
termine a tal desperation ne trasse,
che per buon patto havria mio padre tolto
che moglie, e serva anchor, me gli lasciasse
con la metà del regno, s’indi assolto
restar d’ogni altro danno si sperasse:
vedersi in breve de l’avanzo privo
era ben certo, e poi morir captivo.
24
Tentar, prima che accada, se dispone
ogni rimedio che possibil sia;
e me, che d’ogni male ero cagione,
fuor de la ròcca, ove era Alceste invia.
Io vo ad Alceste con intentïone
di dargli in preda la persona mia,
e pregar che la parte che vuol tolga
del Regno nostro, e l’ira in pace volga.
25
Come ode Alceste ch’io vo a ritrovarlo,
mi venne incontra pallido e tremante:
di vinto e di prigione, a riguardarlo,
più che di vincitore, havea sembiante.
Io che connosco ch’arde, non gli parlo
sì come havea già designato inante:
vista l’occasïon, fo pensier nuovo
convenïente al grado in ch’io lo truovo.
26
A maledir comincio l’amor d’esso
e di sua crudeltà troppo a dolermi,
ch’iniquamente habbia mio padre oppresso
e che per forza habbia cercato havermi;
che con più gratia gli serìa successo
indi a non molti dì, se tener fermi
saputo havesse i modi cominciati,
ch’al Re et a tutti noi sì furon grati.
27
E se ben da principio il padre mio
gli havea negata la dimanda honesta
(perhò che di natura è un poco rio,
né mai si piega alla prima richiesta),
farsi per ciò di ben servir restio
non deveva egli, e haver l’ira sì presta;
anzi, ognhor meglio oprando, tener certo
venire in breve al dimandato merto.
28
E quando anchora il padre mio ritroso
stato gli fosse, io sì l’havrei pregato,
ch’ottenuto il mio amante havrei per sposo.
Pur, se veduto io l’havessi ostinato,
havrei così operato di nascoso
che di me Alceste si saria lodato.
Ma poi che a lui tentar parve altro modo,
io di mai non l’amar fisso havea il chiodo.
29
E se ben ero a lui venuta, mossa
da la pietà ch’al mio padre portava,
sia certo che non molto fruir possa
il piacer che al dispetto mio gli dava;
ch’ero per far di me la terra rossa,
tosto ch’io havessi alla sua voglia prava
con questa mia persona satisfatto
di quel che tutto a forza serìa fatto.
30
Queste parole e simili altre usai,
poi ch’el poter c’havea sopra esso intesi;
e il più pentito e più gramo huom che mai
vivesse al mondo subito lo resi.
Mi cadde a’ piedi, e supplicommi assai
che i portamenti suoi poco cortesi
vendicassi uccidendolo; e in man diemmi
la spada, e offerta del suo petto femmi.
31
Io designai, poi che così trovallo,
la gran vittoria sino al fin seguire:
ch’anchor m’havria per moglie confortallo
e lungamente me potria fruire,
se facesse, in emenda del suo fallo,
el regno al padre mio restituire,
per l’avenir cercando d’acquistarme
servendo e amando, e non mai più per arme.
32
Così far mi promesse, e ne la ròcca
intatta mi mandò come a lui venni,
né di baciarmi pur s’ardì la bocca:
vedi s’al collo il giogo ben gli tenni;
vedi se ben Amor per me lo tocca,
se convien che per lui più strali impenni.
Al Re d’Armenia andò, di cui devea
esser per patto ciò che si prendea:
33
e con quel miglior modo ch’usar puòte,
lo supplicò che sue terre lasciasse
al padre mio, già depredate e vuote,
et a godersi Armenia si tornasse.
Quel Re d’ira infiammò li occhi e le guote,
e disse al Cavallier che si levasse
di tal pensier; che non torria la guerra
fin che mio padre havea spanna di terra;
34
e s’Alceste mutato alle parole
d’una femina s’era, habbiasi il danno:
già a’ prieghi esso di lui perder non vuole
quel ch’a fatica ha preso in tutto un anno.
Di nuovo Alceste il priega, e poi si duole
che sieco effetto i prieghi suoi non fanno:
all’ultimo s’adira, e lo minaccia
che vuol, per forza o per amor, lo faccia.
35
L’ira multiplicò sì, che li spinse
da le male parole a’ peggior fatti.
Alceste contra il Re la spada strinse,
e fra mille guerrier che s’eran tratti
per aiutar (mal grado lor) l’extinse;
e quel dì anchor li Armeni hebbe disfatti,
havendo aiuto da Cilici e Thraci
che pagava esso, e d’altri suoi seguaci.
36
Seguitò la vittoria, e in men d’un mese,
senza dispendio alcun del padre mio,
ciò che tolto gli havea non pur gli rese,
ma più che non gli fu dannoso e rio,
essergli vòlse utile e buono, e prese
in parte, e gravò in parte a grave fio
Armenia e Capadocia che confina,
e scórse Hyrcania fin su la marina.
37
In luoco di triompho, al suo ritorno,
facemmo noi pensier dargli la morte.
Restammo poi, per non ricever scorno;
che lo veggiàn troppo d’amici forte.
Fingo d’amarlo, e più di giorno in giorno
gli do speranza d’essergli consorte;
ma prima contra altri nemici nostri
dico voler che sua virtù dimostri.
38
E quando sol, quando con poca gente
lo mando a strane imprese e perigliose,
da farne morir mille agevolmente:
ma lui successer ben tutte le cose;
che tornò con vittoria, e fu sovente
con horribil persone e monstrüose
di Giganti a battaglia e Lestrigóni,
ch’erano infesti a nostre regïoni.
39
Non fu da Eurìsteo e da Iunon mai tanto
exercitato il travaglioso Alcide
in Lerna, in Nemea, in Thracia, in Erimanto,
e in le valli d’Etholia e in le Numìde,
sul Tevre, su l’Hybero e altrove, quanto
con prieghi finti e con voglie homicide
exercitato fu da me il mio amante,
cercando io pur di tôrlomi dinante.
40
Né potendo venire al primo intento,
vengone ad un di non minore effetto;
ch’io lo fo ingiurïar quelli ch’io sento
che per lui sono, e a tutti in odio il metto.
Egli, che non sentia maggior contento
che d’ubedirmi, senza alcun rispetto
havea le mani alli miei cenni pronte,
senza guardare un più d’un altro in fronte.
41
Poi che mi fu, per questo mezo, aviso
spento haver del mio padre ogni nemico,
e per lui stesso Alceste haver conquiso,
che non s’havea, per noi, lasciato amico;
quel ch’io gli havea con simulato viso
celato sino allhor, chiaro gli explìco:
che grave e capitale odio gli porto,
e in pensier fui d’oprar che fusse morto.
42
Considerando poi, s’io lo facessi,
che in publica ignominia ne verrei
(sapeasi troppo quanto io gli devessi,
e crudel detta sempre ne sarei),
mi parve fare assai ch’io gli togliessi
di mai venir più nanzi a gli occhi miei:
né veder né parlar mai più gli vòlsi,
né messo udi’, né lettera ne tolsi.
43
Questa mia ingratitudine gli diede
tanto martìr, ch’al fin dal dolor vinto,
e dopo un lungo dimandar mercede,
infermo cadde, e ne rimase extinto.
Per pena ch’al fallir mio si richiede,
hor li occhi ho lachrymosi, e il viso tinto
del negro fumo: e così havrò in eterno;
che nulla redentione è ne l’inferno. –
44
Poi che non parla più Lydia infelice,
va il Duca per saper s’altri vi stanzi:
ma la caligine alta, ch’era ultrice
de l’opre ingrate, sì gl’ingrossa inanzi,
che gir un palmo sol più non gli lice;
anzi a forza tornar gli conviene, anzi,
perché dal fumo non gli sia intercetta
la vita, i passi acelerar con fretta.
45
Il mutar spesso de le piante ha vista
di corso, e non di chi passeggia o trotta.
Tanto, salendo inverso l’erta, acquista,
che vede dove aperta era la grotta,
e l’aria, già caliginosa e trista,
dal lume cominciava ad esser rotta.
Al fin con molto affanno e grave ambascia
esce de l’antro, e dietro el fumo lascia.
46
E perché del tornar la via sia tronca
a quelle bestie c’han sì ingorde l’epe,
raguna sassi, e molti arbori tronca,
che quivi in copia eran d’amomo e pepe;
e come può, dinanzi alla spelonca
fabrica di sua man quasi una siepe:
e gli succede così ben quell’opra,
che più l’Harpie non ne verran di sopra.
47
El negro fumo de la scura pece,
mentre fu Astolfo in la caverna tetra,
di brutta macchia per tutto l’infece,
che sotto i panni e l’arme gli penètra;
sì che per ritrovar acqua gli fece
errare un pezzo; e al fin fuor d’una pietra
vide una fonte uscir ne la foresta,
e in quella si lavò dal piè alla testa.
48
Poi monta il volatore, e in aria s’alza
per giunger di quel monte in su la cima,
che non lontan con la superna balza
dal cerchio de la Luna esser si stima.
Tanto è il desir che del veder l’incalza,
ch’al cielo aspira, e la terra non stima:
de l’aria più, e più sempre, guadagna,
tanto ch’al giogo fu de la montagna.
49
Zaphir, robini, oro, topati e perle,
e diamanti e chrysoliti e hiacynthi
potriano i fiori assimigliar, che per le
liete piaggie v’havea l’aura depinti:
sì verdi l’herbe, che possendo haverle
a par, ne fôran li smeraldi vinti;
né men belle de li arbori le frondi,
che son di frutti e fior sempre fecondi.
50
Cantan fra i rami li augelletti vaghi
azurri e bianchi e verdi e rossi e gialli.
Murmuranti ruscelli e cheti laghi
di limpidezza vincono i crystalli.
Una dolce aura, che ti par che vaghi
a un modo sempre e dal suo stil non falli,
sì facea l’aria tremolar d’intorno
che non potea noiar calor del giorno:
51
e quella a i fiori, a i pomi e alla verdura
li odor diversi depredando giva,
e di tutti faceva una mistura
che di suavità l’alma notriva.
Surgea nel mezo la bella pianura
uno edificio, che di fiamma viva
esser parea: tanto splendore e lume
raggiava intorno, fuor d’ogni costume.
52
Verso il splendor del mirabil palagio,
che più di trenta miglia il spatio aggira,
Astolfo il suo caval move più ad agio,
e quinci e quindi il bel paese ammira;
e giudica, apo quel, brutto e malvagio,
e che sia al cielo et a natura in ira
questo che habitiàn noi fetido mondo:
tanto è suave quel, chiaro e giocondo.
53
Come fu presso a i luminosi tetti,
attonito restò di maraviglia;
che d’una gemma erano i muri schietti,
più ch’el piropo lucida e vermiglia.
O stupenda opra, o dedali architetti!
Qual fabrica tra noi le rassimiglia?
Taccia qualunque le mirabil sette
moli del mondo in tanta gloria mette.
54
Nel splendido vestibulo di quella
felice casa un vecchio al Duca occorre,
che di purpura ha il manto, e la gonnella
candida sì, che si può al latte opporre.
I crini ha bianchi, e bianca la mascella
di folta barba ch’al petto discorre;
et è sì venerabile nel viso,
ch’un de li eletti par del paradiso.
55
Costui con lieta faccia al Paladino,
che riverente era d’arcion disceso,
disse: – O baron, che per voler divino
sei nel terrestre paradiso asceso;
come che né la causa del camino,
né il fin del tuo desir da te sia inteso,
pur credi che non senza alto mystero
venuto sei da l’Artico hemispero.
56
Per imparar come soccorrer déi
Carlo, e la santa fé tôr di periglio,
venuto meco a consigliar ti sei
per così lunga via, senza consiglio.
Né a tuo saper, né a tua virtù vorrei
che esser qui giunto attribuissi, o figlio;
che né il tuo corno, né il cavallo alato
ti valea, se da Dio non t’era dato.
57
Ragionarem più ad agio insieme poi
di questa impresa, e come a regger t’hai:
ma prima vienti a reficiar con noi;
ch’el digiun lungo de’ noiarti hormai. –
Continuando il Vecchio i detti suoi,
fece maravigliar il Duca assai;
che del suo nome levò tutto il velo,
come era il gran scrittor del Evangelo,
58
quel tanto al Redentor caro Giovanni,
per cui ’l sermon tra li fratelli uscìo
che per morte finir non devea li anni;
sì che fu causa ch’el figliuol di Dio
disse: – Ché per costui, Pietro, t’affanni,
s’io vuo’ che così aspetti el venir mio? –
Ben che non disse: egli non de’ morire,
si vede pur che così vòlse dire.
59
Quivi fu assunto, e trovò compagnia,
che prima Enòch, il patrïarcha, v’era;
eravi insieme il gran propheta Helya,
che non han visto anchor l’ultima sera;
e fuor de l’aria pestilente e ria
si goderan l’eterna primavera,
sin che dian segno l’angeliche tube
che torni Christo in la celeste nube.
60
Fêro grata accoglienza al Cavalliero
li humanissimi santi, e in una stanza
gli trasser l’armi, e d’esca al suo destriero
feron provisïon, che fu a bastanza.
De frutta a lui del paradiso diero
di tal sapor, che a suo giudicio, sanza
scusa non sono li primi parenti
se fur per quelle poco ubidïenti.
61
Poi ch’a natura il Duca aventuroso
satisfece di quel che se le debbe,
come col cibo, così col riposo,
che tutti e tutti i commodi quivi hebbe;
lasciando già l’Aurora il Vecchio sposo,
ch’anchor per lunga età mai non le increbbe,
si vide incontra nel uscir del letto
il discipul da Dio tanto diletto;
62
che lo prese per mano, e seco scórse
di molte cose di silentio degne;
e poi disse: – Figliuol, tu non sai forse
ch’in Francia accada, anchor che tu ne vegne.
Sappi che ’l vostro Orlando, perché torse
dal camin dritto le commisse insegne,
è punito da Dio, che più s’accende
contra chi egli ama più, quando s’offende.
63
Il vostro Orlando, a cui nascendo diede
summa possanza Dio con summo ardire
et fuor del human uso gli concede
che ferro alcun non lo può mai ferire;
perché a difesa di sua santa fede
così voluto l’ha constituire,
come Sanson incontra a’ Philistei
constituì a difesa de li Hebrei:
64
il vostro Orlando al suo signore ha reso
de tanti benefici iniquo merto,
che quanto più deveva esser difeso
il popul suo da lui, più l’ha deserto;
e tanto s’è d’una Pagana acceso,
che per amor di quella ha già sofferto
due volte e più venir empio e crudele
per dar la morte al suo cugin fedele.
65
E Dio per questo fa che egli va folle,
e mostra nudo il ventre e il petto e il fianco,
et l’intelletto sì gli offusca e tolle,
che non può altrui connoscere, e sé manco.
A questa guisa se legge che volle
Nabuccodonosor Dio punir ancho,
che sette anni il mandò di furor pieno,
sì che, qual bue, pasceva l’herba e il fieno.
66
Ma perché assai minor del Paladino,
che di Nabucco, è stato pur l’excesso,
sol di tre mesi dal voler divino
a purgar questo error termine è messo.
Né ad altro effetto per tanto camino
salir qua su t’ha il Redentor concesso,
se non perché da noi modo tu apprenda
come ad Orlando il suo senno si renda.
67
È ver che ti bisogna altro vïaggio
far meco, e tutta abbandonar la terra.
Nel cerchio de la Luna a menar t’haggio,
che de i pianeti a noi più prossima erra,
perché la medicina che può saggio
rendere Orlando, là dentro si serra.
Come la Luna questa notte sia
sopra noi giunta, si porremo in via. –
68
Di questo e d’altre cose fu diffuso
il parlar de l’Apostolo quel giorno.
Ma poi ch’el Sol nel mar si fu rinchiuso
e sopra lor levò la Luna el corno,
un carro apparecchiòsi, che era ad uso
di quei santi, e scorrean con quello intorno
tutti li cieli; e quel già in la Giudea
da’ mortali occhi Helya levato havea.
69
Quattro destrier vie più che fiamma rossi
al giogo il santo Evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e presto in mezo il fuoco eterno giunse;
ch’el Vecchio fe’ miracolosamente
che, intanto che passò, non gli fu ardente.
70
Vargaron tutta la spera del fuoco,
poi furon presto al regno de la Luna.
Per la più parte tutto era quel luoco
come uno acciar che non ha macchia alcuna;
parea di vetro in altra parte; e poco
era minor di ciò che se raguna
dentro da l’aria, e insieme con la terra
vi metto il mar che la circonda e serra.
71
Quivi hebbe Astolfo doppia maraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
che al spatio di tre palmi rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e che aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e il mar che intorno spande
discerner vuol; che non havendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.
72
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi e li castelli suoi,
con case che non vide le più magne
il Paladin né prima né da poi:
e vi sono ampie e solitarie selve
dove le nymphe ognhor cacciano belve.
73
Né stette il Duca a ricercare il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Dal Apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne astretto,
dove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di Tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
74
Né di ricchezze o regni sol vi parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tôrre e darlo
non ha Fortuna, intender voglio anchora.
Molta Fama è là su, che come Tarlo
el Tempo al lungo andar qua giù divora;
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da li peccatori a Dio si fanno.
75
Li suspiri e le lachryme de amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco
e l’otio lungo d’huomini ignoranti,
vani disegni che non han mai luoco,
li vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombrano quel luoco:
in summa, ciò che mai qua giù si perse
si truova là, ma in forme altre e diverse.
76
Passando il Paladin per quelle biche,
hor di questo hor di quel chiede a la guida.
Vede un monte di tumide vesiche,
che dentro suona di tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
d’Assyri e Medi, e de la terra Lyda
e de’ Persi e de’ Greci, che già furo
inclyti al mondo, hor quasi il nome è oscuro.
77
Hami d’oro e d’argento appresso vede
in una massa, che erano li doni
che si fan con speranza di mercede
alli Re, alli signori e alli patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
et ode che son tutte adulationi.
Di cicale scoppiate imagini hanno
versi ch’in laude altrui spesso si fanno.
78
Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori.
V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
le authorità ch’a’ suoi dànno i signori.
Li mantici ch’intorno han pieni i greppi,
d’alcun principe son fumi e favori
che dà a’ creati e Ganymedi suoi,
che se ne van col fior de li anni poi.
79
Ruine de cittadi e de castella
stavan con gran thesor quivi sossopra:
dimanda, e sa che son trattati, e quella
congiuration che par che mal si copra.
Vide serpi con faccia di donzella,
che di latroni e monetieri era opra;
poi vide boccie rotte di più sorti,
ch’era il servir de le misere corti.
80
Di versate minestre una gran massa
vede, e dimanda al suo Dottor ch’importe.
– L’elimosyna è (disse) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. –
Ad un monte di rose e gigli passa,
c’hebbe già buono odore, hor putia forte,
ch’era corrotto; e da Giovanni intese
che fu un gran don ch’un gran signor mal spese.
81
Vide gran copia di panie con visco,
che erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo serà se tutte in versi ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille i’ non finisco,
e vi son tutte l’accidentie nostre:
sol la Pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.
82
Quivi assai giorni et assai fatti sui
Astolfo riconnobbe, che già perse;
che se non era interprete con lui,
non li scernea, c’havean forme diverse.
Poi giunse a quel che par sì haverlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non fêrse:
io dico il senno, e n’era quivi un monte,
solo assai più che l’altre cose conte.
83
Era come un liquor suttile e molle,
atto exhalar se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più qual men capaci, atte a quel uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre connosciuta, quando
di fuora scritto havea: Senno d’Orlando.
84
E così tutte l’altre havean scritto ancho
il nome di color di chi fu el senno.
Del suo gran parte vide il Duca franco;
ma molto più maravigliare il fenno
molti, ch’egli credea che dramma manco
non devessero haverne, e quivi dénno
chiara notitia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel luoco.
85
Altri in amar lo perse, altri in honori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri drieto alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
et altri in altro che più d’altro prezze.
De sophisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti anchor, ve n’era molto.
86
Astolfo tolse il suo; che gli ’l concesse
il scrittor de l’oscura Apocalysse.
L’ampolla in che era al naso sol si messe:
e par che quello al luoco suo ne gisse,
e che Turpin da indi in qua confesse
che Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma che uno error che fece poi fu quello
che un’altra volta gli levò il cervello.
87
La più capace e piena ampolla, ove era
il senno che solea far savio il Conte,
Astolfo tolle; e non è sì liggiera,
come stimò, sendo con l’altre a monte.
Prima ch’el Paladin da quella spera
piena di luce alle più basse smonte,
menato fu da l’Apostolo santo
in un palagio ove era un fiume a canto;
88
ch’ogni sua stanza havea piena di velli
di cottone, di lin, di seta e lana,
tratti in varii colori e brutti e belli.
Nel primo chiostro una femina cana
fila a un tempo trahea da tutti quelli
ch’erano quivi ad una naspe istrana,
come la seta da l’humide spoglie
de’ bachi suttilmente si raccoglie.
89
E come i velli si venian finendo,
v’era chi ’n copia ne portava altronde:
un’altra de le filze iva scernendo
il bel dal brutto, che quella confonde.
– Che lavor si fa qui, ch’io non l’intendo? –
dice a Giovanni Astolfo; e quel risponde:
– Le vecchie son le Parche, che con tali
stami filano vite a voi mortali.
90
Quanto dura un de’ velli, tanto dura
l’humana vita, e non di più momento.
Qui tien l’occhio e la Morte e la Natura
per saper l’hora ch’un debbia esser spento.
Sceglier le belle fila ha l’altra cura,
perché si tesson poi per ornamento
del paradiso; e de li brutti stami
si fan per li dannati aspri legami. –
91
Di tutti i velli ch’erano già messi
in naspa, e scelti a farne altro lavoro,
in brevi piastre haveano i nomi impressi,
di rame e ferro e stagno e argento e d’oro;
e poi fatti ne son cumuli spessi,
de’ quali, senza mai far lor ristoro,
portarne via non si vedea mai stanco
un vecchio, e ritornar sempre per ancho.
92
Era quel vecchio sì expedito e snello,
che per correr parea che fusse nato;
e da quel monte il lembo del mantello
portava pien del nome altrui segnato.
Dove n’andava, e perché facea quello,
ne l’altro canto vi serà narrato,
se d’haverne piacer segno farete
con quella grata udienza che solete.

CANTO TRIGESIMOSECONDO

1
Chi salirà per me, madonna, in cielo
a riportarne il mio perduto ingegno?
che poi che uscì da’ bei vostri occhi il telo
ch’el cor mi fisse, ognhor perdendo vegno.
Né di tanta iattura mi querelo,
pur che non cresca e stiase a questo segno;
ma dubito, se più se va scemando,
ch’io venirò come ho descritto Orlando.
2
Per rïhaver l’ingegno mio mi è aviso
che non bisogna che per l’aria io poggi
nel cerchio de la Luna o in paradiso;
ch’el mio non credo che tanto alto alloggi:
ne’ bei vostri occhi e nel sereno viso,
nel sen d’avorio e alabastrini poggi
se ne va errando; et io con queste labbia
lo raccôrrò, se par a voi ch’io l’habbia.
3
Per l’ampli tetti andava il Paladino
tutte mirando le future vite,
poi c’hebbe visto sul fatal molino
volgersi quelle ch’erano già ordite:
e scorse un vello che più che d’or fino
splender parea; né sarian gemme trite,
s’in filo si tirassero con arte,
da comparargli alla millesma parte.
4
Mirabilmente il bel vello gli piacque,
che tra infiniti paragon non hebbe;
e di sapere alto disio gli nacque
quando serà tal vita, e a chi si debbe.
L’Evangelista nulla gli ne tacque:
che principio venti anni prima havrebbe
che col .M. e col .D. fusse notato
l’anno corrente dal Verbo incarnato.
5
E come di splendore e di beltade
quel vello non havea simile o pare,
così serìa la fortunata etade
che devea uscirne al mondo singulare;
perché tutte le gratie inclyte e rade
ch’alma Natura o proprio studio dare,
o benigna Fortuna, ad huom mai puote,
havrà in perpetua e infallibil dote.
6
– Del Re de’ fiumi tra l’altiere corna
hor siede humìl (diceagli) e piccol borgo:
dinanzi il Po, dirietro gli soggiorna
d’alta palude un nebuloso gorgo,
che, volgendosi li anni, la più adorna
di tutte le città d’Italia scorgo,
non pur di mura, vie, di tetti regi,
ma d’arti, studi e di costumi egregi.
7
Tanta exaltatïone, e così presta,
non fortuìta o di aventura casca;
ma l’ha ordinata il ciel, perché sia questa
degna in che l’huom di ch’io ti parlo nasca:
che, dove il frutto ha da venir, s’innesta
e con studio si fa crescer la frasca;
e l’artefice l’oro affinar suole
in che legar gemma di pregio vuole.
8
Né sì liggiadra né sì bella veste
unque hebbe altr’alma in quel terrestre regno;
e raro è sceso e scenderà da queste
spere superne un spirito sì degno,
come per farne Hippolyto da Este
ne sta in l’eterna mente alto disegno:
Hippolyto da Este serà detto
l’huomo a chi Dio sì ricco dono ha eletto.
9
Quelli ornamenti, che divisi in molti,
a molti basterian per tutti ornarli,
in suo ornamento havrà tutti raccolti
costui di c’hai voluto ch’io ti parli.
Le virtudi per lui, per lui soffolti
seranno i studi; e s’io vorrò narrar li
meriti suoi, sì son dal fin lontano,
ch’Orlando il senno aspettarebbe invano. –
10
Così venìa l’imitator di Christo
ragionando col Duca; e poi che tutte
le stanze del gran luoco hebbeno visto,
onde l’humane vite eran condutte,
sul fiume usciro, che d’arena misto
con l’onde discorrea turbide e brutte;
e vi trovâr quel Vecchio in su la riva,
che con l’impressi nomi vi veniva.
11
Non so se vi sia a mente, io dico quello
che al fin de l’altro canto vi lasciai,
Vecchio di faccia, e sì di membra snello,
che d’ogni cervo è più veloce assai.
De li altrui nomi egli s’empìa el mantello;
scemava il monte, e non finiva mai:
et in quel fiume che Lethe si noma
scarcava, anzi perdea la ricca soma.
12
Dico che, come arriva in su la sponda
del fiume, quel prodigo Vecchio scuote
il lembo pieno, e ne la turbida onda
tutte lascia cader l’impresse note:
un numer senza fin se ne profonda,
ch’un minimo uso haver non se ne pote;
e di cento migliaia che in l’arena
el fondo involve, un se ne serva a pena.
13
Lungo e d’intorno quel fiume volando
givano corvi et avidi avoltori,
mulacchie e varii augelli, che gridando
facean discordi strepiti e romori;
et alla preda correan tutti, quando
sparger vedean li amplissimi thesori:
e chi nel becco e chi ne l’ugna torta
ne prende; ma lontan poco li porta.
14
Come vogliono alzar per l’aria i voli,
non han poi forza ch’el peso sostegna;
sì che convien che Lethe pur involi
de’ ricchi nomi la memoria degna.
Fra tanti augelli son dui Cygni soli,
bianchi, Signor, come è la vostra insegna,
che vengon lieti riportando in bocca
sicuramente il nome che lor tocca.
15
Così contra i pensieri empi e maligni
del Vecchio che donar li vorria al fiume,
alcun’ ne salvan li augelli benigni:
tutto l’avanzo oblivïon consume.
Hor se ne van nuotando i sacri Cygni,
et hor per l’aria battendo le piume,
sin che presso alla ripa del fiume empio
trovano un colle, e sopra il colle un tempio.
16
Alla Immortalitade il luoco è sacro,
dove una bella nympha giù del colle
viene alla ripa del letheo lavacro,
e di bocca de’ Cygni i nomi tolle;
e quelli affige intorno al simulacro
che in mezo al tempio una colonna extolle:
quivi li sacra, e ne fa tal governo
che vi si puon veder tutti in eterno.
17
Chi sia quel Vecchio, e perché tutti al rio
senza alcun frutto i bei nomi dispensi,
e de li augelli, e di quel luoco pio
onde la bella nympha al fiume viensi,
haveva Astolfo di saper disio
li gran mysteri e l’incogniti sensi;
e dimandò di tutte queste cose
l’huomo di Dio, che così gli rispose:
18
– Tu déi saper che non se muove fronda
lagiù, che segno qui non se ne faccia:
ogni effetto convien che corrisponda
in terra e in ciel, ma con diversa faccia.
Quel Vecchio, la cui barba il petto inonda,
veloce sì che mai nulla l’impaccia,
li effetti pari e la medesima opra
ch’el Tempo fa lagiù, fa qui di sopra.
19
Volte che son le fila in su la ruota,
lagiù la vita humana arriva al fine.
La fama là, qui ne riman la nota;
ch’immortali seriano ambe e divine,
se non che qui quel da la hirsuta guota,
e lagiù il Tempo, ognhor ne fa rapine:
questo le getta, come vedi, al rio;
e quel l’immerge nel eterno oblio.
20
Come qua su li corvi e li avoltori
e le mulacchie e li altri varii augelli
s’affaticano tutti per trar fuori
de l’acqua i nomi che veggion più belli:
così lagiù ruffiani, adulatori,
buffon, cinedi, accusatori, e quelli
che viveno alle corti e che vi sono
più grati assai ch’el virtüoso e il buono,
21
e son chiamati cortigian gentili,
perché sanno imitar l’asino e ’l ciacco;
de’ lor signor, tratto che n’ha li fili
la giusta Parca, anzi Venere e Baccho,
questi di ch’io ti dico, inerti e vili,
nati solo ad impir de cibo il sacco,
portano in bocca qualche giorno il nome;
poi ne l’oblio lascian cader le some.
22
Ma come i Cygni che cantando lieti
rendeno salve le medaglie al tempio,
così li signor degni da’ poeti
son tolti del oblio, più che morte empio.
Oh bene accorti principi e discreti,
che seguite di Cesare l’exempio
facendovi i scrittori amici, donde
non havete a temer di Lethe l’onde!
23
Son rari i Cygni, e li poeti rari,
poeti che non sian del nome indegni:
sì perché il ciel de li huomini preclari
non pate mai che troppa copia regni,
sì per gran colpa de’ signori avari
che lascian mendicare i sacri ingegni;
e virtù deprimendo, et exaltando
li vitii, caccian le buone arti in bando.
24
Credi che Dio questi ignoranti ha privi
de lo ’ntelletto, e lor offusca i lumi;
che de la poesia li ha fatto schivi,
acciò che Morte il tutto ne consumi.
Oltra che del sepolchro uscirian vivi
anchor che havesser tutti i rei costumi,
pur che sapesson farsi amica Cyrrha,
più grato odore havrian che nardo o myrrha.
25
Non sì pietoso Enea, né forte Achille
fu, come è fama, né sì fiero Hettorre;
e ne son stati e mille e mille e mille
che lor si pôn con verità anteporre:
ma li ampli doni de palazzi e ville
de li nepoti suoi li ha fatto porre
in questi senza fin sublimi honori
da l’honorate penne de’ scrittori.
26
Non fu sì santo e sì benigno Augusto
come la tuba di Virgilio suona:
l’haver havuto in poesia bon gusto
la proscrittion iniqua gli perdona.
Nessun sapria se Neron fusse ingiusto,
né serìa forse sua fama men buona,
havesse havuto e terra e ciel nemici,
se li scrittor sapea tenerse amici.
27
Homero Agamemnón vittorïoso
fece parere, e li Troiani inerti;
e che Penelopea fida al suo sposo
da i Prochi mille oltraggi havea sofferti.
E se tu vuoi ch’el ver non ti sia ascoso,
tutta al contrario l’historia converti:
che i Greci rotti, e fu Troia vittrice,
e che Penelopea fu meretrice.
28
Da l’altra parte odi che fama lascia
Phoenissa, c’hebbe il cor tanto pudico;
che reputata viene una bagascia
solo perché Maron non le fu amico.
Non ti maravigliar ch’io n’habbia ambascia
e se di ciò diffusamente i’ dico:
li scrittori amo, e fo ’l debito mio;
ch’al vostro mondo fui scrittor ancho io.
29
E sopra tutti li altri io feci acquisto
che non mi può levar tempo né morte:
e ben convenne al mio lodato Christo
rendermi guidardon di sì gran sorte.
Duolmi di quei che sono al tempo tristo,
quando la cortesia chiuse ha le porte;
che con pallido viso, asciutto e scarno,
la notte e il giorno vi picchiano indarno.
30
Sì che continuando il primo detto,
sono i poeti e i studïosi pochi;
che dove non han pasco né ricetto,
sino le fere abbandonano i luochi. –
Così dicendo, il Vecchio benedetto
li occhi infiammò, che parveno dui fuochi;
poi volto al Duca con un saggio riso
tornò sereno il conturbato viso.
31
Astolfo col scrittor del Evangelo
restisi hormai, ch’io voglio far un salto
quanto sia in terra a venir fin dal cielo;
ch’io non posso più star su l’ali in alto.
Torno alla Donna a cui con grave telo
mossa havea Gelosia crudele assalto;
io la lasciai da Montalbano scesa,
che di Parigi havea la strada presa.
32
Su l’arme era vestita d’un colore
che imitava la foglia che s’imbianca
quando del ramo è tolta, e che l’humore
che facea vivo l’arbore le manca.
Riccamata a tronconi era, di fuore,
di Cypresso che mai non se rifranca
poi che sentita ha la dura bipenne:
l’habito molto al suo dolor convenne.
33
Tolse il caval che Astolfo haver solea,
e quella lancia d’or, che sol toccando
cader di sella i cavallier facea.
Perché le la diè Astolfo, e dove e quando,
e da chi prima havuto egli l’havea,
non credo che bisogni ir replicando.
Ella la tolse, con intentïone
di far con essa il suo Ruggier prigione.
34
Fece pensiero in campo ire a trovarlo
de’ Saracini, che ancho si credea
che fusse intorno alla città di Carlo;
e chiamar quindi a giostra lo volea,
menar prigione, e a viva forza trarlo
a quel che per amor non lo potea;
e poi che tra camino hebbe scïenza
ove era il campo, andò verso Provenza.
35
Verso Provenza per la via più dritta
cavalcando, scontrosse una donzella,
anchor che fusse lachrymosa e afflitta,
bella di faccia e di maniere bella.
Questa era quella sì d’amor traffitta
per il figliuol di Monodante, quella
donna gentil che havea lasciato al ponte
l’amante suo prigion di Rodomonte.
36
E veniva cercando un cavalliero
ch’a far battaglia usato, come lontra,
in acqua e in terra fusse, e così fiero,
che lo potesse al Pagan poner contra.
La sconsolata amica di Ruggiero,
come quest’altra sconsolata scontra,
cortesemente la saluta, e poi
le chiede la cagion de’ dolor suoi.
37
Fiordiligi lei mira, e veder parle
un cavallier ch’al suo bisogno fia;
e comincia del ponte a ricontarle,
dove impedisce il Re d’Algier la via;
e ch’era stato appresso di levarle
l’amante suo: non che più forte sia,
ma sapea darsi il Saracino astuto
col stretto ponte e l’alto fiume aiuto.
38
– Se sei (dicea) sì ardito e sì cortese
come ben mostri l’uno e l’altro in vista,
vendicami, perdio, di chi me prese
il mio signor, e me fa gir sì trista;
o consigliami almeno in che paese
possa trovare un che a colui resista,
e sappia tanto d’arme e di battaglia,
ch’el fiume e il ponte al Pagan poco vaglia.
39
Oltra che tu farai quel che conviensi
a un huom cortese e a cavalliero errante,
in beneficio il tuo valor dispensi
del più fedel d’ogni fedele amante.
De l’altre sue virtù non appertiensi
a me narrar; che sono tante e tante,
che chi non n’ha notitia si può dire
che sia del veder privo e de l’udire. –
40
La magnanima donna, a cui fu grata
sempre ogni impresa che può farla degna
d’esser con laude e gloria nominata,
venir al ponte subito disegna:
et hora tanto più, ch’è disperata,
vien volentier, quando ancho a morir vegna;
che credendosi, misera! esser priva
del suo Ruggier, ha in odio d’esser viva.
41
– Per quel ch’io vaglio, giovane amorosa, –
rispose Bradamante, – io me offerisco
di far l’impresa dura e perigliosa,
per altre cause anchor, ch’io preterisco;
ma più che del tuo amante narri cosa
che narrar di pochi huomini avertisco:
che sia in amor fedel; che a fé ti giuro
che in ciò pensai che ognun fusse pergiuro. –
42
Con un suspir queste ultime parole
finì, con un suspir che uscì dal core;
poi disse: – Andiamo; – e nel seguente Sole
giunsero al fiume, al passo pien d’horrore.
Scoperte de la guardia che vi suole
farne segno col corno al suo signore,
il Pagan s’arma, e quale è il suo costume,
su al ponte s’appresenta in ripa al fiume;
43
e come vi compar quella guerriera,
di porla a morte subito minaccia,
quando de l’arme e del caval su ch’era
al gran sepolchro oblatïon non faccia.
Bradamante che sa l’historia vera,
come per lui morta Issabella giaccia,
che Fiordiligi detto le l’havea,
al Saracin superbo rispondea:
44
– Perché vuoi tu, bestial, che li innocenti
facciano penitentia del tuo fallo?
Del sangue tuo placar costei convienti:
tu la uccidesti, e tutto il mondo sallo.
Più di tutte l’altre arme e guarnimenti
di tanti che gettati hai da cavallo,
oblatïone e vittima havrà accetta
ch’io te le uccida inanzi in sua vendetta.
45
E di mia man le fia più grato il dono,
quanto, come ella fu, son donna anche io;
né qui venuta ad altro effetto sono
che a vendicarla, e questo sol disio.
Ma tra noi far prima alcun patto è buono,
ch’el tuo valor si compari col mio:
s’abbattuta serò, di me farai
quel che de li altri toi prigion fatto hai;
46
ma s’io te abbatto (come io credo e spero),
guadagnar voglio il tuo cavallo e l’armi,
e quelle offerir sole al cimitero,
e tutte l’altre distaccar da’ marmi;
e voglio che tu lasci ogni guerriero. –
Rispose Rodomonte: – Giusto parmi;
ma li prigion non posso darti adesso,
che non son più qui dentro né qui appresso.
47
Io li ho al mio regno in Aphrica mandati;
ma ti prometto, e ti do ben la fede,
che se me avien per casi inopinati
che tu stia in sella e ch’io rimanga a piede,
farò che seran tutti liberati
in tanto tempo, quanto si richiede
di dare a un messo ch’in fretta si mandi
a far quel che, s’io perdo, mi commandi.
48
Ma se a te tocca star di sotto, come
più si conviene, e certo so che fia,
non vuo’ che lasci l’arme, e ch’el tuo nome,
come di vinta, sottoscritto sia:
al tuo bel viso, a’ belli occhi, alle chiome,
che spiran tutti amore e liggiadria,
voglio donar la mia vittoria; e basti
che te disponi amarmi, ove me odiasti.
49
Io son di tal valor, son di tal nerbo,
che haver non déi d’andar di sotto a sdegno. –
Sorrise alquanto, ma d’un riso acerbo
che fece d’ira, più che d’altro, segno,
la Donna, né rispose a quel superbo;
ma tornò in capo al ponticel di legno,
spronò il cavallo, e con la lancia d’oro
venne a trovar quel orgoglioso Moro.
50
Rodomonte alla giostra s’apparecchia:
viene a gran corso; e tal strepito e suono
dal ponte s’ode, ch’intronar l’orecchia
a molti può, che assai lontan ne sono.
La lancia d’or fece l’usanza vecchia;
che quel Pagan, sì dianzi in giostra buono,
levò di sella, e in aria lo suspese,
indi sul ponte a capo in giù lo stese.
51
Nel trapassar ritrovò a pena luoco
dove intrar col caval quella guerriera;
e fu a gran risco, e ben le mancò poco,
che non andò del ponte in la rivera:
ma Rabican, che fu di vento e fuoco
concetto, così destro et agil era,
che nel margine estremo trovò strada;
e serebbe ito ancho su un fil di spada.
52
Ella si volta, e contra l’abbattuto
Pagan ritorna; e con liggiadro motto:
– Hor pòi (disse) veder c’habbia perduto,
et a chi tocchi di noi star di sotto. –
Di maraviglia il Pagan resta muto,
ch’una donna a cader l’habbia condotto;
e far risposta non puoté o non volle,
e fu come huom pien di stupore e folle.
53
Di terra se levò tacito e mesto;
e poi che andato fu quattro o sei passi,
el scudo e l’elmo, e de l’altre arme il resto
tutto si trasse, e gettò contra i sassi;
e solo e a piè si deleguò via presto:
non che commissïon prima non lassi
a un suo scudier, che vada a far l’effetto
de li prigion, secondo che fu detto.
54
Partissi; e d’esso poi nulla se intese,
se non che stava in una grotta scura.
Intanto Bradamante havea suspese
di costui l’arme all’alta sepultura,
e fattone levar tutto l’arnese
che de li cavallieri, alla scrittura,
connobbe de la corte esser di Carlo;
non levò il resto, e non lasciò levarlo.
55
Oltra quel del figliuol di Monodante,
fu quel di Sansonetto e d’Oliviero,
che per trovare il principe d’Anglante
quivi condusse il più dritto sentiero:
quivi fur presi, e furo il giorno inante
mandati via dal Saracino altiero.
Di questi l’arme fe’ la donna tôrre
da l’alta mole, e chiuder ne la torre.
56
Tutte l’altre lasciò pender da i sassi,
che fur spogliate a’ cavallier pagani.
V’eran l’arme d’un Re, di cui li passi
per Frontalatte mal fur spesi e vani:
l’arme dico del Re de li Circassi,
che dopo lungo errar per colli e piani
venne quivi a lasciar l’altro destriero;
e poi senza arme andarsene liggiero.
57
S’era partito disarmato e a piede
quel Re pagan dal periglioso ponte,
sì come li altri ch’eran di sua fede
partir da sé lasciava Rodomonte.
Ma di tornar più al campo non gli diede
el cor; ch’ivi apparir non havria fronte:
che per quel che vantossi, troppo scorno
gli serìa farvi in tal guisa ritorno.
58
Di pur cercar nuovo desir lo prese
la donna c’havea ognhor fissa nel core.
Fu l’aventura sua, che presto intese
(io non vi saprei dir chi fu l’authore)
ch’ella tornava verso il suo paese:
onde esso, come il sprona e punge Amore,
dietro alla pésta subito si pone.
Ma tornar voglio alla figlia d’Amone.
59
Poi che narrato hebbe con altro scritto
come da lei fu liberato il passo,
a Fiordiligi, c’havea il cor afflitto
e tenea il viso lachrymoso e basso,
dimandò humanamente dove dritto
volea che fusse, indi partendo, il passo.
Rispose Fiordiligi: – Il mio camino
vuo’ che sia in Arli al campo saracino,
60
dove naviglio e buona compagnia
spero trovar da gire in l’altro lito;
ch’io non mi fermerò fin ch’io non sia
venuta al mio signore e mio marito.
Voglio tentar, perché in prigion non stia,
più modi e più; che se mi vien fallito
questo che Rodomonte t’ha promesso,
ne voglio haver et uno et altro appresso. –
61
– Io me offerisco (disse Bradamante)
d’accompagnarti un pezzo de la strada,
tanto che tu ti veggia Arli dinante,
dove per amor mio vuo’ che tu vada
a trovar quel Ruggier del Re Agramante,
che del suo nome ha piena ogni contrada;
e che gli rendi questo buon destriero
donde abbattuto ho il Saracino altiero.
62
Voglio che a punto tu gli dica questo:
«Un cavallier che di provar si crede
e far a tutto il mondo manifesto
che contra lui sei mancator di fede;
acciò ti truovi apparecchiato e presto,
ch’io ti rendessi il tuo Frontin, mi diede
commissïone, e dice che ti metti
per far battaglia in punto, e che l’aspetti».
63
Digli questo, e non altro; e se quel vuole
saper da te ch’io son, di’ che nol sai. –
Fiordiligi, benigna come suole,
rispose: – E questa e maggior cosa assai
farò per te, che fatti e non parole
a’ prieghi miei (la tua mercé) fatt’hai. –
Gratie le rende Bradamante, e piglia
Frontino e le lo porge per la briglia.
64
Lungo il fiume le belle e pellegrine
giovane vanno a gran giornate insieme,
tanto che veggono Arli, e in le vicine
rive il rumor odon del mar che freme.
Bradamante si ferma alle confine
quasi de’ borghi et alle sbarre estreme,
per dare a Fiordiligi atto intervallo
che condurre a Ruggier possa il cavallo.
65
Vien Fiordiligi, et entra nel castello,
nel ponte e ne la porta; e seco prende
chi le fa compagnia fin a l’hostello
dove habita Ruggiero, e quivi scende;
e secondo il mandato, al damigello
fa l’ambasciata, e il buon Frontin gli rende:
indi va, che risposta non aspetta,
ad exequir il suo bisogno in fretta.
66
Ruggier riman confuso e in pensier grande,
e non sa ritrovar capo né via
di saper chi lo sfidi, e chi gli mande
a dire oltraggio e fargli cortesia.
Che costui senza fede lo dimande,
o possa dimandar huomo che sia,
non sa vedere; e ben d’ogn’altro, prima
che de la donna sua, potria far stima.
67
Che fusse Rodomonte havea più presto,
ma non troppo fondata, opinïone;
e perché anchor da lui debbia udir questo
pensa, né imaginar può la cagione.
Fuor che con lui, non sa di tutto ’l resto
del mondo con chi lite habbia e tenzone.
Intanto la donzella di Dordona
chiede battaglia, e forte il corno suona.
68
Vien la nuova a Marsiglio e ad Agramante
ch’un cavallier di fuor chiede battaglia.
A caso Serpentin loro era inante,
et impetrò di vestir piastra e maglia,
e promesse pigliar questo arrogante.
El popul venne sopra la muraglia;
e non rimase né fanciul né veglio
che non fusse a veder chi fêsse meglio.
69
Con ricca sopravesta e bello arnese
Serpentin da la Stella in giostra venne.
Al primo scontro in terra si distese:
parve havere il destriero a fuggir penne.
Drieto gli corse la donna cortese,
e per la briglia al Saracin lo tenne,
e disse: – Monta, e fa’ ch’el tuo signore
mi mandi un cavallier di te migliore. –
70
El Re Aphrican, che con sua gran famiglia
era su i muri alla giostra vicino,
del cortese atto assai si maraviglia
ch’usato ha la donzella a Serpentino.
– Di ragion può pigliarlo, e non lo piglia, –
diceva, udendo il popul saracino.
Serpentin giunge, e come ella commanda,
un miglior da sua parte al Re dimanda.
71
Grandonio di Volterna furibondo,
el più superbo cavallier di Spagna,
pregando fece sì, che fu il secondo,
et uscì con minaccie alla campagna.
Disse l’altier: – Vàgliate nulla al mondo
tua cortesia, che quando tu rimagna
vinto da me, prigion menar ti voglio;
ma qui morrai, s’io posso come soglio. –
72
La donna disse a lui: – Tua villania
non vuo’ che men cortese far mi possa,
ch’io non ti dica che tu torni pria
che del duro terren ti doglian l’ossa.
Ritorna, e di’ al tuo Re da parte mia
che per simili a te non mi son mossa;
ma per trovar guerrier ch’el pregio vaglia
son qui venuta a dimandar battaglia. –
73
Il mordace parlar, acre et acerbo,
gran fuoco al cor del Saracino attizza;
sì che senza poter replicar verbo
volta il caval con chòlera e con stizza.
Volta la donna, e contra quel superbo
la lancia d’oro et Rabicano drizza:
come l’hasta fatal nel scudo tocca,
coi piedi al ciel di sella lo trabbocca.
74
Il caval la magnanima guerriera
gli prese, e disse: – Pur t’el predissi io
che far la mia ambasciata meglio t’era,
che de la giostra haver tanto disio.
Di’ al Re, ti prego, che fuor de la schiera
elegga un cavallier che sia par mio;
né voglia con voi altri affaticarmi,
che havete poca experïentia d’armi. –
75
Quelli da i merli, che stimar non sanno
chi sia il guerriero in su l’arcion sì saldo,
quei più famosi nominando vanno
che tremar li fan spesso al maggior caldo:
che Brandimarte sia, molti detto hanno;
la più parte s’accorda esser Rinaldo;
molti su Orlando havrian fatto disegno,
ma il suo caso sapean di pietà degno.
76
La terza giostra il figlio di Lanfusa
chiedendo, disse: – Non che vincer speri,
ma perché di cader più degna scusa
habbian, cadendo anch’io, questi guerrieri. –
E poi di tutto quel che in giostra s’usa
si messe in punto; e di cento destrieri
che tenea in stalla, d’un tolse l’eletta,
c’havea il correre acconcio, e di gran fretta.
77
Contra la donna per giostrar si fece;
ma prima salutolla, et ella lui.
Disse la donna: – Se saper mi lece,
ditemi in cortesia chi sète vui. –
Di questo Ferraù le satisfece,
che rado usò voler celarsi altrui.
Ella suggiunse: – Voi già non rifiuto,
ma havria più volentier altri voluto. –
78
– E chi? – Ferraù disse. Ella rispose:
– Ruggiero… – e a pena il puòte proferire;
e sparse d’un color come di rose
la bellissima faccia in questo dire;
suggiunse al detto poi: – …le cui famose
lode a tal prova m’han fatto venire;
altro non bramo, e d’altro non mi cale,
che di provar come egli in giostra vale. –
79
Semplicemente disse le parole
che forse alcuno ha già prese a malitia.
Rispose Ferraù: – Prima si vuole
provar tra noi chi sa più di militia.
Se di me avien quel che de molti suole,
poi verrà ad emendar la mia tristitia
quel gentil cavallier che tu dimostri
haver tanto desir che teco giostri. –
80
Parlando tuttavolta la donzella
teneva la visera alta dal viso.
Mirando Ferraù la faccia bella,
si sente rimaner mezo conquiso,
e taciturno dentro a sé favella:
– Questo un angel mi par del paradiso;
et anchor che con lancia non mi tocchi,
abbattuto son già da’ suoi belli occhi. –
81
Preson del campo; e come agli altri avenne,
Ferraù se n’uscì di sella netto.
Bradamante il caval suo gli ritenne,
e disse: – Torna, e serva quel c’hai detto. –
Ferraù vergognoso se ne venne,
e ritrovò Ruggier ch’era al conspetto
del Re Agramante; e gli fece sapere
ch’alla battaglia il cavallier lo chere.
82
Ruggier non connoscendo anchor chi fosse
chi a sfidar lo mandava alla battaglia,
quasi certo di vincere, allegrosse,
e le piastre arrecar fece e la maglia;
né l’haver visto alle gravi percosse
che li altri sian caduti il cor gli smaglia:
come s’armasse, e come uscisse, e quanto
poi ne seguì, lo serbo a l’altro canto.

CANTO TRIGESIMOTERZO

1
Convien ch’ovunque sia, sempre cortese
sia un cor gentil, ch’esser non può altrimente;
che per natura e per habito prese
quel che di mutar poi non è potente.
Convien ch’ovunque sia, sempre palese
un cor villan si mostri similmente:
natura inchina al mal, e viene a farsi
l’habito poi difficile a mutarsi.
2
Di cortesia, di gentilezza exempii
fra li antiqui guerrier si vider molti:
pochi fra li moderni; ma de li empii
costumi avien ch’assai ne veggia e ascolti
in quella guerra, Hippolyto, che i tempii
de segni ornaste all’inimici tolti,
e che traheste lor galee captive
di preda carche alle paterne rive.
3
Tutti li crudeli atti et inhumani
ch’usasse mai Tartaro o Turco o Moro;
credo contra ’l voler de’ Venetiani,
forse con sdegno ben del Leon d’oro;
usaron l’empie e scelerate mani
de li soldati mercennarii loro.
Io non dico hor de tanti accesi fuochi
che le ville arse e nostri ameni luochi;
4
ben che fu quella anchor brutta vendetta,
maximamente contra voi, che spesso,
nel tempo che havea lor Cesare astretta
Padua d’assedio, e voi gli erate appresso,
per voi più d’una fiamma fu interdetta
e spento il fuoco, poi ch’era già messo,
da villaggi e da templi, come piacque
all’alta cortesia che con voi nacque.
5
Io non parlo di questo né di tanti
altri lor discortesi e crudeli atti;
ma sol di quel che trar da’ sassi i pianti
devria poter, qual volta se ne tratti:
quel dì, signor, che la famiglia inanti
vostra mandaste là, dove ritratti
de i legni lor con importuni auspici
s’erano in luoco forte li nemici.
6
Qual Hettorre et Enea sin dentro a i flutti
per abbruciar le navi greche andaro,
un Hercol vidi e uno Alexandro, indutti
da troppo ardir, partirsi a paro a paro
e li destrier spronando passar tutti,
e i nemici turbar fin nel riparo,
e gir sì inanzi, che al secondo molto
aspro fu il ritornare, e al primo tolto.
7
Salvossi il Faruffin, restò il Cantelmo.
Che cor, Duca di Sora, che consiglio
fu allhora il tuo, che trar vedesti l’elmo
fra mille spade al generoso figlio,
e menar preso a nave, e sopra un schelmo
troncarli il capo? Ben mi maraviglio
che darti morte quel spettacol solo
non puòte, quanto il ferro a tuo figliuolo.
8
Schiavon crudele, onde hai tu il modo appreso
de la militia? In qual Scythia se intende
ch’uccider si deggia un, poi che s’è reso,
o mercé chiama, o più non si difende?
Dunque uccidesti lui, perché ha difeso
la patria? Il Sol a torto hoggi risplende,
crudel seculo, poi che pieno sei
di Thÿesti, di Tantali e di Atrei.
9
Festi, Barbar crudel, del capo scemo
el più ardito garzon che di sua etade
fusse da un polo a l’altro, e da l’estremo
lito de l’Indi a quel dove il Sol cade.
Potea in Anthropophàgo, in Polyphemo
la beltà e li anni suoi trovar pietade;
ma non in te, che sei crudo e fellone
via più d’ogni Cyclope e Lestrigóne.
10
Simile exempio non credo che sia
fra li antiqui guerrieri: anzi lor studi
eran di gentilezza e cortesia;
né dopo la vittoria erano crudi.
Bradamante, di cui vi referia,
a qualunque abbattea toccando i scudi
non sol non nocea più, ma gli tenea
el destrier ancho, e rimontar facea.
11
Di questa donna valorosa e bella
io vi dissi di sopra che abbattuto
haveva Serpentin, quel da la Stella,
Grandonio di Volterna e Ferrauto,
e ciascun d’essi poi rimesso in sella;
e dissi anchor ch’el terzo era venuto
in nome d’essa a disfidar Ruggiero
là dove era stimata un cavalliero.
12
Ruggier tenne l’invito allegramente,
e l’armatura sua fece venire.
Hor mentre che s’armava al Re presente,
tornaron quei signor di nuovo a dire
chi fusse el cavallier tanto excellente
che di lancia sapea sì ben ferire;
e Ferraù, che parlato gli havea,
fu dimandato se lo connoscea.
13
Rispose Ferraù: – Tenete certo
che non è alcun di quei c’havete detto.
A me parea (ch’il vidi a viso aperto)
il fratel di Rinaldo giovinetto:
ma poi ch’io n’ho l’alto valore experto,
e so che non può tanto Ricciardetto,
penso che sia la sua sorella, molto
(per quel ch’io n’odo) a lui simil di volto.
14
Ella ha ben fama d’esser forte a pare
del suo Rinaldo e d’ogni paladino;
ma (quanto n’ho veduto hoggi) mi pare
che val più del fratel, più del cugino. –
Come Ruggier lei sente ricordare,
del vermiglio color ch’el matutino
sparge per l’aria, si dipinge in faccia,
e nel cor trema, e non sa che si faccia.
15
A questo annoncio, stimulato e punto
dal stral d’amor, tutto sentì infiammarse;
e per l’ossa sentì tutto in un punto
corrersi un giaccio ch’el timor vi sparse,
timor ch’un sdegno quel amor consunto
non habbia in lei, che già per lui sì l’arse.
Ruggiero è sì confuso, che di tôrre
l’arme o lasciarle non si sa risciorre.
16
In questo mezo, senza fargli motto,
da Marphisa la giostra gli fu tolta.
Era quivi Marphisa, che di botto
ch’el rumor si sentì correre in volta
ch’el Re Agramante, da Rinaldo rotto,
in Arli poca gente havea raccolta,
era al soccorso de la sua corona
venuta a proferirsegli in persona.
17
Ella aspettato havendo ch’alle prove
di tôr Brunello alcun fusse venuto,
ch’in angonia forse otto giorni o nove
col laccio al collo sempre havea tenuto,
né comparendo ignuno, e queste nuove
sentendo intanto, ne venne in aiuto
del Re Aphricano; e in man Brunel gli messe,
tutte l’ingiurie havendogli remesse.
18
Del suo tornar quanto più dir si pote
mostrò allegrezza et hebbela Agramante,
che le gran prove d’arme havea già note
di lei per fama, e anchor vedute alquante;
né le minaccie perhò andaron vuote
d’effetto, ch’a Brunel fur fatte tante;
ch’el Re credendo a Marphisa aggradire
e a tutto ’l mondo, in aria il fe’ morire:
19
il manigoldo, in luoco inculto et ermo,
de corvi pasto e d’avoltor l’impese.
Ruggier che potea solo esserli schermo,
che dal laccio altra volta lo difese,
la Giustitia di Dio fece ch’infermo
si trovò in letto; e quando il caso intese,
era sei giorni o sette prima occorso,
sì che non potea più dargli soccorso.
20
Hor quivi ritrovandosi Marphisa,
che d’uscire alla giostra havea gran voglia,
et era armata (perché in altra guisa
è raro, o notte o dì, che tu la coglia);
sentendo che Ruggier s’arma, s’avisa
che di quella vittoria ella si spoglia
se lascia che Ruggier esca fuor prima:
pensa ire inanzi, e haver l’honor ne stima.
21
Salta a cavallo, e vien spronando in fretta
ove nel campo la figlia d’Amone
con palpitante cor Ruggiero aspetta,
desiderosa farselo prigione,
e pensa solo ove la lancia metta
perché del colpo habbia minor lesione.
Marphisa se ne vien fuor de la porta,
e sopra l’elmo una Phenice porta;
22
o fusse per superbia, dinotando
se stessa unica al mondo in esser forte,
o pur sua casta intentïon lodando
di viver sempremai senza consorte.
La figliuola d’Amon la mira; e quando
le fattezze ch’amava non ha scorte,
come si nomi le dimanda, et ode
esser colei che del suo amor si gode;
23
o per dir meglio, esser colei che crede
che goda del suo amor, colei che tanto
ha in odio e in ira, che morir si vede,
se sopra lei non vendica il suo pianto.
Volta il cavallo, e con gran furia riede,
non per desir di porla in terra, quanto
di passarli con l’hasta in mezo il petto,
e libera restar d’ogni suspetto.
24
Forza è a Marphisa che a quel scontro vada
a provar se ’l terreno è duro o molle;
e cosa tanto insolita le accada,
che ne fu per venir di sdegno folle.
Fu in terra a pena, che trasse la spada
e vendicar di quel cader si volle.
La figliuola d’Amon non men altiera
gridò: – Che fai? tu sei mia prigionera.
25
Se ben uso con li altri cortesia,
usar teco, Marphisa, non la voglio,
come a colei che d’ogni villania
odo che sei dotata e d’ogni orgoglio. –
Marphisa a quel parlar fremer s’udia
come un vento marin che dia in un scoglio.
Grida, ma sì la rabbia la confonde,
che non può exprimer fuor quel che risponde.
26
Mena la spada, e più ferir non mira
lei, ch’el caval, nel petto e ne la pancia.
Bradamante al destrier la briglia gira,
e quel da parte subito si lancia;
e tutto a un tempo con sdegno e con ira
la Donna da caval spinge la lancia,
e con quella toccò Marphisa a pena,
che riversar la fece in su l’arena.
27
Non fu in terra sì presto, che rizzosse,
cercando far con la spada mal’opra.
Di nuovo l’hasta Bradamante mosse,
e Marphisa di nuovo andò sossopra.
Ben che possente Bradamante fosse,
non perhò sì a Marphisa era di sopra
che l’havesse ogni colpo riversata;
ma tal virtù ne l’hasta era incantata.
28
Alcuni cavallieri in questo mezo,
alcuni, dico, de la parte nostra,
se n’erano venuti dove, in mezo
l’un campo e l’altro, si facea la giostra,
che non eran lontani un miglio e mezo,
veduta la virtù ch’el suo dimostra;
el suo che non connoscono altrimente
che per un cavallier de la lor gente.
29
Ed questi il Re Agramante e il Re Marsiglio
veduti sì alle mura approssimarsi,
per ogni caso, per ogni periglio
non vòlson sproveduti ritrovarsi;
fêro ad alcuni all’arme dar di piglio
e fuor de li ripari appresentarsi:
tra questi fu Ruggiero, a cui la fretta
di Marphisa la giostra havea intercetta.
30
L’inamorato giovene mirando
stava il successo, e gli tremava il core,
de la sua cara moglie dubitando;
che di Marphisa ben sapea il valore:
dubitò, dico, nel principio, quando
si mosse l’una e l’altra con furore;
ma visto poi come successe il fatto,
restò maraviglioso e stupefatto;
31
e poi che fin la lite lor non hebbe,
come havean l’altre havute, al primo scontro,
nel cor profondamente gli ne ’ncrebbe,
dubbioso pur di qualche strano incontro.
De l’una egli e de l’altra il ben vorrebbe,
ch’ama amendue; non che da porre incontro
sien questi amori: è l’un fiamma e furore,
l’altro benivolentia, più che amore.
32
Partita volentier lor pugna havria
se con suo honor potuto havesse farlo.
Ma quelli c’havea seco in compagnia,
perché non vinca la parte di Carlo,
che già lor par che superior ne sia,
saltan nel campo, e vogliono turbarlo.
Da l’altra parte i cavallier christiani
si fanno inanzi, e son quivi alle mani.
33
Di qua e di là gridar si sente all’arme,
come usati eran far quasi ogni giorno:
monti chi è a piè, chi non è armato s’arme,
alla bandiera ognun faccia ritorno!
dicea con chiaro e bellicoso carme
più d’una tromba che scorrea d’intorno;
né sveglian men che facciano i cavalli
li fanti a tuon di timpani e taballi.
34
La scaramuzza fiera e sanguinosa,
quanto si possa imaginar, si mesce.
La Donna di Dordona valorosa,
a cui mirabilmente aggrava e incresce
che quel di che era tanto disïosa,
di por Marphisa a morte, non riesce,
di qua e di là si volge e si raggira,
se Ruggier può veder, per cui suspira.
35
Lo riconnobbe all’Aquila d’argento
c’havea nel scudo azurro il giovinetto.
Ella con li occhi e col pensiero intento
fermossi a contemplar le spalle e il petto,
le liggiadre fattezze e il movimento
pieno di gratia; e poi con gran dispetto,
imaginando ch’altra ne gioisse,
da furore assalita così disse:
36
– Dunque baciar sì belle e dolce labbia
deve altra, se baciar non le posso io?
Ah non sia vero già ch’altra mai t’habbia;
che d’altra esser non déi, se non sei mio.
Più presto che morir sola di rabbia,
che meco di mia man mori, disio;
che se ben qui ti perdo, almen l’inferno
poi mi ti renda, e stia teco in eterno.
37
Se tu m’occidi, è ben ragion che deggi
darmi de la vendetta almen conforto;
che voglion tutti li ordini e le leggi
che chi dà morte altrui debbia esser morto.
Non par ch’ancho il tuo danno il mio pareggi;
che tu mori a ragione, io moro a torto.
Farò morir chi brama, ohimè! ch’io mora;
ma tu, crudel, chi t’ama e chi t’adora.
38
Perché non déi tu, mano, essere ardita
d’aprir col ferro al mio nemico il core?
che tante volte a morte m’ha ferita
sotto la pace in sicurtà d’amore,
et hor può consentir tôrmi la vita,
né pur haver pietà del mio dolore.
Contra questo empio ardisci, animo forte:
vendica mille mie con la sua morte. –
39
Gli sprona contra in questo dir, ma prima:
– Guàrdati (grida), perfido Ruggiero:
non anderai (s’io posso) de la opima
spoglia del cor d’una donzella altiero. –
Come Ruggier ode il parlar, extima
che sia la moglie sua, come era in vero,
la cui voce in memoria sì ben hebbe,
ch’in mille riconnoscer la potrebbe.
40
Ben pensa quel che le parole denno
volere inferir più; ch’ella l’accusa
che la conventïon che insieme fenno
non l’osservava: onde, per farne excusa,
di volerle parlar le fece cenno;
ma quella già con la visera chiusa
con cor venìa, spinta da sdegno e rabbia,
per porlo, e forse ove non era sabbia.
41
Quando Ruggier la vide tanto accesa,
si ristrinse ne l’arme e ne la sella:
la lancia arresta; ma la tien suspesa,
piegata in parte ove non nuoccia a quella.
La Donna, che a ferirlo e fargli offesa
venìa con mente di pietà rubella,
non puòte sofferir, come fu appresso,
di porlo in terra e fargli oltraggio expresso.
42
Così lor lancie van d’effetto vuote
a quel incontro; e basta ben se Amore
con l’un giostra e con l’altro, e gli percuote
d’una amorosa lancia in mezo ’l core.
Poi che la Donna sofferir non puòte
di far onta a Ruggier, volse il furore
c’havea nel petto altrove; e fece cose
che seran, fin che giri il ciel, famose.
43
In poco spatio ne gettò per terra
trecento e più con quella lancia d’oro:
ella sola quel dì vinse la guerra,
messe ella sola in fuga il popul Moro.
Ruggier di qua e di là s’aggira et erra
tanto, che se le accosta e dice: – Io moro
s’io non ti parlo. Ohimè! che t’ho fatto io,
che mi debbi fuggire? Odi, perdio! –
44
Come a i meridional tepidi venti,
che spirano dal mar il fiato caldo,
le nievi si disciolveno e i torrenti,
e il giaccio che pur dianzi era sì saldo;
così a quei prieghi, a quei brevi lamenti
il cor de la sorella di Rinaldo
subito ritornò pietoso e molle,
ch’el sdegno, più che marmo, indurar volle.
45
Né vuole o pote dargli altra risposta;
ma da traverso sprona Rabicano,
e quanto può da li altri se discosta;
e che segua, a Ruggier cenna con mano.
Fuor de la moltitudine in reposta
valle si trasse, ove era un piccol piano
ch’in mezo havea un boschetto di cypressi
che parean d’una stampa tutti impressi.
46
In quel boschetto era di bianchi marmi
fatta di nuovo un’alta sepoltura:
chi dentro giace era con brevi carmi
notato a chi saperlo havesse cura.
Ma quivi giunta Bradamante, parmi
che già non pose mente alla scrittura.
Ruggier drieto il caval l’affretta e punge
tanto, ch’al boscho e alla donzella giunge.
47
Ma ritorniamo a Marphisa che s’era
in questo mezo in sul destrier rimessa,
e venìa per trovar quella guerriera
che l’havea al primo scontro in terra messa:
e la vide partir fuor de la schiera,
e partir Ruggier vide e seguir essa;
né si pensò che per amor seguisse,
ma per finir con l’arme ingiurie e risse.
48
Urta il cavallo, e vien drieto alla pésta
tanto, che a un tempo con lor quasi arriva.
Quanto sua giunta ad ambi sia molesta,
chi vive amando il sa senza ch’io ’l scriva;
ma Bradamante offesa più ne resta,
che colei vede, onde il suo mal deriva:
chi le può tôr che non creda esser vero
che l’amor ve la sproni di Ruggiero?
49
E perfido Ruggier di nuovo chiama:
– Non ti bastava, perfido (disse ella),
che tua perfidia sapessi per fama,
se non me facevi ancho veder quella?
Di cacciarmi da te veggio c’hai brama:
e per sbramar tua voglia iniqua e fella
io vuo’ morir; ma sforzarommi anchora
far morir meco chi è cagion ch’io mora. –
50
Sdegnosa più che vipera, si spicca,
così dicendo, e va contra Marphisa;
né l’hasta al scudo sì presto le appicca,
che la fa a drieto riversare in guisa
che quasi mezo l’elmo in terra ficca;
né si può dir che sia colta improvisa:
anzi fe’ incontra ciò che far si pote;
e pure in terra del capo percuote.
51
La figliuola d’Amon, che vuol morire
o dar morte a Marphisa, è in tanta rabbia,
che non ha mente di nuovo a ferire
con l’hasta, onde a gettar di nuovo l’habbia;
ma le pensa dal busto dipartire
il capo mezo fitto ne la sabbia:
getta da sé la lancia d’oro, e prende
la spada, e da caval subito scende.
52
Ma tarda è la sua giunta; che si truova
Marphisa incontra, e di tanta ira piena,
poi che s’ha vista alla seconda prova
cader sì facilmente su l’arena,
che pregar nulla, e nulla gridar giova
a Ruggier che di questo havea gran pena:
per l’odio che le due guerriere s’hanno,
da disperate la battaglia fanno.
53
A meza spada vengono di botto;
e per la gran superbia che le ha accese,
van pur inanzi, e si son già sì sotto,
che altro non puon che venire alle prese.
Le spade, il cui bisogno era interrotto,
lascian cadere, e cercan nuove offese.
Prega Ruggier e supplica amendue,
ma poco frutto è in le parole sue.
54
Quando pur vede ch’el pregar non vale,
di partirle per forza si dispone:
lieva di mano ad amendue il pugnale
et al piè d’un cypresso lo ripone.
Poi che ferro non han più da far male,
con prieghi e con minaccie s’interpone:
ma per ciò questa o quella non rimane,
e fa ciò che far può con piedi e mane.
55
Ruggier non cessa: hor l’una hor l’altra prende
per la man, per le braccia, e la ritira;
e tanto fa, che di Marphisa accende,
quanto si può, contra sé il sdegno e l’ira.
Quella che tutto il mondo vilipende
alla amicitia di Ruggier non mira:
poi che da Bradamante si distacca,
corre alla spada, e con Ruggier s’attacca.
56
– Tu fai da discortese e da villano,
Ruggiero, a disturbar la pugna altrui;
ma ti farò pentir con questa mano
che vuo’ che basti a vincervi ambedui. –
Cercò Ruggier con parlar molto humano
Marphisa mitigar; ma contra lui
la trovò in modo disdegnosa e fiera,
che un perder tempo il ragionar seco era.
57
All’ultimo Ruggier la spada trasse,
poi che l’ira ancho lui fe’ rubicondo.
Non credo che spettaculo mirasse
Athene o Roma o luoco altro del mondo
che così a’ riguardanti dilettasse,
come dilettò questo e fu giocondo
alla gelosa Bradamante, quando
questo le pose ogni suspetto in bando.
58
La sua spada havea tolta ella di terra,
e tratta s’era a riguardar da parte;
e le parea veder ch’el Dio di guerra
fusse Ruggiero alla possanza e a l’arte.
Una furia infernal quando si sferra
sembra Marphisa, se quel sembra Marte.
Vero è ch’un pezzo il giovene gagliardo
di non far ciò che puòte hebbe riguardo.
59
Sapea ben la virtù de la sua spada;
che tante experïenze n’ha già fatto.
Dove giunge convien che se ne vada
l’incanto, o nulla giovi, e stia di piatto:
sì che ritien ch’el colpo suo non cada
di taglio o punta, ma sempre di piatto.
Hebbe Ruggiero a-cciò lunga avertenza;
ma pure un tratto perse la patienza:
60
perché Marphisa una percossa horrenda
gli mena per dividerli la testa.
Egli alza el scudo acciò che lo difenda:
il fiero colpo su l’Aquila pesta.
Vieta l’incanto che nol spezzi o fenda;
ma di stordir non perhò il braccio resta:
e s’havea altre arme che quelle d’Hettorre,
gli potea il fiero colpo il braccio tôrre;
61
e serìa sceso indi alla testa, dove
disegnò di ferir l’aspra donzella.
Ruggiero il braccio manco a pena muove,
a pena più sostien l’Aquila bella.
Per questo ogni pietà da sé rimuove;
par che in li occhi gli avampi una facella:
e quanto può cacciar, caccia una punta.
Marphisa, guai a te se n’eri giunta!
62
Io non vi so ben dir come si fosse:
la spada andò a ferire in un cypresso,
e più d’un palmo in l’arbore cacciosse;
così piantato era quel luoco spesso.
In quel momento il monte e il pian si scosse
per terremuoto; e si sentì con esso
da quel avel che in mezo il bosco siede
gran voce uscir, ch’ogni mortale excede.
63
Grida la voce horribile: – Non sia
lite tra voi: gli è ingiusto et inhumano
ch’alla sorella il fratel morte dia,
o la sorella uccida il suo germano.
Tu, mio Ruggiero, e tu, Marphisa mia,
credete al mio parlar che non è vano:
in un medesimo utero d’un seme
fuste concetti, e usciste al mondo insieme.
64
Concetti fuste da Ruggier secondo;
Galacïella fu la genitrice,
li cui fratelli havendole del mondo
tolto il marito, tuo padre infelice,
senza mirar c’havesse in corpo il pondo
di voi, che erate pur di lor radice,
la fêr, perché s’havesse ad affogare,
s’un debil legno porre in mezo il mare.
65
Ma Fortuna, che voi, ben che non nati,
havea già eletti a glorïose imprese,
fece ch’el legno a’ liti inhabitati
sopra le Syrti a salvamento scese;
dove, poi che nel mondo v’hebbe dati,
Galacïella al ciel l’anima rese.
Come Dio vòlse e fu vostro destino,
a questo caso i’ mi trovai vicino.
66
Diedi alla madre sepultura honesta,
qual dar si puòte in la deserta arena;
e voi teneri avolti ne la vesta
meco portai sul monte di Carena;
e mansueta uscir de la foresta
feci e lasciare i figli una leena,
de le cui poppe dieci mesi e dieci
ambi notrir con gran studio vi feci.
67
Un giorno che d’andar per la contrada
e da la casa allontanar mi occorse,
vi sopravenne a caso una masnada
d’Aràbi (e ricordar ve ne de’ forse),
che te, Marphisa, tolsero in la strada;
ma non potêr Ruggier, che meglio corse.
Restai de la tua perdita dolente,
e di Ruggier guardian più diligente.
68
Ruggier, se ti guardò, mentre che visse,
il tuo maestro Atlante, tu lo sai.
Di te senti’ predir le stelle fisse
che tra’ Christiani a tradigion morrai;
e perché il male influsso non seguisse,
tenertene lontan m’affaticai:
né obstare al fin potendo alla tua voglia,
infermo caddi, e mi mori’ di doglia.
69
Ma nanzi a morte, qui dove previdi
che con Marphisa haver pugna devevi,
feci raccôr con infernal sussidi
a formar questa tomba i sassi grevi;
et a Charon dissi con alti gridi:
«Non vuo’ che dopo morte il spirto lievi
di questo bosco, fin che non ci giugna
Ruggier con la sorella per far pugna».
70
E così ha il spirto mio per le belle ombre
molti giorni aspettato il venir vostro:
sì che mai gelosia più non t’ingombre,
o Bradamante, ch’ami Ruggier nostro.
Ma tempo è hormai che de la luce io sgombre,
e mi conduca al tenebroso chiostro. –
Qui si tacque; e a Marphisa et alla figlia
d’Amon lasciò e a Ruggier gran maraviglia.
71
Riconnobbe Marphisa per sorella
Ruggier con molto gaudio, et ella lui;
e ad abbracciarsi, senza offender quella
che per Ruggiero ardea, vanno ambidui:
e ramentando de l’età novella
alcune cose: io feci…, io dissi…, io fui…;
venner trovando con più certo effetto
tutto esser ver quel c’havea il spirto detto.
72
Ruggiero alla sorella non ascose
quanto havea nel cor fissa Bradamante;
e narrò con parole affettüose
de le obligatïon che le havea tante:
e non cessò, ch’in grande amor compose
le discordie ch’insieme haveano inante;
e fe’, per segno di pacificarsi,
che humanamente andaro ad abbracciarsi.
73
A dimandar poi ritornò Marphisa
chi stato fusse, e di che gente, il padre;
e chi l’havesse morto, et a che guisa,
s’in campo chiuso o fra l’armate squadre;
e chi commesso havea che fusse uccisa
dal mar atroce la misera madre:
che se già l’havea udito da fanciulla,
hor ne tenea poca memoria o nulla.
74
Ruggier incominciò che da’ Troiani
per la linea d’Hettorre erano scesi;
che poi che Astÿanatte de le mani
campò d’Ulisse e da li aguati tesi,
havendo un de’ fanciulli coetani
per lui lasciato, uscì di quei paesi;
e dopo un lungo errar per la marina,
venne in Sicilia e dominò Messina.
75
– Li descendenti suoi di qua dal Faro
signoreggiâr de la Calabria parte;
e dopo più successïoni andaro
ad habitar ne la città di Marte.
Più d’uno imperatore e re preclaro
fu d’esto sangue in Roma e in altra parte,
cominciando a Costante e a Costantino,
sino a Re Carlo figlio di Pipino.
76
Fu Ruggier primo e Giambaron di questi,
Bovo, Rambaldo, al fin Ruggier secondo,
che fe’, come d’Atlante udir potesti,
di nostra madre l’utero fecondo.
De la progenie nostra i chiari gesti
per l’historie vedrai celebri al mondo. –
Seguì poi come venne il Re Agolante
con Aimonte e col padre d’Agramante;
77
e come menò seco una donzella
ch’era sua figlia, tanto valorosa,
che molti paladin gettò di sella;
e di Ruggier al fin venne amorosa,
e per suo amor del padre fu ribella,
e battizossi, e diventògli sposa.
Narrò come Beltramo traditore
per la cognata arse d’incesto amore;
78
e che la patria, il padre e li fratelli
tradì, così sperando acquistar lei;
aperse Risa all’inimici, et quelli
feron di tutti portamenti rei;
come Agolante e i figli iniqui e felli
poser Galacïella, che di sei
mesi era grave, in mar senza governo,
quando fu tempestoso al maggior verno.
79
Stava Marphisa con serena fronte
fisa al parlar ch’el suo german facea;
et esser scesa da la bella fonte,
c’havea sì chiari rivi, si godea.
Quindi Mongrana e quindi Chiaramonte
le due progenie derivar sapea,
ch’al mondo fur molti e molti anni e lustri
splendide e senza par d’huomini illustri.
80
Poi ch’el fratello al fin le venne a dire
ch’el padre d’Agramante e l’avo e il zio
Ruggiero a tradigion feron morire,
e posero la moglie a caso rio;
più non lo puòte la sorella udire,
che lo interroppe, e disse: – Fratel mio
(salva tua gratia), havuto hai troppo torto
a non ti vendicar del padre morto.
81
Se d’Aimonte e Troian non ti potevi
insanguinar, ch’erano morti inante,
vendicar de li figli te devevi.
Perché, vivendo te, vive Agramante?
Questa è una macchia che mai non ti lievi
dal viso, poi che dopo offese tante
non pur posto non hai questo Re a morte,
ma tu vivi al suo soldo e in la sua corte.
82
Io fo ben voto a Dio, che adorar voglio
Christo Dio vero ch’adorò mio padre,
che di questa armatura non mi spoglio
fin che Ruggier non vendico e mia madre.
Ed vuo’ dolermi, e fin hora mi doglio
di te, se più ti veggio tra le squadre
del Re Agramante o d’altro signor Moro,
se non col ferro in man per danno loro. –
83
Oh come a quel parlar lieva la faccia
la bella Bradamante, e ne gioisce!
E conforta Ruggier che così faccia
come Marphisa sua ben l’ammonisce;
e venga a Carlo, e connoscer si faccia,
che tanto honora, lauda e reverisce
del suo padre Ruggier la chiara fama,
che anchor guerrier senza alcun par lo chiama.
84
Ruggier accortamente le rispose
che da principio questo far devea;
ma per non haver ben note le cose,
come hebbe poi, tardato troppo havea.
Hor, essendo Agramante che gli pose
la spada al fianco, farebbe opra rea
dandogli morte, e serìa traditore;
che già tolto l’havea per suo signore.
85
Promettea ben, come anchor già promesse
a Bradamante, di trovar un modo
che partir con ragion se ne potesse,
sì che non fusse giudicato frodo;
e ben che inanzi fatto non l’havesse,
era per farlo in pochi dì ogni modo.
E dava colpa d’esser stato tardo
al combatter che fe’ con Mandricardo;
86
perché era stato un mese e più nel letto,
e buona testimon Marphisa n’era.
Fu sopra questo assai risposto e detto
da l’una e da l’altra inclyta guerriera:
l’ultima conclusion, l’ultimo effetto
è che Ruggier ritorni alla bandiera
del suo signor, fin che cagion gli accada
che giustamente a Carlo se ne vada.
87
– Lascialo pur andar (dicea Marphisa
a Bradamante), e non haver timore:
fra pochi giorni i’ farò ben in guisa
ch’el Re Aphrican non gli sarà signore. –
Bradamante di nuovo fu divisa
dal suo Ruggiero, e dal suo proprio core.
Non vuo’ ch’in questo canto più si parli
di chi va a Carlo e di chi torna in Arli.

CANTO TRIGESIMOQUARTO

1
Cortesi donne, che benigna udienza
date a’ miei versi, io vi veggio al sembiante
che quest’altra sì sùbita partenza
che fa Ruggier da la sua fida amante
vi dà gran noia, e havete displicenza
poco minor c’havesse Bradamante;
e fate ancho argumento ch’esser puoco
in lui devesse l’amoroso fuoco.
2
Per ogni altra cagion che allontanato
contro la voglia d’essa se ne fusse,
anchor che havesse più thesor sperato
che Creso o Crasso insieme non ridusse,
io crederia con voi che penetrato
non fusse al cor il stral che lo percusse;
ch’un almo gaudio, un così gran contento
comperar non potrebbe oro né argento.
3
Pur, per salvar l’honor, non solamente
d’excusa, ma de laude è degno anchora;
per salvar, dico, in caso che altrimente
facendo, biasmo et ignominia fôra:
e se la donna fusse renitente
et ostinata in fargli far dimora,
darebbe di sé indicio e chiaro segno
o d’amar poco o d’haver poco ingegno.
4
Che se l’amante del amato deve
la vita amar più de la propria, o tanto
(io parlo d’uno amante a cui non lieve
colpo d’Amor passò più là del manto);
al piacer tanto più, ch’esso riceve,
l’honor di quel deve anteponer, quanto
l’honor è di più pregio che la vita,
ch’a tutti li piaceri è preferita.
5
Fece Ruggiero il debito a seguire
il suo signor, che non se ne potea,
se non con ignominia, dipartire;
che ragion di lasciarlo non havea.
E se Aimonte gli fe’ il padre morire,
tal colpa in Agramante non cadea;
ch’in molti effetti havea con Ruggier poi
emendato ogni error de i maggior suoi.
6
Fe’ il debito Ruggiero a ritornare
al suo signor; et ella anchor lo fece,
che sforzar non lo vòlse di restare
con mille prieghi, ove eran troppo diece.
Ruggier potrà alla donna satisfare
a un altro tempo, s’hor non satisfece:
ma chi manca al honor solo un momento,
non può in cent’anni satisfargli e cento.
7
Ruggier ritornò ad Arli, havendo tratta
la spada che non fe’ più resistenza.
Bradamante e Marphisa, che contratta
col parentado havean benivolenza,
andaro insieme ove Re Carlo fatta
la maggior prova havea di sua potenza,
sperando o per battaglia o per assedio
levar di Francia così lungo tedio.
8
Di Bradamante, poi che connosciuta
in campo fu, si fe’ letitia e festa:
ognun la riverisce e la saluta;
et ella a questo e a quel china la testa.
Rinaldo, come udì la sua venuta,
le venne incontra; né Ricciardo resta,
né Ricciardetto od altri di sua gente,
e la raccoglion tutti allegramente.
9
Come s’intese poi che la compagna
era Marphisa, in arme sì famosa,
che dal Cataio a’ termini di Spagna
di mille chiare palme iva pomposa,
non è povero o ricco che rimagna
nel padiglion: la turba desïosa
vien quinci e quindi, e s’urta, preme e stroppia
sol per veder sì glorïosa coppia.
10
A Carlo riverenti appresentârsi.
Questo fu il primo dì (scrive Turpino)
che fu vista Marphisa inginocchiarsi;
che sol le parve il figlio di Pipino
degno, a cui tanto honor devesse farsi,
tra quanti, o mai nel popul Saracino
o nel Christiano, imperatori e regi
per virtù vide o per ricchezza egregi.
11
Carlo benignamente la raccolse,
e le uscì contra fuor de’ padiglioni;
e che sedesse a lato suo poi vòlse
sopra tutti re, principi e baroni.
Se diè licentia a chi non se la tolse;
sì che presto restaro in pochi e buoni:
restaro i paladini e i gran signori;
la vilipesa plebe andò di fuori.
12
Marphisa cominciò con grata voce:
– Excelso, invicto e glorïoso Augusto,
che dal mar Indo alla Tirynthia foce,
dal bianco Scytha all’Ethÿòpe adusto
reverir fai la tua candida croce,
né di te regna il più saggio o il più giusto;
tua fama, ch’alcun termine non serra,
m’ha tratto qui fin da l’estrema terra.
13
E (per narrarti il ver) sola mi mosse
Invidia, e sol per farti guerra venni,
acciò che sì potente un Re non fosse
che non tenesse la legge ch’io tenni.
Per questo ho fatto le campagne rosse
del christian sangue; et altri fieri cenni
ero per farti da crudel nemica,
se non cadea chi mi t’ha fatto amica.
14
Quando nuocer pensai più alle tue squadre,
io truovo (e come sia dirò più ad agio)
ch’el gran Ruggier di Risa fu mio padre,
tradito a torto dal fratel malvagio.
Portommi in corpo mia misera madre
di là dal mare, e nacqui in gran disagio.
Nutrimmi un Mago infin al settimo anno,
a cui li Aràbi poi rubata m’hanno.
15
E mi vendero in Persia per ischiava
a un Re, che poi cresciuta io posi a morte;
che mia virginità tuor mi cercava.
Lui un dì uccisi e tutta la sua corte;
tutta cacciai la sua progenie prava,
e presi il regno; e tal fu la mia sorte
che a dieciotto anni di mia età non venni,
che di sette reami il scettro tenni.
16
E di tua fama invidïosa, come
io t’ho già detto, havea fermo nel core
la grande altezza abbatter del tuo nome:
forse il facevo, e forse ero in errore.
Ma hora avien che questa voglia dome,
e faccia cader l’ale al mio furore,
l’haver inteso, poi che qui son giunta,
come io ti son d’affinità congiunta.
17
E come il padre mio parente e servo
ti fu, parente e serva anch’io ti sono:
e quella invidia e quel odio protervo
ch’io t’hebbi un tempo, qui tutto depono;
anzi pur contra il Re d’Aphrica il servo,
e contra tutti quei che scesi sono
da Troiano e d’Aimonte, che fur rei
de l’empia morte de’ genitor miei. –
18
E seguitò voler christiana farsi,
e poi che haverà extinto il Re Agramante,
voler, piacendo a Carlo, ritornarsi
a battizar il suo regno in Levante;
et indi contra tutto il mondo armarsi,
dove Machon s’adori e Trivigante;
e con promissïon ch’ogni suo acquisto
sia de l’Imperio e de la fé di Christo.
19
L’Imperator, che non meno eloquente
era, che fusse valoroso e saggio,
molto exaltando la Donna excellente,
e molto il padre e molto il suo lignaggio,
rispose ad ogni parte humanamente,
e mostrò in fronte aperto il suo coraggio;
e fu conchiuso in l’ultima parola
per parente accettarla e per figliuola.
20
E qui se lieva, e di nuovo l’abbraccia,
e come figlia bacia ne la fronte.
Vengono tutti con allegra faccia
quei di Mongrana e quei di Chiaramonte.
Lungo a dir fôra quanto honor le faccia
Rinaldo, che di lei le prove conte
vedute havea più volte al paragone,
quando d’Albracca assedïò il girone.
21
Lungo a dir fôra quanto il giovinetto
Guidon s’allegri di veder costei,
Aquilante e Griphone e Sansonetto
ch’alla città crudel furon con lei;
Malagigi e Viviano e Ricciardetto,
ch’all’occision de’ Maganzesi rei
e de li venditori empii di Spagna
l’haveano havuta sì fedel compagna.
22
Apparecchiâr per il seguente giorno,
et hebbe cura Carlo egli medesmo,
che fusse un luoco riccamente adorno
dove prendesse Marphisa battesmo.
Li Vescovi e gran chierici d’intorno,
che le leggi sapean del Christianesmo,
fece raccôrre, acciò da loro in tutta
la santa fé fusse Marphisa instrutta.
23
Venne in pontificale habito sacro
l’arcivesco Turpino, e battizolla:
Carlo dal salutifero lavacro
con cerimonie debite levolla.
Ma tempo è hormai ch’al capo vuoto e macro
di senno si soccorra con l’ampolla,
con che dal ciel più basso ne venìa
il duca Astolfo sul carro d’Helia.
24
Sceso era Astolfo dal giro lucente
alla maggiore altezza de la terra,
con la felice ampolla che la mente
devea sanare al gran mastro di guerra.
Una herba quivi di virtù excellente
mostra Giovanni al Duca d’Inghilterra:
con essa vuol ch’al suo ritorno tocchi
al Re di Nubia e che gli sani li occhi;
25
acciò per questi e per li primi merti
gente gli dia con che Biserta assaglia.
E come poi quei populi inexperti
armi et acconci ad uso di battaglia,
e senza danno passi li deserti
dove l’arena li huomini abbarbaglia,
a punto a punto l’ordine che tegna
tutto il Vecchio santissimo gl’insegna.
26
Poi lo fe’ rimontar su quello alato
che di Ruggiero, e fu prima d’Atlante.
Il Paladin lasciò, licentïato
da san Giovanni, le contrade sante;
e secondando il Nilo a lato a lato,
presto i Nubi apparir si vide inante;
e ne la terra che del regno è capo
scese da l’aria, e ritrovò il Senapo.
27
Molto fu il gaudio e molta fu la gioia
che portò a quel Signor nel suo ritorno;
che ben si raccordava de la noia
che gli havea tolta, de l’Harpie, d’intorno.
Ma poi che la grossezza gli discuoia
di quel humor che già gli tolse il giorno,
e che gli rende la vista di prima,
l’adora e cole, e come Dio sublima:
28
sì che non pur la gente che gli chiede
per mover guerra al regno di Biserta,
ma centomila sopra gli ne diede,
e de la sua persona fe’ proferta.
D’elephanti e cameli e gente a piede
(perhò che de cavalli è male experta)
senza più differir fu il campo tutto
all’ordinanza in sette giorni instrutto.
29
La notte inanzi il dì che a suo camino
l’exercito di Nubia devea porse,
montò sul Hippogrypho il Paladino
e verso Mezodì con fretta corse,
tanto che giunse al monte che l’Austrino
vento produce, e spira contra l’Orse.
Trovò la cava onde per stretta bocca,
quando si desta, il furïoso scocca.
30
E come racordògli il suo maestro,
havea seco arrecato un utre vuoto.
Mentre ne l’antro rigido et alpestro
profondamente sogna il fiero Noto,
pon l’utre al buco Astolfo cheto e destro:
et è l’aguato in modo al vento ignoto
che, credendosi uscir fuor la dimane,
preso e legato in quel utre rimane.
31
Di tanta preda il Paladino allegro,
ritorna in Nubia, e in la medesma luce
si pone a caminar col popul negro,
e vittuaglia drieto si conduce.
A salvamento trasse il stuolo intègro
sopra l’Atlante il glorïoso Duce,
venuto al dritto per mezo la sabbia
senza temer che vento a nuocer gli habbia.
32
Giunto che fu di qua dal giogo, in parte
onde il pian si discopre e la marina,
Astolfo elegge la più nobil parte
del campo e la meglio atta a disciplina;
e qua e là per ordine la parte
a piè d’un colle, ove nel pian confina:
quivi la lascia, e su la cima ascende
in vista d’huom che a gran pensier intende.
33
Poi che, inchinando le ginocchia, fece
al santo suo maestro oratïone,
sicuro che sia udita la sua prece,
copia di sassi a far cader si pone.
Oh quanto a chi ben crede in Christo lece!
Li sassi, fuor di natural ragione
crescendo, si vedean venire in giuso,
e formar ventre e gambe e collo e muso:
34
e con chiari annitrir giù per quei calli
venian saltando, e giunti poi nel piano
scuotean le groppe, e fatti eran cavalli,
chi baio e chi leardo e chi roano.
La turba, che aspettando ne le valli
stava alla posta, lor dava di mano:
sì che in poche hore fur tutti montati;
che con sella e con freno erano nati.
35
Ottanta mila cento e dua in un giorno
fe’, di pedoni, Astolfo cavallieri.
Con questi tutta scórse Aphrica intorno,
facendo prede, incendi e prigionieri.
Posto Agramante havea fin al ritorno
el Re di Fersa e il Re de li Algazeri
col Re Branzardo a guardia del paese:
e questi si fêr contra il Duca Inglese,
36
prima havendo spacciato un suttil legno
che a vele e a remi andò battendo l’ali,
ad Agramante aviso come il regno
pativa da li Nubi oltraggi e mali.
Giorno e notte andò quel senza ritegno,
tanto che giunse a i liti Provenzali;
e trovò in Arli il suo Re mezo oppresso,
ch’el campo havea di Carlo un miglio appresso.
37
Sentendo il Re Agramante a che periglio,
per guadagnar il regno di Pipino,
lasciava il suo, chiamar fece a consiglio
Principi e Re del popul saracino.
E poi ch’una o due volte girò il ciglio
quinci a Marsiglio e quindi al Re Sobrino,
li qual d’ogn’altro fur, che vi venisse,
li dui più antiqui e saggi, così disse:
38
– Quantunque io sappia come mal convegna
a un capitano dir: non me ’l pensai,
pur lo dirò; che quando un danno vegna
d’ogni discorso human lontano assai,
a quel fallir par che sia excusa degna:
e qui si versa il caso mio; ch’errai
a lasciar d’arme l’Aphrica sfornita,
se da li Nubi esser devea assalita.
39
Ma chi pensato havria, fuor che Dio solo,
a cui non è cosa futura ignota,
che devesse venir con sì gran stuolo
a farne danno gente sì remota?
tra’ quali e noi giace l’instabil suolo
di quella arena ognhor da’ venti mota.
Pur è venuta ad assediar Biserta,
et ha in gran parte l’Aphrica deserta.
40
Hor sopra ciò vostro consiglio chieggio:
s’in Aphrica tornar come io ne venni,
o pur seguir tanto l’impresa deggio,
che i Gigli abbatta, e l’Aquila dispenni;
o come insieme salvar possa il seggio,
e non lasciar Francia e Christiani indenni.
Se alcun di voi sa dir, priego nol taccia,
acciò si truovi il meglio, e quel si faccia. –
41
Così disse Agramante; e volse li occhi
al Re di Spagna, che gli sedea appresso,
come mostrando di voler che tocchi
de li suoi detti la risposta ad esso.
E quel, poi che surgendo hebbe i ginocchi
per riverentia, e così il capo flesso,
nel suo honorato seggio si raccolse;
indi la lingua a tai parole sciolse:
42
– O bene o mal che la Fama ne porti,
Signor, di sempre crescerlo ha in usanza.
Per ciò non serà mai ch’io mi sconforti,
o mai più del dever pigli baldanza,
per casi o buoni o rei che sieno sorti:
ma sempre n’haverò tema e speranza
che esser debbian minori, e non del modo
ch’a noi per tante lingue venire odo.
43
E tanto men prestar gli debbio fede,
quanto più al verisimile s’oppone.
Hor se egli è verisimile si vede,
c’habbia con sì gran numer di persone
posto in la populosa Aphrica il piede
un Re di sì lontana regïone,
traversando l’arene a cui Cambyse
con male augurio il popul suo commise.
44
Crederò ben, che sien li Aràbi scesi
da le montagne, et habbian dato il guasto
e saccheggiato, e morti huomini e presi,
dove trovato havran poco contrasto;
e che Branzardo, che per quei paesi
di te luocotenente era rimasto,
per le decine scriva le migliaia
acciò l’excusa sua più degna paia.
45
Vuo’ concedergli anchor che sieno i Nubi
per miracol dal ciel forse piovuti;
o forse ascosi vennero in le nubi,
poi che non fur mai per camin veduti.
Temi tu che tal gente Aphrica rubi,
se ben di più soccorso non l’aiuti?
El tuo presidio havria ben trista pelle
quando temesse un populo sì imbelle.
46
Ma se tu mandi anchor che poche navi,
pur che si veggian li stendardi tuoi,
non volgeran sì presto al lito i clavi,
che fuggiran ne li confini suoi
questi, o sien Nubi o sien Aràbi ignavi,
ai quali il ritrovarti qui con noi,
separato pel mar da la tua terra,
ha dato ardir, e ti fa romper guerra.
47
Piglia l’occasïon che, per l’absenza
d’Orlando, sopra Carlo hai di vendetta:
poi che Orlando non c’è, mal resistenza
ti farà alcun de la nemica setta.
Se per non veder lasci, o negligenza,
l’honorata vittoria che te aspetta,
volterà il calvo, ove hor il crin ne mostra,
con molto danno e lunga infamia nostra. –
48
Queste et altre parole accortamente
usò l’Hispano, dando per consiglio
al Re Agramante di non farsi absente
da Francia, sin che non sfiorasse il Giglio:
a cui Sobrin, che vide apertamente
a che camino andava il Re Marsiglio,
che per util di Spagna dicea cose
poco al bisogno d’Aphrica, s’oppose;
49
e cominciò: – Signor, nel cor mi pesa
ch’io sia del nostro mal stato propheta
quando ti sconfortai da questa impresa,
che hor vedi ben come succede lieta,
allhor che mia sententia vilipesa
fu da quella superba et inquïeta
anima del audace Rodomonte,
cui ciò mi duol non poter dire in fronte;
50
ch’io vorria improverargli le parole
che disse da bestiale e furïoso,
ch’andarle a paro, o lasciar drieto vuole
tua Maestà nel caso periglioso:
poi nel bisogno, in le deserte e sole
montagne, non so dove, sta nascoso.
Et io, che per predirti il vero allhora
codardo detto fui, son teco anchora;
51
e serò sempremai, fin che abbandono
questa vita, che anchor che d’anni grave
per te sovente ho posta al risco e pono;
né mai fur l’opre mie triste né prave:
e con Orlando e con Rinaldo sono,
e con qual altro in Francia alcun nome have,
stato a battaglia; e non han fatto tanto
molti che se donâr di me più vanto.
52
Dico così, per dimostrar che quello
ch’io dissi allhora, e che ti voglio hor dire,
né per viltade vien né per cor fello,
ma d’amor vero e da fedel servire.
Io ti conforto ch’al paterno hostello,
più presto che tu puoi, vogli redire;
che poco saggio si può dir colui
che perde il suo per acquistar l’altrui.
53
Se acquisto c’è, tu ’l sai. Trentadui fummo
Re tuoi vassalli a uscir teco del porto:
hor, se di nuovo il conto ne rasummo,
c’è a pena il terzo, e tutto il resto è morto.
Che non ne cadan più, piaccia a Dio summo:
ma se tu vuoi seguir, temo di corto
che non ne rimarrà quarto né quinto;
e il miser popul tuo fia tutto extinto.
54
Ch’Orlando non vi sia, ne giova; che ove
siàn pochi, forse alcun non ci saria:
ma per questo il periglio non rimove,
se ben prolunga nostra sorte ria.
Rinaldo v’è, ch’a molte e molte prove
non mostra che minor d’Orlando sia;
v’è il suo lignaggio e tutti i paladini,
timore eterno a’ nostri Saracini.
55
Appresso a questi, quel secondo Marte
(ben che i nemici al mio dispetto lodo)
provato habbiàno, io dico Brandimarte,
il qual, per ciò ch’io ne connosco et odo,
ne fo giudicio che in alcuna parte
non sia d’Orlando meno ardito e prodo.
Poi son più dì che non v’è Orlando stato;
e più perduto habbiàn che guadagnato.
56
Se per adietro haven perduto, io temo
che da qui inanzi perderen più in grosso.
Del nostro campo Mandricardo è scemo;
Gradasso il suo soccorso n’ha rimosso;
Marphisa n’ha lasciati al punto estremo,
e così il Re d’Algier, di cui dir posso
che, se fusse fedel come gagliardo,
poco uopo era Gradasso o Mandricardo.
57
E dove tolti a noi son questi aiuti,
e tante mila son de’ nostri morti;
e quei che a venir han, son già venuti,
né s’aspetta altro legno che n’apporti;
quattro son giunti a Carlo, che tenuti
non son men che sia Orlando arditi e forti;
e per ragion, che da qui sino a Battro
potresti mal trovar tali altri quattro.
58
Non so se sai chi sia Guidon Selvaggio
e Sansonetto e i figli d’Oliviero
di questi fo più stima e più tema haggio,
che d’ogni duca insieme e cavalliero
che di Lamagna o d’altro stran linguaggio
sia contra noi per aiutar l’Impero;
ben che importa ancho assai la gente nuova
che a’ nostri danni in Francia se ritruova.
59
Quante volte uscirai alla campagna,
tante havrai la peggior, o serai rotto.
Se spesso il campo perse Aphrica e Spagna,
quando siàn stati sedici per otto,
che sarà dopo che Italia e Lamagna
e Francia et Inghilterra e il popul Scotto
son posti insieme, e dui contro un saranno?
ch’altro esser può, che nostro biasmo e danno?
60
La gente qui, là perdi a un tempo il Regno,
s’in questa impresa più duri ostinato;
dove, se al ritornar muti disegno,
servi l’avanzo di tua gente e il stato.
Lasciar Marsiglio in guerra è caso indegno
di te, ch’ognun te ne terrebbe ingrato;
ma c’è rimedio: far con Carlo pace,
ch’a lui deve piacer, s’a te pur piace.
61
Pur se ti par che non ci sia el tuo honore,
che tu, che offeso sei, prima la chieda,
e la battaglia più ti sta nel core,
qualunque, o male o ben, la ti succeda,
tenta restarne almen superïore:
che averrà forse, quando tu mi creda,
se d’ogni tua querela a un cavalliero
doni l’assunto, e se quel fia Ruggiero.
62
Io so, e tu ’l sai, ch’in arme è Ruggier tale,
che a sol a sol s’el pon con l’arme in mano,
né di Rinaldo né d’Orlando vale,
né men d’altro guerrier di Carlo Mano.
Ma se tu vuoi far guerra universale,
anchor che ’l valor suo sia soprahumano,
egli perhò non serà più che un solo,
e di par suoi troverà contra un stuolo.
63
Se a te par, a me par che a dir si mandi
al Re Christian, che per finir le liti,
e perché cessi il sangue che tu spandi
ognhor di suoi, egli de’ tui infiniti;
che contra un tuo guerrier tu gli dimandi
che metta in campo un de li suoi più arditi,
e faccian questi dui tutta la guerra,
fin che l’un vinca e l’altro resti in terra:
64
con patto, che qual d’essi perde, faccia
ch’el suo Re al altro Re tributo dia.
Questa conditïon non credo spiaccia
a Carlo, anchor che sul vantaggio sia.
Io mi confido in le robuste braccia
poi di Ruggier, che vincitor ne fia;
e ragion tanta è da la nostra parte,
che vincerà s’havesse contra Marte. –
65
Con questi et altri più efficaci detti
fece Sobrin sì che il partito ottenne;
e l’interpreti fur quel giorno eletti,
e quel dì a Carlo l’ambasciata venne.
Carlo, che havea tanti guerrier perfetti,
vinta per lui quella battaglia tenne,
di cui l’impresa al buon Rinaldo diede,
in che havea, dopo Orlando, maggior fede.
66
Di questo accordo parimente lieto
l’uno exercito e l’altro si godea;
né più curando i danni corsi a drieto,
ciascun gioir per l’avenir volea.
L’otio tranquillo e il bel viver quïeto
ogni lingua lodando al ciel tollea;
e maledicean tutti quel furore
che di far guerra havuto havean in core.
67
Rinaldo che exaltar molto si vede,
che Carlo in lui di quel che tanto pesa
ha più che in tutti li altri havuto fede,
lieto s’accinge all’honorata impresa.
Ruggier non stima; e veramente crede
che contra sé non potrà far difesa:
che possa valer tanto non gli è aviso,
se ben in campo ha Mandricardo occiso.
68
Ruggier dal’altra parte, anchor che molto
honor gli sia ch’el suo Re l’habbia eletto
e pel miglior di tutti i buoni tolto,
a cui commetta un sì importante effetto;
pur mostra affanno e gran mestitia in volto,
non per paura che gli turbi il petto
di andar contra Rinaldo, che non teme
se con Rinaldo fusse il mondo insieme:
69
ma perché vede esser di lui sorella
la sua cara e fidissima consorte
che ognhor scrivendo il stimula e martella,
come colei ch’è ingiurïata forte.
Hor se alle vecchie offese aggiunge quella
d’entrar in campo a porli il frate a morte,
se la farà, d’amante, così odiosa
che a placarla mai più fia dura cosa.
70
Se tacito Ruggier s’afflige et ange
de la battaglia che mal grado prende,
la sua cara moglier lachryma e piange,
come la nuova indi a poche hore intende:
batte il bel petto, e l’auree chiome frange,
e le guancie innocenti irriga e offende;
e chiama con ramarichi e querele
Ruggiero ingrato, e il suo destin crudele.
71
D’ogni fin che sortisca la contesa,
a lei non può venirne altro che doglia.
C’habbia a morir Ruggier in questa impresa,
pensar non vuol; che par ch’el cor le toglia.
Quando ancho, per punir più d’una offesa,
Christo de Francia la ruina voglia,
oltra che le serà morto il fratello,
seguirà un danno a lei più acerbo e fello:
72
che non potrà, se non con biasmo e scorno,
e nimicitia di tutta sua gente,
far al marito suo mai più ritorno,
sì che lo sappia ognun publicamente,
come s’havea, pensando notte e giorno,
più volte disegnato ne la mente;
e tra lor era la promessa tale,
ch’el ritrarsi e il pentir più poco vale.
73
Ma quella usata in l’altre cose adverse
mai non mancarle di soccorsi fidi,
dico Melissa maga, non sofferse
udirne il pianto e i dolorosi gridi;
e venne a consolarla, e le proferse,
quando ne fusse il tempo, alti sussidi,
e disturbar quella pugna futura
di ch’ella piange e si puon tanta cura.
74
Rinaldo intanto e l’inclyto Ruggiero
apparecchiava l’arme alla tenzone,
di cui devea la eletta al cavalliero
che del Romano Imperio era campione:
e come quel, che poi ch’el buon destriero
Baiardo perse, andò sempre pedone,
s’elesse a piè, coperto a piastra e maglia,
con l’Azza e col pugnal far la battaglia.
75
O fusse caso, o fusse pur ricordo
di Malagigi suo provido e saggio,
che sapea quanto Balisarda ingordo
il taglio havea di far all’arme oltraggio;
combatter senza spada fu d’accordo
l’uno e l’altro guerrier, come detto haggio.
Del luoco s’accordâr presso alle mura
del antiquo Arli in una gran pianura.
76
A pena havea la vigilante Aurora
dal hostel di Tithon fuor messo il capo,
per dar al giorno terminato, e all’hora
che era prefissa alla battaglia, capo;
quando di qua e di là vennero fuora
li eletti a-cciò, ch’in l’uno e in l’altro capo
de li steccati i padiglion tiraro,
e un grande altar presso a ciascun fermaro.
77
Dopo non molto, instrutto a schiera a schiera,
si vide uscir l’exercito pagano.
In mezo armato e suntüoso v’era
di barbarica pompa il Re Aphricano;
e s’un baio corsier di chioma nera,
di fronte bianca, e di dui piè balzàno,
a par a par con lui venìa Ruggiero,
di cui servir non è Marsiglio altiero.
78
L’elmo, che dianzi con travaglio tanto
trasse di testa al Re di Tartaria,
l’elmo, che celebrato in maggior canto
portò il Troiano Hettòr mill’anni pria,
gli porta il Re Marsiglio a canto a canto:
d’altri principi e re gran compagnia
s’hanno partite l’altre arme fra loro,
ricche di gioie e ben fregiate d’oro.
79
Da l’altra parte fuor di gran ripari
Re Carlo uscì con la sua gente d’arme,
con li ordini medesmi e modi pari
che terria se venisse al fatto d’arme.
Cingonlo intorno i suoi famosi Pari;
e Rinaldo è con lui con tutte l’arme,
fuor che l’elmo che fu del Re Mambrino,
che porta Ugier Danese paladino.
80
E di due Azze ha il duca Namo l’una,
e l’altra Salamon Re di Bertagna.
Carlo da un lato i suoi tutti raguna;
da l’altro son quei d’Aphrica e di Spagna.
Nel mezo non appar persona alcuna:
vuoto riman gran spatio di campagna,
che per bando commune a chi vi sale,
excetto a i deputati, è capitale.
81
Poi che de l’arme la seconda eletta
si diè al campion del populo pagano,
dui sacerdoti, l’un de l’una setta,
l’altro de l’altra, uscîr coi libri in mano.
In quel del nostro è la vita perfetta
scritta di Christo; e l’altro è l’Alcorano.
Con questi dui li Re si fêro inante,
Carlo con l’un, con l’altro il Re Agramante.
82
Giunto Carlo al altar che statuito
li suoi gli haveano, al ciel levò le palme,
e disse: – O Dio, c’hai di morir patito
per redimer da morte le nostre alme,
e tu Donna, di cui tanto gradito
da Dio fu il gran valor, che le sue salme
non si sdegnò in te porre, sì che, salvo
il tuo bel fiore, uscì del tuo santo alvo:
83
siatemi testimoni, ch’io prometto,
se di questa battaglia il mio campione
vinto riman, ch’el mio regno suggetto
sia per tributo e recognitïone
al Re Agramante, et a chi dopo eletto
serà al governo di sua regïone,
mandar ogn’anno venti some d’oro;
ma se vinco io, fo pace al signor Moro.
84
Gli fo pace con patto ch’ei mi renda
il censo che, perdendo, io daria a lui:
e s’in ciò manco, contra me s’accenda
la formidabil ira d’ambidui,
sì che in brevissima hora si comprenda
che sia il mancar de la promessa a vui. –
Così dicendo, Carlo sul Vangelo
tenea la mano, e li occhi fissi al cielo.
85
Si lievan quindi, e vanno a quello altare
che riccamente havean pagani adorno;
dove giurò Agramante che oltra il mare
con l’exercito suo faria ritorno,
et a Carlo daria tributo pare,
se restasse Ruggier vinto quel giorno;
e che, vincendo, anchor pace faria,
coi patti che havea Carlo detti pria.
86
E simelmente con parlar non basso,
chiamando in testimonio il gran Maumette,
sul libro c’havea in mano il suo Papasso,
ciò c’ha detto, osservar tutto promette.
Del campo poi se parteno a gran passo,
e tra’ suoi l’uno e l’altro si rimette.
Poi quel par di campioni a giurar venne;
e il giuramento lor questo contenne:
87
Ruggier promette, se de la tenzone
il suo Re viene o manda a disturbarlo,
che né suo guerrier più, né suo barone
esser mai vuol, ma darsi tutto a Carlo;
giura Rinaldo anchor, che se cagione
serà del suo signor di non lasciarlo
finir la impresa che ha verso Ruggiero,
esser vuol d’Agramante cavalliero.
88
Poi che le cerimonie finite hanno,
ciascun si ritornò da la sua parte.
Di qua e di là le trombe el segno dànno,
e l’uno e l’altro a un tempo se diparte;
e maestrevolmente se ne vanno
girando l’haste con gran forza et arte,
come ne l’altro canto v’ho da dire,
se in l’altro canto mi vorrete udire.

CANTO TRIGESIMOQUINTO

1
Un non so che, ch’io non so ben se rio
nominar debbio, o pur honesto e buono,
e se timor d’infamia, o se disio
di gloria il fa, non meno in dubbio sono,
extima alcun che di quel vase uscìo
ch’all’incauto Epimetheo fu mal dono;
e fra le pesti lo racconta e mali,
che turban la quïete de’ mortali.
2
Questo, o rispetto o debito che sia,
ch’io non so a punto ritrovargli il nome,
dal voler proprio spesso l’huom devìa
e al voler d’altri il tira per le chiome:
servo lo fa, che libero serìa;
et io non so bene explicarvi come
ch’in tanti casi, in tanti varii modi
avinge l’huom d’inextricabil nodi.
3
In voi porrò, donne, l’exempio prima,
che vi guastate mille bei piaceri,
che se di questo non facesse stima,
come non fanno molte, havreste intieri.
Se fate bene o male, altri l’exprima:
vi so ben dir che appresso l’Indi neri
le donne, che non han tanti rispetti,
vivon più liete in lor communi letti.
4
Questa, che forse serìa meglio detta
opinïon, che debito o virtute,
per minima cagion fa che negletta
ha l’huom sovente la propria salute;
affinitade et amicitia stretta
ha vïolate e in poco conto havute,
et a servigio e soldo de tyranni
ha fatto a cari amici oltraggi e danni.
5
Lascio li antiqui exempli di soldati
di Cesar, di Pompeo, d’Antonio e Bruto,
ch’a lor patria, a lor sangue erano ingrati,
dando a’ lor capi in le mal’opre aiuto:
quanti n’havete, o glorïosi nati
d’Hercole invitto, a questi dì veduto
che vi son stati e son di cor amici,
e ne li effetti poi come nemici!
6
L’essere o con Vinegia o col Pastore,
o con altra potentia a voi nemica,
par lor, per questo universale errore,
ch’oblighi più che l’amicitia antica.
Di farvi danno a tutti scoppia il core;
e pur lo fanno, ovunque lor lo dica
questo, che far il debito vien detto,
che non si lascia inanzi altro rispetto.
7
Ma voi, c’havete cognition del strano
stilo c’ha ’l mondo, o ben o mal che s’usi,
ben c’havea il luoco il cardinal Thoscano,
che usar mal seppe quel de li Alidusi,
né lui perhò, né il suo fratel Giugliano
da l’amicitia vostra havate exclusi,
li dui rampolli del ben nato lauro
che fe’, mentre fu verde, il secul d’auro.
8
Se fu il Duca d’Urbino ubidïente
al Zio nel guerreggiarvi, non gli tolle
che del mal vostro, come buon parente,
non habbia havuto il cor di pietà molle;
né voi manco l’amate, onde sovente,
con quelle maggior laudi che s’extolle
huom di valor, vi sento l’opre belle
de’ suoi verdi anni alzar fin alle stelle.
9
Io potrei ricordare altri infiniti
che son stati e anchor sono amici vostri,
ben che per tai rispetti habbian seguiti
a’ nostri danni li aversarii nostri.
Discorrendo vi vo per questi riti,
acciò che di Ruggiero io vi dimostri
ch’esser può che Rinaldo honori et ami,
e che a battaglia tuttavolta il chiami.
10
Poi che tra lor fermati hebbeno i patti
che i Re fêr prima e i cavallieri poi,
e giuramenti e cerimonie et atti,
ciascun secondo i modi e riti suoi,
fu dato il segno di venire a’ fatti;
e quinci e quindi i glorïosi Heroi
con lungo passo e maestrevol giro
a far le piastre risuonar veniro.
11
Hora inanzi col calce, hor col martello
accennan quando al capo e quando al piede,
con tal destrezza e con modo sì snello,
ch’ogni credenza il raccontarlo excede.
Ruggier, che combattea contra il fratello
di quella che gli ha tolto e gli possiede
il cor e l’alma, havea tanto riguardo,
che stimato ne fu manco gagliardo.
12
Era a parar, più che a ferir, intento,
e non sapea egli stesso il suo desire:
spenger Rinaldo saria mal contento,
né vorria volentier egli morire.
Ragion non vede o fortuìto evento
che de’ dui casi non debbia un seguire;
et è tra sé sì incerto e d’error pieno,
ch’elegger non sapria che voler meno.
13
Rinaldo, che non ha simil pensiero
e in tutti i modi alla vittoria aspira,
menando l’Azza dispettoso e fiero,
quando alle braccia e quando ad altro mira.
Volteggiando con l’hasta il buon Ruggiero
ribatte il colpo, e quinci e quindi gira;
e se percuote pur, disegna luoco
dove possa a Rinaldo nuocer poco.
14
Alla più parte de’ signor pagani
parea che disugual fusse la zuffa:
che Ruggier pigro era a menar le mani,
e che Rinaldo lui sì ben rabuffa.
Smarrito in faccia il Re de li Aphricani
mira l’assalto, e ne suspira e sbuffa:
et accusa Sobrin, da cui procede
tutto l’error, ch’el mal consiglio diede.
15
Melissa in questo tempo, che era fonte
di quanto sappia incantatore o mago,
havea cangiata la feminil fronte
e del gran Re d’Algier presa l’imago:
sembrava al viso e ai gesti Rodomonte,
e parea armata di pelle di drago;
e tale il scudo e tal la spada al fianco
havea, qual usava egli, e nulla manco.
16
Nanzi Agramante e nanzi al Re Marsiglio
spinge il demonio in forma di cavallo;
e con gran voce e con turbato ciglio
disse: – Signor, questo è pur troppo fallo
ch’un giovene inexperto a far periglio
contra un sì forte e sì famoso Gallo
habbiate eletto, e in cosa di tal sorte
che ’l regno e l’honor d’Aphrica ne importe.
17
Non si lassi seguir questa battaglia,
che ne sarebbe in troppo detrimento.
Su Rodomonte sia, né ve ne caglia,
l’haver il patto rotto e il giuramento.
Dimostri ognun come sua spada taglia:
inanzi inanzi ognun, diamo lor drento! –
Puoté questo parlar sì in Agramante,
che senza più pensar si cacciò inante.
18
Il ritrovarsi appresso il Re d’Algieri
fece che si curò poco del patto;
e non havria di mille cavallieri
giunti in suo aiuto sì gran stima fatto.
Per ciò lancie abbassar, spronar destrieri
di qua e di là veduto fu in un tratto.
Melissa, poi che con sue finte larve
la battaglia attaccò, subito sparve.
19
Li dui campion, che videro turbarsi
contra ogni accordo, contra ogni promessa,
fuor de la turba subito ritrârsi,
havendosi ogni ingiuria già rimessa
e datosi la fé non impacciarsi
né qua né là, fin che la colpa expressa
non fusse lor, che rotto il patto inante
havesse o il Re di Francia o il Re Agramante.
20
E replicâr con nuovi giuramenti
d’esser nemici a chi mancò di fede.
Sozopra se ne van tutte le genti:
chi nanzi, e chi ritorna a dietro il piede.
Chi sia fra i vili, e chi tra i più valenti
in un atto medesimo si vede:
son tutti parimente al correr presti;
ma quei corrono inanzi, e indrieto questi.
21
Qual levorer che disboscata fera
correre intorno et aggirarsi mira,
né può con li compagni andar in schiera,
ch’el cacciator lo tien; con sdegno et ira
si corruccia, s’afflige e si dispera,
sgiatisce indarno, e se dibatte e tira:
tutto quel giorno in tal modo, in tal guisa
ste’ Bradamante e l’inclyta Marphisa.
22
S’haveano inanzi sin allhor vedute
le genti saracine in sì bel piano;
e che fusser dal patto ritenute
di non poter in esse poner mano,
ramaricate s’erano e dolute,
e n’havean molto suspirato invano:
hor che i patti e le tregue vider rotte,
liete saltaro in l’Aphricane frotte.
23
Marphisa cacciò l’hasta per il petto
al primo che scontrò, due braccia a dietro;
poi trasse ’l brando, e in men che non l’ho detto
spezzò quattro elmi, che sembrâr di vetro.
Bradamante non fe’ minor effetto
con l’hasta d’or, ma con diverso metro:
tutti quei che toccò per terra mise,
che fur duotanti; ma nessuno uccise.
24
Questo sì presso l’una al’altra fêro,
che testimonie se ne fur tra loro;
poi si scostaro, et a ferir si diero,
dove le trasse l’ira, il popul Moro.
Chi potrà conto haver d’ogni guerriero
che a terra mandi quella lancia d’oro?
o d’ogni testa che tronca e divisa
sia dala horribil spada di Marphisa?
25
Come al spirar de’ più benigni venti,
quando Apennin scopre l’herbose spalle,
movonsi a par dui turbidi torrenti
che nel cader fan poi diverso calle;
svellono i sassi e li arbori eminenti
da l’alte ripe, e portan ne la valle
le biade e i campi; e come a gara fanno
a chi far può nel suo camin più danno:
26
così le due magnanime guerriere,
scorrendo il campo per diversa strada,
fanno gran strage in l’Aphricane schiere,
l’una con l’hasta, e l’altra con la spada.
Tiene Agramante a pena alle bandiere
la gente sua, che in fuga non ne vada.
Invan dimanda, invan volge la fronte;
né può saper che sia di Rodomonte.
27
A suasïon di lui rotto havea il patto
(così credea) che fu solennemente,
li dèi chiamando in testimonio, fatto;
poi s’era dileguato sì repente.
Né Sobrin vede anchor: Sobrin ritratto
s’era in la terra, e dettosi innocente
di quel pergiuro, di che aspra vendetta
sopra Agramante il dì medesmo aspetta.
28
Marsiglio anchor fuggito era in la terra,
sì la religïon gli preme al core.
Per ciò male Agramante il passo serra
a quei che mena Carlo Imperatore
d’Italia, di Lamagna et Inghilterra,
che tutte sono genti di valore,
et hanno i paladin sparsi tra loro
come le gemme in un riccamo d’oro;
29
et con li paladini alcun perfetto
quanto esser possa al mondo cavalliero,
Guidon Selvaggio, l’intrepido petto,
i dui famosi figli d’Oliviero.
Io non voglio ridir, ch’io l’ho già detto,
di quel par di donzelle ardito e fiero.
Questi occidean di genti saracine
tanto, che non v’è numero né fine.
30
Ma differendo questa pugna alquanto,
io vuo’ passar senza naviglio il mare:
non ho con quei di Francia da far tanto
ch’io non mi debbia Astolfo ricordare.
La gratia che li diè l’Apostol santo
io v’ho già detto, e detto haver mi pare
ch’el Re Branzardo e il Re de l’Algazera
per irli incontra armasse ogni sua schiera.
31
Furon di quei che haver si puòte in fretta
le schiere di tutta Aphrica raccolte,
così d’inferma età come perfetta,
quasi che anchor le femine fur tolte.
Agramante ostinato alla vendetta
havea già vuota l’Aphrica due volte;
poche genti rimase erano, e quelle
exercito facean timido e imbelle.
32
Ben lo mostrâr; che li nemici a pena
vider lontan, che se n’andaron rotti.
Astolfo come pecore li mena
dinanzi ai suoi di guerreggiar più dotti,
e fe’ restarne la campagna piena:
pochi a Biserta se ne son ridotti.
Prigion rimase Bucifar gagliardo;
salvossi ne la terra il Re Branzardo,
33
via più dolente sol di Bucifaro,
che se tutto perduto havesse il resto.
Biserta è grande, e farle gran riparo
bisogna, e senza lui mal può far questo:
poterlo riscattar molto havria caro.
Mentre vi pensa e ne sta afflitto e mesto,
gli vien in mente come tien prigione
già molti mesi il paladin Dudone.
34
Lo prese sotto a Monacho in rivera
il Re di Sarza nel primo passaggio;
da indi in qua prigion sempre stato era
Dudon, che del Danese fu lignaggio.
Mutar costui col Re de l’Algazera
pensò Branzardo, e ne mandò messaggio
al Capitan de’ Nubi, perché intese
per vera spia ch’egli era Astolfo inglese.
35
Essendo Astolfo paladin, comprende
che haver de’ caro un paladin disciorre.
Il gentil Duca, come il caso intende,
col Re Branzardo in un voler concorre.
Liberato Dudon, gratie ne rende
al Duca, e seco si mette a disporre
le cose che appertengono alla guerra,
così quelle da mar, come da terra.
36
Havendo Astolfo exercito infinito
da non gli far sette Aphriche difesa;
e ramentando come fu ammonito
dal santo Vecchio che gli diè l’impresa
di tôr Provenza e d’Acquamorta il lito
di man di Saracin che l’havean presa;
d’una gran turba fece nuova eletta,
quella che al mar gli parve manco inetta.
37
Et havendosi piene ambe le palme,
quanto potean capir, di varie fronde
di cedri e lauri e myrti, olive e palme,
venne sul mare, e quelle sparse in l’onde.
Oh felici e dal ciel ben dilette alme,
gratia che Dio raro a’ mortali infonde!
Oh stupendo miracolo che nacque
di quelle frondi, come furo in l’acque!
38
Crebbero in quantità fuor d’ogni stima;
se feron curve e grosse e lunghe e gravi;
le vene ch’attraverso haveano prima
mutaro in dure spranghe e grossi travi:
e rimanendo acute invêr la cima,
tutte in un tratto diventaro navi
di differenti qualitadi, e tante,
quante raccolte fur da varie piante.
39
Miracol fu veder le fronde sparte
produr fuste, galee, navi da gabbia;
fu miracol anchor che vele e sarte
e remi havean, quanto alcun legno n’habbia.
Non mancò al Duca poi chi havesse l’arte
di governarsi alla ventosa rabbia;
che di Sardi e di Corsi non remoti,
nocchier, padron, pennesi hebbe e piloti.
40
Quelli che intraro in mar contati fôro
ventiseimila, e gente d’ogni sorte.
Dudon andò per capitano loro,
cavallier saggio, e in terra e in acqua forte.
Stava l’armata anchora al lito Moro,
miglior vento aspettando che la porte,
quando un naviglio sorse a quella riva,
che di presi guerrier carco veniva.
41
Portava quei che al periglioso ponte,
dove alle giostre il campo era sì stretto,
pigliato havea l’audace Rodomonte,
come più volte v’ho di sopra detto.
Il cognato tra questi era del Conte
col fedel Brandimarte e Sansonetto,
et altri anchor, che dir non mi bisogna,
d’Alemagna e d’Italia e di Guascogna.
42
Quivi il nocchier, che anchor non s’era accorto
de li inimici, intrò con la galea,
lasciando molte miglia a dietro il porto
d’Algier, dove calar prima volea,
per un vento gagliardo ch’era sorto,
e spinto oltra il dever la poppa havea.
Venir tra’ suoi credette e in luoco fido,
come vien Progne al suo loquace nido.
43
Ma come poi l’Imperïal augello,
i Gigli d’oro e i Pardi vide appresso,
restò pallido in faccia, come quello
ch’el piede incauto d’improviso ha messo
sopra il serpente venenoso e fello,
dal pigro sonno in mezo l’herbe oppresso;
che spaventato e smorto si ritira,
fuggendo quel, ch’è pien di tòsco e d’ira.
44
Quindi fuggir non puòte già il nocchiero,
né tener seppe i prigion suoi di piatto.
Con Brandimarte fu, con Oliviero,
con Sansonetto e con molt’altri tratto
dove il bon Duca e il bon figliol d’Ugiero,
poi che lieta accoglienza hebbeno fatto
a-lloro amici, lui che li condusse
vollon che condennato al remo fusse.
45
Com’io vi dico, dal figliuol d’Othone
li cavallier christian furon ben visti,
e di mensa honorati al padiglione,
d’arme e di ciò che bisognò provisti.
Per amor d’essi differì Dudone
l’andata sua; che non minori acquisti,
con costor ragionando, far si stima,
che se fusse ito uno o dui giorni prima.
46
In che stato, in che termine si trove
la Francia e Carlo, instruttïon vera hebbe;
et informossi, navigando, dove,
per far miglior effetto, calar debbe.
Mentre da lor viene intendendo nuove,
s’udì un rumor che tuttavia più crebbe;
e un dar all’arme ne seguì sì fiero,
che fece a tutti far più d’un pensiero.
47
Il duca Astolfo e la compagna bella,
che ragionando insieme si trovaro,
in un momento armati furo e in sella,
e verso il maggior grido in fretta andaro,
di qua e di là cercando haver novella
di quel alto rumore; e capitaro
dove videro un huom tanto feroce,
che nudo e solo a tutto il campo nuoce.
48
Menava un suo baston di legno in volta,
che era sì duro, sì grave e sì fermo,
che declinando quel, facea ogni volta
cader in terra un huom peggio che infermo.
Già a più di cento havea la vita tolta;
né più se gli facea riparo o schermo,
se non tirando di lontan saette:
d’appresso non è alcun già che l’aspette.
49
Dudone, Astolfo, Brandimarte, essendo
corsi in fretta al rumore, et Oliviero,
de la gran forza e del valor stupendo
stavan maravigliosi di quel fiero;
quando venir s’un palafren correndo
videro una Donzella in vestir nero,
che corse a Brandimarte e salutollo,
e gli alzò a un tempo ambe le braccia al collo.
50
Questa era Fiordiligi, che sì acceso
havea d’amor per Brandimarte il core,
che quando al stretto ponte il lasciò preso,
vicina ad impazzar fu di dolore.
Passato havea di là dal mare, inteso
havendo dal Pagan, che ne fu authore,
che mandato con molti cavallieri
era prigion ne la città d’Algieri.
51
Quando fu per passare, havea a Marsiglia
una nave trovata di Levante,
ove era un cavallier de la famiglia
del Re di Damogir, Re Monodante,
ch’era venuto un gran numer di miglia,
quando per mar, quando per terra errante,
cercando Brandimarte, che tra via
udito havea ch’in Francia troveria.
52
Et ella, connosciuto che Bardino
era costui, Bardino che rapito
al padre Brandimarte piccolino,
et a Ròcca Silvana havea notrito,
e intesone la causa del camino,
seco fatto l’havea scioglier dal lito,
havendogli narrato in che maniera
Brandimarte passato in Aphrica era.
53
Tosto che furo a terra, udîr le nuove
ch’assediata d’Astolfo era Biserta:
che seco Brandimarte si ritrove
udito havean, ma non per cosa certa.
Hor Fiordiligi in tal fretta si muove,
come lo vede, che ben mostra aperta
quella allegrezza ch’i precessi guai
le fenno la maggior c’havesse mai.
54
El gentil cavallier, non men giocondo
di veder la diletta e fida moglie
ch’amava più di cosa altra del mondo,
l’abbraccia e bacia e dolcemente accoglie:
né per satiar al primo n’al secondo
n’al terzo bacio era l’accese voglie;
se non ch’alzando li occhi hebbe veduto
Bardin che con la donna era venuto.
55
Porse le mane, et abbracciar lo volle,
e insieme dimandar perché venìa;
ma di poterlo far tempo gli tolle
il campo ch’in disordine fuggìa
dinanzi a quel baston ch’el nudo folle
menava intorno, e gli facea dar via.
Fiordiligi mirò quel nudo in fronte,
e gridò a Brandimarte: – Eccovi il Conte! –
56
Astolfo tutto a un tempo, ch’era quivi,
che questo Orlando fusse, hebbe palese
per alcun’ segni che da i vecchi divi
su nel terreste Paradiso intese;
altrimente restavan tutti privi
di notitia di lui; che tanto offese
Orlando il disprezzarsi e l’esser stolto,
che più di fera havea, che d’hom, il volto.
57
Astolfo, per pietà che gli traffisse
el petto e il cor, si volse lachrymando,
et a Dudon (che gli era appresso) disse,
et indi ad Olivier: – Eccovi Orlando! –
E quelli li occhi e le palpèbre fisse
tenendo in lui, l’andâr raffigurando;
e il ritrovarlo in tal calamitade
li empì di maraviglia e di pietade.
58
Piangean quelli signor per la più parte,
sì lor ne dolse e lor ne ’ncrebbe tanto.
– Tempo è (lor disse Astolfo) trovar arte
di risanarlo, e non da farli il pianto; –
e saltò a piedi, e così Brandimarte,
Sansonetto, Oliviero e Dudon santo:
e s’aventaro al nipote di Carlo
tutti in un tempo; che volean pigliarlo.
59
Orlando, che si vide fare il cerchio,
menò il baston da disperato e folle;
et a Dudon, che si facea coperchio
del scudo al capo e ch’intrar sotto volle,
fe’ sentir ch’era grave di soperchio:
e se non ch’Olivier col brando tolle
parte dil colpo, havria il baston ingiusto
rottogli il scudo, l’elmo, il capo e il busto.
60
Il scudo roppe sol, et su l’elmetto
tempestò sì, che Dudon cadde in terra.
Menò la spada a un tempo Sansonetto;
et del baston più di dua braccia afferra
con valor tal, che tutto il taglia netto.
Brandimarte, ch’adosso se gli serra,
gli cinge i fianchi, quanto può, con ambe
le braccie, e Astolfo il piglia ne le gambe.
61
Scuotesesi Orlando, e lunge dieci passi
da sé l’Inglese fa cader riverso:
non fa perhò che Brandimarte il lassi,
che con più forza l’ha preso a traverso.
Ad Olivier, che troppo inanzi fassi,
menò un pugno sì duro e sì perverso,
che lo fe’ cader pallido et exangue,
e dal naso e da li occhi uscir il sangue.
62
E se non era l’elmo più che buono,
c’havea Olivier, l’havria quel pugno occiso:
cadde perhò, come se fatto dono
havesse già del spirto al paradiso.
Dudone e Astolfo, che levati sono,
ben che Dudon habbia gonfiato il viso,
e Sansonetto, ch’el bel colpo ha fatto,
adosso a Orlando son tutti in un tratto.
63
Dudon con gran vigor drieto l’abbraccia,
pur tentando col piè farlo cadere;
Astolfo e l’altri gli han prese le braccia,
né lo puon tutti insieme ancho tenere.
C’ha visto Toro a cui si dia la caccia,
e che all’orecchie habbia le Zanne fiere,
correre muggendo, e trarre ovunque corre
li cani seco, e non potersi sciorre;
64
imagini ch’Orlando fusse tale,
che tutti quei guerrier si trahea drieto.
In quel tempo Olivier di terra sale,
dove lo stese il pugno mal discreto;
e connoscendo che i compagni male
potranno far che stia quel pazzo cheto,
si pensò un modo, et ad effetto il messe,
di far cader Orlando, e gli successe.
65
Si fe’ quivi arrecar più d’una fune,
e con nodi correnti adattar presto;
et alle gambe et alle braccia alcune
fe’ porre a Orlando, et a traverso il resto;
la turba intorno poi non lasciò immune,
che diede i capi in mano a quello e a questo.
Per quella via che maniscalco atterra
cavallo o bue, fu tratto Orlando in terra.
66
Come egli è in terra, gli son tutti adosso,
e legangli più forte e piedi e mani.
Assai di qua e di là s’è Orlando scosso,
ma li risforzi suoi tutti son vani.
Commanda Astolfo che sia quindi mosso,
che dice voler far che se risani.
Dudon, ch’è grande, il lieva in su le schiene,
e porta al mar sopra l’estreme arene.
67
Lo fa lavar Astolfo sette volte,
e sette volte sotto acqua l’attuffa;
sì che dal viso e da le membra stolte
lieva la brutta rugine e la muffa:
poi con certe herbe, a questo effetto colte,
la bocca chiuder fa, che soffia e buffa;
che non volea che havesse altro meato
donde spirar, che per il naso, il fiato.
68
Haveasi Astolfo apparecchiato il vaso
in che il senno d’Orlando era rinchiuso;
e quel in modo appropinquolli al naso,
che nel tirar che fece il fiato in suso,
tutto il vuotò: maraviglioso caso!
che ritornò la mente al primier uso
et ai suoi bei discorsi; e l’intelletto
rivenne più che mai lucido e netto.
69
Come chi da noioso e grave sonno,
dove o vedere abominevol forme
de mostri che non son, né ch’esser ponno,
o gli par cosa far strana et enorme,
anchor se maraviglia, poi che donno
è fatto de’ suoi sensi, e che non dorme;
così, poi che fu Orlando di error tratto,
restò maraviglioso e stupefatto.
70
E Brandimarte, e il fratel d’Aldabella,
e quel ch’el senno in capo gli redusse,
pur pensando riguarda, e non favella,
come e quando con lor qui si condusse.
Girava li occhi in questa parte e in quella,
né sapea imaginar dove si fusse.
Si maraviglia che nudo si vede,
e tante funi ha da le spalle al piede.
71
Poi disse, come già disse Sileno
a quei che lo legâr nel cavo speco:
Solvite me, – con viso sì sereno,
con sguardo sì men del usato bieco,
che fu slegato; e di panni c’havièno
fatti arrecar participaram seco,
consolandolo tutti del dolore
che lo premea de lo passato errore.
72
Poi che fu all’esser primo ritornato
Orlando, più che mai saggio e virile,
d’amor si trovò insieme liberato;
sì che colei, che sì bella e gentile
gli parve dianzi, e che havea tanto amato,
non stima più se non per cosa vile.
Ogni suo studio, ogni disio converse
per racquistar quanto in amor già perse.
73
Narrò Bardino intanto a Brandimarte
che morto era il suo padre Monodante;
e ch’a chiamarlo al regno egli da parte
prima venìa del frate suo Gigliante,
poi de le genti c’habitan le sparte
isole in mare et ultime in Levante;
di che non era un altro regno al mondo
sì ricco, populoso, o sì giocondo.
74
Disse molte ragion che devea farlo:
che dolce cosa era la patria; e quando
si disponesse di voler gustarlo,
havria poi sempre in odio andare errando.
Brandimarte rispose voler Carlo
servir per tutta questa guerra e Orlando;
e se potea vederne il fin, che poi
penseria meglio sopra i casi suoi.
75
Orlando con Astolfo si ristrinse,
e poi ch’el stato de la guerra intese,
verso Provenza con l’armata spinse
(come ordine era) il figlio del Danese.
Tutta Biserta poi d’assedio cinse,
dando perhò l’honore al duca Inglese
d’ogni vittoria; ma quel Duca il tutto
facea come dal Conte venìa instrutto.
76
Ch’ordine habbian tra lor, come se assaglia
la gran Biserta, e da che lato e quando,
come sia presa alla prima battaglia,
e chi habbia in l’honor parte con Orlando,
s’io non vi séguito hora, non vi caglia;
ch’io non me ne vo molto dilungando.
In questo mezo di saper vi piaccia
come da i Franchi i Mori hanno la caccia.
77
Fu quasi il Re Agramante abbandonato
nel pericol maggior di quella guerra;
che con molti pagani era tornato
Marsiglio e il Re Sobrin dentro alla terra;
poi su l’armata è questo e quel montato,
che dubbio havean di non salvarsi in terra;
e duci e cavallier del popul Moro
molti seguito havean l’exempio loro.
78
Agramante, che fuor la pugna tenne
con troppo ardir fin che tener la puòte,
con li altri in fuga al ultimo ne venne
verso le porte non troppo remote.
Rabican drieto par c’habbia le penne,
che Bradamante il stimola e percuote:
era occider quel Re cupida molto;
che tante volte il suo Ruggier l’ha tolto.
79
Il medesmo desir Marphisa havea,
per far del padre suo tarda vendetta;
e con li sproni, quanto più potea,
facea al caval sentir ch’ella havea fretta.
Ma né l’una né l’altra vi giungea
perhò sì a tempo che fusse intercetta
al Re la fuga, e che non si salvasse
dietro alli altri nel mar, dove si trasse.
80
Come due belle e generose parde
che de le lasse sien di pari uscite,
poi che o li cervi o le capre gagliarde
indarno haver si veggiono seguite,
vergognandosi quasi che fur tarde,
sdegnose se ne tornano e pentite;
così tornâr le due Donzelle, quando
videro il Pagan salvo, suspirando.
81
Non perhò si fermâr; ma ne la frotta
de li altri che fuggivano cacciârsi,
facendo quinci e quindi ad ogni botta
molti cader senza mai più levarsi.
A mal partito era la gente rotta,
che per fuggir non potea anchor salvarsi;
che Agramante havea fatto per suo scampo
chiuder la porta che uscia verso il campo,
82
e fatto sopra il Rodano tagliare
tutti li ponti. Ah sfortunata plebe,
che dove del tyranno utile appare,
fu sempre in conto di pecore e zebe!
Chi s’affoga nel fiume e chi nel mare,
chi sanguinose fa di sé le glebe:
molti perîr, pochi restâr prigioni;
che pochi (a farsi taglia) erano buoni.
83
De la gran moltitudine che occisa
fu da ogni parte in questa ultima guerra,
ben che la cosa non fu ugual divisa,
ch’assai più andaro Saracin sotterra
per man di Bradamante e di Marphisa,
se ne vede anchor segno in quella terra;
che presso ad Arli, ove il Rodano stagna,
pien di sepolchri è tutta la campagna.
84
Fatto havea intanto il Re Agramante sciorre
e ritirar in alto i legni gravi,
lasciando alcuni, e i più liggieri, a tôrre
quei che potean fuggir fin alle navi.
Vi stette dui dì sorto, per raccôrre
le sue reliquie, e perché venti pravi
spiravano e contrarii al suo ritorno:
slegossi e fe’ far vela il terzo giorno.
85
Il Re Marsiglio, che sta in gran paura
ch’alla sua Spagna il fio pagar non tocche,
e la tempesta horribilmente oscura
ne li suoi campi all’ultimo non scocche,
si fe’ porre a Valenza, e con gran cura
cominciò a riparar castella e ròcche,
e preparar la guerra che fu poi
la sua ruina e de’ sudditi suoi.
86
Verso Aphrica Agramante alzò le vele
de’ legni mal armati, e vuoti quasi:
d’huomini vuoti, e pieni di querele;
ch’in Francia li tre quarti eran rimasi.
Chi chiama il Re superbo, chi crudele,
chi stolto; e come aviene in simil casi,
tutti gli voglion mal ne’ lor secreti,
ma timor n’hanno, e stan per forza cheti.
87
Pur dui talhora o tre schiudon le labbia,
che amici sono, e che tra lor s’han fede,
e sfuogano la chòlera e la rabbia;
e il misero Agramante extima e crede
ch’ognun gli porti amor e pietà gli habbia:
e questo gl’intervien perché non vede
mai visi se non finti, e mai non ode
fuor che adulatïon, menzogne e frode.
88
Erasi consigliato il Re Aphricano
non venire a smontar nanzi a Biserta,
perhò c’havea del popul Nubïano,
che quel lito tenea, novella certa;
ma tenersi di sopra sì lontano,
che non gli fusse difficile et erta
la scesa in terra, e tornar quindi al dritto
a dar soccorso al suo popul afflitto.
89
Ma suo fiero destin, che non risponde
a quella intentïon provida e saggia,
vuol che l’armata che nacque di fronde
miracolosamente ne la spiaggia,
e vien solcando inverso Francia l’onde,
con questa ad incontrar di notte s’haggia
a nubiloso tempo, oscuro e tristo,
perché sia in più disordine e sprovisto.
90
Non ha havuto Agramante anchora spia
che Astolfo mandi una armata sì grossa;
né creduto ancho (a chi ’l dicesse) havria
che cento navi un ramuscel far possa:
e vien senza temer che intorno sia
che contra lui s’ardisca di far mossa;
né pone guardie né vedetta in gabbia,
che di ciò che si scuopre avisar habbia.
91
Sì che i navigli che da Astolfo havuto
havea Dudon, di buona gente armati,
e che havean questi la sera veduto
et alla volta lor s’eran drizzati,
trovaron l’inimico sproveduto
e l’assalîr gettando i ferri hamati,
poi ch’al parlar certificati fôro
ch’erano Mori e li nemici loro.
92
Nel arrivar che i gran navigli fenno
(spirando il vento a’ lor desir secondo),
ne i Saracin con tal impeto dénno,
che molti legni ne cacciaro al fondo.
Poi cominciaro oprar le mani e il senno,
e ferro e fuoco e sassi di gran pondo
tirar con tanta e sì fiera tempesta,
che mai non hebbe il mar simile a questa.
93
Quei di Dudone, a cui possanza e ardire
più del solito è lor dato di sopra
(che venuto era il tempo di punire
li Saracin di più d’una mal’opra),
sanno appresso e lontan sì ben ferire,
che non truova Agramante ove si copra.
Gli cade sopra un nembo di saette;
da lato ha spade e graffi e pichi e cette.
94
D’alto cader sente gran sassi e gravi
da machine cacciati e da tormenti,
e prore e poppe fraccassar de navi
et aprir usci al mar larghi e patenti;
e ’l maggior danno è de l’incendii pravi,
a nascer presti, ad amorzarsi lenti.
La sfortunata ciurma si vuol tôrre
del gran periglio, e via più ognhor vi corre.
95
Altri, ch’el ferro e l’inimico caccia,
nel mar si getta, e vi s’affoga e resta;
altri, che muove a tempo piedi e braccia,
va per salvarsi o in quella barca o in questa;
ma quella, grave oltra il dever, lo scaccia,
e la man, per salir troppo molesta,
fa restar attaccata ne la sponda:
ritorna il resto a far sanguigna l’onda.
96
Altri, che spera in mar salvar la vita
o perderlavi almen con minor pena,
poi che nuotando non ritruova aita
e mancar sente l’animo e la lena,
alla vorace fiamma, c’ha fuggita,
la tema d’annegarsi ancho rimena:
s’abbraccia a un legno ch’arde, e per timore
c’ha di due morti, in l’una e in l’altra muore.
97
Altri, per tema di spiedo o di cetta
che vede appresso, al mar ricorre invano,
perché drieto gli vien pietra o saetta
che non lo lascia andar troppo lontano.
Ma serìa forse, mentre che diletta
il mio cantar, consiglio utile e sano
finirlo qui, più presto che seguire
tanto, che v’annoiasse il troppo dire.

CANTO TRIGESIMOSEXTO

1
Lungo serìa se li diversi casi
volessi dir di quel naval conflitto;
e raccontarlo a voi sarebbe quasi,
magnanimo figliuol d’Hercole invitto,
portar (come se dice) a Samo vasi,
nottole a ’Thene, e crocodilli a Egytto;
che quanto per udita io ve ne parlo,
signor, miraste, e fêste altrui mirarlo.
2
Gran spettacolo e lungo hebbe il fedele
vostro popul la notte e il dì che stette,
come in theatro, l’inimiche vele
mirando in Po tra ferro e fuoco astrette.
Che gridi udir si possano e querele,
ch’onde veder di sangue humano infette,
per quanti modi in tal pugna si muora
vedeste, e a molti il dimostraste allhora.
3
Nol vide io già, ch’ero sei giorni inanti,
mutando ognhora altre vetture, corso
con molta fretta e molta a i piedi santi
del gran pastore a dimandar soccorso:
poi né cavalli bisognâr né fanti;
ch’intanto al Leon d’or l’artiglio e il morso
havate rotto sì, che più molesto
non l’ho sentito da quel giorno a questo.
4
Absente ero io; ma il Bagno, il Zerbinatto,
Luigi, Alfonso, Elpasto, Afranio, Alberto,
Alexandro, Hannibàl, ch’erano in fatto,
tanto me ne contâr, ch’io ne fui certo:
me ne chiarîr poi le bandiere affatto,
vistone al tempio il gran numero offerto,
e quindice galee ch’a queste rive
con mille legni star vidi captive.
5
Chi vide allhor l’incendi e li naufragi,
le tante uccisïoni e sì diverse
che, vendicando i nostri arsi palagi,
fin che fu preso ogni naviglio, fêrse;
potrà le varie morti e li disagi
imaginarsi, e i strati che sofferse
la gente vinta d’Aphrica in le salse
onde, la notte che Dudon l’assalse.
6
Era la notte, e non si vedea lume,
quando se incominciâr l’aspre contese:
ma poi ch’el solpho, la pece, il bitume
sparso in gran copia, ha prore e sponde accese,
e la vorace fiamma arde e consume
le navi e le galee poco difese;
sì chiaramente ognun si vedea intorno,
che la notte parea mutata in giorno.
7
Onde Agramante che per l’aer scuro
fece al principio di combatter stima,
c’haver contrasto non credea sì duro
che, resistendo, al fin non lo reprima;
poi che rimosse le tenèbre furo,
e vide quel che non credeva prima,
che le navi nemiche eran duotante,
fece pensier diverso a quel dinante.
8
Smonta con pochi, ove in spalmata barca
ha Brigliadoro e l’altre cose care.
Tra legno e legno taciturno varca,
fin che si truova in più sicuro mare
da’ suoi lontan, che Dudon preme e carca,
et a conditïon mena acri e amare:
li arde il foco, il mar sorbe, il ferro strugge;
egli che n’è cagion, via se ne fugge.
9
Fugge Agramante, et ha con lui Sobrino,
con cui si duol di non gli haver creduto
quando previde con occhio divino,
e il mal gli annoncïò, c’hor gli è avenuto.
Ma ritorniamo a Orlando paladino,
che prima che Biserta habbia altro aiuto
consiglia Astolfo che la getti in terra,
sì che a Francia mai più non faccia guerra.
10
E così fu publicamente detto
ch’el campo in arme al terzo dì sia instrutto.
Molti navigli Astolfo a buono effetto
tenuti havea, né Dudone hebbe il tutto;
e ne diede il governo a Sansonetto,
buon guerrier parimente al molle e al sciutto:
e quel si pose, in su l’ancore sorto,
contra a Biserta, un miglio appresso al porto.
11
Come veri christiani Astolfo e Orlando,
che senza Dio non vanno a rischio alcuno,
nel exercito fan publico bando
ch’oratïone sia fatta e digiuno;
e poi, ch’el terzo Sol, dal mar spuntando,
ritruovi in arme apparecchiato ognuno
per expugnar Biserta, che data hanno,
vinta che s’habbia, a fuoco e a saccomanno.
12
E così, poi che l’abstinentie e i voti
debitamente celebrati fôro,
li amici, li parenti e li più noti
si cominciaro a convitar tra loro.
Dato restauro a’ corpi exhausti e vuoti,
abbracciandosi insieme lachrymoro,
tra loro usando i modi e le parole
che tra li amici al dipartir si suole.
13
Dentro a Biserta i sacerdoti santi
supplicando col populo dolente,
battonsi il petto, e con dirotti pianti
chiamano il lor Machon che nulla sente.
Quante vigilie, quante offerte, quanti
doni promessi son privatamente!
quanto in publico templi, statue, altari,
memoria eterna de’ lor casi amari!
14
E poi che dal Cadì fu benedetto,
prese il populo l’arme, e tornò al muro.
Anchor giacea col suo Tithon nel letto
la bella Aurora, et era il cielo oscuro,
quando Astolfo e li suoi (come fu detto)
con l’arme in dosso alli ordini lor furo:
e poi ch’el segno che diè il Conte udiro,
Biserta con grande impeto assaliro.
15
Havea Biserta da dui canti il mare,
sedea da li altri dui nel lito asciutto.
Con fabrica excellente e singulare
fu antiquamente il suo muro construtto:
poco altro ha che l’aiuti o la ripare;
che poi ch’el Re Branzardo fu ridutto
dentro da quella, pochi mastri, e poco
tempo haver puòte a riparare il luoco.
16
Astolfo dà l’assunto al Re de’ Neri
che faccia a’ merli tanto nocumento
con falariche, fonde e con arcieri,
che non s’affacci alcun di quelli drento;
sì che passin pedoni e cavallieri
fin sotto la muraglia a salvamento,
de’ quai non viene alcun che non sia grave
d’asce o di pietra o di fascina o trave.
17
E legna e strame ognun nel fango getta,
torna per anche, e vien di mano in mano.
La grossa acqua il dì nanzi fu intercetta,
sì che in più parti si scopria il pantano.
Tutta la fossa fu atturata in fretta,
e quasi è sin a’ muri uguale il piano.
Astolfo, Orlando et Olivier procura
di far salir li fanti in su le mura.
18
Li Nubi d’ogni indugia impatïenti,
da la speranza del guadagno tratti,
non mirando a’ pericoli imminenti,
coperti da testugini e da gatti,
con arïeti e lor altri instrumenti
a forar torri, e porte rompere atti,
tosto si fêro alla città vicini;
né ritrovâr sprovisti i Saracini,
19
che di ferro e di fuoco e sassi gravi
d’alto spargendo horribili tempeste,
facean per forza aprir tavole e travi
de le machine in lor danno conteste.
Ne l’aria oscura li principii pravi
danneggiâr più le battizate teste;
ma poi ch’el Sole uscì del ricco albergo,
voltò Fortuna a’ Saracini il tergo.
20
Da tutti i canti risforzar l’assalto
fe’ il conte Orlando da mare e da terra.
Sansonetto, c’havea l’armata in alto,
entrò nel porto e s’accostò alla terra;
e con frombe e con archi facea d’alto,
e con varii tormenti, estrema guerra;
e d’altra parte expedia lance e scale,
ogni apparecchio e munition navale.
21
Facea Oliviero, Orlando e Brandimarte,
e quel che fu sì dianzi in aria ardito,
aspra e fiera battaglia da la parte
che lungi al mar era più dentro al lito.
Ciascun d’essi venìa con una parte
de l’hoste che s’havean quadripartito:
qual a mur, qual a porte, e qual altrove,
tutti davan di sé lucide prove.
22
Il valor di ciascun meglio si puote
veder così, che se fusser confusi:
chi sia degno di premio e chi di note
appare inanzi a mill’occhi non chiusi.
Torri di legno trannosi con ruote,
e li elephanti altre ne portano usi
su’ dossi lor, che così in alto vanno,
che i merli sotto a molto spatio stanno.
23
Vien Brandimarte, e pon la scala a’ muri,
e sale, e di salir altri conforta;
segueno molti intrepidi e sicuri,
che non puon dubitar sotto tal scorta:
non è chi miri o chi mirar si curi
se quella scala il gran peso comporta.
Sol Brandimarte all’inimici attende:
pugnando sal tanto ch’un merlo prende;
24
e con mano e co piè quivi s’attacca,
salta su i merli, e mena il brando in volta,
urta, riversa e fende e fora e ammacca,
e di sé mostra experïentia molta.
Ma tutto a un tempo la scala si fiacca,
che troppa soma e di soperchio ha tolta:
li altri in la fossa tornano a gran salto,
e Brandimarte sol lasciano in alto.
25
Per ciò non perde il cavallier l’ardire,
né pensa riportare adrieto il piede;
ben che de’ suoi non vede alcun seguire,
ben che berzaglio alla città si vede.
Pregavan molti, e non volle egli udire,
di ritornar; ma dentro al mur si diede:
i’ dico che saltò dentro alla terra,
dentro dal mur che la circonda e serra.
26
Come trovato havesse o piume o paglia,
presse il duro terren senza alcun danno.
Quelli c’ha intorno affrappa, fora e taglia,
come s’affrappa e taglia e fora il panno:
hor contra questi, hor contra quei si scaglia;
e quelli e questi in fuga se ne vanno.
Pensan quelli di fuor, che l’han veduto
dentro saltar, che tardi fia ogni aiuto.
27
Per tutto ’l campo alto rumor si spande
di voce in voce, il mormorio e ’l bisbìglio.
La vaga Fama intorno si fa grande,
e narra, et accrescendo va il periglio:
dov’era Orlando (perché da più bande
si dava assalto), ove Oliviero e ’l figlio
era di Othon, quella volando venne,
senza posar mai le veloci penne.
28
Questi guerrieri, e più di tutti Orlando,
ch’amano Brandimarte e l’hanno in pregio,
udendo che se van troppo indugiando
perderanno un compagno così egregio,
piglian le scale, e qua e là montando,
mostrano a gara animo altiero e regio,
con sì audace sembiante e sì gagliardo
che l’inimici fan tremar col sguardo.
29
Come nel mar che per tempesta freme
assaglion l’acque il temerario legno,
c’hor da la prora, hor da le parti estreme
cercano entrar piene di rabbia e sdegno;
e il pallido nocchier sospira e geme,
che aiutar deve, e non ha cor né ingegno;
una onda viene al fin, ch’occùpa el tutto,
e dove quella entrò segue ogni flutto:
30
così da poi c’hebbeno presi i muri
quelli tre primi, fu sì largo il passo,
che li altri hormai seguir ponno sicuri,
che mille scale hanno fermate al basso.
Haveano intanto li arïeti duri
rotto in più luochi, e con sì gran fraccasso,
che si poteva in più che in una parte
soccorrer l’animoso Brandimarte.
31
Con quel furor ch’el Re de’ fiumi altiero,
quando rompe talvolta argini e sponde,
ne’ campi Mantuani apre il sentiero,
e i grassi solchi e le biade feconde,
e con le sue capanne il gregge intiero,
e con li cani i pastor porta in l’onde;
guizzano i pesci all’olmi in su la cima,
ove solean volar li augelli in prima:
32
con quel furor l’impetüosa gente,
là dove havea in più parti il muro rotto,
entrò col ferro e con la face ardente
a destrugere il popul mal condotto.
Homicidio, rapina, e man violente
nel sangue e nel haver, trasse di botto
la ricca e triomphal città a ruina,
che fu di tutta l’Aphrica regina.
33
D’huomini morti pieno era per tutto;
e de le innumerabili ferite
fatto era un stagno più scuro e più brutto
di quel che cinge la città di Dite.
Di casa in casa un lungo incendio indutto
ardea palagi, portici e meschite;
de pianti e strida e man percosse a i petti
suonano i vuoti e depredati tetti.
34
Li vincitori uscir de le funeste
porte vedeansi de gran preda onusti,
chi con bei vasi e chi con ricche veste,
chi con rapiti argenti a’ Dèi vetusti;
chi trahea i figli, e chi le madri meste:
stupri infiniti e mille altri atti ingiusti
commessi fur, di che gran parte intese,
né lo puoté vietare, il Duca inglese.
35
Fu Bucifar de l’Algazera morto
con esso un colpo da Olivier gagliardo;
perduta ogni speranza, ogni conforto,
s’uccise di sua mano il Re Branzardo;
con tre ferite, onde morì di corto,
fu preso Folvo dal Duca dal Pardo:
questi eran tre che al suo partir lasciato
havea Agramante a guardia de lo stato.
36
Agramante che intanto havea deserta
l’armata, e con Sobrin n’era fuggito,
pianse da lungi e sospirò Biserta,
veduto sì gran fiamma arder sul lito.
Poi più d’appresso hebbe novella certa
come de la sua terra il caso era ito:
e d’uccider se stesso in pensier venne,
e lo facea; ma il Re Sobrin lo tenne.
37
Dicea Sobrin: – Che più vittoria lieta,
signor, potrebbe il tuo inimico havere
che la tua morte udire, onde quïeta
si speraria poi l’Aphrica godere?
Questo contento il viver tuo gli vieta;
quindi havrà sempre causa di temere:
sa ben che lungamente Aphrica sua
esser non può, se non per morte tua.
38
Tutti i sudditi tuoi, morendo, privi
de la speranza, un ben che sol ne resta.
Spero che n’habbi a liberar, se vivi,
e trar d’affanno e ritornare in festa.
So che, se mori, siàn sempre captivi,
Aphrica sempre tributaria e mesta.
Dunque, s’in util tuo viver non vuoi,
vivi, signor, per non far danno a’ tuoi.
39
Dal Soldano d’Egytto, tuo vicino,
esser puoi certo haver denari e gente:
mal volentieri el figlio di Pipino
in Aphrica vedrà così potente.
Verrà con ogni sforzo Norandino
per ritornarti in regno, il tuo parente:
Armeni, Turchi, Persi, Aràbi e Medi,
tutti in soccorso havrai, se tu li chiedi. –
40
Con tali e simil detti il Vecchio accorto
ritornar puote il suo signor in speme
de racquistarsi l’Aphrica di corto;
ma nel suo cor forse el contrario teme:
sa ben quant’è a mal termine e mal porto,
e come spesso invan sospira e geme
chiunque il regno suo si lascia tôrre,
e per soccorso a’ Barbari ricorre.
41
Hannibàle e Iugurta di ciò fôro
buon testimoni, et altri al tempo antico;
al tempo nostro Ludovico il Moro,
dato in poter d’un altro Ludovico.
Vostro fratello Alfonso da costoro
ben hebbe exempio: a voi, signor mio, dico;
che sempre ha riputato pazzo expresso
chi più si fida in altri che in se stesso.
42
E perhò ne la guerra che gli mosse
del pontifice irato un duro sdegno,
anchor che ne le deboli sue posse
non potesse egli far molto disegno,
e chi già il difendea, d’Italia fosse
spinto, e n’havesse il suo nemico il regno;
né per minaccie mai né per promesse
si puòte indur ch’el stato altrui cedesse.
43
Il Re Agramante all’Orïente havea
volta la prora, e s’era spinto in l’alto,
quando da terra una tempesta rea
mosse da banda impetüoso assalto.
Il nocchier ch’al governo vi sedea:
– Io veggio (disse alzando li occhi ad alto)
una procella apparecchiar sì grave,
che contrastar non le potrà la nave.
44
S’attendete, signori, al mio consiglio,
qui da man manca a una isola vicina
a salvamento io ridurrò el naviglio,
fin che passi el furor de la marina. –
Consentì il Re Agramante; e di periglio
uscì, pigliando la spiaggia mancina,
che per salute de’ nocchieri giace
tra li Aphri e di Vulcan l’alta fornace.
45
D’habitationi è l’isoletta vuota,
di lauri e myrti piena e di ginepri,
ioconda solitudine e remota
a cervi, a danne, a caprïoli e lepri;
e fuor che a piscatori è poco nota,
dove sovente a rimondati vepri
suspendon, per sciugarle, humide reti:
dormeno intanto i pesci in mar quïeti.
46
Quivi trovâr che s’era un altro legno,
cacciato de fortuna, già ridutto;
e il gran guerrier ch’in Sericana ha regno,
levato d’Arli, havea quivi condutto.
Con modo reverente e di sé degno
l’uno e l’altro signor s’abbraccia al sciutto;
ch’erano amici, e poco inanzi furo
compagni d’arme al Parigino muro.
47
Con molto dispiacer Gradasso intese
del Re Agramante le fortune averse;
poi confortollo, e come Re cortese
con la propria persona se gli offerse:
ma ch’egli andasse all’infedel paese
d’Egytto, per aiuto, non sofferse.
– Che vi sia (disse) periglioso gire,
devria Pompeio i profugi ammonire.
48
E perché detto m’hai che con l’aiuto
de li Ethïòpi, sudditi al Senapo,
Astolfo a tuorti l’Aphrica è venuto,
e ch’arsa ha la città che n’era capo;
e che Orlando è con lui, che diminuto
poco inanzi di senno haveva el capo;
mi pare al tutto un ottimo rimedio
haver pensato a farti uscir di tedio.
49
Io pigliarò per amor tuo la impresa
d’entrar col Conte a singular certame:
contra me so che non havrà difesa
se tutto fosse di ferro o di rame.
Morto lui, stimo la christiana Chiesa
quel che l’agnelle il lupo c’habbia fame.
Ho poi pensato (e mi fia cosa lieve)
di far li Nubi uscir d’Aphrica in breve.
50
Farò che li altri Nubi che da loro
el Nilo parte e la diversa legge,
li Aràbi, li Macrobii, questi d’oro
e gente ricchi, et quei d’equino gregge,
Persi e Caldei, perché tutti costoro
con altri molti il settro mio corregge;
farò che in Nubia lor faran tal guerra,
che non potran fermarsi in la tua terra. –
51
Al Re Agramante assai parve opportuna
del Re Gradasso la seconda offerta;
e se chiamò obligato alla Fortuna,
che l’havea tratto all’isola deserta:
ma non vuol tôr conditïon alcuna
(se racquistar credesse indi Biserta)
che battaglia per lui Gradasso prenda;
che in ciò gli par che l’honor troppo offenda.
52
– Se a disfidar s’ha Orlando, son quell’io
(rispose) a cui la pugna più conviene;
e pronto vi sarò: poi faccia Dio
di me, come gli pare, o male o bene. –
– Facciàn – disse Gradasso – al modo mio,
a un nuovo modo che in pensier mi viene:
questa battaglia pigliamo ambedui
incontra Orlando, e un altro sia con lui. –
53
– Pur ch’io non resti fuor, non me ne lagno, –
disse Agramante, – o sia primo o secondo:
ben so ch’in arme ritrovar compagno
di te miglior non si può in tutto il mondo. –
– Et io (disse Sobrin) dove rimagno?
E se vecchio vi paio, vi rispondo
ch’io debbio esser più experto; e nel periglio
presso alla forza è buono haver consiglio. –
54
D’una vecchiezza valida e robusta
era Sobrino, e di famosa prova;
e dice ch’in vigor l’età vetusta
da la sua prima indifferente truova.
Perhò li altri dui Re stimaron giusta
la sua dimanda; e presto se ritruova
un che si mandi a gli Aphricani lidi,
e da lor parte il conte Orlando sfidi;
55
che s’habbia a ritrovar con numer pare
de cavallieri armati in Lipadusa.
Una isoletta è questa, che dal mare
medesmo che li cinge è circonfusa.
Non cessò il messo a vela e remi andare,
come quel che prestezza al bisogno usa,
che fu a Biserta; e trovò Orlando quivi
partir la preda a i Nubi e li captivi.
56
L’invito di Gradasso e d’Agramante
e di Sobrino in publico fu expresso,
tanto giocondo al principe d’Anglante,
che d’ampli doni honorar fece il messo.
Havea da li compagni udito inante
ch’el Re Gradasso al fianco s’havea messo
sua Durindana; et egli, per disire
de racquistarla, in India volea gire,
57
stimando non haver Gradasso altrove,
poi ch’udì che di Francia era partito:
hor più vicin gli è offerto luoco, dove
spera ch’el suo gli fia restituito.
El bel corno d’Aimonte ancho lo muove
ad accettar sì volentier l’invito,
e Brigliador non men; che sapea in mano
esser venuti al figlio di Troiano.
58
S’elegge per compagni alla battaglia
el fedel Brandimarte e il suo Cognato:
provato ha quanto e l’uno e l’altro vaglia;
sa che da trambi è sommamente amato.
Buon caval, buona piastra e buona maglia,
e spade cerca e lancie in ogni lato
per sé e’ compagni: che sappiate parme
che nessun d’essi havea le solite arme.
59
Orlando (come i’ v’ho detto più volte)
de le sue sparse per furor la terra;
a gl’altri ha Rodomonte le lor tolte,
c’hor alta torre in ripa un fiume serra.
Non se ne può per Aphrica haver molte;
sì perché in Francia portato alla guerra
havea Agramante ciò ch’era di buono,
sì perché poche in Aphrica ne sono.
60
Ciò che di ruginoso e di brunito
haver si può, fa ragunare Orlando;
con li compagni intanto va pel lito
de la futura pugna ragionando.
Gli avien ch’essendo fuor del campo uscito
più di tre miglia, e li occhi al mar alzando,
vide con le vele alte un grosso legno
verso il lito calar senza ritegno.
61
Senza nocchieri e senza naviganti,
sol come il vento e sua fortuna il mena,
venìa con le vele alte il legno inanti,
tanto che se ritenne in su l’arena.
Ma prima che di questo più vi canti,
l’amor ch’a Ruggier porto mi rimena
alla sua historia, e vuol ch’io vi racconte
di lui e del guerrier di Chiaramonte.
62
Di questi dui guerrier dissi che tratti
s’erano fuor del martïal agone,
viste conventïon rompere e patti,
e turbarsi ogni squadra e legïone.
Chi prima havesse i giuramenti fratti
e fosse del gran mal stato cagione,
o l’Imperator Carlo o il Re Agramante,
studian saper da chi lor passa inante.
63
Un servitor intanto di Ruggiero,
ch’era fedele e pratico et astuto,
né pel conflitto di dui campi fiero
havea di vista il patron mai perduto,
venne a trovarlo, e la spada e il destriero
gli diede, perché a’ suoi fusse in aiuto.
Montò Ruggiero e la sua spada tolse,
ma in la battaglia intrar non perhò vòlse.
64
Quindi si parte; ma prima rinuova
quel patto, quel che con Rinaldo havea:
che se pergiuro il suo Agramante truova,
lascierà lui con la sua setta rea.
Per quel giorno Ruggier far altra prova
d’arme non vòlse; ma solo attendea
fermar hor questo hor quello, e adimandarlo
chi prima ruppe, o il Re Agramante o Carlo.
65
Ode da tutto il mondo che la parte
del Re Agramante fu, che ruppe prima.
Ruggiero ama Agramante, e se si parte
per ciò da lui, far grande error si stima:
fur le genti Aphricane e rotte e sparte
(questo ho già detto inanzi), e da la cima
de la volubil ruota tratte al fondo,
come piacque a colei che gira il mondo.
66
Tra sé volve Ruggiero e fa discorso,
se restar deve o il suo signor seguire.
Gli pon l’amor de la sua donna un morso
per non lasciarlo in Aphrica più gire:
lo volta e gira, et a contrario corso
lo sprona, e lo minaccia di punire,
s’el patto e il giuramento non tien saldo,
che fatto havea col paladin Rinaldo.
67
Non men da l’altra parte il sferza e sprona
la vigilante e stimulosa cura,
che se Agramante a tanto uopo abbandona,
a viltà gli fia ascritto et a paura;
se del restar la causa parrà buona
a molti, a molti ad accettar fia dura:
molti diran che non se de’ osservare
quel ch’era ingiusto e illicito a giurare.
68
Tutto quel giorno e la notte seguente
stette solingo, e così l’altro giorno,
pur travagliando in la dubbiosa mente
se partir deve o far quivi soggiorno.
Pel signor suo conclude finalmente
di fargli dietro in Aphrica ritorno:
potea in lui molto il coniugale amore,
ma più vi potea il debito e l’honore.
69
Torna verso Arli; che trovar vi spera
l’armata anchor, ch’in Aphrica il transporti:
né legno in mar né dentro alla riviera,
né Saracini vede, se non morti.
Seco al partire ogni legno che v’era
trasse Agramante, e ’l resto arse ne’ porti.
Fallitogli il pensier, prese il camino
verso Marsiglia pel lito marino.
70
Sa che vi potrà haver qualche naviglio
ch’a prieghi o forza il porti all’altra riva.
Già v’era giunto del Danese il figlio
con l’armata de’ Barbari captiva.
Non s’havrebbe potuto un gran di miglio
gettar ne l’acqua: tanto la copriva
la spessa moltitudine de navi,
de vincitori e de prigioni, gravi.
71
Le navi de’ pagani, che avanzaro
dal fuoco e dal naufragio quella notte
(excetto poche che in fuga n’andaro),
tutte a Marsiglia havea Dudon condotte.
Sette di quei ch’in Aphrica regnaro,
che, poi che le lor genti vider rotte,
con sette legni lor s’erano resi,
stavan dolenti inanzi a l’altri presi.
72
Era Dudon sopra la spiaggia uscito,
ch’a trovar Carlo andar volea quel giorno;
e de’ captivi e de lor spoglie ordito
con lunga pompa havea un triompho adorno.
Eran tutti i prigion stesi nel lito;
li Nubi vincitori allegri intorno
facean, gridando il nome di Dudone,
sentirsi oltra la aerea regïone.
73
Venne in speranza di lontan Ruggiero,
che questa fusse armata d’Agramante;
e per saperne il certo urtò il destriero:
ma riconnobbe, come fu più inante,
il Re de Nasamona prigionero,
Bambirago, Agricalte e Farurante,
Manilardo e Balastro e Rimedonte,
che piangendo tenean bassa la fronte.
74
Ruggier li amava, e sofferir non puòte
lasciarli in la miseria in che trovolli.
Quivi sa che a venir con le man vuote
potrian poco valere i prieghi molli.
La lancia abbassa, e chi li tien percuote;
e fora spalle e fianchi e petti e colli:
stringe la spada, e in un piccol momento
ne fa cadere intorno più di cento.
75
Dudone ode il rumor, la strage vede
che fa Ruggier, ma chi sia non connosce;
vede li suoi ch’in fuga han volto il piede
con gran timor, con pianto e con angosce.
Presto el destriero, il scudo e l’elmo chiede;
che già havea armato e petto e braccia e cosce:
salta a cavallo, e si fa dar la lancia,
e non oblia ch’è paladin di Francia.
76
Grida che se retiri ognun da canto,
spinge il cavallo e fa che sente i sproni.
Ruggier cent’altri n’havea occisi intanto,
e gran speranza dato alli prigioni:
e come venir vide Dudon santo
solo a caval, che l’altri eran pedoni,
stimò che capo o che signor lor fosse;
e contra lui con gran desir si mosse.
77
Già mosso prima era Dudon; ma quando
senza lancia Ruggier vide venire,
lunge da sé la sua gettò, sdegnando
con tal vantaggio il cavallier ferire.
Ruggiero, al cortese atto riguardando,
disse fra sé: – Costui non può fallire
esser de’ buoni cavallier del mondo,
più presso al primo, che drieto al secondo.
78
E inanzi che segua altro, voglio il nome
saper di lui, se non mi vuol celarlo; –
e così dimandollo: e seppe come
era Dudon de’ paladin di Carlo.
Dudon gravò Ruggier poi d’ugual some,
e lo trovò cortese in satisfarlo.
Poi ch’i nomi tra lor s’hebbeno detti,
si disfidaro e venero alli effetti.
79
Havea Dudon quella ferrata mazza
ch’in mille imprese gli diè eterno honore:
con essa mostra ben che egli è di razza
di quel Danese pien d’alto valore.
La spada che non cura elmo o corazza,
di che non era al mondo la migliore,
trasse Ruggiero, e fece paragone
de sua virtude al paladin Dudone.
80
Ma perché in mente ognhora havea di meno
offender la sua Donna che potea,
certo era ben, che se spargea il terreno
del sangue di costui, quella offendea:
de le case di Francia instrutto a pieno,
sa che Armelina, che produtto havea
Dudone, era sorella di Beatrice,
che fu di Bradamante genitrice.
81
Per questo mai di punta non gli trasse,
e di taglio rarissimo ferìa.
Schermiase, ovunque la mazza calasse,
hor ribattendo, hor dandole la via.
Crede Turpin che per Ruggier restasse,
che Dudon morto in pochi colpi havria:
né mai, qualunque volta si scoperse,
ferir, se non di piatto, lo sofferse.
82
Del piatto usar potea, come del taglio,
Ruggier la spada sua, c’havea gran schiena;
e quivi a strano giuoco di sonaglio
sopra Dudon con tanta forza mena,
che spesso a li occhi gli pon tal barbaglio,
che si ritien di non cadere a pena.
Ma per esser più grato a chi m’ascolta,
il cantar differisco a una altra volta.

CANTO TRIGESIMOSETTIMO

1
L’odor ch’è sparso in ben notrita e bella
o chioma o barba o delicata vesta
di giovene liggiadro o di donzella,
ch’Amor sovente lachrymando desta,
se spira e fa sentir di sé novella,
e dopo molti giorni anchora resta,
mostra con chiaro et evidente effetto
come a principio buono era e perfetto.
2
L’almo liquor ch’a i meditori suoi
fece Icaro gustar con suo gran danno,
e che si dice che già Celte e Boi
fe’ passar l’Alpe e non sentir l’affanno,
mostra che dolce era a principio, poi
che si serva anchor dolce al fin de l’anno.
L’arbor ch’al tempo rio foglia non perde
mostra che a primavera era anchor verde.
3
L’inclyta stirpe che per tanti lustri
raggiò di cortesia sempre gran lume,
e par ch’ognhor più ne risplenda e lustri,
fa che con chiaro indicio si presume
che chi progenerò li Estensi illustri
devea, d’ogni laudabile costume
che sublimar al ciel gli huomini suole,
splender non men che fra le stelle il Sole.
4
Ruggier, pur come in ciascadun suo gesto,
d’alto valor e cortesia solea
dimostrar chiaro segno e manifesto,
e sempre più magnanimo parea;
così verso Dudon si mostrò in questo:
con lui (come di sopra vi dicea)
dissimulato havea quanto era forte,
per pietà ch’egli havea ponerlo a morte.
5
Havea Dudon ben connosciuto certo
che ucciderlo Ruggier non l’ha voluto;
perché hor s’ha ritrovato al discoperto,
hor stanco sì, che più non ha potuto.
Poi che chiaro comprende, e vede aperto
che gl’ha rispetto, e che va ritenuto;
quando di forza e gagliardia val meno,
di cortesia non vuol cedergli almeno.
6
– Perdio (dice), signor, pace facciamo;
ch’esser non può più la vittoria mia:
esser non può più mia; che già mi chiamo
vinto e prigion de la tua cortesia. –
Ruggier rispose: – Et io la pace bramo
non men di te; ma che con patto sia,
che questi sette Re, che tu tien presi,
in libertà mi sian subito resi. –
7
E gli mostrò li sette Re ch’io dissi
che stavano legati a capo chino;
e gli soggiunse che non gli impedissi
pigliar con essi in Aphrica il camino.
E così furo in libertà remissi
quei Re; che glil concesse il paladino;
e gli concesse anchor che un legno tolse,
quel che a lui parve, e verso Aphrica sciolse.
8
Sciolse il naviglio, e fe’ scioglier la vela,
e se diè al vento perfido in possanza,
che da principio in la gonfiata tela
spirò secondo, e diè al nocchier baldanza.
Il lito fugge, e in tal modo si cela,
che par che ne sia il mar rimaso sanza.
Nel oscurar del giorno fece il vento
chiara la sua perfidia e il tradimento.
9
Mutosse da la poppa ne le sponde,
indi alla prora, e qui non rimase ancho:
ruota il naviglio, e li nocchier confonde;
c’hor di drieto, hor dinanzi, hor loro è al fianco.
Surgono altiere e minacciose l’onde;
muggendo sopra ’l mar va ’l gregge bianco.
Di tante morti in dubbio e in pena stanno,
quanto son l’acque che a ferir li vanno.
10
Hor da fronte, hor da tergo il vento spira,
e questo inanzi, e quello a dietro caccia;
altro vien da traverso e il legno aggira;
e ciascun pur naufragio gli minaccia.
Quel che siede al governo alto sospira,
pallido e sbigottito ne la faccia;
e grida invano, e invan con mano accenna
hor di voltar, hor di calar l’antenna.
11
Ma poco il cenno, e ’l gridar poco vale:
tolto è il veder da la piovosa notte;
la voce, senza udirsi, in aria sale,
in l’aria che ferìa con maggior botte
de’ naviganti il grido universale
e il fremito de l’onde insieme rotte;
e in prora e in poppa e in amendue le bande
non si può cosa udir che si commande.
12
Da la rabbia del vento che si fende
ne le ritorte, escono horribil suoni;
de spessi lampi l’aria si raccende,
risuona el ciel de spaventevol tuoni.
Chi va al timone, e chi li remi prende;
van per uso a gl’uffici a che son buoni:
chi s’affatica a sciorre e chi a legare;
vuota altri l’acqua, e torna il mar nel mare.
13
Ecco stridendo l’horribil procella
ch’el repentin furor di Borea spinge,
la vela contra l’arbore flagella:
el mar si lieva, e quasi il cielo attinge.
Frangonsi e’ remi; e di fortuna fella
tanto la rabbia impetüosa stringe,
che la prora si volta, e verso l’onda
riman la disarmata e debil sponda.
14
Tutta sotto acqua va la destra banda,
e sta per riversar di sopra il fondo.
Ognun, gridando, a Dio si raccomanda;
che più che certi son gire al profondo.
Fortuna d’un periglio in l’altro manda:
el primo scorre, e vien drieto il secondo.
Il legno vinto in più parti si lassa,
e dentro l’inimica onda vi passa.
15
Muove crudele e spaventoso assalto
da tutti i lati il tempestoso verno.
Veggion talvolta il mar venir tanto alto,
che par che arrivi insin al ciel superno.
Talhor fan sopra l’onde in su tal salto,
ch’a mirar giù par lor veder l’inferno.
O nulla o poca speme è che conforte;
e sta presente inevitabil Morte.
16
Tutta la notte per diverso mare
scórsero errando ove cacciolli il vento,
el fiero vento che devea cessare
nascendo il giorno, e ripigliò augumento.
Ecco improviso un scoglio inanzi appare;
voglion schivarlo, e non v’hanno argumento:
mal grado lor, li porta a quella via
el crudo vento e la tempesta ria.
17
Tre volte e quattro il pallido nocchiero
mette vigor perché il timon sia volto
e truovi più sicuro altro sentiero;
ma quel si rompe, e poi dal mar gli è tolto.
Ha sì la vela piena il vento fiero,
che non si può calar poco né molto:
né tempo han di riparo o di consiglio;
che troppo appresso è quel mortal periglio.
18
Poi che senza rimedio si comprende
la irreparabil rotta de la nave,
ciascuno al suo privato utile attende,
ciascun salvar la vita sua cura have.
Chi può più presto al palaschermo scende;
ma quello è fatto subito sì grave
per tanta gente che sopra gli abonda,
che poco avanza a gir sotto la sponda.
19
Ruggier che vide il Comite e ’l Padrone
e li altri abbandonar con fretta il legno,
come senz’arme si trovò in giuppone,
campar su quel battel fece disegno:
ma lo trovò sì carco di persone,
e tante venner poi, che l’acque il segno
passaro in guisa, che per troppo pondo
con tutto il carco andò il legnetto al fondo.
20
Andò nel fondo; e con lui trasse quanti
lasciaro a sua speranza il maggior legno.
Allhor s’udì con dolorosi pianti
chiamar soccorso dal celeste regno;
ma quelle voci andaro poco inanti,
che venne il mar pien d’ira e di disdegno,
e subito occupò tutta la via
onde il lamento e il flebil grido uscia.
21
Altri là giù, senza apparir più, resta;
altri risorge e sopra l’onde sbalza;
chi vien nuotando e mostra fuor la testa,
chi mostra un braccio, e chi una gamba scalza.
Ruggier, ch’el minaciar de la tempesta
temer non vuol, dal fondo al summo s’alza,
tanto che vede a poco più d’un miglio
il scoglio appresso, onde temea il naviglio.
22
Spera, per forza de piedi e de braccia,
salir nuotando in su quel scoglio al sciutto.
Soffiando viene, e lungi da la faccia
l’onda respinge e l’importuno flutto.
El vento intanto e la tempesta caccia
el legno vuoto, e abbandonato in tutto
da quelli che per lor pessima sorte
il desio di campar trasse alla morte.
23
Oh fallace de l’huomini credenza!
Campò il naviglio che devea perire,
quando il Padrone e i galleotti senza
governo alcun l’havean lassato gire.
Parve che si mutasse di sentenza
il vento, poi che ogn’huom vide fuggire:
fece ch’el legno a miglior via si torse,
sì che oltra il scoglio in sicura onda corse.
24
E dove col Nocchier tenne via incerta,
poi che non l’hebbe andò in Aphrica al dritto,
e venne a capitar presso a Biserta
tre miglia o due, dal lato verso Egytto;
e ne l’arena sterile e deserta
restò, mancando il vento e l’acqua, fitto.
Hor quivi sopravenne, a spasso andando,
come di sopra io vi narrava, Orlando.
25
E desïoso di saper se fusse
la nave sola, o fusse vuota o carca,
con Brandimarte a quella si condusse
e col Cognato, su una lieve barca.
Poi che sottocoverta s’introdusse,
d’huomini e mercantie la trovò scarca:
vi trovò sol Frontino, il buon destriero,
l’armatura e la spada di Ruggiero;
26
di cui fu per campar tanto la fretta,
ch’a tuor la spada non hebbe pur tempo.
Connobbe quella il paladin, che detta
fu Balisarda, e che già sua fu un tempo.
So che tutta l’historia havete letta,
come la tolse a Falerina, al tempo
che le distrusse ancho il giardin sì bello,
e come a lui poi la rubò Brunello;
27
e come sotto il monte di Carena
Brunel ne fe’ a Ruggier libero dono.
Di che taglio ella fusse e di che schiena,
n’havea già fatto experimento buono;
i’ dico Orlando: e perhò n’hebbe piena
letitia, e ringrationne il summo Trono;
e si credette (e spesso il disse dopo)
che Dio la gli mandasse a sì grande uopo:
28
a sì grande uopo, quanto era, devendo
condursi col signor di Sericana;
ch’oltra che di valor fosse tremendo,
sapea che havea Baiardo e Durindana.
L’altra armatura, non la connoscendo,
non apprezzò per cosa sì soprana,
come apprezzar solea chi connobbe ella;
per buona sì, ma più per ricca e bella.
29
E perché gli facean poco mistiero
l’arme, ch’era inviolabile e affatato,
contento fu che l’havesse Oliviero;
il brando non, che sel pose egli al lato:
a Brandimarte consegnò il destriero.
Così diviso et ugualmente dato
vòlse che fusse a ciascadun compagno,
ch’insieme si trovâr, di quel guadagno.
30
Pel dì de la battaglia ogni guerriero
studia haver ricco e nuovo habito indosso.
Orlando riccamar fa nel quartiero
l’alto Babel dal fulmine percosso.
Un can d’argento haver vuole Oliviero,
che giaccia, e che la lassa habbia sul dosso
con un motto che dica: Fin che vegna;
e vuol d’oro la veste e di sé degna.
31
Fece disegno Brandimarte, al giorno
de la battaglia, per amor del padre
e per suo honor, di non andare adorno
se non di sopraveste oscure et adre.
Fiordiligi le fe’ con fregio intorno,
quanto più seppe far, belle e liggiadre:
di ricche gemme il fregio era contesto;
d’un schietto drappo e tutto nero il resto.
32
Fece la donna di sua man le sopra-
vesti a chi converriano arme più fine,
onde l’usbergo il cavallier si copra,
e la groppa al cavallo e il petto e il crine.
Ma da quel dì che cominciò questa opra,
continuando a quel che le diè fine,
e dopo anchora, mai segno di riso
non puòte far, né d’allegrezza in viso.
33
Sempre ha timor nel cor, sempre tormento
che Brandimarte suo non le sia tolto.
Già l’ha veduto in cento luoghi e cento
in gran battaglie e perigliose involto;
né puòte mai, come hor, simil spavento
dentro aggiacciarla e impallidir in volto:
e questa novità d’haver timore
le fa tremar di doppia tema il core.
34
Poi che fur d’arme e d’ogni arnese in punto,
alzaro al vento i cavallier le vele.
Astolfo e Sansonetto con l’assunto
rimase del exercito fedele.
Fiordiligi col cor di timor punto,
empiendo il ciel di voti e di querele,
quanto con vista seguitar le puòte,
seguì le vele in l’alto mar remote.
35
Astolfo a gran fatica e Sansonetto
puoté levarla da mirar nel’onda,
e ritrarla al palagio, ove sul letto
la lasciaro affannata e tremebonda.
Portava intanto il bel numero eletto
de li tre cavallier l’aura seconda:
andò il legno a trovar l’isola al dritto,
eletta a terminar tanto conflitto.
36
Sceso nel lito il cavallier d’Anglante,
il cognato Oliviero e Brandimarte,
col padiglione il lato di Levante
primi occupâr; né forse il fêr senza arte.
Giunse quel dì medesimo Agramante,
e s’accampò da la contraria parte;
ma perché molto era inchinata l’hora,
differîr la battaglia ne l’aurora.
37
Di qua e di là sin alla nuova luce
stero alla guardia i servitori armati.
La sera Brandimarte si conduce
tra l’una tenda e l’altra in mezo i prati,
ma non senza licentia del suo Duce,
a parlar col Re d’Aphrica; che stati
erano amici, e sotto la bandiera
di lui d’Aphrica in Francia passato era.
38
Dopo i saluti e il giunger mano a mano,
molte ragion, sì come amico, disse
el fedel cavalliero al Re Pagano,
perché a questa battaglia non venisse:
e di riporli ogni cittade in mano,
che sia tra il Nilo e il segno che Hercol fisse,
con volontà d’Orlando gli offeria,
se creder volea al figlio di Maria.
39
– Perché sempre v’ho amato et amo molto,
questo consiglio (gli dicea) vi dono;
e quando già, signor, per me l’ho tolto,
creder potete ch’io l’estimo buono.
Io mi conversi a Christo, e Machon stolto
e mendace connobbi; e come io sono
ne la via di salute, così bramo
che ci sien meco anchor tutti quei ch’amo.
40
Qui consiste il ben vostro; né consiglio
altro potete prender, che vi vaglia;
e men de tutti li altri, se col figlio
di Milon vi mettete alla battaglia;
ch’el guadagno del vincere al periglio
de la perdita grande non s’uguaglia:
vincendo voi, poco acquistar potete;
ma non perder già poco, se perdete.
41
Quando uccidiate Orlando, e noi compagni
c’havete in campo da veder con lui,
non perhò veggio che si riguadagni
d’Aphrica vostra un sol castel per vui.
Né devete voi creder che si cagni
sì il stato de le cose, morti nui,
c’huomini a Carlo manchino da porre
quivi a guardar fin all’estrema torre. –
42
Così parlava Brandimarte, et era
per suggiunger anchor molte altre cose;
ma fu con voce irata e faccia altiera
dal Pagano interrotto, che rispose:
– Temerità per certo e pazia vera
è la tua, e di qualunque che si pose
a consigliar mai cosa o buona o ria,
dove chiamato a consigliar non sia.
43
E ch’el consiglio che mi dài proceda
da ben che tu mi vuoli et hai voluto,
io non so (a dir il ver) come t’el creda,
quando sei con Orlando qui venuto.
Più presto crederò che tu, ch’in preda
sai che del Diavol sei, né speri aiuto,
voresti teco nel dolor eterno
tutto il mondo poter trarre all’inferno.
44
Che a vincere habbia o perdere, o nel regno
tornare antiquo o sempre starne in bando,
in mente sua n’ha Dio fatto disegno,
il qual né veder io posso, né Orlando.
Sia quel che vuol, non potrà ad atto indegno
di Re inchinarmi mai timore; e quando
fussi certo morir, vuo’ restar morto,
prima ch’al sangue mio far sì gran torto.
45
Hor ti puoi ritornar; che se migliore
non sei dimane in questo campo armato
che tu mi ci sia parso hoggi oratore,
mal troverasse Orlando accompagnato. –
Fur l’ultime parole che uscîr fuore
queste tra lor; che l’uno e l’altro irato
se ne tornò a’ compagni, e ripososse
fin che uscito del mare il giorno fosse.
46
Nel biancheggiar de la nuova alba, armati
e in un momento fur tutti a cavallo.
Pochi sermon si son tra lor usati:
non vi fu indugia, non vi fu intervallo,
ch’i ferri de le lancie hanno abbassati.
Ma mi paria, Signor, far troppo fallo
se, per voler di costor dir, lasciassi
tanto Ruggier nel mar, che v’affogassi.
47
El Giovinetto con piedi e con braccia
percotendo venìa l’horribil onde.
El vento e la tempesta gli minaccia;
ma più la conscïenza lo confonde:
teme che Christo vendetta non faccia;
che, poi che battizarse in l’acque monde,
quand’hebbe tempo, sì poco gli calse,
hor lo battezi in queste amare e salse.
48
Gli ritornano a mente le promesse
che tante volte alla sua donna fece;
quel che giurato havea quando si messe
contra Rinaldo, e nulla satisfece.
Sì che pentito, a Dio che non volesse
punirlo qui, tre volte e quattro e diece
disse; e votosse di core e di fede
farse christian, se ponea in sciutto il piede;
49
e mai più non pigliar spada né lancia
contra a’ Fedeli in aiuto de’ Mori;
ma che ritorneria subito in Francia
e a Carlo renderia debiti honori;
né Bradamante più terrebbe a ciancia,
e verria a honesto fin de li sui amori.
Miracol fu, che sentì al fin del voto
crescersi forza e agevolarsi il nuoto.
50
Cresce la forza e l’animo indefesso:
Ruggier percuote l’onde e le respinge,
l’onde che seguon l’una all’altra appresso,
di che una il lieva, un’altra lo sospinge.
Così montando e discendendo spesso
con gran travaglio, al fin l’arena attinge;
e da la parte onde s’inchina il colle
più verso il mar, esce bagnato e molle.
51
Fur tutti l’altri, che nel mar si diero,
vinti da l’onde, e al fin restâr ne l’acque.
Nel solitario scoglio uscì Ruggiero,
come all’alta Bontà divina piacque.
Poi che fu sopra il monte inculto e fiero
sicur dal mar, nuovo pensier gli nacque
d’havere exilio in sì strette confine,
e di morirvi di disagio al fine.
52
Ma pur col core indomito, e constante
di patir quanto è in ciel di lui prescritto,
pei duri sassi l’intrepide piante
mosse, poggiando invêr la cima al dritto.
Non era cento passi andato inante,
che vide d’anni e d’astinentie afflitto
huom c’havea d’Eremita habito e segno,
di summissione e reverentia degno;
53
che, come gli fu presso: – Saulo, Saulo
(gridò), perché persegui la mia fede? –
come allhor il Signor disse a san Paulo,
ch’el colpo salutifero gli diede.
– Passar credesti il mar, né pagar naulo,
e defraudare altrui de la mercede.
Vedi che Dio, c’ha lunga man, ti giunge
quando tu gli pensasti esser più lunge. –
54
E seguitò il santissimo Eremita,
el qual la notte inanzi havuto havea
in visïon da Dio, che con sua aita
Ruggiero al scoglio capitar devea:
e di lui tutta la passata vita
e la futura, e anchor la morte rea,
figli e nipoti et ogni discendente
gli havea Dio revelato intieramente.
55
Seguitò l’Eremita riprendendo
prima Ruggiero; e al fin poi confortollo.
Lo riprendea ch’era ito differendo
sotto il soave giuogo a porre il collo;
e quel che devea far, libero essendo,
quando Christo pregando a sé chiamollo,
fatto havea poi con poca gratia, quando
venir con sferza il vide minacciando.
56
Poi confortollo che mai Christo il cielo
non niega o presto o tardi a chi lo chiede;
e di quelli operarii del Vangelo
narrò, che tutti hebbeno ugual mercede.
Con charitade e con devoto zelo
lo venne ammaestrando ne la fede,
verso la cella sua con lento passo,
ch’era cavata a mezo il duro sasso.
57
Di sopra siede alla devota cella
una piccola chiesa che risponde
all’Orïente, assai commoda e bella:
di sotto un bosco scende sino all’onde,
di lauri e di ginepri e di mortella,
e di palme fruttifere e feconde;
che riga sempre una liquida fonte
che con mormorio cade giù dal monte.
58
Erano de l’anni hormai presso a quaranta
che l’Eremita in sul scoglio si messe;
ch’a menar vita solitaria e santa
luoco opportuno il Salvator gli elesse.
De frutte colte hor d’una hor d’altra pianta,
e d’acqua pura la sua vita resse,
che valida e robusta e senza affanno
era venuta all’ottuagesimo anno.
59
Dentro la cella il vecchio accese il fuoco
e la mensa ingombrò di varii frutti,
dove si ricreò Ruggiero un poco,
poi c’hebbe i panni e li capelli asciutti.
Imparò poi più ad agio in questo luoco
de la fé nostra li mysterii tutti;
et alla pura fonte hebbe battesmo
el dì seguente dal Vecchio medesmo.
60
Secondo il luoco, assai contento stava
quivi Ruggier; ch’el buon servo di Dio
fra pochi giorni intentïon gli dava
di rimandarlo ove più havea disio.
Di molte cose intanto ragionava
con lui sovente, hor al regno di Dio,
hora a gli propri casi appertinenti,
hora al suo sangue e a sue future genti.
61
Havea il Signor, che tutto intende e vede,
revelato al santissimo Eremita
che Ruggier da quel dì c’hebbe la fede
devea quattro anni, e non più, star in vita;
che per la morte che sua Donna diede
a Pinabel, ch’a-llui fia attribuita,
serìa, e per quella anchor di Bertolagi,
morto da i Maganzesi empi e malvagi.
62
Ma serìa tanto il tradimento occulto,
ch’indi a più giorni alcun non lo sapria,
excetto quei ch’anchor l’havrian sepulto
dove anchor fatto havrian la fellonia.
Staria lunga stagion per questo inulto,
e la sua Moglie invan per lunga via
col ventre pien cercando l’andarebbe,
fin che in Italia a parturir verrebbe.
63
Fra l’Adice e la Brenta a piè de’ colli
ch’al Troiano Anthenòr piacqueno tanto,
con le sulphuree vene e rivi molli,
e con feconde glebe in ogni canto,
che con l’alta Ida volentier mutolli,
col sospirato Ascanio e caro Xanto,
verrebbe a parturir ne le foreste
che son poco lontane al Phrigio Ateste.
64
E ch’in bellezza et in valor cresciuto
el parto suo, che pur Ruggier fia detto,
e del sangue Troian riconnosciuto
da quei Troiani, in lor signor fia eletto;
e poi da Carlo, a cui sarà in aiuto
contro li Longobardi giovinetto,
dominio giusto avrà del bel paese,
e titolo honorato di Marchese.
65
E perché dirà Carlo in latino: – Este
voi signor qui, – quando faralli il dono,
nel secolo futur nominato Este
serà il bel luoco con augurio buono;
e così lascierà il nome d’Ateste
de le due prime note il vecchio suono.
Havea Dio anchora al servo suo predetta
di Ruggier la futura aspra vendetta:
66
ch’in visïone alla fedel consorte
apparirà dinanzi al giorno un poco;
e le dirà chi l’havrà messo a morte
e, dove giacerà, mostrerà il luoco:
ond’ella poi con la Cognata forte
destruggerà Pontieri a ferro e a fuoco;
né farà a Maganzesi minor danni
il figlio suo Ruggier, com’habbia l’anni.
67
D’Alberti, Obizi et Azzi amplio discorso
fatto gli haveva, e di lor stirpe bella,
insino a Nicolò, Leonello e Borso,
Hercole, Alfonso, Hippolyto e Issabella.
Ma il santo Vecchio, ch’alla lingua ha il morso,
non di quanto egli sa perhò favella:
narra a Ruggier quel che narrar conviensi;
e quel che in sé de’ ritener, ritiensi.
68
In questo tempo Orlando e Brandimarte
e ’l Marchese Olivier col ferro basso
vanno a trovare il saracino Marte,
che così nominar si può Gradasso,
e l’altri dui che da contraria parte
han mosso i buon destrier più che di passo;
io dico il Re Agramante e ’l Re Sobrino:
ribomba al corso il lito e ’l mar vicino.
69
E quando al scontro vengono a trovarsi,
e in tronchi vola al ciel rotta ogni lancia,
del gran rumor fu visto il mar gonfiarsi,
del gran rumor che s’udì sino in Francia.
Venne Orlando e Gradasso a riscontrarsi;
e potea star ugual questa bilancia,
se non era il vantaggio di Baiardo,
che fe’ parer Gradasso più gagliardo.
70
Percosse egli il destrier di minor forza,
ch’Orlando havea, d’un urto così strano,
che lo fece piegar a poggia et orza,
et poi cader, quanto era lungo, al piano.
Orlando di levarlo si risforza
tre volte e quattro, e con sproni e con mano;
e quando al fin nol può levar, ne scende,
rimbraccia il scudo e Balisarda prende.
71
Scontrosse col Re d’Aphrica Oliviero;
e fur di quello incontro a paro a paro.
Brandimarte restar senza destriero
fece Sobrin: ma non si seppe chiaro
se v’hebbe il destrier colpa o ’l cavalliero;
che avezzo era a cader quel Pagan raro.
O del destriero o suo pur fosse il fallo,
Sobrin se ritrovò giù del cavallo.
72
Hor Brandimarte, che vide per terra
el Re Sobrin, non l’assalì altrimente,
ma contra il Re Gradasso se disserra,
c’havea abbattuto Orlando parimente.
Tra il Marchese e Agramante andò la guerra
come fu cominciata primamente:
poi che si ruppon l’haste in mezo i scudi,
s’eran tornati incontra a stocchi nudi.
73
Orlando, che Gradasso in atto vede
che par che a lui tornar poco gli caglia;
né tornar Brandimarte gli concede,
tanto lo stringe e tanto lo travaglia;
se volge intorno, e similmente a piede
vede Sobrin che sta senza battaglia:
vêr lui s’aventa; e al mover de le piante
fa il ciel tremar del suo fiero sembiante.
74
Sobrin, che di tanto huom vede l’assalto,
si stringe in l’armi e s’apparecchia tutto:
come nocchiero a cui vegna a gran salto
muggendo incontra il minaccioso flutto,
drizza la prora; e quando il mar tanto alto
vede salir, vorria trovarsi al sciutto.
Sobrino oppone il scudo alla ruina
che da la spada vien di Fallerina.
75
Di tal finezza è quella Balisarda,
che l’armi le pôn far poco riparo;
in man poi di persona sì gagliarda,
in man d’Orlando, unico al mondo o raro,
taglia quel scudo; e nulla la ritarda
perché cerchiato sia tutto d’acciaro:
taglia quel scudo e sino al fondo fende,
e sotto il scudo in su la spalla scende.
76
Scende in la spalla; e perché la ritruovi
di doppia lama e di maglia coperta,
non vuol che perhò molto la le giovi,
che di gran piaga non la lasci aperta.
Mena Sobrin; ma indarno è che si provi
ferir Orlando, a cui per gratia certa
diede il Motor del cielo e de le stelle
che mai forar non se gli può la pelle.
77
Raddoppia il colpo il valoroso Conte,
e pensa da le spalle il capo tôrgli.
Sobrin che sa il valor di Chiaramonte,
e che poco gli è valso il scudo opporgli,
s’arretra, ma non tanto che la fronte
non venisse ancho Balisarda a côrgli:
di piatto fu, ma il colpo tanto fello
ch’amaccò l’elmo e gl’intornò el cervello.
78
Cadde Sobrin del fiero colpo in terra,
donde a gran pezzo poi non è risorto.
Crede finita haver con lui la guerra
il paladino, e che si giaccia morto;
e verso il Re Gradasso si disserra,
che Brandimarte non meni a mal porto:
ch’el Pagan d’arme e di spada l’avanza
e di destriero, e forse di possanza.
79
L’ardito Brandimarte in su Frontino,
quel buon destrier che di Ruggier fu dianzi,
si porta così ben col Saracino,
che non par già che quel troppo l’avanzi:
e s’egli havesse usbergo così fino
come il Pagan, gli staria meglio inanzi;
ma gli convien (che mal si sente armato)
spesso dar luoco hor d’uno hor d’altro lato.
80
Altro caval non è che meglio intenda
di quel Frontino il cavalliero a cenno:
par che dovunque Durindana scenda,
hor quinci hor quindi habbia a schivarla senno.
Agramante e Olivier battaglia horrenda
altrove fanno, e giudicar si denno
per dui guerrier di pare in arme accorti,
e pochi differenti in esser forti.
81
Havea lasciato (come io disse) Orlando
Sobrino in terra; e verso il Re Gradasso,
soccorrer Brandimarte disïando,
come si trovò a piè, venìa a gran passo.
Era vicin per assalirlo, quando
vide per mezo il campo andare a spasso
el buon cavallo onde Sobrin fo spinto;
e per haverlo, presto si fu accinto.
82
Hebbe il caval, che non trovò contesa,
e levò un salto e si cacciò in la sella;
la spada in l’una man tenea sospesa,
prese la briglia in l’altra alla predella.
Gradasso vede Orlando, e non gli pesa
ch’a lui sen viene, e per nome l’appella:
ad esso e a Brandimarte e all’altro spera
far parer notte, e che non sia anchor sera.
83
Voltasi al Conte, e Brandimarte lassa,
e d’una punta lo truova al camaglio:
fuor che la carne, ogni altra cosa passa;
per forar quella è vano ogni travaglio.
Orlando a un tempo Balisarda abbassa;
non vale incanto ove ella mette il taglio:
dal elmo al scudo e dal scudo all’arnese
venne fendendo in giù ciò ch’ella prese;
84
e nel volto e nel petto e ne la coscia
lasciò ferito il Re di Sericana,
di cui non fu mai tratto sangue, poscia
c’hebbe quell’armi: hor gli par cosa strana
che quella spada (e n’ha dispetto e angoscia)
le tagli hor sì; né pur è Durindana.
E se più lungo il colpo era o più appresso,
l’havria dal capo sino al ventre fesso.
85
Più non bisogna c’habbia in l’arme fede,
come havea dianzi; che la prova è fatta.
Con più riguardo e più ragion procede
che non solea; meglio al parar s’adatta.
Brandimarte che Orlando intrato vede,
che gli ha di man quella battaglia tratta,
si pone in mezo all’una e l’altra pugna,
perché in aiuto, a chi n’habbia uopo, giugna.
86
Essendo la battaglia in cotal stato,
Sobrin, ch’era giacciuto in terra molto,
si levò, poi ch’in sé fu ritornato;
e molto gli dolea la spalla e il volto:
alzò la vista e mirò in ogni lato;
poi, dove vide il suo signor, rivolto,
per dargli aiuto i lunghi passi torse
tacito sì, che alcun non se ne accorse.
87
Venne drieto a Olivier che tenea li occhi
al Re Agramante e poco altro attendea;
e gli ferì li deretan ginocchi
del buon caval d’una percossa rea:
tagliati i nervi, è forza che trabbocchi.
Cade Olivier, né rïhaver potea
el manco piè, che al non pensato caso
sotto il destriero in staffa era rimaso.
88
Sobrin raddoppia il colpo, e di riverso
disegna ove gli pensa il capo tôrre;
ma lo vieta l’acciar lucido e terso,
che temperò Vulcan, portò già Hettorre.
Vede il periglio Brandimarte, e verso
il Re Sobrino a tutta briglia corre;
e lo fere in sul capo e gli dà d’urto:
ma il Vecchio fier risale in piè di curto;
89
e ritorna a Olivier per dargli spaccio,
sì che expedito all’altra vita vada;
o non lasciare almen ch’esca d’impaccio,
ma che si stia sotto il destriero a bada.
Olivier c’ha di sopra il miglior braccio,
sì che si può difender con la spada,
di qua e di là tanto percuote e punge,
che, quanta è lunga, fa Sobrin star lunge.
90
Spera, s’alquanto il tien da sé respinto,
in poco spatio uscir di quella pena.
Tutto di sangue il vede molle e tinto,
e che ne versa tanto in su l’arena,
che gli par c’habbia tosto a restar vinto:
debile è sì, che si sostiene a pena.
Fa per levarsi Olivier molte prove,
né da dosso il caval perhò si muove.
91
Trovato ha Brandimarte il Re Agramante,
e cominciato a tempestargli intorno:
hor con Frontin gli è al fianco, hora gli è inante,
con quel Frontin che gira come un Torno.
Buon caval ha il figliuol di Monodante;
non l’ha peggior il Re di Mezogiorno:
ha Brigliador, che gli donò Ruggiero
poi che lo tolse a Mandricardo altiero.
92
Vantaggio ha bene assai de l’armatura;
a tutta prova l’ha buona e perfetta.
Brandimarte la sua tolse a ventura,
qual haver puòte a tal bisogno in fretta:
ma sua animosità sì l’assicura,
ch’in miglior presto di cangiarla aspetta;
come ch’el Re Aphrican d’aspra percossa
gli habbia la spalla destra fatta rossa,
93
e serbi da Gradasso ancho nel fianco
piaga da non pigliar perhò da giuoco.
Tanto l’attese al varco il guerrier franco,
che di cacciar la spada trovò luoco:
gli spezzò il scudo, e ferì il braccio manco,
e poi ne la man destra il toccò un poco.
Ma questo un scherzo si può dire e un spasso
verso quel che fa Orlando e ’l Re Gradasso.
94
Gradasso ha mezo Orlando disarmato;
l’elmo gli ha in cima e da dui lati rotto,
e fattogli cadere il scudo al prato,
usbergo e maglia apertagli di sotto:
non l’ha ferito già, ch’era affatato.
Ma ’l paladino ha lui peggio condotto:
ch’in la faccia, in la gola, in mezo il petto
l’ha ferito, oltra quel che già v’ho detto.
95
Gradasso disperato, che si vede
del proprio sangue tutto molle e brutto,
e che Orlando del suo dal capo al piede
sta dopo tanti colpi anchora asciutto,
lieva il brando a due mani, e ben si crede
partirgli il capo, il petto, il ventre e ’l tutto:
e come disegnò, sopra la fronte
percosse a meza spada il fiero Conte.
96
E s’era altro che Orlando, l’havria fatto,
l’havria sparrato fin sopra la sella:
ma, come accolto l’havesse di piatto,
la spada ritornò lucida e bella.
De la percossa Orlando stupefatto,
vide, mirando in terra, alcuna stella:
lasciò la briglia, e ’l brando havria lasciato;
ma di catena al braccio era legato.
97
Del suon del colpo fu tanto smarrito
el corridor ch’Orlando havea sul dorso,
che discorrendo il polveroso lito
mostrando gìa quanto era buono al corso:
de la percossa il Conte trammortito,
non ha valor di ritenerli il morso.
Segue Gradasso, e l’havria presto giunto,
poco più che Baiardo havesse punto.
98
Ma nel voltar de li occhi, il Re Agramante
vide condutto al ultimo periglio:
che nel elmo el figliuol di Monodante
col braccio manco gli ha dato di piglio;
e quel gli ha dislacciato già dinante,
e tenta col pugnal nuovo consiglio;
né gli può far quel Re difesa molta,
perché di man gli ha anchor la spada tolta.
99
Volta Gradasso, e più non segue Orlando,
ma, dove vede il Re Agramante, accorre.
L’incauto Brandimarte, non pensando
ch’Orlando costui lasci da sé tôrre,
non gli ha né li occhi né ’l pensiero, instando
il coltel ne la gola al Pagan porre.
Giunge Gradasso, e a tutto suo potere
con la spada a due man l’elmo gli fere.
100
Padre del ciel, da’ fra li eletti tuoi
spiriti luoco al Martyr tuo fedele,
che giunto al fin de’ tempestosi suoi
vïaggi, in porto hormai lega le vele.
Ah Durindana, dunque esser tu puoi
al tuo signor Orlando sì crudele,
che la più grata compagnia e più fida
ch’egli habbia al mondo, inanzi tu gli uccida?
101
Era un cerchio di fer grosso dua dita
intorno all’elmo, e fu tagliato e rotto
dal gravissimo colpo, e fu partita
la cuffia de l’acciar ch’era di sotto.
Brandimarte con faccia sbigottita
giù del caval si riversciò di botto;
e fuor del capo fe’ con larga vena
correre di sangue un fiume su l’arena.
102
Il Conte si risente, e li occhi gira,
et ha il suo Brandimarte in terra scorto;
e sopra in atto il Serican gli mira,
che ben connoscer può ch’egli l’ha morto.
Non so s’in lui più puòte il duolo o l’ira;
ma da piangere il tempo havea sì corto,
che restò il duolo, e l’ira uscì più presto.
Signor, diròvi in l’altro canto il resto.

CANTO TRIGESIMOTTAVO

1
Qual duro freno o qual ferrigno nodo,
qual (s’esser può) catena di diamante
farà che l’ira servi ordine e modo,
che non trascorra oltra il prescritto inante,
quando persona che con saldo chiodo
t’habbia Amor fissa al cor, ti veggi inante
per vïolentia altrui o per inganno
patire o dishonore o mortal danno?
2
E se crudele et inhumano effetto
da quell’impeto segue, par che sia
degno d’excusa, perché allhor del petto
non ha Ragione imperio né balìa.
Ad Achil, poi che sotto il falso elmetto
vide Patròclo insanguinar la via,
d’essersi vendicato non fu aviso,
se morto non trahea chi l’havea occiso.
3
Invicto Alfonso, simile ira accese
la vostra gente il dì che vi percosse
la fronte il grave sasso, e sì v’offese,
ch’ognun pensò ch’el spirto gito fosse:
la trasse a tal furor, che non difese
vostri inimici argini o mura o fosse,
che tutti fur l’un sopra l’altro morti,
senza lasciar chi la novella porti.
4
El vedervi cader causò il dolore
ch’i vostri a furor mosse e a crudeltade.
Se in piedi erate voi, forse minore
licentia havriano havute le lor spade.
Eravi assai, che la Bastìa in manche hore
v’haveste ritornata in potestade,
che tolta in giorni a voi non era stata
da gente Cordovese e di Granata.
5
Forse fu da Dio vindice permesso
che vi trovaste a quel caso impedito,
acciò ch’el crudo e scelerato excesso
che dianzi fatto havean, fosse punito;
che, poi che in lor man vinto si fu messo
il miser castellan, stanco e ferito,
senza arme fu fra cento spade occiso
dal popul la più parte circonciso.
6
Ma per venir a conclusion, vi dico
che nessun’altra quell’ira pareggia,
quando signor, parente o sotio antico
dinanzi a li occhi ingiurïar ti veggia.
Dunque è ragion che per sì caro amico
Orlando più che mai fulminar deggia;
che de l’horribil colpo che gli diede
il Re Gradasso, morto in terra il vede.
7
Qual nomade pastor, che veduto habbia
fuggir strisciando il squalido serpente
che il figliuol che giocava ne la sabbia
ucciso gli ha col venenoso dente,
stringe il baston con chòlera e con rabbia;
tal la spada, d’ogn’altra più tagliente,
stringe con ira il cavallier d’Anglante:
il primo che trovò fu il Re Agramante,
8
che sanguinoso e de la spada privo,
col scudo rotto e con l’elmo disciolto,
e ferito in più parti ch’io non scrivo,
s’era di man di Brandimarte tolto
come di piè al astor sparvier mal vivo,
a cui lasciò alla coda invido o stolto.
Orlando giunse, e messe il colpo giusto
dove il capo si termina col busto.
9
Sciolto era l’elmo e disarmato il collo,
sì che lo tagliò netto come un gionco.
Cadde, e in la sabbia diè l’ultimo crollo
del regnator di Lybia il grave tronco:
corse il spirto alla riva, onde tirollo
Charon nel legno suo col graffio adonco.
Orlando sopra lui non se ritarda,
ma truova il Serican con Balisarda.
10
Come vide Gradasso d’Agramante
cadere il busto dal capo diviso;
quel che accaduto mai non gli era inante,
tremò nel core e si smarrì nel viso;
e al arrivar del cavallier d’Anglante,
presago del suo mal, parve conquiso:
per schermo suo partito alcun non prese
quando il colpo mortal sopra gli scese.
11
Orlando lo ferì nel destro fianco
sotto l’ultima costa; e il ferro, immerso
nel ventre, un palmo uscì dal lato manco,
di sangue sino a l’elsa tutto asperso.
Mostrò ben che di man fu del più franco
e del miglior guerrier del universo
el colpo, che un signor condusse a morte
di cui non era in Paganìa il più forte.
12
Di tal vittoria non troppo gioioso,
presto di sella il paladin si getta;
e col viso turbato e lachrymoso
a Brandimarte suo corre a gran fretta.
Gli vede intorno il campo sanguinoso,
l’elmo sì aperto, che di scure o cetta
par colpo c’habbia un legno fral percosso,
e non di spada un ferrato elmo e grosso.
13
Orlando l’elmo gli levò dal viso,
e ritrovò ch’el capo sin al naso
fra l’uno e l’altro ciglio era diviso:
ma tanto spirto anchor gli era rimaso,
che de’ suoi falli al Re del paradiso
puòte sua colpa dir nanzi all’occaso;
e confortar il Conte, che le guote
spargea di pianto, a patïentia puòte;
14
e puòte dirgli: – Fa’ che ti raccordi
di me in l’oratïon tue grate a Dio;
né men ti raccomando la mia Fiordi… –
ma dir… ligi non puòte, e qui finio.
E voci e suoni in l’aria andar concordi
de l’angeli s’udîr, tosto ch’uscìo
l’alma beata del corporeo velo,
e fra dolce harmonia salire al cielo.
15
Orlando, anchor che far devea allegrezza
di sì devoto fine, e sapea certo
che Brandimarte alla suprema altezza
salito era, ch’el ciel gli vide aperto;
pur da la humana volontade, avezza
co i fragil sensi, male era sofferto
ch’un tal più che fratel gli fusse tolto,
e non haver di pianto humido il volto.
16
Sobrin che molto sangue havea perduto,
che gli piovea sul fianco e su le guote,
riverso già gran pezzo era caduto,
e haver ne devea hormai le vene vuote.
Anchor giacea Olivier, né rïhavuto
il piede havea, né rïhaver lo puote
se non debile e smosso, e del star tanto
che gli fe’ il caval sopra, mezo infranto:
17
e se ’l Cognato non venìa aiutarlo
(sì come lachrymoso era e dolente),
per se medesmo non potea ritrarlo;
e tanta doglia e tal martìr ne sente,
che ritratto che l’ha, né di mutarlo
né fermarvisi sopra era possente;
e n’ha insieme la gamba sì stordita,
che muover non si può se non s’aita.
18
De la vittoria poco rallegrosse
Orlando; e troppo eragli acerbo e duro
veder che morto Brandimarte fosse,
né del cognato molto esser sicuro.
Sobrin, che vivea anchora, ritrovosse,
ma poco chiaro havea con molto oscuro
la vita sua, che per l’uscito sangue
era vicino a rimaner exangue.
19
Lo fece tôr, che tutto era sanguigno,
il Conte, e medicar discretamente;
e confortollo con parlar benigno
come se stato gli fosse parente;
che dopo il fatto nulla di maligno
in sé tenea, ma tutto era clemente.
Fece de’ morti arme e cavalli tôrre;
del resto a’ servi lor lasciò disporre.
20
In questo tempo, alzando li occhi al mare,
vide venire a vela e remi in fretta
un naviglio liggier, che di calare
facea sembiante inverso l’isoletta:
di chi si fosse i’ non voglio hor contare,
perc’ho più d’uno altrove che m’aspetta.
Veggiàno in Francia, poi che spinto n’hanno
li Saracin, se mesti o lieti stanno.
21
Veggiàn che fa quella fedele amante
ch’i suoi contenti andar vede lontani,
dico la travagliata Bradamante,
e che trovati l’ha sì spesso vani;
e poi che quel che fu giurato, inante
che con Rinaldo venisse alle mani,
nulla le giova, hormai poco le avanza
in che ella debbia più metter speranza.
22
E ripetendo i pianti e le querele
che pur troppo domestiche le furo,
tornò a sua usanza a nominar crudele
Ruggiero, e ’l suo destin spietato e duro.
Indi sciogliendo al gran dolor le vele,
il ciel, che consentia tanto pergiuro
né fatto n’havea anchor segno evidente,
chiamava ingiusto, debile e impotente.
23
Ritornò poi de la Maga a dolerse
e de l’oracol falso de la grotta;
ch’a lor mendace suasïon s’immerse
nel mar d’amor, che l’ha a morir condotta.
Indi a Marphisa bella si converse,
e del fratel che l’ha la fede rotta
si ramarica seco, e le dimanda,
piangendo, aiuto, e se le raccomanda.
24
Marphisa se restringe ne le spalle
e, quel sol che può far, le dà conforto;
né crede che Ruggier mai così falle,
ch’a-llei non debbia ritornar di corto;
e se non torna pur, sua fede dàlle
ch’ella non patirà sì grave torto:
o che battaglia piglierà con esso,
o gli farà osservar ciò che ha promesso.
25
Così fa ch’ella un poco il duol raffrena;
c’havendo ove sfogarlo, è meno acerbo.
Havemo vista Bradamante in pena
chiamar Ruggier pergiuro, empio e superbo;
hora veggiàn se miglior vita mena
il fratel suo, che non ha polso o nerbo,
osso o medolla che non senta caldo
de le fiamme d’Amor, dico Rinaldo:
26
dico Rinaldo, che come sapete
Angelica la bella amava tanto;
né l’havea tratto all’amorosa rete
sì la beltà di lei, come l’incanto.
Haveano li altri paladin quïete,
de’ Mori essendo ogni vigore affranto:
tra’ vincitori era rimaso solo
egli captivo in amoroso duolo.
27
Cento messi a cercar che di lei fusse
havea mandato, e cerconne egli stesso;
al fine a Malagigi si ridusse,
che ne i bisogni suoi l’aiutò spesso.
A narrar il suo amor se gli condusse
col viso rosso e col ciglio demesso;
indi lo priega che gli insegni dove
la desïata Angelica si truove.
28
Gran maraviglia di sì strano caso
va rivolgendo a Malagigi il petto:
sa che sol per Rinaldo era rimaso
d’haverla cento volte e più nel letto;
et egli stesso, acciò che persuaso
fusse di questo, havea assai fatto e detto
con prieghi e con minaccie per piegarlo,
né mai havuto havea poter di farlo;
29
et tanto più, che allhor Rinaldo havrebbe
tratto fuor Malagigi di pregione.
Far hor spontaneamente lo vorrebbe,
che nulla giova, e n’ha minor cagione.
Poi prega lui che racordar pur debbe
quanto habbia offeso in questo oltra ragione;
che per negarli già, vi mancò poco
di non farlo morir in scuro luoco.
30
Ma quanto a Malagigi le dimande
di Rinaldo importune più pareano,
tanto, che l’amor suo fusse più grande,
indicio manifesto gli faceano.
Mosso a’ prieghi di lui, che non li spande
mai seco invano, immerse nel Oceano
ogni memoria de la ingiuria vecchia,
e d’aiutarlo presto s’apparecchia.
31
Termine tolse alla risposta, e spene
gli diè che favorevol gli saria,
e che gli saprà dir la via che tiene
Angelica, o sia in Francia o dove sia.
E quindi Malagigi al luoco viene
dove i demoni scongiurar solia,
ch’era fra i monti in una scura grotta;
et apre il libro, e chiama i spirti in frotta.
32
Poi ne sceglie un che de’ casi d’amore
havea notitia, e da lui saper volle
come sia che Rinaldo, che havea il core
dianzi sì duro, hor l’habbia tanto molle:
e quel gli raccontò tutto il tenore
de le due fonti, di che l’una tolle,
l’altra dà il fuoco a cui nulla soccorre,
se non l’altra acqua che contraria corre.
33
E gli narrò, che havendo già di quella
che l’amor caccia beuto Rinaldo,
a i lunghi prieghi d’Angelica bella
si dimostrò così ostinato e saldo;
e che poi giunto per sua iniqua stella
a ber ne l’altra l’amoroso caldo,
tornò ad amar, per forza di quell’acque,
lei che pur dianzi oltra il dever gli spiacque.
34
Da iniqua stella e fier destin fu giunto
a ber la fiamma in quel giacciato rivo;
perché Angelica venne quasi a un punto
a ber ne l’altro di dolcezza privo,
che d’ogni amor gli lasciò il cor sì emunto
ch’indi hebbe lui più che le serpi a schivo:
egli amò lei, e l’amor giunse al segno
in che era di lei giunto l’odio e ’l sdegno.
35
Del strano caso di Rinaldo a pieno
fu Malagigi dal demonio instrutto,
che gli narrò d’Angelica non meno,
ch’a un giovine Aphrican si donò in tutto;
e come poi lasciato havea il terreno
de li Christiani, e per l’instabil flutto
sciolto verso India havea da i liti Hispani
su l’audaci galee de’ Lusitani.
36
Poi che venne il Cugin per la risposta,
molto gli disuase Malagigi
di più Angelica amar, che s’era posta
d’un vilissimo Barbaro a i servigi;
e sì di Francia gita era discosta,
ch’aspro fôra a seguirne li vestigi:
ch’era hoggimai più là che a meza strada
per venir con Medoro in sua contrada.
37
La partita d’Angelica non molto
serebbe grave all’animoso amante;
né pur gl’havria turbato il sonno o tolto
el pensier di tornarsene in Levante:
ma udendo che gli havea del suo amor colto
un Saracino le primitie inante,
tal passïon e tal cordoglio sente,
che non fu in vita sua, mai, più dolente.
38
Non ha poter d’una risposta sola;
trema il cor dentro, e treman fuor le labbia;
non può la lingua disnodar parola;
la bocca ha amara, e par che tòsco v’habbia.
Da Malagigi subito s’invola;
e come il spinge la gelosa rabbia,
dopo gran pianto e gran ramaricarsi,
verso Levante fa pensier tornarsi.
39
Chiede licentia al figlio di Pipino;
e truova excusa ch’el destrier Baiardo,
che ne mena Gradasso saracino
contra il dever di cavallier gagliardo,
lo muove per suo honore a quel camino,
acciò che vieti al Serican bugiardo
di mai vantarsi o con spada o con lancia
haverlo tolto a un paladin di Francia.
40
Lasciollo andar con sua licentia Carlo,
ben che ne fu con tutta Francia mesto;
ma finalmente non seppe negarlo,
tanto gli parve il desiderio honesto.
Vuol Dudon, vuol Guidone accompagnarlo;
ma lo niega Rinaldo a quello e a questo.
Lascia Parigi, e se ne va via solo,
pien di sospiri e d’amoroso duolo.
41
Sempre ha in memoria, e mai non se gli tolle,
che mille volte Angelica haver puòte,
e che sprezzato havea ostinato e folle
così begli occhi et così belle guote;
et di tanto piacer c’haver non volle,
tante et tante hore eran passate vuote:
et hora eleggerebbe un giorno corto
haverne solo, et rimaner poi morto.
42
Ha sempre in mente, et mai non se ne parte,
come esser pote ch’un povero fante
habbia del cor di lei spinto da parte
merito e amor d’ogni altro primo amante.
Con tal pensier, ch’el cor gli straccia e parte,
Rinaldo se ne va verso Levante;
et dritto al Rheno e Basilea si tenne,
fin che d’Ardenna alla gran selva venne.
43
Poi che fu dentro a molte miglia andato
il Paladin pel bosco aventuroso,
da ville e da castella allontanato,
dove aspro era più il luoco e periglioso,
tutto in un tratto vide il ciel turbato,
sparito il Sol tra nuvoli nascoso,
et uscir fuor d’una caverna oscura
un strano mostro in feminil figura.
44
Mill’occhi in capo havea senza palpèbre:
non può serrarli, e non credo io che dorma;
non men che li occhi, havea l’orecchie crebre;
havea in luoco de crin serpi a gran torma.
Fuor de le dïaboliche tenèbre
nel mondo uscì la spaventevol forma.
Un fiero e maggior serpe ha per la coda,
che per il petto le erra e tutta annoda.
45
Quel ch’a Rinaldo in mille e mille imprese
più non avenne mai, quivi gli aviene;
che come vede il mostro ch’all’offese
se gli apparecchia, et ch’a trovar lo viene,
molta paura et gran tremor gli scese
per mezo l’ossa et per tutte le vene:
ma pur l’usato ardir simula et finge,
et con trepida man la spada stringe.
46
S’acconcia il mostro in guisa al fiero assalto,
che si può dir che sia mastro di guerra:
vibra il serpente venenoso in alto,
e poi contra Rinaldo se diserra;
di qua e di là gli vien sopra a gran salto.
Rinaldo contra lui vaneggia et erra:
colpi a dritto e riverso tira assai,
ma non ne tira alcun che fera mai.
47
Il mostro ’l petto ’l serpe hora gli appicca,
che sotto l’arme e sin nel cor l’aggiaccia;
hora per la visera gli lo ficca,
e fa ch’erra pel collo e per la faccia.
Rinaldo da la impresa se dispicca,
e quanto può coi sproni il caval caccia:
ma la Furia infernal già non par zoppa,
che spicca un salto, e gli è subito in groppa.
48
Vada al traverso, al dritto, ove si voglia,
sempre ha con lui la maledetta peste;
né sa modo trovar che se ne scioglia,
ben ch’el caval di calcitrar non reste.
Trema a Rinaldo il cor come una foglia:
non ch’altrimenti il serpe lo moleste;
ma tanto horror ne sente e tanto schivo,
che stride e geme, e duolsi che egli è vivo.
49
Nel più tristo sentier, nel peggior calle
scorrendo va, nel più intricato bosco,
dove ha più asprezza il balzo, ove la valle
è più spinosa, ove è l’aer più fosco,
così sperando tôrse da le spalle
l’horrida lue, l’abominevol tòsco;
et ne saria mal capitato forse,
se presto non giungea chi lo soccorse.
50
Ma lo soccorse a tempo un cavalliero
di bello armato e lucido metallo,
che porta un giuogo rotto per cimiero;
di rosse fiamme ha sparso il scudo giallo,
così trappunto ha ’l suo vestir altiero,
così la sopravesta del cavallo:
la lancia ha in pugno, e la spada al suo luoco,
e la mazza a l’arcion, che getta fuoco.
51
Piena d’un fuoco eterno è quella mazza,
che senza consumarsi ognhora avampa:
né per buon scudo o tempra di corazza
o per grossezza d’elmo se ne scampa.
Dunque si debbe il cavallier far piazza,
giri ove vuol l’inextinguibil lampa:
né manco aiuto era uopo al guerrier nostro
per levarlo di man del crudel mostro.
52
Et come cavallier d’animo saldo,
dove ha udito ’l rumor corre et galoppa,
tanto che vede il mostro che Rinaldo
col brutto serpe in mille nodi aggroppa,
et sentir falli a un tempo freddo et caldo;
che non ha via di tôrlosi di groppa.
Va il cavalliero, e fere il mostro al fianco,
et lo fa trabboccar dal lato manco.
53
Ma quello è a pena in terra che si rizza,
e ’l lungo serpe intorno aggira et vibra.
Quest’altro più con l’hasta non l’attizza,
ma di farla col fuoco si delibra:
la mazza impugna, et dove il serpe guizza,
come tempesta i spessi colpi libra;
né lascia tempo a quel brutto animale
che possa tirar colpo o bene o male:
54
et mentre a dietro il caccia o tiene a bada,
et lo percuote et vendica mill’onte,
consiglia il Paladin che se ne vada
per quella via che s’alza verso il monte.
Quel s’appiglia al consiglio et alla strada;
et senza drieto mai volger la fronte,
non cessa che di vista se gli tolle,
ben che molto aspro era salir quel colle.
55
Il cavallier, poi che in la scura buca
fece tornar il mostro dal inferno,
dove rode se stesso et si manuca,
et da mill’occhi versa il pianto eterno;
per esser di Rinaldo guida et duca,
ch’uopo n’havea, salì il giogo superno
dove egli era ito, et si misse con lui
per trarlo fuor de’ luochi oscuri et bui.
56
Come Rinaldo il vide ritornato,
gli disse che gli havea gratia infinita,
et ch’era debitor in ogni lato
di por a beneficio suo la vita.
Poi lo dimanda come sia nomato,
acciò dir sapia chi gli ha dato aita,
et tra guerrieri possa e inanzi a Carlo
de l’alta sua virtù sempre exaltarlo.
57
Rispose il cavallier: – Non te rincresca
se ’l nome mio non vuo’ scoprirti adesso;
ma ti prometto ben, che prima ch’esca
de l’hemisperio il Sol, t’el farò expresso. –
Trovaro, andando insieme, una acqua fresca
che col dolce mormorio facea spesso
pastori et vïandanti al chiaro rio
venire, e berne l’amoroso oblio.
58
Signor, queste eran quelle gelide acque,
quelle che spengon l’amoroso caldo;
di cui bevendo, ad Angelica nacque
l’odio c’hebbe da poi sempre a Rinaldo.
Et s’ella un tempo a lui prima dispiacque
e ’n l’odio suo lo ritrovò sì saldo,
non derivò, signor, la causa altronde,
se non d’haver già lui beuto in l’onde.
59
Il cavallier che con Rinaldo viene,
come si vede inanzi al chiaro rivo,
caldo per la fatica il caval tiene,
et dice: – Il posar qui non fia nocivo. –
– Non fia (disse Rinaldo) se non bene;
ch’oltra che prema il mezo giorno estivo,
m’ha così il brutto mostro travagliato,
ch’el riposar mi fia commodo e grato. –
60
L’un e l’altro smontò del suo cavallo,
e pascer lo lasciò per la foresta;
e nel fiorito verde a rosso e giallo
ambi si trasser l’elmo de la testa.
Corse Rinaldo al liquido crystallo,
spinto da caldo e da sete molesta,
e cacciò, a un sorso del freddo liquore,
del petto ardente e la sete e l’amore.
61
Come lo vide l’altro cavalliero
la bocca sollevar de l’acqua molle,
e ritrarne pentito ogni pensiero
di quel disir c’hebbe d’amor sì folle,
si levò ritto, e con sembiante altiero
gli disse quel che dianzi dir non volle:
– Sappi, Rinaldo, ch’el mio nome è il Sdegno,
venuto sol per sciorti il giuogo indegno. –
62
Così dicendo, subito gli sparve;
sparvegli insieme il suo caval con lui.
Questo a Rinaldo un gran miracol parve;
s’aggirò intorno, e disse: – Ove è costui? –
Stimar non sa se sian magiche larve,
che Malagigi un de’ ministri sui
gli habbia mandato a romper la catena
che lungamente l’ha tenuto in pena;
63
o pur che Dio da l’alta hierarchia
gli habbia per ineffabil sua bontade
mandato, come già mandò a Thobia,
un angelo a levar di cecitade.
Ma buono o rio demonio, o quel che sia
che reso gli ha la prima libertade,
ringratia e loda; e da lui sol connosce
che sano ha il cor da l’amorose angosce.
64
Gli fu nel primier odio ritornata
Angelica; et gli parve troppo indegna
d’esser, non che sì lungi seguitata,
ma che per lei pur meza lega vegna.
Per Baiardo rihaver tutta fïata
verso India in Sericana andar dissegna,
sì perché l’honor suo lo stringe a farlo,
sì per haverne già parlato a Carlo.
65
Giunse il giorno seguente a Basilea,
dove la nuova era venuta inante
ch’el conte Orlando haver pugna devea
contra Gradasso e contra il Re Agramante.
Né questo per aviso si sapea,
c’havesse dato il cavallier d’Anglante;
ma di Sicilia in fretta venuto era
chi la novella havea detta per vera.
66
Rinaldo vuol trovarsi con Orlando
alla battaglia, e se ne vede lunge.
Di diece in diece miglia va mutando
cavalli e guide, e corre e sferza e punge.
Passa il Rheno a Gostanza, e in su volando
traversa l’Alpe, et in Italia giunge.
Verona a drieto, a drieto Mantua lassa;
sul Po si truova, e con gran fretta il passa.
67
Inchinavasi il Sol molto alla sera
e già apparia nel ciel la prima stella,
quando Rinaldo in ripa alla riviera
stando in pensier s’havea da mutar sella,
o tanto soggiornar che l’aria nera
fuggissi inanzi all’altra Aurora bella,
venir si vede un cavallier inanti,
cortese ne l’aspetto e nei sembianti.
68
Costui, dopo il saluto, con bel modo
gli dimandò se giunto a moglie fosse.
Disse Rinaldo: – I’ son nel giugal nodo; –
ma di tal dimandar maravigliosse.
Suggiunse quel: – Che sia così, ne godo. –
Poi, per chiarir perché tal detto mosse,
lo priegò molto che fusse contento
che gli desse la sera alloggiamento;
69
che gli faria veder cosa che debbe
volentieri veder c’ha moglie al lato.
Rinaldo, e sì perché posar vorrebbe,
hormai di correr tanto affaticato;
e sì ch’a udire et a veder sempre hebbe
nuove aventure un desiderio innato;
accettò l’offerir del cavalliero,
e drieto lui pigliò nuovo sentiero.
70
Un tratto d’arco fuor di strada usciro,
e nanzi un gran palazzo si trovaro,
onde scudieri in gran frotta veniro
con torchi accesi, e fêro intorno chiaro.
Intrò Rinaldo, e voltò li occhi in giro,
e vide luoco il qual si vede raro,
di gran fabrica e bella e bene intesa;
né a privato huom convenia tanta spesa.
71
Di serpentino e porphydo le dure
pietre fan de la porta il ricco vòlto;
quel che chiude è di bronzo, con figure
che sembrano spirar, muovere il volto.
Sotto un arco poi s’entra, ove misture
di bel musaico ingannan l’occhio molto.
Quindi si va in un quadro ch’ogni faccia
de le sue loggie ha lunga cento braccia.
72
La sua porta ha per sé ciascuna loggia,
e tra la porta e sé ciascuna ha un arco:
d’ampiezza pari son, ma varia foggia
fe’ d’ornamenti il mastro lor non parco.
Da ciascuno arco s’entra, ove si poggia
sì facil, ch’un somier vi può gir carco.
Un altro arco di su truova ogni scala;
e s’entra per ogni arco in una sala.
73
Li archi di sopra escono fuor del segno
tanto, che fan coperchio alle gran porte;
e ciascun due colonne ha per sostegno,
altre di bronzo, altre di pietra forte.
Lungo serà, se tutti vi disegno
li ornati alloggiamenti de la corte;
et oltra quel ch’appar, quanti agi sotto
la cava terra il mastro havea ridotto.
74
L’alte colonne e’ capitelli d’oro,
da che i gemmati palchi eran suffulti,
li peregrini marmi che vi fôro
da dotta mano in varie forme sculti,
pitture e getti, e tanto altro lavoro
(ben che la notte a gli occhi il più n’occulti),
mostran che non bastaro a tanta mole
di dui Re insieme le ricchezze sole.
75
Sopra li altri ornamenti e ricchi e belli,
ch’erano molti in la gioconda stanza,
v’era una fonte che per più ruscelli
spargea freschissime acque in abondanza.
Poste le mense havean quivi i donzelli;
ch’era nel mezo per ugual distanza:
vedeva, e parimente veduta era
da quattro porte de la casa altiera.
76
Fatta da mastro diligente e dotto
la fonte era con molta e suttil opra,
di loggia a guisa o padiglion, ch’in otto
faccie distinto, intorno adombri e copra.
Un ciel d’oro, che tutto era di sotto
colorito di smalto, le sta sopra;
et otto statue son di marmo bianco,
che sostengon quel ciel col braccio manco.
77
Ne la man destra il corno de Amalthea
havea lor sculto il glorïoso mastro,
onde con grato murmure cadea
l’acqua di fuore in vaso d’alabastro.
Ridutto a forma di gran donne havea
el provido scultore ogni pilastro:
d’habito sono e faccia differente,
ma gratia hanno e beltà tutte ugualmente.
78
Fermava il piè ciascun di questi segni
sopra due belle imagini più basse,
che con la bocca aperta facean segni
ch’el canto e l’harmonia lor dilettasse;
e quel atto in che son, par che disegni
che l’opra e studio lor tutto lodasse
le belle donne che su l’homeri hanno,
se fusser quei di ch’in sembianza stanno.
79
Li simulacri inferïori in mano
havean lunghe et amplissime scritture,
dove facean con molta laude piano
li nomi de le più degne figure;
e mostravano anchor poco lontano
li propri loro in note non oscure.
Mirò Rinaldo a lume de doppieri
le donne ad una ad una e i cavallieri.
80
La prima inscrittïon ch’a gli occhi occorre,
con lungo honor Lucretia Borgia noma,
la cui bellezza et honestà preporre
debbe alla antiqua la sua patria Roma.
Li dui che voluto han sopra sé tuorre
tanto excellente et honorata soma
nomava il scritto: Antonio Thebaldeo
et Hercol Strozza; un Lino et uno Orpheo.
81
Non men gioconda statua né men bella
si vede appresso; il sottoscritto dice:
– Ecco la figlia d’Hercole, Issabella,
per cui Ferrara si terrà felice
via più, perché in lei nata serà quella,
che d’altro ben che prospera e fautrice
e benigna Fortuna dar le deve,
volgendo li anni nel suo corso lieve. –
82
Li dui che mostran disïosi affetti
che la gloria di lei sempre risuone,
Gian Iacobi ugualmente erano detti,
l’uno Calandra e l’altro Bardelone.
Nel terzo e quarto luoco, ove per stretti
rivi l’acqua esce fuor del padiglione,
due donne son, che patria, stirpe, honore
hanno di par, di par beltà e valore.
83
Helissabetta l’una, e Leonora
nominata era l’altra: e fia, per quanto
narrava il sculto marmo, d’esse anchora
sì glorïosa la terra di Manto,
che di Vergilio, che tanto l’honora,
più che di queste non si darà vanto.
Havea la prima a piè del sacro lembo
Iacobo Sadoletto e Pietro Bembo.
84
Uno elegante Castiglione e un culto
Mutio Arelio de l’altra eran sostegni.
Di questi nomi era il bel marmo sculto,
ignoti alhora, hor sì famosi e degni.
Veggion poi quella a chi dal cielo indulto
tanta virtù serà, quanta ne regni
o mai regnata in alcun tempo sia,
versata da Fortuna hor buona hor ria.
85
Il scritto d’oro esser costei dichiara
Lucretia Bentivoglia; e fra le lode
pone di lei, ch’el duca di Ferrara
d’esserle padre si rallegra e gode.
Di costei canta con suave e chiara
voce un Camil, che ’l Rheno e Felsina ode
con quella attentïon, con quel stupore,
che solea Amphryso udir già il suo pastore;
86
et un per cui la terra, ove l’Isauro
le sue dolci acque insala in maggior vase,
nominata serà da l’Indo al Mauro,
e da l’Austrine al’Hyperboree case,
via più che per pesare il Romano auro,
di che perpetuo nome le rimase:
Guido Posthumo, a cui doppia corona
Pallade quinci, e quindi Phebo dona.
87
L’altra che segue in l’ordine è Dïana.
– Non guardar – dice il marmo scritto – ch’ella
sia altiera in vista; che nel core humana
non serà perhò men ch’in viso bella. –
El dotto Celio Calcagnin lontana
farà la gloria e il bel nome di quella
nel regno di Monese e in quel di Iuba,
in India, in Spagna udir con chiara Tuba;
88
et un Marco Caval, che maggior fonte
farà di poesia nascer d’Ancona
ch’el Gorgoneo caval non fe’ del monte,
non so se di Parnasso o di Helicona.
Beatrice appresso a questa alza la fronte,
così par ch’ivi l’ordine la pona;
Beatrice che beato il suo consorte
farà, vivendo, e misero alla morte;
89
anzi tutta l’Italia, che con lei
fia triomphante, e senza lei captiva.
Un signor di Coreggio di costei
con alto stil par che cantando scriva,
e Timotheo, l’honor de’ Bendedei:
ambi faran tra l’una e l’altra riva
fermar al suon de’ lor suavi plettri
il fiume ove sudâr li antiqui elettri.
90
Tra questo luoco e quel de la colonna
che fu sculpita in Borgia, come è detto,
formata in l’alabastro una gran donna
era di tanto e sì sublime aspetto,
che sotto puro velo in nera gonna,
senza oro e gemme in un vestire schietto,
tra le più adorne non parea men bella
che sia tra l’altre la Cyprigna stella.
91
Non si potea, ben contemplando fiso,
connoscer se più gratia o più beltade,
o maggior maestà fusse nel viso,
o più indicio d’ingegno o d’honestade.
– Chi vorrà di costei (dicea l’inciso
marmo) parlar quanto parlar n’accade,
ben torrà impresa più d’ogn’altra degna;
ma non perhò ch’a fin mai se ne venga. –
92
Dolce quantunque e pien di gratia tanto
fusse il suo bello e ben formato segno,
parea sdegnarsi che con humil canto
ardisce lei lodar sì rozo ingegno,
come era quel che sol, senz’altri a canto
(non so perché), le fu fatto sostegno.
De tutto ’l resto erano i nomi sculti;
sol questi dui l’artifice havea occulti.
93
Fanno le statue in mezo un luoco tondo,
ch’el pavimento asciutto ha di corallo,
di freddo suavissimo giocondo,
reso dal puro e liquido crystallo
che di fuor cade in un canal fecondo,
che ’l prato verde, azzurro, bianco e giallo
rigando, scorre per vari ruscelli,
grato alle morbide herbe e a gli arbuscelli.
94
Col cortese hoste ragionando stava
el Paladino a mensa; e spesso spesso,
senza più differir, gli racordava
che li attendesse quanto havea promesso:
e ad hor ad hor mirandolo, osservava
c’havea di grande affanno il cor oppresso;
che non può star momento che non habbia
un cocente sospiro in su le labbia.
95
Spesso la voce dal desio cacciata
viene a Rinaldo sin presso alla bocca
per dimandarlo; e quivi, raffrenata
da gran modestia, nel uscir s’incocca.
Hora essendo la cena terminata,
ecco un donzello, a chi l’ufficio tocca,
pon su la mensa un bel nappo d’or fino,
di fuor di gemme, e drento pien di vino.
96
Il signor de la casa allhora alquanto
sorridendo, a Rinaldo levò il viso;
ma chi ben lo notava, più di pianto
parea che havesse voglia che di riso.
Disse: – Hora a quel che mi racordi tanto,
che tempo sia de sodisfar m’è aviso;
mostrarti un paragon ch’esser de’ grato
di veder a ciascun c’ha moglie allato.
97
Ciascun marito, a mio giudicio, deve
sempre spiar se la sua donna l’ama;
saper s’honor o biasmo ne riceve,
se per lei bestia, o se pur uomo se chiama.
L’incarco de le corna è lo più lieve
ch’al mondo sia, se ben l’huom tanto infama:
lo vede quasi tutta l’altra gente;
e chi l’ha in capo, mai non se lo sente.
98
Se tu sai che fedel la moglie sia,
hai di più amarla et reverir ragione,
che non ha quel che la connosce ria,
o quel che ne sta in dubbio e in passïone.
Di molte n’hanno a torto gelosia
li lor mariti, che son caste et buone;
molti di molte ancho sicuri stanno,
che con le corna in capo se ne vanno.
99
Se vuoi saper se la tua sia pudica,
com’io credo che credi, et creder déi;
ch’altrimente far credere è fatica,
se chiaro già per prova non ne sei;
tu per te stesso, senza ch’altri il dica,
te ne avedrai, s’in questo vaso béi;
che per altra cagion non è qui messo,
che per mostrarte quanto t’ho promesso.
100
Se béi con questo, vedrai grande effetto;
che se porti il cimier di Cornovaglia,
il vin te spargerai tutto su ’l petto,
né gocciola sarà che in bocca saglia;
ma s’hai moglie fedel, tu berrai netto.
Hor di veder tua sorte ti travaglia. –
Così dicendo, per mirar tien li occhi
ch’in seno il vin Rinaldo si trabbocchi.
101
Quasi Rinaldo di cercar suaso
quel che poi ritrovar non vorria forse,
messa la mano inanzi, e preso il vaso,
fu presso di volerlo a bocca porse:
poi, quanto fosse periglioso il caso
di far tal prova, col pensier discorse.
Ma lasciate, Signor, ch’io mi ripose;
poi dirò quel ch’el paladin rispose.

CANTO TRIGESIMONONO

1
O execrabile Avaritia, o ingorda
fame d’haver, io non mi maraviglio
ch’ad alma vile e d’altre macchie lorda
sì facilmente dar possi di piglio;
ma che meni legato in una chorda
e che tu impiaghi del medesmo artiglio
alcun, che per altezza era d’ingegno,
se te schivar potea, d’ogni honor degno.
2
Alcun la terra e il mare e il ciel misura,
et render sa tutte le cause a pieno
d’ogni opra, d’ogni effetto di Natura,
e poggia sì, ch’a Dio riguarda in seno:
e non può non haver la maggior cura,
morso dal tuo mortifero veneno,
d’unir thesoro; e questo sol gli preme,
e ponvi ogni salute, ogni sua speme.
3
Alcun rompere exerciti, e in le porte
per forza intrar di bellicose terre,
e por primo si vede il petto forte,
ultimo trarre, in perigliose guerre:
e non può riparar che sino a morte
tu nel tuo cieco carcere no ’l serre.
Altri, in altre arti e chiari studi industri,
son per te oscuri, che seriano illustri.
4
Che d’alcune dirò belle e gran donne
ch’a bellezza, a virtù de fidi amanti,
a lunga servitù, più che colonne
io veggio dure, immobili e constanti?
Veggio venir poi l’Avaritia, e ponne
far sì, che par che subito le incanti:
in un dì, senza amor (chi fia che ’l creda?)
a un vecchio, a un brutto, a un mostro le dà in preda.
5
Non è senza cagion s’io me ne doglio:
intendami chi può, che me intendo io.
Né perhò di proposito mi toglio,
né la materia del mio canto oblio;
ma non più a quel c’ho detto, adattar voglio,
ch’a quel ch’io v’ho da dire, il parlar mio:
hor torniamo a contar del paladino
ch’ad assaggiare il vaso fu vicino.
6
Io vi dicea ch’alquanto pensar volle,
prima che a i labri il vaso s’appressassi.
Pensò alquanto, e poi disse: – I’ serei folle
se quel ch’io non vorrei trovar, cercassi.
Mia donna è donna, et ogni donna è molle:
lasciàn star mia credenza come stassi.
Sin qui m’ha ’l creder mio giovato, e giova:
che poss’io megliorar per farne prova?
7
Potria poco giovar et nuocer molto;
ch’il tentar qualche volta Idio disdegna.
Io non so se mi sia saggio né stolto;
ma non vuo’ più saper, che mi convegna.
Hor questo vin dinanzi me sia tolto:
non ho sete, e non vuo’ che me ne venga;
che tal certezza ha Dio più prohibita,
ch’al primo padre l’arbor de la vita.
8
Che come Adam, poi che gustò del pomo
che Dio con propria bocca l’interdisse,
da la leticia al pianto fece un tomo,
onde in miseria poi sempre s’afflisse;
così, se de la moglie sua vuol l’huomo
tutto saper quanto ella fece e disse,
cade da gaudii e risi in pianti e in guai,
donde non può più rilevarsi mai. –
9
Così dicendo il buon Rinaldo, e intanto
respingendo da sé l’odiato vase,
vide abondar un gran fiume di pianto
da li occhi del signor di quelle case,
et udì, poi che racchetossi alquanto,
dir: – Maledetto sia chi mi suase
che io facessi la prova, ohimè! di sorte,
che mi levò la dolce mia consorte.
10
Perché non ti connobbi già dieci anni,
sì che io mi fossi consigliato teco,
prima che cominciassero li affanni
e il lungo pianto ond’io son quasi cieco?
Ma vuo’ levarti da la scena i panni;
ch’el mio mal veggi, e te ne dogli meco:
e te dirò il principio et l’argumento
del mio non comparabile tormento.
11
Qua su lasciasti una città vicina,
a cui fa intorno un chiaro fiume laco,
che poi si stende e in questo Po declina,
e l’origine sua vien da Bennaco.
Fu fatta la città quando a ruina
le mura andâr de l’Agenoreo draco:
quivi nacque io di stirpe assai gentile,
ma in pover tetto e facultade humìle.
12
Se Fortuna di me non hebbe cura
sì che mi desse al nascer mio ricchezza,
al diffetto di lei supplì Natura,
che sopra ogni mio ugual mi diè bellezza.
Donne e donzelle già di mia figura
arder più d’una vidi in giovanezza;
ch’io vi seppi accoppiar cortesi modi,
ben che stia mal che l’huom se stesso lodi.
13
Ne la nostra cittade era un huom saggio,
di tutte l’arti oltre ogni creder dotto,
che quando chiuse li occhi al phebeo raggio
contava li anni suoi cento et ventotto.
Visse tutta sua età solo et selvaggio,
se non l’estrema; che d’amor condotto,
con premio ottenne una matrona bella,
e n’hebbe di nascosto una citella.
14
Et per vietar che simil la figliuola
non sia alla matre, ch’a lui per mercede
vendé sua castità, che valea sola
più che quanto oro al mondo si possiede,
fuor del commercio popular l’invola;
e dove più solingo il luoco vede,
questo amplo e bel palagio e ricco tanto
fece fare a’ demonii per incanto.
15
A vecchie donne et caste fe’ nutrire
la figlia qui, ch’in gran beltà poi venne;
né che potesse altr’huom veder, né udire
pur ragionarne, in quella età sostenne.
Et perché havesse exempio da seguire,
ogni pudica donna che mai tenne
contra illicito amor chiuse le sbarre
ci fe’ d’intaglio o di color ritrarre:
16
non quelle sol che di virtude amiche
hanno i passati secoli sì adorni,
che anchor la fama per l’historie antiche
e vive et viverà per tutti i giorni;
ma molte anchor, ch’in l’avenir pudiche
faranno Italia bella et suoi contorni,
ci fe’ ritrarre in lor fattezze conte,
come le otto che vedi a questa fonte.
17
Poi che la figlia al vecchio par matura
sì, che ne possa l’huom cogliere i frutti;
o fosse mia disgratia o mia aventura,
eletto fui degno di lei fra tutti.
Li lati campi oltra le belle mura,
non men li pescarecci che li asciutti,
che ci son d’ognintorno a venti miglia,
mi consegnò per dote de la figlia.
18
Ella era bella e costumata tanto,
che più desiderar non si potea.
Di riccami e trappunti sapea quanto
già la dotta Minerva ne sapea.
Vedila andar, odine il suono e il canto:
celeste e non mortal cosa parea;
e in modo a l’arte liberali attese,
che quanto il padre, o poco men, n’intese.
19
Col grande ingegno, e non minor bellezza
ch’amabil la facea sino alli sassi,
era giunto uno amor, una dolcezza,
che par che a rimembrarla il cor mi passi.
Non havea più piacer né più vaghezza
che d’esser meco ove io mi stessi o andassi.
Senza haver lite mai stemmo gran pezzo:
l’havémo poi, per colpa mia, da sezzo.
20
Morto il suocero mio dopo cinque anni
ch’io sottoposi il collo al giugal nodo,
non stero molto a cominciar li affanni
ch’io sento anchora, e te dirò in che modo.
Mentre mi richiudea tutto co i vanni
l’amor di questa mia che sì te lodo,
una femina nobil del paese,
quanto accender si può, di me s’accese.
21
Ella sapea d’incanti e di malie
quel che saper ne possa alcuna Maga:
rendea la notte chiara, oscuro il die,
firmava il Sol, facea la terra vaga.
Non potea trar perhò le voglie mie,
che le sanassin l’amorosa piaga
col rimedio che dar non le potria
sanza alta ingiuria de la donna mia.
22
Non perché fosse assai gentile e bella,
né perché sapess’io che sì m’amassi,
né per gran don, né per promesse ch’ella
mi fêsse molte, et di continuo instassi,
ottener puòte mai ch’una fiammella,
per darla a lei, del primo amor levassi;
che adrieto ne trahea tutte mie voglie
il connoscermi fida la mia moglie.
23
La speme, la credenza, la certezza
che de la fede di mia moglie havea,
m’havria fatta sprezzar quanta bellezza
havesse mai la giovane Ledea,
o quanto offerto mai senno e ricchezza
fu al gran pastor de la montagna Idea.
Cercai con questa scusa et fece ogni opra
di levarmi tal stimulo di sopra.
24
Un dì che mi trovò fuor del palagio
la Maga, che nomata era Melissa,
et mi puoté parlare a suo grand’agio,
modo trovò da por mia pace in rissa,
e con un spron di gelosia malvagio
cacciar del cor la fé che v’era fissa.
Comincia a commendar l’intention mia,
ch’io sia fedele a chi fedel mi sia:
25
«Ma che te sia fedel, tu non pòi dire
prima che di sua fé prova non vedi:
s’ella non falle, et che potria fallire,
che sia fedel, che sia pudica credi;
ma se mai sanza te non la lasci ire,
se mai veder altr’huom non le conciedi,
ond’hai questa baldanza che tu dica
et mi vogli affermar che sia pudica?
26
Scòstati un poco, scòstati da casa;
fa’ ch’odan le cittadi et li villaggi
che tu sia andato, et ch’ella sia rimasa;
da’ commodo alli amanti e alli messaggi:
s’a prieghi, a doni non fia persuasa
di far al letto maritale oltraggi,
et che, facendol, creda che si cele,
allhora dir potrai che sia fedele».
27
Con tal parole et simili non cessa
l’incantatrice, sin che mi dispone
che de la donna mia la fede expressa
provar et veder voglia a paragone.
«Hora poniamo (le soggiungo) ch’essa
sia qual non posso haverne opinïone:
come posso di lei poi farme certo
che di punitïon sia degna o merto?».
28
Disse Melissa: «Io ti darò un vasello
fatto da ber, di virtù rara et strana;
qual già, per far accorto il suo fratello
del fallo di Genevra, fe’ Morgana.
Chi la moglie ha pudica, bee con quello:
ma non vi può già ber chi l’ha puttana;
ch’el vin, quando lo crede in bocca porre,
tutto si sparge, et fuor nel petto scorre.
29
Nanzi che parta, ne farai la prova,
et per lo creder mio tu berrai netto;
che credo che anchor netta si ritruova
la moglie tua: pur ne vedrai l’effetto.
Ma s’al ritorno experïenza nuova
poi ne farai, non t’assicuro il petto:
che se tu non lo molli, et netto béi,
d’ogni marito più felice sei».
30
L’offerta accetto; il vaso ella mi dona:
ne fo la prova, et mi succede a punto
che (come era ’l disio) pudica et buona
la chara moglie mia truovo a quel punto.
Dice Melissa: «Un poco l’abbandona;
per un mese o per dui stanne disgiunto;
poi torna; poi di nuovo il vaso tolli:
prova se bevi, o pur se ’l petto immolli».
31
A me duro parea pur di partire;
non perché di sua fé sì dubitassi,
come ch’io non possea dui dì patire,
né un’hora pur, che senza me restassi.
Disse Melissa: «Io ti farò venire
a connoscere il ver con altri passi:
vuo’ che muti ’l parlare e i vestimenti,
et sotto viso altrui te le appresenti».
32
Signor, qui presso una città difende
il Po fra minacciose et fiere corna;
la cui iuridition de qui si stende
fin dove il mar fugge dal lito et torna.
Cede d’antiquità, ma ben contende
con le vicine in esser ricca e adorna.
Le reliquie Troiane la fondaro,
che dal flagello d’Attila camparo.
33
Astringe et lenta a questa terra il morso
un cavallier giovene, ricco e bello,
che drieto un giorno a un suo falcone iscorso,
essendo capitato entro il mio hostello,
vide la donna mia nel primo occorso,
tal che nel cor gli ne restò il sugello;
né cessò molte pratice far poi,
per inchinarla a’ desiderii suoi.
34
Ella gli fece dar tante repulse,
che più tentarla al fin egli non vòlse;
ma la beltà di lei, che Amor vi sculse,
di memoria perhò non se gli tolse.
Tanto Melissa allosingommi et mulse,
ch’a tôr la forma di colui mi volse;
e mi mutò (né so ben dirte come)
di faccia, di parlar, d’occhi e di chiome.
35
Già con mia moglie havendo simulato
d’esser partito et itone in Levante,
nel giovene amator tutto formato
l’andar, la voce, l’habito, il sembiante,
me ne ritorno, et ho Melissa a lato,
che s’era trasformata, e parea un fante;
e le più ricche gemme havea con lei,
che mai mandasson l’Indi o li Erythrei.
36
Io che l’uso sapea del mio palagio,
entro sicuro, et vien Melissa meco;
et madonna ritruovo a sì grande agio,
che non ha né scudier né donna seco.
Li miei prieghi le expono, indi ’l malvagio
stimulo di mal far nanti le arreco:
li rubin, li diamanti et li smeraldi,
che mosso havrian tutti li cor più saldi.
37
Et le dico che poco è questo dono
verso quel che sperar da me devea;
e la commoditade le prepono
che, per l’absentia del marito, havea;
et le raccordo che gran tempo sono
stato amante di lei, come sapea;
et che l’amar mio lei con tanta fede
degno era havere al fin qualche mercede.
38
Turbossi nel principio ella non poco,
divenne rossa, et ascoltar non volle;
ma ’l veder fiammeggiar poi, come fuoco,
le belle gemme, il duro cor fe’ molle;
et con parlar rispose breve et fioco
quel che la vita a rimembrar mi tolle:
che mi compiaceria, quando credesse
ch’altra persona mai nol risapesse.
39
Fu tal risposta un venenato telo
di che me ne senti’ l’alma traffissa:
per l’ossa andommi e per le vene un gelo;
ne le fauci restò la voce fissa.
Levando alhora del suo incanto il velo,
ne la mia forma mi tornò Melissa.
Pensa di che color devesse farsi,
ch’in tanto error da me vide trovarsi.
40
Divenimmo ambi di color di morte,
muti ambi, ambi restiàn con li occhi bassi.
Potei la lingua a pena haver sì forte,
et tanta voce a pena, ch’io gridassi:
«Me tradiresti dunque tu, consorte,
quando tu havessi ch’el mio honor comprassi?».
Altra risposta darmi ella non puòte,
che di rigar di lachryme le guote.
41
La vergogna fu assai, ma più fu il sdegno
che hebbe, da me veder farsi quell’onta;
che sì multiplicò senza ritegno,
che in ira al fine e in crudel odio monta.
Et fuggirse da me fece dissegno;
et nel’hora ch’el Sol del cielo smonta,
al fiume corse, et in sottil barchetta
si fe’ calar tutta la notte in fretta:
42
e la matina appresentosse inante
al cavallier che l’havea un tempo amata,
sotto ’l cui viso, sotto ’l cui sembiante
fu contra l’honor mio da me tentata.
A lui che n’era stato et era amante
creder si può che fu la giunta grata.
Quindi ella mi fe’ dir ch’io non sperassi
che mai più fosse mia, né più m’amassi.
43
Ah lasso! da quel dì con lui dimora
in gran piacere, e di me prende giuoco;
et io del mal che procacciammi allhora
anchor languisco, e non ritruovo luoco.
Cresce il mal sempre, e giusto è ch’io ne mora;
e resta homai da consumarci poco.
Ben credo ch’el primo anno serei morto,
se non mi dava aiuto un sol conforto.
44
Il conforto ch’io prendo è che di quanti
per dieci anni mai fur sotto ’l mio tetto,
ch’a tutti questo vase ho messo inanti,
non ne truovo un che non s’immolli il petto.
Haver nel caso mio compagni tanti
mi dà fra tanto mal qualche diletto.
Tu tra infiniti sol sei stato saggio,
che far negasti il periglioso saggio.
45
Il mio voler cercar oltra la meta
che a l’huom cercar de la sua donna lece
mi tol d’haver mai più vita quïeta,
se ben campassi ancho otto lustri o diece.
Di ciò Melissa fu a principio lieta:
ma non durò, che poco util le fece;
ch’essendo causa del mio mal stata ella,
io l’odiai sì, che non potea vedella.
46
Ella d’essere odiata impatïente
da me che dicea amar più che sua vita,
dove donna restarne immantinente
creduto havea, che l’altra ne fosse ita;
per non haver sua doglia sì presente,
non tardò molto a far di qui partita;
e si slungò da noi tanto paese,
che dopo mai per me non se n’intese. –
47
Così narrava il mesto cavalliero;
e quando fine alla sua historia pose,
Rinaldo alquanto ste’ sopra pensiero,
da pietà vinto, e poi così rispose:
– Mal consiglio ti diè Melissa in vero,
che d’attizzar le vespe ti propose;
e tu fusti a cercar poco aveduto
quel che tu havresti non trovar voluto.
48
Se d’avaritia la tua donna vinta
a voler fede romperti fu indutta,
non è gran fatto: né prima né quinta
non è che rompa fede in sì gran lutta;
e via più salda mente anchora è spinta
per minor prezzo a far cosa più brutta.
Quanti huomini odi tu, che già per oro
han traditi patroni e amici loro?
49
Non devevi assalir con sì fiere armi,
se bramavi veder farle difesa.
Non sai che contra l’or né duri marmi
né durissimo acciar sta alla contesa?
Che più fallasti tu a-ttentarla parmi,
ch’ella d’haversi così tosto resa.
Se t’havesse altrotanto ella tentato,
non so se tu più saldo fossi stato. –
50
Qui Rinaldo fe’ fine, e da la mensa
levossi a un tempo, e dimandò dormire;
che riposare un poco, e poi si pensa
d’un’hora o due dinanzi al dì partire.
Ha poco tempo, e il poco c’ha, dispensa
con gran misura, e invan non lo lascia ire.
El signor de là dentro, a suo piacere,
disse, che si potea porre a giacere;
51
ch’apparecchiata era la stanza e il letto:
ma che se volea far per suo consiglio,
tutta notte dormir potria a diletto,
e dormendo avanzarsi qualche miglio.
– Acconciar ti farò – disse – un legnetto,
con che volando, e senza alcun periglio,
tutta notte dormendo vuo’ che vada,
e una giornata avanzi de la strada. –
52
La proferta a Rinaldo accettar piacque;
e poi che molte e molte gratie rese
al gentil cavallier, là dove in l’acque
da’ naviganti era aspettato, scese.
Quivi a grande agio riposato giacque
mentre il corso del fiume il legno prese,
che da sei remi spinto, leve e snello
pel fiume andò come per l’aria augello.
53
Così tosto come hebbe il capo chino,
el cavallier de Francia adormentosse;
imposto havendo già, come vicino
giungea a Ferrara, che svegliato fosse.
Restò Melara nel lito mancino;
nel lito destro Sermide restosse:
Figarolo e Stellata il legno passa,
dove le corna il Po iracondo abbassa.
54
De le dua corna il nocchier prese il destro,
e lasciò andar verso Vinegia il manco;
passò il Bondeno: e già il color celestro
si vedea in orïente venir manco,
che votando de fior tutto il canestro
l’Aurora vi facea vermiglio e bianco;
quando il capo alle ròcche de Tehaldo
per salutar Ferrara alzò Rinaldo.
55
– O città bene aventurosa, – disse,
– di cui già contemplando Malagigi
per tutto il ciel le stelle erranti e fisse,
e constringendo aerii spirti e stygi,
ne li futuri secoli predisse
che per virtù de’ tuoi signori ligi
saliria anchor l’immortal gloria tanto,
c’havresti in tutta Italia il pregio e il vanto. –
56
Così venìa Rinaldo raccordando
quel che già il suo Cugin detto gli havea,
de le future cose divinando,
di che con lui spesso parlar solea.
E tuttavia l’humìl città mirando:
– Come esser può che anchor (seco dicea)
debbian tanto fiorir queste paludi
di bei costumi e liberali studi?
57
e crescer habbia de sì piccol borgo
ampla cittade? e de sì gran bellezza?
e ciò ch’intorno è tutto stagno e gorgo
sien lieti e pieni campi de ricchezza?
Città, sin hora a riverire assorgo
l’amor, la cortesia, la gentilezza
de cavallieri e donne, honore e pregi
di tuoi signori e cittadini egregi.
58
L’ineffabil bontà del Redentore,
di tuoi principi il senno e la Iusticia,
sempre con pace, sempre con amore
ti tegna in abondantia et in leticia;
e ti difenda contra ogni furore
de’ tuoi nemici, e scopra lor malicia:
del tuo contento ogni vicino arrabbi,
più presto che tu invidia ad alcuno habbi. –
59
Mentre Rinaldo così parla, fende
con tanta fretta il suttil legno l’onde,
che con maggior al logoro non scende
falcon ch’al grido del patron risponde.
Del destro corno il destro ramo prende
quindi il nocchiero, e mura e tetti asconde:
San Georgio a drieto, a drieto s’allontana
la Torre e de la Fossa e de Gaibana.
60
Rinaldo, come accade ch’un pensiero
un altro drieto, e quello un altro mena,
si venne a ricordar del cavalliero
nel cui palagio fu la sera a cena;
che per questa cittade (a dir il vero)
havea giusta cagion di stare in pena:
e ricordossi del vaso da bere
che mostra altrui l’error de la mogliere;
61
e ricordossi insieme de la prova
che d’haver fatta il cavallier narrolli;
che de quanti havea experti, hom non truova
che bea del vaso e il petto non s’immolli.
Hor si pente, hor tra sé dice: – E’ mi giova
ch’a tanto paragon venir non volli:
riuscendo, accertavo il creder mio;
non riuscendo, a che partito ero io?
62
Gli è questo creder mio come io l’havessi
ben certo, e poco accrescer lo potrei:
sì che, s’al paragon mi succedessi,
poco il meglio serìa ch’io ne trarrei;
ma non già poco il mal, quando vedessi
quel de Clarice mia, ch’io non vorrei.
Serebbe por mille contra uno a giuoco;
che perder se può molto, acquistar poco. –
63
Stando in questo pensoso il cavalliero
di Chiaramonte, e non alzando il viso,
con molta attentïon fu da un nocchiero
che gli era incontro riguardato fiso:
e perché di veder tutto il pensiero
che l’occupava tanto, gli fu aviso,
come huom che ben parlava et havea ardire,
a seco ragionar lo fece uscire.
64
La summa fu del suo ragionamento
che colui mal accorto era ben stato,
che ne la moglie sua l’experimento
maggior che può far donna, havea tentato;
che quella che da l’oro e da l’argento
difende il cor di pudicitia armato,
tra mille spade via più facilmente
difenderallo, e in mezo il fuoco ardente.
65
El nocchier gli dicea: – Ben gli dicesti,
che non devea assalir con sì gran doni
la donna sua; che contrastar a questi
colpi non son tutti li petti buoni.
Non so se d’una giovane intendesti
(ch’esser pò che tra voi se ne ragioni),
che nel medesmo error vide il consorte,
di ch’esso havea lei condennata a morte.
66
Devea in memoria havere il signor mio
che l’oro e il premio ogni durezza inchina;
ma, quando bisognò, l’hebbe in oblio,
et ei sì procacciò la sua ruina.
Così sapea l’exempio egli come io,
che fu in questa città di qui vicina,
sua patria e mia, che ’l stagno e la palude
del rifrenato Mentio intorno chiude:
67
d’Adonio voglio dir, ch’el ricco dono
fe’ alla moglie del Giudice, d’un cane. –
– Di questo (disse il paladino) il suono
non passa l’Alpe, e qui tra voi rimane;
perché né in Francia, né dove ito sono
se ne ragiona in le contrade extrane:
sì che di’ pur, se non t’incresce il dire;
che volentiera io mi t’acconcio a udire. –
68
El nocchier cominciò: – Già fu di questa
terra uno Anselmo di famiglia degna,
che la sua gioventù con lunga vesta
spese in saper ciò che Ulpïano insegna;
e de nobil progenie, bella e honesta
moglie cercò, ch’al grado suo convegna;
e d’una terra quindi non lontana
n’hebbe una di bellezza soprahumana,
69
e di bei modi e tanto gratïosi,
che parea tutto amore e liggiadria;
e forse molto più, ch’alli riposi,
ch’al stato del Dottor non convenia.
Tosto che l’hebbe, quanti mai gelosi
al mondo fur, passò di gelosia:
non già ch’altra cagion gli ne desse ella,
che d’esser troppo accorta e troppo bella.
70
Ne la città medesma un cavalliero
era d’antiqua e generosa gente,
che discendea da quel lignaggio altiero
ch’uscì d’una mascella di serpente,
onde già Manto, e chi con essa fêro
la patria mia, disceser similmente.
Il cavallier, che Adonio nominosse,
di questa bella donna innamorosse.
71
E per venire a fin di questo amore,
a spender cominciò senza ritegno
in vestire, in conviti, in farsi honore,
quanto può fare un cavallier più degno.
Il thesor di Tyberio Imperatore
non serìa stato a tante spese al segno.
Io credo ben che non passâr dui verni
ch’egli uscì fuor di tutti i ben paterni.
72
La casa, ch’era dianzi frequentata
matina e sera tanto da li amici,
rimase sola, tosto che privata
fu de fagiani, starne e coturnici.
Egli, che capo fu de la brigata,
restò direto, e quasi fra mendici.
Pensò, poi ch’in miseria era venuto,
d’andar dove non fusse connosciuto.
73
Con questa intentïone una matina,
senza far motto altrui, la patria lascia;
e con suspiri e lachryme camina
lungo ’l stagno ch’intorno i muri fascia.
La donna che del cor gli era regina
già non oblia per la seconda ambascia.
Ecco un’alta aventura che lo viene
di sommo male a porre in sommo bene.
74
Vede un villan che con un gran bastone
intorno alcuni sterpi s’affatica.
Quivi Adonio si ferma, e la cagione
di tanto travagliar vuol che gli dica.
Disse il villan che dentro a quel macchione
vide intrare una serpe così antica,
che più lunga e più grossa a’ giorni suoi
non vide, né credea mai veder poi;
75
e che non si volea quindi partire
che non l’havesse ritrovata e morta.
Come Adonio lo sente così dire,
con poca patïentia lo sopporta:
sempre solea le serpi favorire;
che per insegna il sangue suo le porta
in memoria ch’uscì sua prima gente
de’ denti seminati di serpente.
76
Ed disse e fece col villano in guisa,
che suo mal grado abbandonò l’impresa;
sì che da lui non fu la serpe uccisa,
né più cercata, né altrimente offesa.
Adonio ne va poi dove s’avisa
che sua conditïon sia meno intesa;
e dura con disagio e con affanno
fuor de la patria appresso il settimo anno.
77
Né per absentia mai, né per strettezza
del viver, ch’i pensier non lascia ir vaghi,
cessa Amor, che sì gli ha la mano avezza,
ch’ognhor non gli arda il cor, ognhor impiaghi.
Gli è forza al fin che torni alla bellezza
che son di riveder sì li occhi vaghi.
Barbuto, afflitto, assai male in arnese,
là donde era venuto il camin prese.
78
In questo tempo alla mia patria accade
mandare uno oratore al Padre santo
che resti appresso alla sua Santitade
per alcun tempo, e non fu detto quanto.
Gettan la sorte, e nel giudice cade.
Oh giorno a lui cagion sempre di pianto!
Fe’ scuse, pregò assai, diede e promesse
per non partirse; al fin sforzato cesse.
79
Non gli parea crudele e duro manco
a dever supportar tanto dolore,
che se veduto aprir s’havesse il fianco
e vedutone trar con mano il core.
Di gelosia e timor pallido e bianco
per la sua donna mentre staria fuore,
lei, con quei modi che giovar più crede,
supplice priega a non mancar di fede:
80
dicendole che a donna né bellezza,
né nobiltà, né gran fortuna basta,
sì che di vero honor monti in altezza,
se per nome e per opre non è casta;
e che quella virtù via più si prezza
che di sopra riman quando contrasta,
e c’hor gran campo havria per questa absenza
a far di pudicitia experïenza.
81
Con queste cerca et altre assai parole
di suader ch’ella gli sia fedele.
De la dura partita ella si duole,
con che lachryme, oh dio! con che querele!
E giura che più presto oscuro il Sole
vedrassi, che gli sia mai sì crudele
che rompa fede; e che morir più presto
vorria, che haver solo un pensier di questo.
82
Anchor ch’a sue promesse e suoi scongiuri
desse credenza e s’achetasse alquanto,
non resta che più intender non procuri,
e che materia non procacci al pianto.
Havea uno amico suo, che de’ futuri
casi predir teneva il pregio e il vanto;
e d’ogni sortilegio e magicha arte,
o ’l tutto, o ne sapea la maggior parte.
83
Dielli, pregando, de vedere assunto
se la sua moglie, nominata Argìa,
nel tempo che da lei starà disgiunto
fedel e casta, o pel contrario fia.
Colui da’ prieghi vinto, tolle il punto,
el ciel figura come par che stia.
Anselmo il lascia in opra, e l’altro giorno
a lui per la risposta fa ritorno.
84
L’astrologo tenea le labra chiuse
per non dir al Dottor cosa che doglia,
e cerca di tacer con molte excuse.
Quando pur del suo mal vede c’ha voglia,
che gli romperà fede, al fin concluse,
tosto ch’egli habbia il piè fuor de la soglia,
non da beltà né lunghi prieghi indotta,
ma da guadagno e gran prezzo corrotta.
85
Giunto al timor, al dubio c’havea prima,
el minacciar de li superni moti,
come gli stesse il cor, tu pòi far stima,
se d’amor li accidenti ti son noti.
E sopra ogni molestia che l’opprima,
e che l’afflitta mente aggiri e arroti,
è lo saper che, vinta d’avaritia,
per prezzo habbia a lasciar sua pudicitia.
86
Hor per far quanti potea far ripari
da non lassarla in tanto error cadere;
perché il bisogno a dispogliar li altari
tra’ l’huom talvolta, che sel truova havere;
ciò che tenea di gioie et di danari,
che n’havea summa, pose in suo potere:
rendite et frutti de possessïone,
e ciò c’ha al mondo, in man tutto le pone.
87
«Con facultade (disse) che ne’ tuoi
non sol bisogni te li goda e spenda,
ma che ne possi far ciò che ne vuoi,
li consumi, li getti, doni et venda;
altro conto saper non ne vuo’ poi,
pur che, qual ti lascio hor, tu mi ti renda:
pur che tu, come hor sei, me sie rimasa,
fa’ ch’io non truovi né poder né casa».
88
Pregolla anchor, che mentre staria absente,
non fêsse mai ne la città dimora,
ma ne la villa, ove più agiatamente
viver potrà d’ogni commercio fuora.
Questo dicea, perhò che l’humil gente
che nel gregge o ne’ campi gli lavora,
non gli era aviso che le caste voglie
contaminar potessero alla moglie.
89
Tenendo tuttavia le belle braccia
al timido marito al collo Argìa,
e de lachryme empiendogli la faccia,
ch’un fiumicel da li occhi le n’uscia,
s’atrista che colpevole la faccia,
come di fé mancata già gli sia;
che questa sua suspitïon procede
perché non ha ne la sua fede fede.
90
Troppo serà se voglio ir rimembrando
ciò che al partir da tramendue fu detto.
«Il mio honor (disse al fin) ti raccomando»:
tolse licentia, e si partì in effetto;
e ben sentìssi veramente, quando
volse il cavallo, uscire il cor del petto.
Ella il seguì, quanto seguir lo puòte,
con li occhi che rigavano le guote.
91
Adonio intanto misero e tapino,
e (come io dissi) pallido e barbuto,
verso la patria havea preso il camino,
sperando di non esser connosciuto.
Sul lago giunse alla città vicino,
là dove havea dato alla biscia aiuto,
ch’era assediata entro la macchia forte
da quel villan che por la volea a morte.
92
Quivi arrivando in l’apparir del giorno,
ch’anchor splendea nel cielo alcuna stella,
si vede in peregrino habito adorno
venir pel lito incontra una donzella
in signoril sembianti, anchor che intorno
non le apparisse né scudier né ancella.
Costei con grata vista lo raccolse,
e poi la lingua a tai parole sciolse:
93
«Se ben non mi connosci, cavalliero,
son tua parente, e grande obligo t’haggio:
parente son, perché da Cadmo fiero
scende d’amendue noi l’alto lignaggio.
Io son la fata Manto, ch’el primiero
sasso messi a fondar questo villaggio;
e dal mio nome (come ben forse hai
contare odito) Mantua la nomai.
94
De le fate io son una; et il fatale
stato per farti ancho saper ch’importe,
nascemo a un punto, che d’ogn’altro male
semo capaci, fuor che de la morte.
Ma giunto è con questo essere immortale
conditïon non men del morir forte;
ch’ogni settimo giorno ognuna è certa
che la sua forma in biscia si converta.
95
El vedersi coprir del brutto scoglio,
e gir serpendo, è cosa tanto schiva,
che non è pare al mondo altro cordoglio;
tal che biastemmia ognuna d’esser viva.
E l’obligo ch’io t’ho (perché ti voglio
insiememente dire onde deriva),
tu saprai che quel dì, per esser tali,
stiàno a periglio d’infiniti mali.
96
Non è sì odiato altro animale in terra
come la serpe; e noi, che n’haven faccia,
patimo da ciascuno oltraggio e guerra;
chiunque vede noi, ne fere e caccia.
Se non troviàno ove tornar sotterra,
sentimo quanto pesa altrui le braccia:
meglio serìa poter morir, che rotte
e stroppiate restar sotto le botte.
97
L’obligo ch’i’ t’ho grande è ch’una volta
da te, passando in questa riva amena,
di mano fui d’un fier villano tolta
che gran travaglio m’havea dato e pena.
Se tu non eri, io non andavo asciolta
che non portassi rotto e capo e schiena;
e ben che morta non fussi rimasta,
so ben che ne sarei sciancata e guasta:
98
perché li giorni che per terra il petto
trahemo, avolte in serpentile schorza,
il ciel, ch’in li altri tempi è a noi suggetto,
niega obedirne, e prive siàn di forza.
In li altri tempi ad un sol nostro detto
il Sol si ferma e la sua luce ammorza;
l’immobil terra gira e muta luoco;
rovisce il giaccio, e si congela il fuoco.
99
Hor io son qui per renderti mercede
del beneficio che mi festi alhora:
nessuna gratia indarno hor mi si chiede
ch’io son del manto viperino fuora.
Tre volte più che di tuo padre herede
non rimanesti, io ti fo ricco hor hora;
né vuo’ che mai più povero diventi,
ma quanto spendi più, che più augumenti.
100
E perché so che ne l’antiquo nodo,
in che già Amor t’avinse, ancho ti truovi,
voglioti dimostrar l’ordine e il modo
ch’a disbramar tuoi desideri giovi.
Io voglio, hora che absente il marito odo,
che senza indugio il mio consiglio provi;
vadi la donna a ritrovar che adesso
sta fuor in villa, et io ti sarò appresso».
101
E seguitò narrandogli in che guisa
alla sua donna vuol che s’appresenti;
dico come vestir, come precisa-
mente habbia a dir, come la prieghi e tenti;
e che forma essa vuol pigliar, devisa;
che fuor ch’el giorno ch’erra tra serpenti,
in tutti li altri si può far, secondo
che più le pare, in quante forme ha il mondo.
102
Messee in habito lui di peregrino
il qual per Dio di porta in porta accatti;
mutosse ella in un cane, il più piccino
de quanti mai n’habbia Natura fatti,
di pel lungo e più bianco che armelino,
di grato aspetto e di mirabili atti.
Così trasfigurato, intraro in via
verso la casa de la bella Argìa.
103
De li lavoratori alle capanne,
prima ch’altrove, il giovene fermosse;
e cominciò suonar certe sue canne,
al cui suono danzando il can rizzosse.
La voce e il grido alla patrona vanne,
e fece sì, che per veder si mosse.
Fece il Romeo chiamar ne la sua corte,
sì come del Dottor trahea la sorte.
104
Et quivi Adonio a comandare al cane
incominciò, et il cane a ubedir lui,
e far danze nostral, farne de estrane,
con passi e continenze e modi sui,
e finalmente con maniere humane
far ciò che comandar sapea colui,
con tanta attentïon, che chi lo mira
non batte li occhi, e a pena il fiato spira.
105
Gran maraviglia, et indi gran disire
venne alla donna di quel can gentile;
et ne fa per la balia proferire
al cauto peregrin prezzo non vile.
«S’havesti più thesor che mai sitire
potesse cupidigia feminile
(rispose), non saria giusta mercede
per comperar di questo cane un piede».
106
E per mostrar che veri i detti fôro,
con la balia in un canto si ritrasse,
e disse al cane che una marcha d’oro
a quella donna in cortesia donasse.
Scossesi il cane, e videsi il thesoro.
Disse Adonio alla balia che pigliasse,
suggiungendo: «Ti par che prezzo sia
per cui sì bello et util cane io dia?
107
Cosa, qual vogli sia, non gli domando,
de ch’io ne torni mai con le man vuote;
e quando perle, e quando annella, e quando
liggiadra veste e di gran prezzo scuote.
Pur di’ a Madonna che fia al suo comando;
per oro non, ch’oro pagar no ’l puote:
ma se vuol ch’una notte seco io giaccia,
habbiasi il cane, e il suo voler ne faccia».
108
Così dice; e una gemma alhora nata
le dà, ch’alla patrona l’appresenti.
Pare alla balia haverne più derata
che di pagar diece ducati o venti.
Torna alla donna, e le fa l’ambasciata;
poi la conforta assai che si contenti
d’acquistare il bel can, quando acquistarlo
per prezzo può, che non si perde a darlo.
109
La bella Argìa sta ritrosetta in prima;
parte, che la sua fé romper non vuole,
parte, ch’esser possibile non stima
tutto ciò che ne suonan le parole.
La balia le ricorda, e rode e lima,
che tanto ben di raro avenir suole;
e fe’ che l’agio un altro dì si tolse,
ch’el can veder senza tanti occhi vòlse.
110
Quest’altro comparir che Adonio fece
fu la ruina e del Dottor la morte.
Facea nascer le doble a diece a diece,
filze di perle, e gemme d’ogni sorte:
sì che il superbo cor mansuefece,
che tanto meno a contrastar fu forte,
quanto poi seppe che costui che inante
gli fa partito è il cavallier suo amante.
111
De la puttana balia li conforti,
li prieghi de l’amante e la presentia,
el veder che guadagno se le apporti,
del misero Dottor la lunga absentia,
el sperar che alcun mai non lo rapporti,
fêro a i casti pensier tal vïolentia,
ch’ella accettò il bel cane, e per mercede
in braccio e in preda a l’amator si diede.
112
E tanto se gli diede, et egli tanto
de superchio ne tolse e notte e giorno,
parendogli avanzarlosi per quanto
bramarà poi se fa il Dottor ritorno,
ch’in men de quattro mesi in doglia e in pianto
volti li risi e le allegrezze fôrno:
ne cadde infermo, e fu il suo mal sì rio,
che non ne sorse mai, fin che morio.
113
Per la morte de Adonio non si tolse
da la giovane mai perhò la Fata:
le pose amore, e tanto le ne vòlse,
che sempre star con lei si fu ubligata.
Per tutti i segni il Sol prima si volse
che al giudice licentia fusse data:
al fin tornò, ma pien di gran suspetto
per quel che già l’astrologo havea detto.
114
Fa, giunto ne la patria, il primo volo
a casa de l’astrologo, e gli chiede
se la sua bella donna inganno e dolo,
o pur servato gli habbia amore e fede.
El sito figurò colui del polo,
e luoco a tutti li pianeti diede;
poi rispose che quel che havea temuto,
come predetto fu, gli era avenuto:
115
che da doni grandissimi corrotta,
s’havea ad altrui la donna messa in preda.
Questa al Dottor nel cor fu sì gran botta,
che lancia e spiedo io vuo’ che ben le ceda.
Per esserne più certo, ne va alhotta
(ben che pur troppo all’indivino creda),
et con la Balia si tira in disparte,
et per saperne il certo usa grande arte.
116
Con larghi giri circondando prova
hor qua hor là de ritrovar la traccia;
e da principio nulla ne ritruova,
con ogni diligentia che ne faccia;
ch’ella, che non havea tal cosa nuova,
stava negando con immobil faccia;
e come ben instrutta, più d’un mese
tra il dubio e ’l certo il suo patron suspese.
117
Quanto devea parerli il dubio buono,
se pensava il dolor c’havria del certo!
Poi che con gran promesse et alcun dono
si fu intorno alla Balia invano experto,
né toccar puòte ove sentisse suono
altro che falso, hebbe alcun dì sofferto,
tanto che ira e discordia intervenisse;
che ove femine son, son lite e risse.
118
E come egli aspettava, così avenne;
perché al primo coruccio che vi nacque,
senza altrui ricercar, la balia venne
il tutto a ricontargli, e nulla tacque.
Lungo a dir fôra ciò ch’el cor sostenne,
come la mente consternata giacque
del giudice mischin, che fu sì oppresso,
che stette per uscir fuor di se stesso:
119
e se dispose al fin, dal’ira vinto,
morir, ma prima uccider la sua moglie;
che d’amendue li sangui un ferro tinto
levassi lei di biasmo, e sé di doglie.
Se ne ritorna in la città, suspinto
da così furibonde e cieche voglie;
indi alla villa un suo fidato manda,
e quanto exequir debbia gli commanda.
120
Commanda al servo che alla moglie Argìa
torni alla villa, e in nome suo le dica
ch’egli è da febre oppresso così ria,
che di trovarlo vivo havrà fatica;
sì che, senza aspettar più compagnia,
venir debbia con lui, s’ella gli è amica;
verrà: sa ben che non farà parola;
e che tra via le seghi egli la gola.
121
Per obedirgli va il fedel famiglio:
parla alla donna, e seco in via si mette.
Partendo, diede al cane ella de piglio,
che senza quello una hora mai non stette.
Il can l’havea avisata del periglio,
né per questo timor ella ristette;
c’havea ben disegnato e proveduto
donde nel gran bisogno havrebbe aiuto.
122
Levato il servo del camino s’era;
e per diverse e disusate strade
a studio capitò su una riviera
che d’Apennino in questo fiume cade;
dove era bosco e selva oscura e nera,
lungi da villa e lungi da cittade:
gli parve luoco tacito e disposto
per l’effetto crudel che gli fu imposto.
123
Trasse la spada, e alla patrona disse
quanto commesso il suo signor gli havea;
sì che chiedesse, prima che morisse,
perdono a Dio d’ogni sua colpa rea.
Non ti so dir come ella si coprisse:
quando il servo ferirla si credea,
più non la vide, e molto d’ognintorno
l’andò cercando, e al fin restò con scorno.
124
Torna al patron con gran vergogna et onta,
tutto attonito in faccia e sbigottito,
e l’insolito caso gli racconta,
ch’egli non sa come si sia seguito.
Ch’a’ suoi servigi habbia la moglie pronta
la fata Manto, non sapea il marito;
che la balia, onde il resto havea saputo,
questo (non so perché) gli havea tacciuto.
125
Non sa che far; che né l’oltraggio grave
vendicato ha, né le sue pene ha sceme.
Quel ch’era una festuca, hora è una trave,
tanto gli pesa, tanto al cor gli preme.
L’error che sapean pochi, hor sì aperto have,
che presto presto si palesi, teme:
potea il primo celarsi; ma il secondo
publico in breve fia per tutto il mondo.
126
Connosce ben che, poi ch’el cor fellone
havea scoperto il misero contr’essa,
che, per non gli tornar in suggettione,
d’alcun potente in man si serà messa;
che con publica infamia e irrissïone
se la terrà per concubina expressa;
e forse ancho verrà d’alcuno in mano,
che ne fia insieme adultero e ruffiano.
127
Sì che, per proveder subito a questo,
ne va in persona, e manda altri a cercarne;
manda a Reggio, a Cremona, a Brescia presto,
per Lombardia, senza città lassarne;
cerca Romagna, ambe le Marche, e il resto
d’Italia, e fa per tutto dimandarne:
né mai può ritrovar capo né via
di venire a notitia che ne sia.
128
Al fin chiama quel servo a chi fu imposta
l’opra crudel che poi non hebbe effetto,
et fa che lo conduce ove nascosta
se gli era Argìa, sì come gli havea detto;
che forse, in qualche macchia el dì reposta,
la notte si ripara ad alcun tetto.
Lo guida il servo ove trovar si crede
la folta selva, e un gran palagio vede.
129
Fatto havea farsi alla sua Fata intanto
la bella Argìa con sùbito lavoro
d’alabastri un palagio per incanto,
drento e di fuor tutto fregiato d’oro.
Né lingua dir, né cor pensar può quanto
havea beltà di fuor, drento thesoro.
Quello che hiersera sì ti parve bello
del mio signor, serìa un tugurio a quello.
130
Di tapeti e di razzi, e di cortine
tessute e riccamate a varie foggie,
ornate eran le stalle e le cantine,
non sale pur, non pur camere e loggie;
v’erano e vasi d’oro e ne le fine
gemme cavati, azurre e verdi e roggie;
senza fin dico e piatti e coppe e nappi,
e sanza fin d’oro e di seta i drappi.
131
El giudice (sì come io ti dicea)
venne in questo palagio a dar di petto,
quando né una capanna si credea
di ritrovar, ma solo el bosco schietto.
De l’alta maraviglia che n’havea,
pareagli esser uscito d’intelletto:
non sapea se sognassi o se fusse ebro,
o se pur era a volo ito el cerèbro.
132
Nanzi alla porta vede uno Ethïòpo
con naso e labri grossi; et ègli aviso
che non vedesse mai, prima né dopo,
un così sozzo e dispiacevol viso;
poi de fattezze qual si pigne Esopo,
d’attristar, se vi fusse, il paradiso;
bisunto e sporco, e d’habito mendico:
né a mezo anchor di sua brutteza i’ dico.
133
Anselmo, che non vede altro da cui
possa saper di chi la casa sia,
a-llui s’accosta, e ne dimanda lui;
et ei risponde: «Questa casa è mia».
El giudice è ben certo che colui
lo beffi et che gli dica la bugia:
ma con scongiuri il negro ad affirmare
che sua è la casa, e ch’altri non v’ha a fare;
134
et gli offerisce, se la vuol vedere,
che drento vada, e cerchi come voglia;
et se v’ha cosa che gli sia in piacere
o per sé o per li amici, se la toglia.
El caval diede al servo suo a tenere
Anselmo, e mise el piè drento alla soglia;
e per sale e per camere condutto,
da basso e d’alto andò mirando il tutto.
135
La forma, il sito, il ricco et bel lavoro
va contemplando, e l’ornamento regio;
e spesso dice: «Non potria quanto oro
è sotto il Sol pagar el luoco egregio».
A questo gli risponde il brutto Moro,
e dice: «E questo anchor truova il suo pregio:
ben che nol possa oro pagar, non meno
pagar lo può quel che vi costa meno»;
136
e gli fa la medesima richiesta
c’havea già Adonio alla sua moglie fatta.
De la brutta dimanda e dishonesta,
persona lo stimò bestiale e matta.
Per tre repulse o quattro egli non resta;
e tanti modi a suaderlo adatta,
sempre offerendo in merito el palagio,
che fe’ inchinarlo al suo voler malvagio.
137
La moglie Argìa, che stava presso ascosa,
poi che lo vide nel suo error caduto,
saltò fuora gridando: «Ah degna cosa
ch’io veggio di Dottor saggio tenuto!».
Trovato in sì mal’opra et vitïosa,
pensa se rosso far si deve e muto.
O terra, acciò ti si gettasse dentro,
perché allhor non t’apristi sin al centro?
138
La donna in suo discarco, et in vergogna
d’Anselmo, il capo gl’intronò di gridi,
dicendo: «Come te punir bisogna
di quel che far con sì vil huom ti vidi,
se per seguir quel che natura agogna,
me, vinta a’ prieghi del mio amante, uccidi?
ch’oltra che bello fu, dono mi fece
che val di tal palagi e diece e diece.
139
S’io ti parvi esser degna d’una morte,
connosci che ne sei degno di cento;
et ben che in questo luoco io sia sì forte
ch’io possa di te fare el mio talento,
pur i’ non vuo’ pigliar di peggior sorte
altra vendetta del tuo fallimento,
ma che di par l’haver e il dar si pona;
e come io a te, tu così a me perdona:
140
e sia la pace e il puntamento fatto,
ch’ogni passato error vada in oblio;
né che in parole io possa mai né in atto
raccordarti ’l tuo error, né a me tu il mio».
Al marito ne parve haver buon patto,
né dimostrossi al perdonar restio.
Così a pace e concordia ritornaro,
e sempre poi fu l’uno all’altro caro. –
141
Così disse il nocchiero; e mosse a riso
Rinaldo al fin de la sua storia un poco;
e diventar gli fece a un tratto il viso,
pel scorno del Dottor, come di fuoco.
Rinaldo Argìa molto lodò, che aviso
hebbe d’alzare a quello augello un giuoco
che alla medesma rete fe’ cascallo,
in che ella cadde, ma con minor fallo.
142
Poi che più in alto il Sole il camin prese,
fe’ il paladino apparecchiar la mensa,
c’havea la notte il Mantuan cortese
provista con larghissima dispensa.
Fuggìa a sinistra intanto il bel paese,
et a man destra la palude immensa:
venne e fuggìsse Argenta e il suo Girone
col lito ove Santerno il capo pone.
143
Alhora la Bastìa credo non v’era,
di che non troppo si vantâr Spagnuoli
d’havervi su tenuta la bandiera;
ma più da pianger n’hanno i Romagnuoli.
Quindi a filo diritta la riviera
caccia il legnetto, e fa parer che voli;
poi lo rasegna ad una fossa morta,
ch’a mezo dì nanzi a Ravenna il porta.
144
Ben che Rinaldo con pochi denari
fusse sovente, pur n’havea sì alhora
che cortesia ne fece a’ marinari,
prima che li lasciasse alla bonhora.
Quindi mutando bestie e cavallari,
Arimino passò la sera anchora;
né in Montefiore aspetta il matutino,
e quasi a par col Sol giunge in Urbino.
145
Quivi non era Federico alhora,
né l’Issabetta, né ’l buon Guido v’era,
né Francesco Maria, né Leonora,
che con cortese forza e non altiera
havesse astretto a far seco dimora
sì famoso guerrier più d’una sera;
come fêr già molt’anni, et hoggi fanno
a donne e cavallier che di là vanno.
146
Poi che quivi alla briglia alcun no ’l prende,
smonta Rinaldo a Cagli alla via dritta;
e da la foce ch’el Metauro fende
passa Apennino, e più non l’ha a man ritta;
passa l’Ombri e l’Etrusci, e a Roma scende;
da Roma ad Ostia; e quindi si traghitta
per mar alla cittade a cui commise
el pietoso figliuol l’ossa de Anchise.
147
Muta ivi legno, e verso l’isoletta
di Lipadusa fa presto levarsi,
quella che fu da’ combattenti eletta,
et ove già stati erano a trovarsi.
Insta Rinaldo, e li nocchieri affretta,
ch’a vela e remi fan ciò che può farsi;
ma i venti aversi e per lui mal gagliardi
lo fecer (ma di poco) arrivar tardi.
148
Giunse che a punto il principe d’Anglante
fatta havea l’util opra e glorïosa:
havea Gradasso ucciso et Agramante,
ma con dura vittoria e sanguinosa.
Morto n’era il figliuol di Monodante;
e di grave percossa e perigliosa
stava Olivier languendo su l’arena,
e del piè guasto havea martìre e pena.
149
Tener non puòte il Conte asciutto il viso
quando abbracciò Rinaldo, e che narrolli
che gli era stato Brandimarte ucciso,
che tanta fede e tanto amor portolli.
Né men Rinaldo, quando sì diviso
vide ’l capo all’amico, hebbe occhi molli:
poi quindi ad abbracciar si fu condotto
Olivier che sedea col piede rotto.
150
La consolatïon che seppe, tutta
diè lor, ben che per sé tuor non la possa;
che giunto si vedea quivi alle frutta,
anzi poi che la mensa era rimossa.
Andaro i servi alla città distrutta
e vi portâr de li Re morti l’ossa,
e in le ruine ascoser di Biserta;
e quivi divulgâr la cosa certa.
151
De la vittoria c’havea havuto Orlando
s’allegrò Astolfo e Sansonetto molto;
non perhò sì, come havrian fatto, quando
non fusse a Brandimarte il spirar tolto:
sentir lui morto il gaudio va scemando
sì, che non ponno asserenare il volto.
Hor chi serà di lor ch’annontio voglia
a Fiordiligi dar di sì gran doglia?
152
La notte che precesse a questo giorno
Fiordiligi sognò che quella vesta
che, per mandarne Brandimarte adorno,
havea trappunta e di sua man contesta,
vedea per mezo sparsa e d’ognintorno
di goccie rosse, a guisa di tempesta:
parea che di sua man così l’havesse
riccamata ella, e poi se ne dogliesse.
153
E parea dir: – Pur hammi il Signor mio
commesso ch’io la faccia tutta nera:
hor perché dunque riccamata holla io
contra sua voglia in sì strana maniera? –
Di questo sogno fe’ giudicio rio;
poi la novella giunse quella sera:
ma tanto Astolfo ascosa le la tenne,
ch’a-llei con Sansonetto se ne venne.
154
Tosto ch’intraro, e che ella loro il viso,
dopo tanta vittoria, vide privo
d’ogni letitia, sa senza altro aviso
che Brandimarte suo non è più vivo.
Di ciò le resta il cor così conquiso,
e così li occhi hanno la luce a schivo,
e così ogn’altro senso se le serra,
che come morta andar si lascia in terra.
155
Al ritornar del spirto, ella alle chiome
cacciò le mani et alle belle guote,
e ripetendo indarno il caro nome,
fece onta e danno lor più che far puòte:
stracciò i capelli e sparse; e gridò come
donna talhor ch’el Demon rio percuote,
o come s’ode che già a suon di corno
Menade corse et aggirossi intorno.
156
Hor questo hor quel pregando va, che porto
le sia un coltel, sì che nel cor si fera;
hor correr vuol là dove il legno in porto
de li dui Re defunti arrivato era,
e far de l’uno e l’altro così morto
straccio crudele e vendetta acre e fiera;
hor vuol passare il mare, e cercar tanto,
che possa al suo Signor morire accanto.
157
– Deh perché, Brandimarte, ti lasciai
senza me andare a tanta impresa? – disse.
– Vedendoti partir, non fu più mai
che Fiordiligi tua non te seguisse.
T’havrei giovato, s’io venivo, assai,
c’havrei tenute in te le luci fisse;
e se Gradasso havesti drieto havuto,
con un sol grido io t’havrei dato aiuto;
158
o forse esser potrei stata sì presta,
ch’intrando in mezo, il colpo t’havrei tolto;
fatto scudo t’havrei con la mia testa;
che morendo io, non era il danno molto.
Ogni modo io morrò; né fia di questa
dolente morte alcun profitto colto;
che quando io fussi morta in tua difesa,
non potrei meglio haver la vita spesa.
159
Se pur ad aiutarti i duri fati
havessi havuti e tutto il cielo adverso,
li ultimi baci almeno io t’havrei dati,
almen t’havrei di pianto il viso asperso;
e prima che con li Angeli beati
si fussi il spirto al suo Fattor converso,
detto gli havrei: Va’ in pace, e là m’aspetta;
ch’ovunque sei, son per seguirti in fretta.
160
È questo, Brandimarte, è questo il regno
di che pigliare il scettro hora devevi?
Hor così teco a Damoggir io vegno?
così nel real seggio mi ricevi?
Ah Fortuna crudel, quanto disegno
mi rompi! oh che speranza hoggi mi lievi!
Deh, che cesso io, poi c’ho perduto questo
tanto mio ben, ch’io non perdo ancho il resto? –
161
Questo et altro dicendo, in lei risorse
il furor con tanto impeto e la rabbia,
ch’a stracciar il bel crin di nuovo corse,
come il bel crin tutta la colpa n’habbia;
le mani insieme si percosse e morse,
nel sen si cacciò l’ugne e ne le labbia.
Sfógati, donna, e grida e stride e piagni,
mentre io vuo’ dir del Conte e de’ compagni.
162
Perché il mal d’Oliviero havea non poco
di medico bisogno e di gran cura,
et altrotanto perché in degno luoco
havesse Brandimarte sepultura,
verso il monte n’andâr che fa col fuoco
chiara la notte, il dì di fumo oscura.
V’hanno propicio il vento, e a destra mano
non è quel lito lor molto lontano.
163
Con fresco vento ch’in favor veniva,
sciolser la fune al declinar del giorno,
mostrando lor la taciturna Diva
la dritta via col luminoso corno;
e sorser l’altro dì sopra la riva
ch’amena giace ad Agringento intorno.
Quivi Orlando ordinò per l’altra sera
ciò che a funeral pompa bisogno era.
164
Poi che l’ordine suo vide exequito,
essendo homai dil Sole il lume spento,
fra molta nobiltà ch’era allo ’nvito
de’ luoghi intorno corsa in Agringento,
d’accesi torchi tutto ardendo il lito
e de grida suonando e di lamento,
tornò Orlando ove il corpo havea lassato,
che vivo e morto havea con fede amato.
165
Quivi Bardin di soma d’anni grave
stava piangendo alla bara funèbre,
che pel gran pianto c’havea fatto in nave
devria li occhi haver pianti e le palpèbre.
Chiamando il ciel crudel, le stelle prave,
ruggia come un leon c’habbia la febre;
le mane erano intanto empie e ribelle
a i crin canuti, alla rugosa pelle.
166
Levossi, al ritornar del paladino,
maggior il grido, e raddoppiossi il pianto.
Orlando, fatto al corpo più vicino,
senza parlar stette a mirarlo alquanto,
pallido, come colto al matutino
è il ligustro la sera, o il molle acantho;
e dopo un gran suspir, tenendo fisse
sempre le luci in lui, così gli disse:
167
– O forte, o caro, o mio fedel compagno,
che qui sei morto, e so che vivi in cielo,
e d’una vita v’hai fatto guadagno
che non ti può mai tôr caldo né gelo,
perdonami, se ben vedi ch’io piagno;
perché d’esser rimaso mi querelo,
e ch’a tanta leticia io non sia teco;
e non perché qua giù tu non sia meco.
168
Solo senza te son; né cosa in terra
senza te posso haver più, che mi piaccia.
Se teco ero in tempesta e teco in guerra,
perché non ancho in l’otio e in la bonaccia?
Ben grande è il mio fallir, poi che mi serra
di questo fango uscir per la tua traccia.
Se de li affanni teco fui, perc’hora
non sono a parte del guadagno anchora?
169
Tu guadagnato, e perdita ho fatto io:
sol tu all’acquisto, io non son solo al danno.
Participe fatto è del dolor mio
l’Italia, il regno Franco e l’Alemanno.
Oh quanto, quanto il mio Signore e Zio,
oh quanto i paladin da doler s’hanno!
quanto l’Imperio e la christiana Chiesa,
che perduto ha la sua maggior difesa!
170
Oh quanto si torrà per la tua morte
di terrore a’ nemici e di spavento!
Oh quanto Paganìa serà più forte!
quanto animo n’havrà, quanto ardimento!
Oh come ne de’ star la tua consorte!
Sin qui ne veggio il pianto, e il grido sento.
So che m’accusa, e forse odio mi porta,
che per me teco ogni sua speme è morta.
171
Ma, Fiordiligi, almen resti un conforto
a noi che siàn di Brandimarte privi;
ch’invidiar lui con tanta gloria morto
denno tutti i guerrier c’hoggi son vivi.
Quelli tre Decii, e quel nel foro absorto,
quel sì lodato Codro da li Argivi,
non con più altrui profitto e più suo honore
a morte s’offerì, del tuo signore. –
172
Queste parole et altre dicea Orlando.
Intanto i bigi, i bianchi, i neri frati,
e tutti li altri chierci, seguitando
andavan con lungo ordine accoppiati,
per l’alma del defunto Dio pregando
che gli donasse requie tra’ beati.
Lumi intanto per mezo et ognintorno
mutata haver parean la notte in giorno.
173
Levan la bara, et a portarla fôro
messi a vicenda Conti e Cavallieri.
Purpurea seta la copria, che d’oro
e grosse perle havea compassi altieri;
di non men bello e signoril lavoro
havea gemmati e splendidi orilieri:
e giacea quivi il cavallier con vesta
di color pare, e d’un lavor contesta.
174
Trecento a tutti eran passati inanti,
de’ più poveri tolti de la terra,
che stati eran vestiti tutti quanti
di panni negri e lunghi sin a terra.
Cento paggi seguian sopra altrotanti
grossi cavalli e tutti buoni a guerra;
e li cavalli e i paggi ivano il suolo
radendo col lor habito di duolo.
175
Molte bandiere inanzi e più dirietro,
che di diversi segni eran dipinte,
portavan gentilhuomini al ferètro;
che da Infedeli in più battaglie, vinte
al Imperio di Cesare e di Pietro
havean le forze c’hor giaceano extinte.
Scudi v’erano molti, che de degni
guerrieri, a chi fur tolti, haveano i segni.
176
Venian cento e cent’altri a diversi usi
de l’exequie ordinati; et havean questi,
come ancho il resto, accesi torchi; e chiusi,
più che vestiti, eran di nere vesti.
Poi seguia Orlando, e ad hor ad hor suffusi
di lachryme havea li occhi e rossi e mesti;
né più lieto di lui Rinaldo venne:
il piè Olivier, che rotto havea, ritenne.
177
Lungo serà s’io vi vuo’ dir in versi
le cerimonie, e raccontarvi tutti
li dispensati manti oscuri e persi,
li accesi torchi che vi furon strutti.
Quindi alla chiesa cathedral conversi,
dovunque andâr, non lasciaro occhi asciutti:
sì bel, sì buon, sì giovene a pietade
mosse ogni sesso, ogni ordine, ogni etade.
178
Fu posto in chiesa; e poi che da le donne
di lachryme e di pianti inutil opra,
e da li sacerdoti hebbe il leisonne
e li altri santi detti havuto sopra,
in una arca il serbâr tra due colonne,
come Orlando ordinò, che se ricopra
di ricco drappo d’or, sin che reposto
in un sepolchro sia di maggior costo.
179
Orlando di Sicilia non si parte,
che manda a trovar porphydi e alabastri.
Fece fare il disegno, e di quella arte
inarrar con gran premio i miglior mastri.
Fe’ le lastre (venendo in questa parte)
poi drizzar Fiordiligi, e li pilastri;
che quivi (essendo Orlando già partito)
si fe’ portar da l’Aphricano lito.
180
E vedendo le lachryme indefesse,
et ostinati a uscir sempre i suspiri,
né per far sempre dire uffici e messe
mai satisfar possendo a’ suoi disiri;
di non partirsi quindi in cor si messe
fin che del corpo l’anima non spiri:
e nel sepolchro fe’ fare una cella,
e vi si chiuse; e fe’ sua vita in quella.
181
Orlando, per voler quindi levarla,
mandò poi messi, e vi tornò in persona:
se viene in Francia, vuol compagna farla
di Galerana, e pension darle buona;
e vuol sin alla Lizza accompagnarla,
quando tornare al padre suo prepona;
edificar le vuole un monastiero,
quando servire a Dio faccia pensiero.
182
Ella sta nel sepolchro; e quivi attrita
da penitentia, orando giorno e notte,
non durò lunga età, che di sua vita
da la Parca le fur le fila rotte.
Già fatto havea da l’isola partita,
dove i Cyclopi havean l’antique grotte,
li tre guerrier di Francia, afflitti e mesti
ch’el quarto lor compagno a dietro resti.
183
Non vollon senza medico levarsi
per il mal d’Olivier che era molesto,
quando a principio mal puoté curarsi
per non haver chi fusse buono a questo.
Non cessava Olivier di lamentarsi,
e facea ognun di sé pietoso e mesto;
e di ciò ragionando, al nocchier nacque
un pensiero, e lo disse; e a tutti piacque.
184
Disse che era de lor poco lontano
in un solingo scoglio uno Eremita,
a cui ricorso mai non s’era invano,
o fosse per consiglio o per aita;
e facea alcuno effetto soprahumano,
dar lume a ciechi, e tornar morti a vita,
fermare il vento ad un segno di croce,
e far tranquillo il mar quando è più atroce:
185
e che non denno dubitare, andando
a ritrovar quel huomo a Dio sì caro,
che lor non renda Olivier sano, quando
fatto ha di sua virtù segno più chiaro.
Questo consiglio sì piacque ad Orlando,
che verso il santo luoco si drizzaro;
né mai piegando dal camin la prora,
videro il scoglio al sorger de l’Aurora.
186
Scorgendo il legno huomini in l’acqua dotti,
sicuramente s’accostaro a quello.
Quivi aiutando servi e galeotti,
poser suavemente nel battello
il Marchese stroppiato: e fur condotti
nel duro scoglio, et indi al santo hostello;
al santo hostello, a quel Vecchio medesmo
per le cui mano hebbe Ruggier battesmo.
187
El servo del Signor del paradiso
raccolse Orlando e li compagni suoi,
e benedilli con giocondo viso,
e de’ lor casi dimandolli poi;
ben che de lor venuta havuto aviso
havesse già da li celesti Heroi.
Orlando gli rispose esser venuto
per ritrovare ad Oliviero aiuto;
188
ch’era, pugnando per la fé di Christo,
a periglioso termine ridutto.
Levògli il Santo ogni suspetto tristo,
e gli promise di sanarlo in tutto.
Né havendo unguento né liquor provisto,
né d’altra humana medicina instrutto,
intrò in la chiesa, et orò al Salvatore;
et indi uscì con gran baldanza fuore:
189
e in nome de le eterne tre persone,
padre e figliuolo e spirto santo, diede
ad Olivier la benedittïone.
Oh virtù che dà Christo a chi gli crede!
Cacciò dal cavallier la passïone,
e ritornolli a sanitade il piede,
più fermo e più expedito che mai fosse:
e presente Sobrino a ciò trovosse.
190
Giunto Sobrin de le sue piaghe a tanto,
che star peggio ogni giorno se ne sente,
tosto che vide del Monacho santo
il miracolo grande et evidente,
si dispose Machon poner da canto,
e Christo confessar vivo e potente:
e dimandò, con cor di fé contrito,
inicïarsi al nostro sacro rito.
191
Così l’huom giusto battizollo, et ancho
gli rese, orando, ogni vigor primiero.
Orlando e li altri cavallier non manco
di tal conversïon leticia fêro,
che di veder che liberato e franco
dil periglioso mal fusse Oliviero.
Maggior gaudio Ruggier di tutti n’hebbe;
e molto in fede e divotione accrebbe.
192
Era Ruggier, dal dì che giunse a nuoto
su questo scoglio, poi statovi ognhora.
Fra quei guerrieri il Vecchiarel devoto
sta dolcemente, e li conforta e exora
a voler, schivi di pantano e loto,
mondi passar per questa morta gora
c’ha nome vita, che sì piace a’ sciocchi;
et alla via del ciel sempre haver li occhi.
193
Orlando un suo mandò sul legno, e trarne
fece pane e buon vin, cacio e persutti;
e l’huom di Dio, ch’ogni sapor di starne
pose in oblio, poi che avezzossi a’ frutti,
per charità mangiar fecero carne
e ber del vino, e far quel che fêr tutti.
Poi che alla mensa consolati fôro,
di molte cose ragionâr tra loro.
194
E come accade nel parlar sovente
ch’una cosa vien l’altra dimostrando,
Ruggier riconnosciuto finalmente
fu da Rinaldo, da Olivier, da Orlando,
per quel Ruggiero in arme sì excellente,
el cui valor s’accorda ognun lodando:
né Rinaldo l’havea raffigurato
per quel che seco intrò già nel steccato.
195
Ben l’havea il Re Sobrin riconnosciuto
tosto ch’el vide col Vecchio apparire;
ma vòlse inanzi star tacito e muto
che porsi in aventura di fallire.
Poi che a notitia a li altri fu venuto
che questo era Ruggier, di cui l’ardire,
la cortesia, il valor alto e profondo
si facea nominar per tutto il mondo;
196
e sapendosi già che era christiano,
tutti con lieta e con serena faccia
vengono a lui: chi gli tocca la mano,
e chi lo bacia, e chi lo stringe e abbraccia.
Sopra li altri il signor di Montalbano
d’accarezzarlo e fargli honor procaccia:
perch’esso più de li altri, vi diremo
nel altro canto, che serà l’estremo.

CANTO QUADRAGESIMO ET ULTIMO

1
Hor, se mi mostra la mia charta il vero,
non è lontano a discoprirsi il porto;
sì che nel lito i voti scioglier spero
a chi nel mar per tanta via m’ha scorto;
dove, o di non tornar col legno intiero,
o sempre errar, già fui timido e smorto.
Ma mi par di veder, ma veggio certo,
veggio la terra, veggio il lito aperto!
2
Sento venir per allegrezza un tuono
che fremer l’aria e ribombar fa l’onde:
odo di squille, odo di trombe un suono
che l’alto popular grido confonde.
Hor comincio a discernere chi sono
questi che empion del porto ambe le sponde;
par che tutti s’allegrino ch’io sia
venuto a fin di così lunga via.
3
Oh di che belle e gentil donne veggio,
oh di che cavallieri il lito adorno!
oh di che amici, a chi in eterno deggio
per la letitia c’han del mio ritorno!
La bella Mamma e l’altre da Coreggio
veggio del molo in su l’estremo corno:
quella che scende con Ginevra al mare
Veronica da Gambara mi pare;
4
Iulia e un’altra Ginevra, pur uscita
del medesimo sangue, mi par seco.
Veggio Hippolyta Sforza, e la notrita
Trivulcia da le Muse al sacro speco:
veggio te, Aemilia Pia; te, Margherita,
ch’Angiola Borgia e Gratïosa hai teco.
Con Ricciarda da Este ecco le belle
Dïana e Bianca, e l’altre sue sorelle;
5
del mio signor di Bozolo la moglie,
la matre, le sorelle e le cugine
Gonzaghe, con Torelle e Bentivoglie,
e le Visconte e le Palavicine.
Oh bella compagnia che mi raccoglie!
Issabette, Lucie, Lucretie, Ursine,
Catherine, Leonore; Alda, Alexandra,
Thadea, Nicola, Hippolyta e Cassandra.
6
Le Ferrarese mie qui sono, e quelle
de la corte d’Urbino; e riconnosco
quelle di Mantua, e quante donne belle
ha Lombardia, quante il paese Tosco.
Il cavallier che tra lor veggio, che elle
honoran sì, mi par, se non è losco
l’occhio del mirar fiso in sì bei volti,
il gran lume Aretin, l’Unico Accolti.
7
Mario Equicolo è quel che gli è più appresso,
che stringe i labri e manda in su le ciglia,
e fa con man, di tutti i detti d’esso,
di stupor segno e d’alta maraviglia.
El mio Valerio è quel che là s’è messo
fuor de le donne; e forse si consiglia
col Barignan c’ha seco, come offeso
sempre da lor, non ne sia sempre acceso.
8
Ecco Alexandro, il mio signor, Farnese:
oh dotta compagnia che seco mena!
Phedro, Capella, Porcio, il Bolognese
Philippo, il Volterano, il Madalena,
Pïerio, Blosio, il Bosso Cremonese,
d’alta facondia inexsiccabil vena,
e Lascari e Mussuro e Navagero,
Andrea Marone, il Monacho Severo.
9
Veggio sublimi e soprahumani ingegni
di sangue e d’amor giunti, il Pico e il Pio.
Colui che con lor viene, e da’ più degni
ha tanto honor, mai più non connobbi io;
ma, se me ne fur dati veri segni,
è l’huom che di veder tanto disio,
Iacopo Sanazar, che alle Camene
lasciar fa i monti et habitar l’arene.
10
Ecco Antonio Furgoso, ecco Latino
Iuvenale, e Pistophilo con lui.
I’ veggio altri Alexandri, uno Guarino,
uno Horologi; e venir veggio dui
Hieronymi con loro, il Cittadino
e quel di Verità, sacri ambidui
a Phebo; e veggio al Leonico al lato
Dresino, Florïano e Panizato.
11
I’ veggio al Sasso, al mio Hannibàl far festa
di rivedermi, et a cento altri e cento.
Veggio le donne e li huomini di questa
mia ritornata ognun parer contento.
Dunque a finir la breve via che resta
non sia più indugio, hor c’ho propicio il vento,
tornando a dir de la compagna bella
c’havea il santo Eremita alla sua cella.
12
Spesso in poveri alberghi et piccol tetti,
ne le calamitadi et ne’ disagi,
meglio si giungon d’amicitia i petti,
ch’in le ricchezze invidïose et agi
de le piene d’insidie et di suspetti
corti regali et splendidi palagi,
dove la charitade è in tutto extinta,
né si vede amicitia, se non finta.
13
Quindi avien che de principi e signori
patti e conventïon sono sì frali.
Fan lega hoggi Re, Papi e Imperatori;
diman seran nemici capitali:
perché, qual l’apparenze exterïori,
non han i cor, non han li animi tali;
che non mirando al torto più ch’al dritto,
attendon solamente al lor profitto.
14
Questi, quantunque d’amicitia poco
sieno capaci, perché non sta quella
ove per cose gravi, ove per giuoco
mai senza fittïon non si favella;
pur, se talhor li ha tratti in humil luoco
insieme una fortuna acerba e fella,
in poco tempo vengono a notitia,
quel che in molto non fêr, de l’amicitia.
15
El santo Vecchio in l’humile sua stanza
giunger li hospiti suoi con nodo forte
ad amor vero meglio hebbe possanza,
ch’altri non havria fatto in real corte.
Fu questo poi di tal perseveranza,
che non si sciolse mai sin alla morte.
Il Vecchio li trovò tutti benigni,
candidi più nel cor, che di fuor Cygni.
16
Trovolli tutti amabili e cortesi,
non de la iniquità ch’io v’ho dipinta
di quei che mai non escono palesi,
ma sempre van con apparenza finta.
Di quanto s’eran per a dietro offesi
ogni memoria fu tra lor extinta;
e se d’un ventre fussero e d’un seme,
non si potriano amar più tutti insieme.
17
Sopra li altri il signor di Montalbano
accarezzava et reveria Ruggiero:
sì perché già l’havea con l’arme in mano
provato quanto era ottimo guerriero,
sì per trovarlo affabile et humano
più che mai fusse al mondo cavalliero;
ma molto più, che da diverse bande
si connoscea d’haverli obligo grande.
18
Sapea che di gravissimo periglio
egli havea liberato Ricciardetto,
quando l’huom che mandato havea Marsiglio
lo ritrovò con Fiordispina in letto;
e c’havea tratto l’un e l’altro figlio
del duca Bovo (com’io v’ho già detto)
de man de’ Saracini e de i malvagi
ch’eran col Maganzese Bertolagi.
19
Questo debito a lui parea di sorte
ch’ad amar lo stringeano e ad honorarlo;
et gli ne dolse e gli ne increbbe forte
che già più dì non fu opportuno a farlo,
quando l’un stava in l’Aphricana corte
e l’altro a gli servigii era di Carlo.
Hor che fatto christian quivi lo truova,
quel che non fece prima, hor far gli giova.
20
Proferte senza fine, honore e festa
fece a Ruggiero il paladin cortese.
Il prudente Eremita, come questa
benivolentia vide, adito prese.
Entrò dicendo: – A far altro non resta
(e lo spero ottener senza contese)
che come l’amicitia è tra voi fatta,
tra voi sia anchora affinità contratta;
21
acciò che de le due progenie illustri,
che non han par di nobiltade al mondo,
nasca un lignaggio che più chiaro lustri
ch’el chiaro Sol per quanto gira a tondo;
e come andran più inanzi et anni e lustri,
serà più bello, e durerà, secondo
che Dio m’inspira, acciò che a voi nol celi,
fin che terran l’usato corso i cieli. –
22
E seguitando il suo parlar più inante,
fa ’l santo Vecchio sì, che persuade
che Rinaldo a Ruggier dia Bradamante,
ben che pregar né l’un né l’altro accade.
Questo Oliviero e ’l principe d’Anglante
commenda assai, e come in lor contrade
tornati sien, speran ch’Amone e Carlo
debbiano e tutta Francia commendarlo.
23
Quel dì e la notte, e del seguente giorno
steron gran parte col Monacho saggio,
quasi oblïando al legno far ritorno,
ben che spirasse il vento al lor vïaggio.
Ma li nocchieri, a cui tanto soggiorno
increscea hormai, mandâr più d’un messaggio,
che sì li stimulâr de la partita,
ch’a forza li spiccâr da l’Eremita.
24
Ruggier, che stato era in exilio tanto
e rilegato in sì stretto confine,
tolse licentia dal maestro santo
che l’havea instrutto in sacre discipline.
La spada Orlando gli rimette a canto
e gli fa dar Frontino e l’arme fine;
sì per mostrar del suo amor segno expresso,
sì per saper che dianzi erano d’esso.
25
E ben c’havesse in la spada incantata
assai miglior ragione il paladino,
che con pena e travaglio già levata
l’havea dal formidabile giardino,
che non havea Ruggier, a cui donata
dal ladro fu che gli diè anchor Frontino;
pur non men volentier che l’altro arnese
alla prima dimanda gli la rese.
26
Fur benedetti dal Vecchio devoto,
e sul naviglio al fin si ritornaro.
Li remi a l’acqua, e dêr le vele al Noto;
e sì gli fu sereno il tempo e chiaro,
che non gli bisognò priego né voto
fin che nel porto di Marsiglia intraro.
Ma qui si stiano tanto, ch’io conduca
a loro Astolfo, il glorïoso Duca.
27
Astolfo, poi che la vittoria intese
ch’Orlando havea de li nemici havuta,
connoscendo hoggimai che da l’offese
d’Aphrica Francia esser potrebbe tuta,
pensò di rimandar in suo paese
la negra gente dietro a lui venuta
per la strada medesima che tenne
quando contra Biserta se ne venne.
28
L’armata ch’Agramante ruppe in l’onde
Dudone havea già rimandata a drieto;
e con miracol grande prore e sponde,
tosto ch’uscito ne fu il popul lieto,
furon vedute riformarsi in fronde
quali ne’ rami lor fur per adrieto:
poi venne il vento, e come cosa lieve
le levò in aria, e fe’ sparire in breve.
29
Chi a piedi e chi a caval, tutte partita
d’Aphrica fêr le Nubïane schiere.
Ma prima Astolfo si chiamò infinita
gratia al Senapo et immortal havere;
che gli venne in persona a dar aita
con ogni sforzo et ogni suo potere.
Diè loro Astolfo in l’uterino Claustro
da portar seco il fiero e turbido Austro.
30
Dico che in l’utri gli diè il vento chiuso
ch’uscir di Mezodì suol con tal rabbia,
che muove a guisa d’onde, e lieva in suso,
e ruota sino al ciel l’àrrida sabbia;
acciò se lo portassero a-llor uso,
che per camin far lor danno non habbia;
il qual poi, giunti in la lor regïone,
havessero a lasciar fuor di pregione.
31
Scrive Turpin, che come furo a i passi
de l’alto Atlante, li cavalli loro
tutti in un tempo diventaron sassi;
sì che pedoni in Nubia ritornoro.
Ma tempo è homai ch’Astolfo in Francia passi;
e così, poi che del paese Moro
hebbe provisto a i luochi principali,
a l’Hippogrypho suo fe’ spiegar l’ali.
32
Vola in Sardigna in un batter di penne,
e di Sardigna andò nel lito Corso;
e quindi sopra ’l mar la strada tenne,
torcendo alquanto a man sinistra il morso.
Ne le maremme a l’ultimo ritenne
de la Greca Marsiglia el leggier corso;
dove exequì del Hippogrypho quanto
gli disse già l’Evangelista santo.
33
Hagli commesso il santo Evangelista
che come torni al lito di Provenza,
poi che lasciata havrà l’Aphrica trista,
all’Hippogrypho suo doni licenza.
Era in l’ultimo ciel, che sempre acquista
de’ nostri danni, già rimaso senza
virtù il suo corno, che divenne roco
tosto che si trovò nel divin luoco.
34
Venne Astolfo a Marsiglia, e venne a punto
il dì che v’era Orlando et Oliviero
e il cavallier da Montalbano giunto
col buon Sobrino e col miglior Ruggiero.
La memoria del Socio lor defunto
vietò che i paladini non potero
insieme così a punto rallegrarsi,
come in tanta vittoria devea farsi.
35
Carlo havea di Sicilia havuto aviso
de’ dui Re morti e di Sobrino preso,
e ch’era stato Brandimarte ucciso;
poi di Ruggiero havea non men inteso:
e ne stava col cor lieto e col viso,
parendogli d’haver gettato un peso
che si sentì su li homeri sì grieve,
che gli par ch’anchor ben non si rilieve.
36
Per honorar costor ch’eran sostegno
del santo Imperio e la maggior colonna,
Carlo mandò la nobiltà del regno
ad incontrarli sin in ripa a Sonna.
E uscì poi lor con lo drapel più degno
de li Re incontra, e con la propria donna,
più d’una lega, in compagnia di belle
e bene ornate e nobili donzelle.
37
L’Imperator con chiara e lieta fronte,
e poi l’Imperatrice e tutto il resto,
del gaudio interno fa vedere al Conte
et a’ compagni segno manifesto:
gridar s’ode Mongrana e Chiaramonte.
Li abbracciamenti non finîr sì presto,
Rinaldo, Orlando insieme et Oliviero
al Signor loro appresentâr Ruggiero;
38
e gli narrâr che di Ruggier di Risa
era figliuol, di virtù ugual al padre:
se sia animoso et forte, et a che guisa
sappia ferir, san dir le nostre squadre.
Con Bradamante in questo vien Marphisa,
le due compagne nobili et leggiadre:
ad abbracciar Ruggier vien la Sorella;
con più rispetto sta l’altra Donzella.
39
L’Imperator Ruggier fa risalire,
ch’era per reverentia sceso a piede,
e lo fa a par a par seco venire,
e di ciò ch’a honorarlo si richiede
un punto sol non lascia preterire.
Ben sapea che tornato era alla Fede;
che immantinente che fu Orlando al sciutto,
certificato Carlo havea del tutto.
40
Con pompa triomphal, con festa grande
tornano insieme dentro alla cittade,
che di fronde verdeggia e di ghirlande:
coperte a panni son tutte le strade;
nembo de lieti fior d’alto si spande
e sopra e intorno a’ vincitori cade,
che da veroni e da finestre amene
donne e donzelle gettano a man piene.
41
Al voltar de li canti in varii luochi
truovan archi e trophei subito fatti,
che di Biserta le ruine e i fuochi
tengon depinti, e li altri degni fatti;
altrove palchi con diversi giuochi
e spettacoli e mimmi e scenici atti;
et è scritto per tutto il titul vero:
Alli liberatori de l’Impero.
42
Fra suon di argute trombe e di canore
piffare e d’ogni musica harmonia,
fra grido e plauso, iubilo e favore
del populo ch’a pena vi capìa,
smontò al palazzo il magno Imperatore,
dove più giorni quella compagnia
con torniamenti e personaggi e farse,
danze e convivi attese a dilettarse.
43
Rinaldo intanto havea fatto sapere
al padre Amone, a tutto il suo lignaggio,
et prima a Carlo, senza il cui parere
non serìa stato a far tal cosa saggio,
c’havea a Ruggier, se ad essi era piacere,
Bradamante promessa in maritaggio.
Consentì ognuno, ognun laudò la cosa:
così fu Bradamante a Ruggier sposa.
44
Mongrana si rallegra e Chiaramonte,
di nuovo groppo i dui rami raggiunti:
altrotanto s’attrista il fellon Conte
Gan di Maganza, e tutti i suoi congiunti;
ma difingendo van sotto altra fronte
li animi lor di grande invidia punti;
e come volpe che la lepre aspetta,
occasïone aspettan di vendetta.
45
Oltra che già Rinaldo e Orlando ucciso
havea in più volte assai di lor malvagi;
ben che sedate havea con saggio aviso
Carlo l’ingiurie e li commun disagi;
di nuovo loro havea levato il riso
l’ucciso Pinabello e Bertolagi:
ma la lor fellonia tenean coperta,
dissimulando haver la cosa certa.
46
Fansi le nozze splendide e reali,
convenïenti a chi cura ne piglia:
Carlo ne piglia cura, e le fa quali
farebbe maritando una sua figlia.
Li merti de la Donna erano tali,
oltra quelli di tutta sua famiglia,
ch’a quel Signor non parea uscir del segno
spender per lei ciò che perviene al regno.
47
Libera corte fa bandir intorno,
dove sicuro ognun possa venire;
e campo franco sin al nono giorno
conciede a chi contese han da partire.
Fe’ alla campagna l’apparato adorno
di rami intesti e frondi e fiori ordire,
d’oro e di seta poi, tanto giocondo
che più bel luoco mai non fu nel mondo.
48
Dentro a Parigi non seriano state
le innumerabil genti peregrine,
povere e ricche e d’ogni qualitate,
che v’eran, Greche, Barbare et Latine.
Tanti signor e ambasciarie mandate
di tutto il mondo non haveano fine:
erano in padiglion, tende e frascati
con gran commodità tutti alloggiati.
49
Con excellente e singular ornato
la notte inanzi havea Melissa maga
il marital albergo apparecchiato,
di ch’era stata già gran tempo vaga.
Havea gran tempo inanzi ella bramato
giunger questi dui amanti; che presaga
de le cose avenir, sapea di quanta
bontà frutto usciria de la lor pianta.
50
Posto havea il genïal letto fecondo
in mezo un padiglione amplo e capace,
il più ricco, il più ornato, il più giocondo
che già mai fusse o per guerra o per pace,
o prima o dopo, teso in tutto il mondo;
et Melissa l’havea dal lito Thrace
di sopra ’l capo a Constantin levato,
ch’a diporto sul mar s’era attendato.
51
Di sopra a Constantin c’havea l’Impero
di Grecia, lo levò da mezo giorno,
con le chorde e col fusto, e con l’intero
guarnimento c’havea dentro e d’intorno:
se lo portò per l’aria, e di Ruggiero
quivi lo fece alloggiamento adorno.
Poi, finite le nozze, ancho tornollo
miraculosamente onde levollo.
52
Erano de li anni appresso che duomilia
che fu quel ricco padiglion trappunto.
Una donzella de la terra d’Ilia,
c’havea il furor prophetico congiunto,
con studio di gran tempo e con vigilia
lo fece di sua man di tutto punto:
Cassandra fu nomata, et al fratello
inclyto Hettòr fece un bel don di quello.
53
Il più cortese cavallier che mai
devea del ceppo uscir del suo germano,
ben che sapea da la radice assai
che quel per molti rami era lontano,
ritratto havea ne li riccami gai,
d’oro e di varia seta, di sua mano.
L’hebbe, mentre che visse, Hettorre in pregio,
e per chi ’l fece e pel lavoro egregio.
54
Ma poi ch’a tradimento hebbe la morte
e fu il popul Troian da’ Greci afflitto;
che Sinon falso aperse lor le porte,
e peggio seguitò che non è scritto;
Menelao hebbe il padiglione in sorte,
col quale a capitar venne in Egytto,
dove al Re Proteo lo lasciò, se vòlse
la moglie haver, che quel tyran gli tolse.
55
Helena nominata era colei
per cui lo padiglion a Proteo diede;
che poi successe in man de’ Ptolomei,
tanto che Cleopatra ne fu herede.
Da le genti d’Agrippa tolto a lei
nel mar Leucadio fu con altre prede:
in man d’Augusto e di Tyberio venne,
e ’n Roma sin a Constantin si tenne,
56
quel Constantin di cui doler si debbe
la bella Italia fin che giri il cielo.
Constantin, poi ch’el Tevero gl’increbbe,
portò in Byzantio il pretïoso velo:
com’io v’ho detto, indi Melissa l’hebbe.
D’oro le chorde havea, d’avorio il stelo;
tutto trappunto era a figure belle,
più che mai con pennel facesse Apelle.
57
Quivi le Gratie in habito giocondo
una Regina aiutavano al parto:
sì bello infante n’apparia, ch’el mondo
non hebbe un tal dal secol primo al quarto.
Vedeasi Iove e Mercurio facondo,
Venere e Marte, che l’haveano sparto
a man piene e spargean d’eterei fiori,
di dolce Ambrosia e di celesti odori.
58
Hippolyto, diceva una scrittura
sopra le fasce in lettere minute.
In età poi più ferma la Ventura
l’havea per mano, e nanzi era Virtute.
Indi ritratte eran con molta cura
l’ambasciarie de l’Ungaro, venute
a dimandar da parte di Corvino
al padre Hercole il tenero bambino.
59
Da Hercole partirsi reverente
si vede, et da la matre Leonora;
si vede passar l’Alpe, et che la gente
corre a vederlo, e come un dio l’adora.
Vedesi il Re de li Ungari prudente,
ch’el maturo sapere ammira e honora
in immatura età tenera e molle,
e degnamente a grande imprese extolle.
60
V’è che ne l’infantili e teneri anni
il scettro di Strigonia in man gli pone;
il fanciul sempre se gli vede a’ panni,
sia nel palagio, sia nel padiglione:
o contra Turchi o contra l’Alemanni
quel Re possente faccia expeditione,
Hippolyto gli è appresso, e fiso attende
a’ magnanimi gesti, et virtù apprende.
61
Quivi si vede come il fior dispensi
de li primi anni in disciplina et arte.
Fusco gli è appresso, che li occulti sensi
chiari gli expone de l’antiche charte.
– Questo schivar, questo seguir conviensi,
s’immortal brami e glorïoso farte, –
par che gli dica: così havea ben finti
li gesti lor chi già li havea dipinti.
62
Poi Cardinal appar, ma giovinetto,
seder in Vaticano a consistoro,
e con facondia aprir l’alto intelletto
e far di sé stupir tutto quel choro.
– Qual fia dunque costui d’età perfetto?
parean con maraviglia dir tra loro).
Oh se di Petro mai gli tocca il manto,
che fortunata età! che secol santo! –
63
In altra parte i liberali spassi
erano e i giuochi del giovene illustre:
hor li orsi affronta su li alpini sassi,
hor e’ cingiali in valle ima e palustre;
hor s’un ginetto par ch’el vento passi,
seguendo o caprio o cerva moltilustre
che, giunta, par che bipartita cada
in parti uguali a un sol colpo di spada.
64
Qua con molt’arte e con più forza lotta,
e con robusti gioveni s’afferra:
par ch’abbattuti già n’habbia una frotta,
e s’apparecchi a poner l’altri in terra.
Là par ch’egli habbia più d’un’hasta rotta,
armato in simulacro d’aspra guerra,
a piè e a cavallo, con ogni arma destro,
di tutti li altri e principe e maestro.
65
Altrove di philosophi et poeti
si vede in mezo una honorata squadra:
quel gli dipinge il corso de’ pianeti,
questo la terra, quel il ciel gli squadra;
questo meste elegie, quel versi lieti,
quel canta heroici, o qualche oda liggiadra.
Musici ascolta, et varii suoni altrove;
né senza summa gratia un passo muove.
66
In questa prima parte era dipinta
del sublime garzon la pueritia.
Cassandra l’altra havea tutta distinta
de gesti di prudentia e di iustitia,
di modestia e fortezza, e de la quinta
che da lor nasce e tien seco amicitia,
dico de la virtù che dona e spende;
che parimente in tutti irraggia e splende.
67
In questa parte il giovene si vede
col sfortunato Duca de l’Insubri:
hora in pace a consiglio con lui siede,
hora armato con lui spiega i colubri,
e sempre par d’una medesma fede,
o ne’ felici tempi o ne’ lugùbri;
gli è compagno in la fuga e ne l’exiglio,
nel duol conforto, e scorta nel periglio.
68
Si vede altrove, a gran pensier intento
per salute d’Alfonso e di Ferrara,
che va rimando per strano argumento,
e truova, e fa veder per cosa chiara
al giustissimo frate il tradimento
che gli usa la famiglia sua più cara:
e per questo si fa del nome herede
che Roma a Ciceron libera diede.
69
Vedesi altrove in arme relucente,
ch’ad aiutar la Chiesa in fretta corre;
e con tumultuaria e poca gente
a un exercito instrutto si va opporre;
e solo il ritrovarsi egli presente
tanto alli ecclesïastici soccorre,
che prima il fuoco tol, ch’arder comince:
sì che può dir che vène et vede et vince.
70
Vedesi altrove da la patria riva
pugnar incontra la più forte armata
che contra Turchi o contra gente Argiva
da’ Venetiani mai fusse mandata:
la rompe et vince, et al fratel captiva
la dà con ogni preda; né servata
si vede ch’altra cosa habbia per lui,
che l’honor sol, che non può darlo altrui.
71
Vedesi altrove che non pur conserva
Ferrara, ma ’l dominio le proròga,
absente Alfonso; e quando la proterva
barbarie intorno ogni città soggiuoga,
franca la tien fra tutta Italia serva.
Ma quante armato, e quante volte in toga
Hippolyto si veggia a fatti degni,
lungo fôra a cercar per tutti i segni.
72
Le donne e’ cavallier mirano fisi,
senza trarne construtto, le figure;
perché appresso non han chi loro avisi
che tutte quelle sien cose future.
Prendon piacere a riguardar i visi
belli e ben fatti, e legger le scritture.
Sol Bradamante, da Melissa instrutta,
gode tra sé; che sa l’historia tutta.
73
Ruggier, anchor ch’a par di Bradamante
non ne sia dotto, pur gli torna a mente
che fra i nipoti suoi gli solea Atlante
commendar questo Hippolyto sovente.
Chi potrà in versi a pieno dir le tante
cortesie che fa Carlo ad ogni gente?
Di varii giuochi è sempre festa grande,
e la mensa ognhor piena di vivande.
74
Vedesi quivi chi è buon cavalliero;
che vi son mille lancie il giorno rotte:
fansi battaglie a piedi et a destriero,
altre accoppiate, altre confuse in frotte.
Più de li altri valor mostra Ruggiero,
che vince sempre, e giostra el dì e la notte;
e così in danza, in lotta et in ogni opra
sempre con molto honor resta di sopra.
75
L’ultimo dì, ne l’hora ch’el solenne
convivio era a gran festa incominciato;
che Carlo a man sinistra Ruggier tenne,
et Bradamante havea dal destro lato;
di verso la campagna in fretta venne
nanzi alle mense un cavallier armato,
tutto coperto egli e il caval a nero,
di gran persona, e di sembiante altiero.
76
Senza smontar, senza chinar la testa,
e senza segno alcun di reverentia,
mostrò Carlo sprezzar con la sua gesta
e de tanti Signor l’alta presentia.
Maraviglioso e attonito ognun resta
che si pigli costui tanta licentia.
Lasciano i cibi e lascian le parole
per ascoltar ciò ch’el guerrier dir vuole.
77
Poi che fu a Carlo et a Ruggier a fronte,
con alta voce et orgoglioso grido:
– Son – disse – il Re di Sarza, Rodomonte,
che te, Ruggiero, alla battaglia sfido;
et vuo’ provarti, prima che tramonte
questo sol d’hoggi, che rebelle e infìdo
al tuo Signor sei stato, e traditore;
né questo merti, né alcun altro honore.
78
Ben che tua fellonia si veggia aperta,
ch’essendo hor tu christian non pòi negarla;
acciò si possa ancho saper più certa,
in questo campo vengoti a provarla:
e se persona hai qui che faccia offerta
di combatter per te, voglio accettarla.
S’una non basta, accetto quattro e sei,
provando lor che traditor tu sei. –
79
Ruggier a quel parlar ritto levosse,
e con licentia rispose di Carlo
che mentiva egli, et qualunqu’altro fosse,
che traditor volesse nominarlo;
e che col Signor suo sempre portosse
in modo ch’a ragion non può biasmarlo;
e ch’era apparecchiato sostenere
d’haver in questo fatto il suo devere:
80
e ch’a difender la sua causa era atto,
senza tôrre in aiuto suo veruno;
e che sperava di mostrargli in fatto
che assai n’havrebbe e forse troppo d’uno.
Quivi Rinaldo, e quivi Orlando tratto
s’era, e Marphisa, et Oliviero, e alcuno
altro guerrier, che contra il Pagan fiero
volean tôr la difesa di Ruggiero,
81
mostrando ch’essendo egli nuovo sposo
non devea conturbar le proprie nozze.
Ruggier rispose lor: – State in riposo;
che per me fôran queste scuse sozze. –
L’arme che tolse al Tartaro famoso
vennero, e fur tutte l’indugie mozze.
Rinaldo e Orlando i sproni a Ruggier strinse,
e Carlo al fianco la spada gli cinse.
82
Bradamante e Marphisa la corazza
posta gli haveano, e tutto l’altro arnese.
Tenne Astolfo il caval di buona razza,
tenne la staffa il figlio del Danese.
Fece d’intorno far subito piazza
il duca Namo et Olivier Marchese:
cacciaro in fretta ognun fuor del steccato
a tal bisogni sempre apparecchiato.
83
Donne e donzelle con pallida faccia
timide a guisa di colombe stanno,
che da’ granosi paschi a i nidi caccia
rabbia de’ venti che per l’aria vanno
con tuoni e lampi, e ’l scur aer minaccia
grandine e pioggia, e a’ campi strage e danno:
timide stanno per Ruggier; che male
a quel fiero Pagan lor parea uguale.
84
Così a tutta la plebe e alla più parte
de’ cavallieri e principi parea;
che di memoria anchor lor non si parte
quel che in Parigi il Pagan fatto havea;
che, sol, a ferro e a fuoco una gran parte
n’havea distrutta, e anchor vi rimanea,
e rimarrà per molti giorni il segno;
né maggior danno altronde hebbe quel regno.
85
Tremava, più ch’a tutti li altri, il core
a Bradamante; non ch’ella credesse
ch’el Saracin di forza, e del valore
che vien dal cor, più di Ruggier potesse;
né che ragion, che spesso dà l’honore
a chi l’ha seco, Rodomonte havesse:
pur star non puote senza gran suspetto;
che di temere, amando, ha degno effetto.
86
Oh quanto volentier sopra sé tolta
la cura havria di quella pugna incerta,
anchor che rimaner di vita sciolta
per quella fusse stata più che certa!
Havria eletto a morir più d’una volta,
se può più d’una morte esser sofferta,
più presto che patir ch’el suo consorte
si ponesse al pericol de la morte.
87
Ma non sa ritrovar priego che vaglia,
perché Ruggiero a lei l’impresa lassi:
a riguardar adunque la battaglia
con mesto viso e cor trepido stassi.
Quinci Ruggier, quindi il Pagan si scaglia,
et vengonsi a trovar coi ferri bassi:
le lancie al scontro parvero di gelo;
li tronchi, augelli a salir verso il cielo.
88
La lancia del Pagan, che venne a côrre
a mezo il scudo, fe’ debile effetto,
perch’era il scudo del famoso Hettorre,
c’havea fatto Vulcan, tanto perfetto.
Ruggier la lancia parimente a porre
gli venne al scudo, e gli lo passò netto;
tutto che fusse appresso un palmo grosso,
dentro e di fuor d’acciaro, e in mezo d’osso.
89
E se non che la lancia non sostenne
l’horribil scontro, e mancò al primo assalto,
e rotta in scheggie e tronchi haver le penne
parve per l’aria, tanto volò in alto;
l’usbergo havria (sì furïosa venne),
se fusse stato adamantino smalto,
passato anchor; ma nel più bel si roppe:
posero in terra ambi i destrier le groppe.
90
Con briglia e sproni i cavallier instando,
risalir feron subito i destrieri;
e donde gettâr l’haste, preso il brando,
si tornaro a ferir crudel’ e fieri:
di qua e di là con maestria girando
li animosi cavalli atti e liggieri,
con le pungenti spade incominciaro
a tentar dove il ferro era più raro.
91
Non si trovava il scoglio di serpente
(che fu sì duro) al petto Rodomonte,
né di Nembrotte la spada tagliente,
né ’l solito elmo havea quel dì alla fronte;
che l’usate arme, quando fu perdente
contra la donna di Dordona al ponte,
lasciato havea suspeso a i sacri marmi,
come di sopra udiste in questi carmi.
92
Egli havea un’altra assai buona armatura,
non come quella a gran pezzo perfetta:
ma né questa né quella, né più dura
a Balisarda si sarebbe retta;
a cui non osta incanto né fatura,
né finezza d’acciar né tempra eletta.
Ruggier di qua e di là sì ben lavora,
ch’al Pagan l’arme in più d’un luoco fora.
93
Quando si vide in tante parti rosse
il Pagan l’arme, e non poter schivare
che la più parte di quelle percosse
non gli andasse la carne a ritrovare;
a maggior rabbia, a più furor si mosse,
ch’a mezo il verno il tempestoso mare:
via getta il scudo, e a tutto suo potere
su l’elmo di Ruggier a due man fere.
94
Con quella forza che su i grossi travi
ch’en fondo al Po si cacciano, percuote
la machina che posta in su due navi
mover veggiàn con uomo e con ruote;
con ambedue le man valide e gravi
ferì il Pagan Ruggier quanto più puòte:
giovò l’elmo incantato; che senza esso
lui col cavallo havria in un colpo fesso.
95
Ruggier andò due volte a testa china,
e per cader, e braccia e gambe aperse.
Di nuovo il colpo il Saracin declina,
che non vuol c’habbia tempo a rïhaverse:
poi vien col terzo; ma la spada fina
sì lungo martellar più non sofferse;
che volò in pezzi, et al crudel Pagano
disarmata lasciò di sé la mano.
96
Rodomonte per questo non s’arresta,
ma s’aventa a Ruggier che nulla sente;
in tal modo intornata havea la testa,
in tal modo offuscata havea la mente.
Ma ben dal sonno il Saracin lo desta:
nel collo il prende il Saracin possente;
lo prende in guisa, e con tal nodo afferra,
che de l’arcion lo svelle, e caccia in terra.
97
Non fu sì presto in terra che risorse,
via più che d’ira, di vergogna pieno;
perhò ch’a Bradamante li occhi torse,
e turbar vide il bel viso sereno.
Ella al cader di lui rimase in forse
de la sua vita, e fu per venir meno.
Ruggier, per emendar presto quell’onta,
stringe la spada, e col Pagan s’affronta.
98
Quel gli urta il caval contra, ma Ruggiero
lo cansa accortamente, e se ritira,
e nel passar, al fren piglia il destriero
con la man manca, e intorno lo raggira;
e con la destra intanto al cavalliero
ferire il fianco o il ventre o il petto mira;
e di due punte fe’ sentirgli angoscia,
l’una nel fianco, e l’altra ne la coscia.
99
Rodomonte, che in mano anchor tenea
il pome e l’elsa de la spada rotta,
Ruggier su l’elmo in guisa percotea
che lo potea stordir a l’altra botta.
Ma Ruggier, ch’a ragion vincer devea,
gli prese il braccio, e tirò tanto allhotta,
aggiungendo alla destra l’altra mano,
che fuor di sella al fin trasse il Pagano.
100
Sua sorte o sua destrezza vuol che cada
in guisa ch’a Ruggier rimanga al paro:
vuo’ dir che cadde in piè; che per la spada
Ruggier haverne il meglio giudicaro.
Ruggier cerca il Pagan tenere a bada
lungi da sé, né d’accostarsi ha caro:
per lui non fa lasciar venirse adosso
un corpo così grande e così grosso.
101
E tuttavolta sanguinargli il fianco
vede e la coscia, e l’altre sue ferite:
spera che venga a poco a poco manco,
sì che al fin gli habba a dar vinta la lite.
L’elsa e il pome havea in mano il Pagan ancho,
e con tutte le forze insieme unite
da sé scagliollo, e sì Ruggier percosse,
che stordito ne fu più che mai fosse.
102
Ne la guancia de l’elmo e ne la spalla
fu Ruggier colto, e sì quel colpo sente,
che tutto ne vacilla e ne traballa,
e ritto se sostien difficilmente.
El Pagan vuol intrar, ma il piè gli falla,
che per la coscia offesa era impotente:
e il volersi affrettar più del potere,
con un genocchio in terra il fe’ cadere.
103
Ruggier non perde il tempo, e di grande urto
lo percuote nel petto e ne la faccia;
e sopra gli martella, e sì tien curto,
che con la mano in terra ancho lo caccia.
Ma tanto fa il Pagan, che gli è risurto;
si stringe con Ruggier, sì che l’abbraccia:
l’uno e l’altro s’aggira e scuote e preme,
arte aggiungendo alle lor forze estreme.
104
Di forza a Rodomonte una gran parte
la coscia e il fianco aperto haveano tolto.
Ruggier havea destrezza, havea grande arte,
era alla lotta exercitato molto;
vede il vantaggio suo, né se ne parte:
mette più da quel lato ove più sciolto
di Rodomonte il sangue correr vede
le braccia, il petto, e l’uno e l’altro piede.
105
Rodomonte pien d’ira e di dispetto
Ruggier nel collo e ne le spalle prende:
hor lo tira, hor lo spinge, hor sopra il petto
sullevato da terra lo suspende,
quinci e quindi lo ruota e lo tien stretto,
e per farlo cader molto contende.
Ruggier sta in sé raccolto, e mette in opra
senno e valor per rimaner di sopra.
106
Tanto le prese andò mutando il franco
e buon Ruggier, che Rodomonte cinse:
calcògli il petto sul sinistro fianco,
e con tutta sua forza a mezo il strinse.
La gamba destra a un tempo inanzi al manco
ginocchio e l’altro attraversolli e spinse;
e da la terra in alto sulevollo,
e con la testa in giù steso tornollo.
107
Del capo e de le schiene Rodomonte
la terra impresse; e tal fu la percossa,
che da le piaghe sue, come da fonte,
lungi andò il sangue a far la terra rossa.
Ruggier, c’ha la Fortuna per la fronte,
perché levarsi il Saracin non possa,
l’una man col pugnal gli ha sopra li occhi,
l’altra alla gola, al ventre gli ha i genocchi.
108
Come talvolta, ove si cava l’oro
là tra’ Pannoni o ’n le fodine Hibere,
se improvisa ruina, su coloro
che vi condusse empia avaritia, fere,
ne restano sì oppressi, che può il loro
spirto a pena, onde uscire, adito havere:
così non men fu ’l Saracino oppresso
dal vincitor, tosto ch’in terra messo.
109
Alla vista de l’elmo gli appresenta
la punta del pugnal c’havea già tratto;
et che si renda, minacciando, tenta,
e di lasciarlo vivo gli fa patto.
Ma quel, che di morir manco paventa
che mostrar di viltade un minimo atto,
si torce e scuote, et per por lui di sotto
mette ogni suo vigor, né gli fa motto.
110
Come lupo o mastin ch’el fier alano
ne la ringiosa canna azannato habbia,
molto s’affanna e si dibbatte invano
con occhi ardenti e con spumose labbia,
e non può uscir al predator di mano,
che vince di vigor, non già di rabbia:
così falla al Pagano ogni pensiero
d’uscir di sotto al vincitor Ruggiero.
111
Pur si torce e dibbatte sì, che viene
ad expedirsi col braccio migliore;
e con la destra man ch’el pugnal tiene,
che trasse anch’egli in quel contrasto fuore,
tenta ferir Ruggier sotto le rene:
ma il giovene s’accorse de l’errore
in che potea cader, per differire
di far quel empio Saracin morire.
112
E due e tre volte in la terribil fronte
(alzando quanto alzar più puote il braccio)
il ferro del pugnale a Rodomonte
tutto nascose, e si levò d’impaccio.
Alle squalide ripe d’Acheronte,
lasciando il corpo più freddo che giaccio,
biastemmiando fuggì l’alma sdegnosa,
che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.