CANTO TRIGESIMOPRIMO
1
Oh famelice, inique e fiere Harpie
ch’alla acciecata Italia e d’error piena,
per punir forse antique colpe rie,
in ogni mensa alto giudicio mena!
Innocenti fanciulli e madri pie
cascan di fame, e veggion ch’una cena
di questi monstri rei tutto divora
ciò che del viver lor sostegno fôra.
2
Troppo fallò chi le spelonche aperse
che già molti anni erano state chiuse;
onde il fetore e l’ingordigia emerse,
che ad amorbar Italia si diffuse.
La Pace allhora e il buon viver si perse;
e la Quïete in tal modo se excluse,
ch’in guerre, in povertà, sempre in affanni
è dopo stata, et è per star molti anni:
3
fin ch’ella un giorno a i neghitosi figli
scuota la chioma, e cacci fuor di Lethe,
gridando lor: – Non fia chi rassimigli
alla virtù di Calai e di Zete?
che le mense dal puzzo e da li artigli
liberi, e torni a lor monditia liete,
come essi già quelle di Phineo, e dopo
fe’ il Paladin quelle del Re Ethïòpo? –
4
El Paladin col suono horribil venne
le brutte Harpie cacciando in fuga e in rotta,
tanto ch’a piè d’un monte se ritenne,
dove esse erano intrate in una grotta.
L’orecchie attente a quel spiraglio tenne,
e l’aria ne sentì percossa e rotta
di pianto e strida e di lamento eterno:
segno evidente quivi esser l’inferno.
5
Astolfo si pensò d’intrarvi dentro
e veder quei c’hanno perduto il giorno,
e penetrar la terra sino al centro
e le bolgie infernal cercare intorno.
– Di che debbo temer (dicea) s’io v’entro,
che mi posso aiutar sempre col corno?
Farò fuggir Plutone e Sathanasso,
e il Can trifauce leverò dal passo. –
6
De l’alato destrier presto discese,
e lo lasciò legato a un arbuscello;
poi si calò ne l’antro; e prima prese
il corno, havendo ogni sua speme in quello.
Non andò molto inanzi, che gli offese
el naso e li occhi un fumo oscuro e fello,
via più noioso che di pece o solpho:
non sta per questo andare inanzi Astolfo.
7
Ma quanto va più inanzi, più s’ingrossa
il fumo e la caligine, e gli pare
ch’andare hoggimai più troppo non possa;
che serà forza a dietro ritornare.
Ecco, non sa che sia, vede far mossa
da la volta di sopra, come fare
il cadavero impeso al vento suole,
che molti dì sia stato al’acqua e al sole.
8
Sì poco e quasi nulla era di luce
in quella affumicata e nera strada,
che non comprende e non discerne il Duce
che questo sia che sì per l’aria vada;
e per notitia haverne, si conduce
a darli uno o dui colpi de la spada.
Estima poi che un spirto esser quel debbia;
che gli par di ferir sopra la nebbia.
9
Allhor sentì parlar con voce mesta:
– Deh, senza fare altrui danno, giù cala!
Pur troppo il negro fumo mi molesta,
che dal fuoco infernal qui tutto exhala. –
Il Duca stupefatto allhor se arresta,
e dice all’ombra: – Se Dio tronchi ogni ala
al fumo, sì ch’a te più non ascenda,
non te dispiaccia ch’el tuo stato intenda.
10
E se vuoi che di te porti novella
nel mondo su, per satisfarti sono. –
Rispose il spirto: – In la luce alma e bella
tornar per fama anchor sì mi par buono,
che le parole è forza che mi svella
il gran disir c’ho d’haver poi tal dono,
e ch’el mio nome e l’esser mio ti dica,
ben che mi sia il parlar noia e fatica. –
11
E cominciò: – Signor, Lydia sono io,
del Re di Lydia in grande altezza nata,
qui dal giudicio altissimo di Dio
al fumo eternamente condennata,
per esser stata al fido amante mio,
mentre io vissi, spiacevole et ingrata.
D’altre infinite è questa grotta piena,
poste per simil fallo in simil pena.
12
Sta la cruda Anaxarete più al basso,
dove è maggior il fumo e più martìre:
restò converso al mondo il corpo in sasso
e l’anima qua giù venne a patire,
poi che per lei veder l’afflitto e lasso
suo amante impeso puòte sofferire.
Qui presso è Daphne, c’hor s’avede quanto
errasse a fare Apollo correr tanto.
13
Lungo serìa se l’infelici spirti
de le femine ingrate che qui stanno
volesse ad uno ad uno riferirti;
che tanti son, che in infinito vanno.
Più lungo anchor serìa li huomini dirti
a cui l’essere ingrato ha fatto danno,
e che puniti sono in peggior luoco,
dove il fumo li accieca, e cuoce il fuoco.
14
Perché più al creder son facil le donne,
ch’inganna lor, di più supplicio è degno;
Theseo col figlio il sa, sallo Iasonne
col grande occupator del Latin regno,
e quel che contra sé il frate Assalonne
per Tamar trasse a sanguinoso sdegno,
et altri et altre; che sono infiniti
che lasciato han chi moglie e chi mariti.
15
Ma per narrar di me, più che d’altrui,
e palesar l’error che qui mi trasse,
bella, ma altiera più, sì in vita fui,
che non so s’altra mai mi s’uguagliasse;
né ti saprei ben dir qual de li dui,
l’orgoglio o la beltade, in me avanzasse,
quantunque il fasto e l’alterezza nacque
da la beltà ch’a tutti li occhi piacque.
16
Era in quel tempo in Thracia un cavalliero
estimato il miglior del mondo in arme,
il qual da più d’un testimonio vero
di singular beltà sentì lodarme;
tal che spontaneamente fe’ pensiero
di volere il suo amor tutto donarme,
stimando meritar per suo valore
che caro haver di lui devessi il core.
17
In Lydia venne; e d’un laccio più forte
vinto restò, poi che veduta m’hebbe.
Con li altri cavallier se messe in corte
del padre mio, dove in gran fama crebbe:
l’alto valor, e le più d’una sorte
prodezze che mostrò, lungo serebbe
a raccontarti, e il suo merto infinito,
quando egli havesse a più grato huom servito.
18
Pamphylia e Caria e il regno de’ Cilici
per opra di costui mio padre vinse;
che l’exercito suo contra i nemici,
se non quanto costui volea, mai spinse.
Costui, poi che gli parve i benefici
suoi meritarlo, un dì col Re si strinse
a dimandarli, in premio de le spoglie
tante arrecate, ch’io fussi sua moglie.
19
Fu repulso dal Re, ch’in un gran stato
maritar disegnava la figliuola,
non a costui, che cavallier privato
altro non tien che la virtude sola:
el padre mio, troppo al guadagno dato
e all’avaritia, d’ogni vitio schola,
tanto apprezza costumi, o virtù ammira,
quanto l’asino fa il suon de la lira.
20
Alceste, il cavallier di ch’io ti parlo
(che così nome havea), poi che si vede
repulso da chi più gratificarlo
era più debitor, combiato chiede;
e lo minaccia, nel partir, di farlo
pentir che la figliuola non gli diede.
Se n’andò al Re d’Armenia, emulo antico
del Re di Lydia e capital nemico;
21
e tanto stimulò, che lo dispose
a pigliar l’arme e far guerra a mio padre.
Esso per l’opre sue chiare e famose
fu fatto capitan di quelle squadre.
Pel Re d’Armenia tutte l’altre cose
disse che acquisteria: sol le liggiadre
e belle membra mie volea per frutto
de l’opra sua, vinto che havesse il tutto.
22
Io non ti potria exprimere il gran danno
che Alceste al padre mio fa in quella guerra:
quattro exerciti roppe, e in men d’un anno
lo mena a tal, che non gli lascia terra
fuor ch’un castel ch’alte pendici fanno
fortissimo; e là dentro il Re si serra
con la famiglia che più gli era accetta,
e col thesor che trar vi puote in fretta.
23
Quivi assedionne Alceste; et in non molto
termine a tal desperation ne trasse,
che per buon patto havria mio padre tolto
che moglie, e serva anchor, me gli lasciasse
con la metà del regno, s’indi assolto
restar d’ogni altro danno si sperasse:
vedersi in breve de l’avanzo privo
era ben certo, e poi morir captivo.
24
Tentar, prima che accada, se dispone
ogni rimedio che possibil sia;
e me, che d’ogni male ero cagione,
fuor de la ròcca, ove era Alceste invia.
Io vo ad Alceste con intentïone
di dargli in preda la persona mia,
e pregar che la parte che vuol tolga
del Regno nostro, e l’ira in pace volga.
25
Come ode Alceste ch’io vo a ritrovarlo,
mi venne incontra pallido e tremante:
di vinto e di prigione, a riguardarlo,
più che di vincitore, havea sembiante.
Io che connosco ch’arde, non gli parlo
sì come havea già designato inante:
vista l’occasïon, fo pensier nuovo
convenïente al grado in ch’io lo truovo.
26
A maledir comincio l’amor d’esso
e di sua crudeltà troppo a dolermi,
ch’iniquamente habbia mio padre oppresso
e che per forza habbia cercato havermi;
che con più gratia gli serìa successo
indi a non molti dì, se tener fermi
saputo havesse i modi cominciati,
ch’al Re et a tutti noi sì furon grati.
27
E se ben da principio il padre mio
gli havea negata la dimanda honesta
(perhò che di natura è un poco rio,
né mai si piega alla prima richiesta),
farsi per ciò di ben servir restio
non deveva egli, e haver l’ira sì presta;
anzi, ognhor meglio oprando, tener certo
venire in breve al dimandato merto.
28
E quando anchora il padre mio ritroso
stato gli fosse, io sì l’havrei pregato,
ch’ottenuto il mio amante havrei per sposo.
Pur, se veduto io l’havessi ostinato,
havrei così operato di nascoso
che di me Alceste si saria lodato.
Ma poi che a lui tentar parve altro modo,
io di mai non l’amar fisso havea il chiodo.
29
E se ben ero a lui venuta, mossa
da la pietà ch’al mio padre portava,
sia certo che non molto fruir possa
il piacer che al dispetto mio gli dava;
ch’ero per far di me la terra rossa,
tosto ch’io havessi alla sua voglia prava
con questa mia persona satisfatto
di quel che tutto a forza serìa fatto.
30
Queste parole e simili altre usai,
poi ch’el poter c’havea sopra esso intesi;
e il più pentito e più gramo huom che mai
vivesse al mondo subito lo resi.
Mi cadde a’ piedi, e supplicommi assai
che i portamenti suoi poco cortesi
vendicassi uccidendolo; e in man diemmi
la spada, e offerta del suo petto femmi.
31
Io designai, poi che così trovallo,
la gran vittoria sino al fin seguire:
ch’anchor m’havria per moglie confortallo
e lungamente me potria fruire,
se facesse, in emenda del suo fallo,
el regno al padre mio restituire,
per l’avenir cercando d’acquistarme
servendo e amando, e non mai più per arme.
32
Così far mi promesse, e ne la ròcca
intatta mi mandò come a lui venni,
né di baciarmi pur s’ardì la bocca:
vedi s’al collo il giogo ben gli tenni;
vedi se ben Amor per me lo tocca,
se convien che per lui più strali impenni.
Al Re d’Armenia andò, di cui devea
esser per patto ciò che si prendea:
33
e con quel miglior modo ch’usar puòte,
lo supplicò che sue terre lasciasse
al padre mio, già depredate e vuote,
et a godersi Armenia si tornasse.
Quel Re d’ira infiammò li occhi e le guote,
e disse al Cavallier che si levasse
di tal pensier; che non torria la guerra
fin che mio padre havea spanna di terra;
34
e s’Alceste mutato alle parole
d’una femina s’era, habbiasi il danno:
già a’ prieghi esso di lui perder non vuole
quel ch’a fatica ha preso in tutto un anno.
Di nuovo Alceste il priega, e poi si duole
che sieco effetto i prieghi suoi non fanno:
all’ultimo s’adira, e lo minaccia
che vuol, per forza o per amor, lo faccia.
35
L’ira multiplicò sì, che li spinse
da le male parole a’ peggior fatti.
Alceste contra il Re la spada strinse,
e fra mille guerrier che s’eran tratti
per aiutar (mal grado lor) l’extinse;
e quel dì anchor li Armeni hebbe disfatti,
havendo aiuto da Cilici e Thraci
che pagava esso, e d’altri suoi seguaci.
36
Seguitò la vittoria, e in men d’un mese,
senza dispendio alcun del padre mio,
ciò che tolto gli havea non pur gli rese,
ma più che non gli fu dannoso e rio,
essergli vòlse utile e buono, e prese
in parte, e gravò in parte a grave fio
Armenia e Capadocia che confina,
e scórse Hyrcania fin su la marina.
37
In luoco di triompho, al suo ritorno,
facemmo noi pensier dargli la morte.
Restammo poi, per non ricever scorno;
che lo veggiàn troppo d’amici forte.
Fingo d’amarlo, e più di giorno in giorno
gli do speranza d’essergli consorte;
ma prima contra altri nemici nostri
dico voler che sua virtù dimostri.
38
E quando sol, quando con poca gente
lo mando a strane imprese e perigliose,
da farne morir mille agevolmente:
ma lui successer ben tutte le cose;
che tornò con vittoria, e fu sovente
con horribil persone e monstrüose
di Giganti a battaglia e Lestrigóni,
ch’erano infesti a nostre regïoni.
39
Non fu da Eurìsteo e da Iunon mai tanto
exercitato il travaglioso Alcide
in Lerna, in Nemea, in Thracia, in Erimanto,
e in le valli d’Etholia e in le Numìde,
sul Tevre, su l’Hybero e altrove, quanto
con prieghi finti e con voglie homicide
exercitato fu da me il mio amante,
cercando io pur di tôrlomi dinante.
40
Né potendo venire al primo intento,
vengone ad un di non minore effetto;
ch’io lo fo ingiurïar quelli ch’io sento
che per lui sono, e a tutti in odio il metto.
Egli, che non sentia maggior contento
che d’ubedirmi, senza alcun rispetto
havea le mani alli miei cenni pronte,
senza guardare un più d’un altro in fronte.
41
Poi che mi fu, per questo mezo, aviso
spento haver del mio padre ogni nemico,
e per lui stesso Alceste haver conquiso,
che non s’havea, per noi, lasciato amico;
quel ch’io gli havea con simulato viso
celato sino allhor, chiaro gli explìco:
che grave e capitale odio gli porto,
e in pensier fui d’oprar che fusse morto.
42
Considerando poi, s’io lo facessi,
che in publica ignominia ne verrei
(sapeasi troppo quanto io gli devessi,
e crudel detta sempre ne sarei),
mi parve fare assai ch’io gli togliessi
di mai venir più nanzi a gli occhi miei:
né veder né parlar mai più gli vòlsi,
né messo udi’, né lettera ne tolsi.
43
Questa mia ingratitudine gli diede
tanto martìr, ch’al fin dal dolor vinto,
e dopo un lungo dimandar mercede,
infermo cadde, e ne rimase extinto.
Per pena ch’al fallir mio si richiede,
hor li occhi ho lachrymosi, e il viso tinto
del negro fumo: e così havrò in eterno;
che nulla redentione è ne l’inferno. –
44
Poi che non parla più Lydia infelice,
va il Duca per saper s’altri vi stanzi:
ma la caligine alta, ch’era ultrice
de l’opre ingrate, sì gl’ingrossa inanzi,
che gir un palmo sol più non gli lice;
anzi a forza tornar gli conviene, anzi,
perché dal fumo non gli sia intercetta
la vita, i passi acelerar con fretta.
45
Il mutar spesso de le piante ha vista
di corso, e non di chi passeggia o trotta.
Tanto, salendo inverso l’erta, acquista,
che vede dove aperta era la grotta,
e l’aria, già caliginosa e trista,
dal lume cominciava ad esser rotta.
Al fin con molto affanno e grave ambascia
esce de l’antro, e dietro el fumo lascia.
46
E perché del tornar la via sia tronca
a quelle bestie c’han sì ingorde l’epe,
raguna sassi, e molti arbori tronca,
che quivi in copia eran d’amomo e pepe;
e come può, dinanzi alla spelonca
fabrica di sua man quasi una siepe:
e gli succede così ben quell’opra,
che più l’Harpie non ne verran di sopra.
47
El negro fumo de la scura pece,
mentre fu Astolfo in la caverna tetra,
di brutta macchia per tutto l’infece,
che sotto i panni e l’arme gli penètra;
sì che per ritrovar acqua gli fece
errare un pezzo; e al fin fuor d’una pietra
vide una fonte uscir ne la foresta,
e in quella si lavò dal piè alla testa.
48
Poi monta il volatore, e in aria s’alza
per giunger di quel monte in su la cima,
che non lontan con la superna balza
dal cerchio de la Luna esser si stima.
Tanto è il desir che del veder l’incalza,
ch’al cielo aspira, e la terra non stima:
de l’aria più, e più sempre, guadagna,
tanto ch’al giogo fu de la montagna.
49
Zaphir, robini, oro, topati e perle,
e diamanti e chrysoliti e hiacynthi
potriano i fiori assimigliar, che per le
liete piaggie v’havea l’aura depinti:
sì verdi l’herbe, che possendo haverle
a par, ne fôran li smeraldi vinti;
né men belle de li arbori le frondi,
che son di frutti e fior sempre fecondi.
50
Cantan fra i rami li augelletti vaghi
azurri e bianchi e verdi e rossi e gialli.
Murmuranti ruscelli e cheti laghi
di limpidezza vincono i crystalli.
Una dolce aura, che ti par che vaghi
a un modo sempre e dal suo stil non falli,
sì facea l’aria tremolar d’intorno
che non potea noiar calor del giorno:
51
e quella a i fiori, a i pomi e alla verdura
li odor diversi depredando giva,
e di tutti faceva una mistura
che di suavità l’alma notriva.
Surgea nel mezo la bella pianura
uno edificio, che di fiamma viva
esser parea: tanto splendore e lume
raggiava intorno, fuor d’ogni costume.
52
Verso il splendor del mirabil palagio,
che più di trenta miglia il spatio aggira,
Astolfo il suo caval move più ad agio,
e quinci e quindi il bel paese ammira;
e giudica, apo quel, brutto e malvagio,
e che sia al cielo et a natura in ira
questo che habitiàn noi fetido mondo:
tanto è suave quel, chiaro e giocondo.
53
Come fu presso a i luminosi tetti,
attonito restò di maraviglia;
che d’una gemma erano i muri schietti,
più ch’el piropo lucida e vermiglia.
O stupenda opra, o dedali architetti!
Qual fabrica tra noi le rassimiglia?
Taccia qualunque le mirabil sette
moli del mondo in tanta gloria mette.
54
Nel splendido vestibulo di quella
felice casa un vecchio al Duca occorre,
che di purpura ha il manto, e la gonnella
candida sì, che si può al latte opporre.
I crini ha bianchi, e bianca la mascella
di folta barba ch’al petto discorre;
et è sì venerabile nel viso,
ch’un de li eletti par del paradiso.
55
Costui con lieta faccia al Paladino,
che riverente era d’arcion disceso,
disse: – O baron, che per voler divino
sei nel terrestre paradiso asceso;
come che né la causa del camino,
né il fin del tuo desir da te sia inteso,
pur credi che non senza alto mystero
venuto sei da l’Artico hemispero.
56
Per imparar come soccorrer déi
Carlo, e la santa fé tôr di periglio,
venuto meco a consigliar ti sei
per così lunga via, senza consiglio.
Né a tuo saper, né a tua virtù vorrei
che esser qui giunto attribuissi, o figlio;
che né il tuo corno, né il cavallo alato
ti valea, se da Dio non t’era dato.
57
Ragionarem più ad agio insieme poi
di questa impresa, e come a regger t’hai:
ma prima vienti a reficiar con noi;
ch’el digiun lungo de’ noiarti hormai. –
Continuando il Vecchio i detti suoi,
fece maravigliar il Duca assai;
che del suo nome levò tutto il velo,
come era il gran scrittor del Evangelo,
58
quel tanto al Redentor caro Giovanni,
per cui ’l sermon tra li fratelli uscìo
che per morte finir non devea li anni;
sì che fu causa ch’el figliuol di Dio
disse: – Ché per costui, Pietro, t’affanni,
s’io vuo’ che così aspetti el venir mio? –
Ben che non disse: egli non de’ morire,
si vede pur che così vòlse dire.
59
Quivi fu assunto, e trovò compagnia,
che prima Enòch, il patrïarcha, v’era;
eravi insieme il gran propheta Helya,
che non han visto anchor l’ultima sera;
e fuor de l’aria pestilente e ria
si goderan l’eterna primavera,
sin che dian segno l’angeliche tube
che torni Christo in la celeste nube.
60
Fêro grata accoglienza al Cavalliero
li humanissimi santi, e in una stanza
gli trasser l’armi, e d’esca al suo destriero
feron provisïon, che fu a bastanza.
De frutta a lui del paradiso diero
di tal sapor, che a suo giudicio, sanza
scusa non sono li primi parenti
se fur per quelle poco ubidïenti.
61
Poi ch’a natura il Duca aventuroso
satisfece di quel che se le debbe,
come col cibo, così col riposo,
che tutti e tutti i commodi quivi hebbe;
lasciando già l’Aurora il Vecchio sposo,
ch’anchor per lunga età mai non le increbbe,
si vide incontra nel uscir del letto
il discipul da Dio tanto diletto;
62
che lo prese per mano, e seco scórse
di molte cose di silentio degne;
e poi disse: – Figliuol, tu non sai forse
ch’in Francia accada, anchor che tu ne vegne.
Sappi che ’l vostro Orlando, perché torse
dal camin dritto le commisse insegne,
è punito da Dio, che più s’accende
contra chi egli ama più, quando s’offende.
63
Il vostro Orlando, a cui nascendo diede
summa possanza Dio con summo ardire
et fuor del human uso gli concede
che ferro alcun non lo può mai ferire;
perché a difesa di sua santa fede
così voluto l’ha constituire,
come Sanson incontra a’ Philistei
constituì a difesa de li Hebrei:
64
il vostro Orlando al suo signore ha reso
de tanti benefici iniquo merto,
che quanto più deveva esser difeso
il popul suo da lui, più l’ha deserto;
e tanto s’è d’una Pagana acceso,
che per amor di quella ha già sofferto
due volte e più venir empio e crudele
per dar la morte al suo cugin fedele.
65
E Dio per questo fa che egli va folle,
e mostra nudo il ventre e il petto e il fianco,
et l’intelletto sì gli offusca e tolle,
che non può altrui connoscere, e sé manco.
A questa guisa se legge che volle
Nabuccodonosor Dio punir ancho,
che sette anni il mandò di furor pieno,
sì che, qual bue, pasceva l’herba e il fieno.
66
Ma perché assai minor del Paladino,
che di Nabucco, è stato pur l’excesso,
sol di tre mesi dal voler divino
a purgar questo error termine è messo.
Né ad altro effetto per tanto camino
salir qua su t’ha il Redentor concesso,
se non perché da noi modo tu apprenda
come ad Orlando il suo senno si renda.
67
È ver che ti bisogna altro vïaggio
far meco, e tutta abbandonar la terra.
Nel cerchio de la Luna a menar t’haggio,
che de i pianeti a noi più prossima erra,
perché la medicina che può saggio
rendere Orlando, là dentro si serra.
Come la Luna questa notte sia
sopra noi giunta, si porremo in via. –
68
Di questo e d’altre cose fu diffuso
il parlar de l’Apostolo quel giorno.
Ma poi ch’el Sol nel mar si fu rinchiuso
e sopra lor levò la Luna el corno,
un carro apparecchiòsi, che era ad uso
di quei santi, e scorrean con quello intorno
tutti li cieli; e quel già in la Giudea
da’ mortali occhi Helya levato havea.
69
Quattro destrier vie più che fiamma rossi
al giogo il santo Evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e presto in mezo il fuoco eterno giunse;
ch’el Vecchio fe’ miracolosamente
che, intanto che passò, non gli fu ardente.
70
Vargaron tutta la spera del fuoco,
poi furon presto al regno de la Luna.
Per la più parte tutto era quel luoco
come uno acciar che non ha macchia alcuna;
parea di vetro in altra parte; e poco
era minor di ciò che se raguna
dentro da l’aria, e insieme con la terra
vi metto il mar che la circonda e serra.
71
Quivi hebbe Astolfo doppia maraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
che al spatio di tre palmi rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e che aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e il mar che intorno spande
discerner vuol; che non havendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.
72
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi e li castelli suoi,
con case che non vide le più magne
il Paladin né prima né da poi:
e vi sono ampie e solitarie selve
dove le nymphe ognhor cacciano belve.
73
Né stette il Duca a ricercare il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Dal Apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne astretto,
dove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di Tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
74
Né di ricchezze o regni sol vi parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tôrre e darlo
non ha Fortuna, intender voglio anchora.
Molta Fama è là su, che come Tarlo
el Tempo al lungo andar qua giù divora;
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da li peccatori a Dio si fanno.
75
Li suspiri e le lachryme de amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco
e l’otio lungo d’huomini ignoranti,
vani disegni che non han mai luoco,
li vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombrano quel luoco:
in summa, ciò che mai qua giù si perse
si truova là, ma in forme altre e diverse.
76
Passando il Paladin per quelle biche,
hor di questo hor di quel chiede a la guida.
Vede un monte di tumide vesiche,
che dentro suona di tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
d’Assyri e Medi, e de la terra Lyda
e de’ Persi e de’ Greci, che già furo
inclyti al mondo, hor quasi il nome è oscuro.
77
Hami d’oro e d’argento appresso vede
in una massa, che erano li doni
che si fan con speranza di mercede
alli Re, alli signori e alli patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
et ode che son tutte adulationi.
Di cicale scoppiate imagini hanno
versi ch’in laude altrui spesso si fanno.
78
Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori.
V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
le authorità ch’a’ suoi dànno i signori.
Li mantici ch’intorno han pieni i greppi,
d’alcun principe son fumi e favori
che dà a’ creati e Ganymedi suoi,
che se ne van col fior de li anni poi.
79
Ruine de cittadi e de castella
stavan con gran thesor quivi sossopra:
dimanda, e sa che son trattati, e quella
congiuration che par che mal si copra.
Vide serpi con faccia di donzella,
che di latroni e monetieri era opra;
poi vide boccie rotte di più sorti,
ch’era il servir de le misere corti.
80
Di versate minestre una gran massa
vede, e dimanda al suo Dottor ch’importe.
– L’elimosyna è (disse) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. –
Ad un monte di rose e gigli passa,
c’hebbe già buono odore, hor putia forte,
ch’era corrotto; e da Giovanni intese
che fu un gran don ch’un gran signor mal spese.
81
Vide gran copia di panie con visco,
che erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo serà se tutte in versi ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille i’ non finisco,
e vi son tutte l’accidentie nostre:
sol la Pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.
82
Quivi assai giorni et assai fatti sui
Astolfo riconnobbe, che già perse;
che se non era interprete con lui,
non li scernea, c’havean forme diverse.
Poi giunse a quel che par sì haverlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non fêrse:
io dico il senno, e n’era quivi un monte,
solo assai più che l’altre cose conte.
83
Era come un liquor suttile e molle,
atto exhalar se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più qual men capaci, atte a quel uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre connosciuta, quando
di fuora scritto havea: Senno d’Orlando.
84
E così tutte l’altre havean scritto ancho
il nome di color di chi fu el senno.
Del suo gran parte vide il Duca franco;
ma molto più maravigliare il fenno
molti, ch’egli credea che dramma manco
non devessero haverne, e quivi dénno
chiara notitia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel luoco.
85
Altri in amar lo perse, altri in honori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri drieto alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
et altri in altro che più d’altro prezze.
De sophisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti anchor, ve n’era molto.
86
Astolfo tolse il suo; che gli ’l concesse
il scrittor de l’oscura Apocalysse.
L’ampolla in che era al naso sol si messe:
e par che quello al luoco suo ne gisse,
e che Turpin da indi in qua confesse
che Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma che uno error che fece poi fu quello
che un’altra volta gli levò il cervello.
87
La più capace e piena ampolla, ove era
il senno che solea far savio il Conte,
Astolfo tolle; e non è sì liggiera,
come stimò, sendo con l’altre a monte.
Prima ch’el Paladin da quella spera
piena di luce alle più basse smonte,
menato fu da l’Apostolo santo
in un palagio ove era un fiume a canto;
88
ch’ogni sua stanza havea piena di velli
di cottone, di lin, di seta e lana,
tratti in varii colori e brutti e belli.
Nel primo chiostro una femina cana
fila a un tempo trahea da tutti quelli
ch’erano quivi ad una naspe istrana,
come la seta da l’humide spoglie
de’ bachi suttilmente si raccoglie.
89
E come i velli si venian finendo,
v’era chi ’n copia ne portava altronde:
un’altra de le filze iva scernendo
il bel dal brutto, che quella confonde.
– Che lavor si fa qui, ch’io non l’intendo? –
dice a Giovanni Astolfo; e quel risponde:
– Le vecchie son le Parche, che con tali
stami filano vite a voi mortali.
90
Quanto dura un de’ velli, tanto dura
l’humana vita, e non di più momento.
Qui tien l’occhio e la Morte e la Natura
per saper l’hora ch’un debbia esser spento.
Sceglier le belle fila ha l’altra cura,
perché si tesson poi per ornamento
del paradiso; e de li brutti stami
si fan per li dannati aspri legami. –
91
Di tutti i velli ch’erano già messi
in naspa, e scelti a farne altro lavoro,
in brevi piastre haveano i nomi impressi,
di rame e ferro e stagno e argento e d’oro;
e poi fatti ne son cumuli spessi,
de’ quali, senza mai far lor ristoro,
portarne via non si vedea mai stanco
un vecchio, e ritornar sempre per ancho.
92
Era quel vecchio sì expedito e snello,
che per correr parea che fusse nato;
e da quel monte il lembo del mantello
portava pien del nome altrui segnato.
Dove n’andava, e perché facea quello,
ne l’altro canto vi serà narrato,
se d’haverne piacer segno farete
con quella grata udienza che solete.