CANTO VIGESIMOPRIMO
1
Studisi ognun giovar altrui, che rade
volte esser suol che senza premio sia;
e se pur senza, almen non te ne accade
morte né danno né ignominia ria.
Chi nuoce altrui sia certo, o verno o stade,
ch’a qualche tempo vendetta ne fia:
dice il proverbio ch’a trovar si vanno
li huomini spesso, e i monti immobil stanno.
2
Hor vedi quel che a Pinabello aviene
per essersi portato iniquamente:
è giunto finalmente a dar le pene
de la sua trista e scelerata mente.
E Dio, che le più volte non sostiene
veder perire a torto uno innocente,
salvò la Donna; e salverà ciascuno
che d’ogni fellonia viva digiuno.
3
Credette Pinabel questa Donzella
già d’haver morta, e colà giù sepulta;
né la pensava mai veder, non ch’ella
gli havesse a tôr de’ danni suoi la multa.
Né per trovarsi in mezo le castella
del padre, in alcun utile resulta:
quivi Altaripa era tra monti fieri
vicina al territorio di Pontieri.
4
Tenea quella Altaripa il vecchio conte
Anselmo, di ch’uscì questo malvagio
che, per fuggir la man di Chiaramonte,
d’amici e di soccorso hebbe disagio.
La Donna al traditore a piè d’un monte
tolse l’indegna vita a suo grande agio;
che d’altro aiuto quel non si provede
che d’alti gridi e invan chieder mercede.
5
Morto ch’ella hebbe il falso cavalliero
che lei voluto havea già porre a morte,
vòlse tornar dove lasciò Ruggiero;
ma non lo consentì sua dura sorte,
che la fe’ travïar per un sentiero
che la portò dove più denso e forte
era, e più strano e solitario el bosco,
lasciando il Sol già il mondo all’aer fosco.
6
Né sapendo ella ove potersi altrove
la notte riparar, si fermò quivi
sotto le frasche in su l’herbette nuove,
parte dormendo, sin ch’el giorno arrivi,
parte mirando hora Saturno hor Giove,
Venere e Marte e li altri erranti divi;
ma sempre, o vegghia o dorma, con la mente
contemplando Ruggier come presente.
7
Spesso di cor profondo ella suspira,
di pentimento e di dolor compunta,
c’habbia in lei, più che amor, possuto l’ira.
– L’ira – dicea – m’ha dal mio amor disgiunta:
almen ci havessi io posta alcuna mira,
poi che havea pur la mala impresa assunta,
di saper ritornar donde veniva;
che ben fui d’occhi e di memoria priva. –
8
Queste et altre parole ella non tacque,
e molto più ne ragionò col core;
il vento intanto di suspiri, e l’acque
di pianto facean pioggia di dolore.
Dopo una lunga aspettation, pur nacque
in orïente il disïato albóre:
et ella prese il suo destrier ch’intorno
iva pascendo, et andò contra il giorno.
9
Né molto andò, che si trovò all’uscita
del bosco, appresso u’ dianzi era il palagio,
là dove molti dì l’havea schernita
con tanto error l’incantator malvagio.
Ritrovò quivi Astolfo, che fornita
la briglia all’Hippogrypho havea a grande agio
e stava in gran pensier di Rabicano,
per non sapere a chi lasciarlo in mano.
10
A caso si trovò che fuor di testa
l’elmo allhor s’havea tratto il paladino;
sì che tosto ch’uscì de la foresta,
Bradamante connobbe el suo cugino.
Di lontan salutollo, e con gran festa
gli corse et abbracciò poi più vicino;
e nominossi, e alzando la visera
chiaramente veder gli fece chi era.
11
Non potea ritrovar meglio persona
a proposito Astolfo, a chi lasciasse
quel Rabican, perché devesse buona
custodia haverne fin che egli tornasse,
de la figlia del Duca di Dordona;
e parvegli che Dio gli la mandasse:
vederla volentier sempre solea,
ma pel bisogno hor più, che egli n’havea.
12
Da poi che due e tre volte ritornati
fraternamente ad abbracciar si fôro,
e si fôr l’uno a l’altro dimandati
con molta affettïon del esser loro,
disse Astolfo: – A cercar de li pennati
la regïone homai troppo dimoro; –
et aprendo alla donna il suo pensiero,
veder le fece il volator destriero.
13
A lei non fu di molta maraviglia
veder spiegar a quel destrier le penne,
ch’altra volta, reggendogli la briglia
Atlante incantator, contra le venne;
e le fece doler gli occhi e le ciglia,
drieto al volo di lui sì fissi tenne
quel giorno che da lei per camin strano
fu portato Ruggier tanto lontano.
14
Astolfo disse a lei che le volea
dar Rabican, che sì nel corso affretta,
che s’al scoccar del arco si movea,
si lasciava dirieto la saetta;
e tutte l’arme anchor, quante n’havea,
che vuol che a Monte Alban gli le rimetta
e gli riserbi sino al suo ritorno;
che non gli fanno hor di bisogno intorno.
15
Volendosene andar per l’aria a volo,
haveasi a far quanto potea più leve:
tiense la spada e il corno, anchor che solo
bastargli il corno ad ogni rischo deve.
Bradamante la lancia ch’el figliuolo
portò di Galafrone ancho riceve,
la lancia che di quanti ne percuote
fa le selle restar subito vuote.
16
Salito Astolfo sul destrier volante,
lo fa mover per l’aer, mansueto;
indi lo caccia sì, che Bradamante
non gli può più venir con gli occhi drieto.
Così si parte col pilota inante
di porto infido il marinar discreto,
che poi che ’l lito e i scogli a drieto lassa,
spiega ogni vela e inanzi al vento passa.
17
La donna, poi che fu partito il Duca,
rimase in gran travaglio de la mente;
che non sa come a Montalban conduca
l’armatura e il caval del suo parente;
perhò ch’el cor le cuoce e le manuca
l’ingorda voglia e il desiderio ardente
di riveder Ruggier che, se non prima,
a Valspinosa ritrovar sel stima.
18
Stando quivi suspesa, di ventura
si vide capitar nanzi un villano,
da cui fe’ rassettar quella armatura
come si puòte, e por su Rabicano;
poi di menarse drieto gli diè cura
li dui destrieri, un carco e l’altro a mano:
ella n’havea dui prima; c’havea quello
sopra cui tolse l’altro a Pinabello.
19
Di Valspinosa pensò far la strada,
che trovar quivi il suo Ruggier ha speme;
ma qual più breve o qual miglior vi vada
poco discerne, e d’ire errando teme.
El villan non havea de la contrada
pratica molta; et erraranno insieme.
Pur andare a ventura ella si messe,
dove pensò ch’el luoco esser devesse.
20
Di qua e di là si volse, né persona
incontrò mai da dimandar la via.
Si trovò uscir del bosco in su la nona
dove non lungi un monticel scopria,
di cui la cima un gran castel corona.
Lo mira, e Montalban parle che sia:
et era certo Montalbano; e in quello
havea la matre et alcun suo fratello.
21
Come la Donna connosciuto ha il luoco,
nel cor s’attrista, e più che non so dire:
che fia scoperta se si ferma un poco,
né più le serà lecito a partire;
se non si parte, l’amoroso fuoco
l’arderà sì, che la farà morire;
non vedrà più Ruggier, né farà cosa
di quel ch’era ordinato a Valspinosa.
22
Stette alquanto a pensar; poi si risciolse
di voler dare a Montalban le spalle,
e verso l’Abbadia pur se rivolse;
che quindi ben sapea qual era il calle.
La sua fortuna, o buona o trista, vòlse
che prima ch’ella uscisse de la valle
scontrasse Alardo, un de’ fratelli sui;
e non hebbe agio ascondersi da lui.
23
Veniva da partir li alloggiamenti
per quel contado a cavallieri e fanti;
ch’ad instantia di Carlo nuove genti
fatto havea de le terre circonstanti.
E’ saluti e’ fraterni abbracciamenti
con le grate accoglienze andaro inanti;
e poi, di molte cose a paro a paro
tra lor parlando, in Montalban tornaro.
24
Entrò la bella donna in Montalbano,
dove l’havea con lachrymosa guancia
Beatrice molto disïata invano,
e fattone cercar per tutta Francia.
Quivi li baci e il giunger mano a mano
di matre e de fratelli extimò ciancia
verso li havuti con Ruggier complessi,
c’havrà nel’alma eternamente impressi.
25
Non potendo ella andar, fece pensiero
ch’a Valspinosa altri in suo nome andasse
immantinente ad avisar Ruggiero
de la cagion ch’andar lei non lasciasse;
e lui pregar (s’era pregar mistero)
che quivi per suo amor si battizasse,
e poi venisse a far quanto era detto,
sì che si desse al matrimonio effetto.
26
Pel medesimo messo fe’ disegno
di mandar a Ruggiero il suo cavallo
che gli solea tanto esser caro: e degno
d’essergli caro era ben senza fallo;
che non s’havria trovato in tutto il regno
de’ Saracin, né sotto il signor Gallo,
più bel destrier di questo o più gagliardo,
excetti Brigliador, soli, e Baiardo.
27
Ruggier, quel dì che troppo audace ascese
sul Hippogrypho e verso il ciel levosse,
lasciò Frontino, e Bradamante il prese
(Frontino, ch’el destrier così nomosse);
mandollo a Montalbano, e a buone spese
tener lo fece, e mai non cavalcosse
se non per breve spatio e a piccol passo;
sì ch’era più che mai lucido e grasso.
28
Ogni sua donna presto, ogni donzella
pon seco in opra, e con suttil lavoro
fa sopra seta candida e morella
tesser riccamo di finissimo oro;
e di quel copre et orna briglia e sella
del buon destrier: poi sceglie una di loro,
figlia di Callitrephia sua nutrice,
d’ogni secreto suo fida uditrice.
29
Quanto Ruggier l’era nel core impresso
mille volte narrato havea a costei;
la beltà, la virtù, li modi d’esso
exaltato le havea sopra li dèi.
A sé chiamolla, e disse: – Miglior messo
a tal bisogno elegger non potrei
di te; che di più fido e di più saggio
veder, Hippalca mia, di te non haggio. –
30
Hippalca la donzella era nomata.
– Va’, – le dice (e l’insegna ove debbe ire);
e pienamente poi l’hebbe informata
di quanto havesse al suo signor a dire
in far la scusa se non era andata
al monastier: che non fu per mentire,
ma colpa di Fortuna, che l’havea
fatto in questo ogni ingiuria che potea.
31
Dielle il destrier, e commandò che drieto
se lo menasse vuoto; e se occorresse
alcun tra via, che sì fusse indiscreto
ch’ad una donna il caval tôr volesse;
per farlo star a una parola cheto,
chi ne fusse il patron sol gli dicesse;
che non sapea sì ardito cavalliero
che non tremasse al nome di Ruggiero.
32
Di molte cose l’ammonisce e molte,
che trattar con Ruggier habbia in sua vece;
qual poi che bene Hippalca hebbe raccolte,
si pose in via, né più dimora fece.
Per strade e campi e selve oscure e folte
cavalcò de le miglia più di diece;
che non fu a darle noia chi venisse,
né a dimandarla pur dove ne gisse.
33
Nel mezo giorno, nel calar d’un monte,
in una stretta e malagevol via
si venne ad incontrar con Rodomonte,
ch’armato un piccol Nano e a piè seguia.
El Moro alzò vêr lei l’altiera fronte,
e biastemmiò l’eterna Hierarchia
poi che sì bel caval, sì bene ornato,
non havea in man d’un cavallier trovato.
34
Havea giurato ch’el primo cavallo
torria per forza, che tra via incontrassi.
Hor questo è stato il primo; e trovato hallo
più bello, più per lui che mai trovassi:
ma tôrlo a una donzella gli par fallo;
e pure agogna haverlo, e in dubbio stassi.
Lo mira, lo contempla, e dice spesso:
– Deh perché il suo signor non è con esso! –
35
– Deh ci fusse egli! (gli rispose Hippalca)
che ti faria cangiar forse pensiero.
Assai più di te val chi lo cavalca,
né lo pareggia al mondo altro guerriero. –
– Chi è (le disse il Moro) che sì calca
l’honore altrui? – Rispose ella: – Ruggiero. –
E quel suggiunse: – Adunque il destrier voglio,
poi ch’a Ruggier, sì gran campion, lo toglio.
36
Che se più val di me (come tu parli)
e di quanti altri al mondo vestono arme,
serò sforzato il suo cavallo a darli
qual volta parrà a lui non lo lasciarme.
Che Rodomonte io sono, hai da narrarli;
e se pur gli dà il cor di seguitarme,
havrà di me di giorno in giorno spia:
che non si può occultar la luce mia.
37
Dovunque io vo sì gran vestigio resta,
che non lo lascia il fulmine maggiore. –
Così dicendo, havea tornate in testa
le redine dorate al corridore:
sopra gli salta; e lachrymosa e mesta
rimane Hippalca, e spinta dal dolore
minaccia Rodomonte e gli dice onta:
non l’ascolta esso, e su pel poggio monta.
38
Per quella via, dove lo guida il Nano
per trovar Mandricardo e Doralice,
gli viene Hippalca drieto di lontano,
e lo biastemmia sempre e maledice.
Ciò che di questo avenne altrove è piano:
Turpin, che tutta questa historia dice,
fa qui digresso, e torna in quel paese
dove fu dianzi morto il Maganzese.
39
Dato havea a pena a quel luoco le spalle
la figliuola d’Amon ch’in fretta gìa,
che v’arrivò Zerbin per altro calle
con la fallace vecchia in compagnia:
e giacer vide il corpo ne la valle
del cavallier, che non sa già chi sia;
ma, come quel ch’era cortese e pio,
hebbe pietà del caso acerbo e rio.
40
Giaceva Pinabello in terra spento
versando il sangue per tante ferite,
ch’esser devean assai, se più di cento
spade in sua morte si fussero unite.
Zerbin, ch’a vendicar sempre fu intento
l’ingiurie e’ torti, perché sanza lite
non vadan quei che l’homicidio han fatto,
segue per l’orme a tutta briglia ratto.
41
Et a Gabrina dice che l’aspette;
che senza indugio a lei farà ritorno.
Ella presso il cadavero si mette,
e fisamente vi pon gli occhi intorno;
perché, se cosa v’ha che le dilette,
non vuol ch’un morto invan più ne sia adorno,
come colei che fu, tra l’altre note,
quanto avara esser più femina puote.
42
Se di portarne il furto ascosamente
havesse havuto modo o alcuna speme,
la sopravesta fatta riccamente
gli havrebbe tolta, e le belle arme insieme.
Ma quel che può celarsi agevolmente
si piglia, il resto sin al cor le preme.
Fra l’altre spoglie un bel cinto levonne,
e se ne legò i fianchi infra due gonne.
43
Poco dopo arrivò Zerbin, che havea
seguito invan di Bradamante i passi,
perché trovò il sentier che si torcea
in molti rami ch’ivano alti e bassi:
e poco homai del giorno rimanea,
né volea al buio star fra quelli sassi;
e per trovar albergo diè le spalle
con l’empia vecchia alla funesta valle.
44
Quindi presso a dua miglia ritrovaro
un gran castel che fu detto Altariva,
dove per star la notte si fermaro,
che già a gran volo inverso il ciel saliva.
Non vi ster molto, ch’un lamento amaro
l’orecchie d’ogni parte lor feriva;
e vider lachrymar da tutti gli occhi,
come la cosa a tutto il popul tocchi.
45
Zerbino dimandonne, e gli fu detto
che venuto era al conte Anselmo aviso
che fra dui monti in un sentier istretto
giacea il suo figlio Pinabello ucciso.
Zerbin, per non ne dar di sé suspetto,
di ciò si finge ammirativo in viso;
ma pensa ben che senza dubbio sia
quel ch’egli trovò morto su la via.
46
Dopo non molto la bara funèbre
giunse, a splendor de torchi e di facelle,
là dove fece le strida più crebre
con un batter di man gir alle stelle,
e con più vena fuor de le palpèbre
le lachryme inundar per le mascelle:
ma più di l’altre nubilose et atre
era la faccia del misero patre.
47
Mentre apparecchio si facea solenne
de grandi exequie e funerali pompe,
secondo il modo et ordine che venne
da’ nostri antiqui, et ogni età corrompe;
per non lasciar chi fece il mal indenne,
un bando il popular strepito rompe,
che ricchi doni in nome del signore
promette a chi gli accusa il malfattore.
48
Di voce in voce e d’una in altra orecchia
el grido e il bando per la terra scórse,
sin che l’udì la scelerata vecchia
che di rabbia avanzò le tigri e l’orse;
e quindi alla ruina s’apparecchia
di Zerbino, o per l’odio che gli ha forse,
o per vantarsi pur, che sola priva
d’humanitade in human corpo viva;
49
o fusse pur per guadagnarsi il premio:
a ritrovar andò quel signor mesto;
e dopo un verisimil suo prohemio,
gli disse che Zerbin fatto havea questo:
e quel bel cinto si trasse di gremio
ch’el miser padre riconnobbe presto,
e gli fu, appresso il tristissimo ufficio
de l’empia vecchia, manifesto indicio.
50
Il Maganzese al ciel levò le mani,
che sperò non lasciar il figlio inulto:
fe’ circundar l’albergo a’ terrazzani;
che tutto il popul si levò a tumulto.
Zerbin, che li nemici haver lontani
si credea molto, e non temea d’insulto,
fu preso che dormia nel primo sonno
da quei che a pena al dì servar lo ponno.
51
Fu quella notte in tenebrosa parte
incatenato, e in gravi ceppi messo.
Non havea il Sol anchor le luci sparte,
che l’ingiusto supplicio era commesso:
ch’in la valle medesima si squarte
dove fu il mal c’hanno imputato ad esso.
Altro examine in ciò non si facea:
bastava ch’el signor così credea.
52
Poi che dinanzi a sé la bella Aurora
l’aer seren fe’ bianco e rosso e giallo,
tutto il popul gridando: – Mora, mora! –
vien per punir Zerbin del non suo fallo.
Il sciocco volgo l’accompagna fuora
senza ordine, chi a piede e chi a cavallo;
e ’l cavallier di Scotia a capo chino
ne vien legato in s’un piccol ronzino.
53
Ma Dio, che spesso li innocenti aiuta
né lascia mai chi ’n sua bontà si fida,
tal difesa gli havea già proveduta
che non v’è dubbio più c’hoggi s’uccida.
Era ad Orlando quella via accaduta
il dì medesmo (come Dio lo guida),
e da un monte nel pian vede la gente
che a morir mena il cavallier dolente.
54
Era con lui quella fanciulla, quella
ch’egli trovò ne la silvaggia grotta,
del Re Galego la figlia Issabella,
ch’in man de’ malandrin già fu condotta,
poi che lasciato havea ne la procella
del truculento mar la nave rotta:
quella che più vicino al core havea
questo Zerbin, che l’alma onde vivea.
55
Orlando se l’havea fatta compagna
poi che de la caverna la riscosse.
Quando costei scoperse in la campagna
la turba, al Conte dimandò che fosse.
– Non so, – diss’egli; e poi su la montagna
lasciolla, e verso il pian ratto si mosse.
Guardò Zerbino, e giudicollo a prima
vista che fusse huom di gran pregio e stima.
56
E fattosegli appresso, dimandollo
per che cagion e dove il menin preso.
Levò il dolente cavallier il collo,
e meglio avendo il Paladin inteso,
rispose il vero; e così ben narrollo
che meritò dal Conte esser difeso:
bene havea il Conte alle parole scorto
ch’era innocente, e che moriva a torto.
57
E poi ch’intese che commesso questo
era dal conte Anselmo d’Altariva,
fu certo ch’era torto manifesto;
ch’altro da quel fellon mai non deriva.
Et oltra ciò, l’un era a l’altro infesto
per l’antiquissimo odio che bolliva
tra il sangue di Maganza e Chiaramonte;
e tra lor eran morti e danni et onte.
58
– Slegate il cavallier (gridò), canaglia
(el Conte a’ masnadieri), o ch’io v’uccido. –
– Chi è costui che sì gran colpi taglia?
(rispose un che parer volle il più fido).
Se di cera noi fossimo o di paglia,
e di fuoco egli, assai fôra quel grido; –
e venne contra il Paladin di Francia:
Orlando contra lui chinò la lancia.
59
La lucente armatura il Maganzese,
che levata la notte havea a Zerbino
e postasela indosso, non difese
contro l’aspro incontrar del Paladino.
Sopra la destra guancia il ferro prese:
l’elmo non passò già, perch’era fino;
ma tanto fu de la percossa il crollo,
che la vita gli tolse e ruppe il collo.
60
Tutto in un corso, senza tôr di resta
la lancia, passò un altro in mezo il petto:
quivi lasciolla, e la mano hebbe presta
a Durindana; e nel drapel più stretto
a chi fece due parti de la testa,
a chi levò dal busto il capo netto;
forò la gola a molti; e in un momento
uccise e misse in rotta più di cento.
61
Più del terzo n’ha morto; el resto caccia
e taglia e fende e fere e fora e tronca.
Chi lascia il scudo o l’elmo che l’impaccia,
chi ’l spiedo e chi la lancia e chi la ronca;
chi al lungo, chi al traverso il camin spaccia;
altri s’appiatta in bosco, altri in spelonca.
Orlando, di pietà questo dì privo,
a suo poter non vuol lasciarne un vivo.
62
Di cento venti (che Turpin sottrasse
el conto) ottanta ne periro almeno.
Orlando finalmente se ritrasse
dove a Zerbin tremava il cor nel seno.
S’al ritornar d’Orlando ei s’allegrasse,
non si potria contar in versi a pieno:
se gli saria per honorar prostrato;
ma si trovò sopra il ronzin legato.
63
Mentre ch’Orlando, poi che lo disciolse,
l’aiutava a ripor l’arme sue intorno,
ch’al capitan de’ masnadieri tolse,
che per suo mal se n’era fatto adorno;
Zerbino gli occhi ad Issabella volse,
che sopra il colle havea fatto soggiorno,
e poi che de la pugna vide il fine
portò le sue bellezze più vicine.
64
Quando apparir Zerbin si vide appresso
la donna che da lui fu amata tanto,
la bella donna che per falso messo
credea summersa, e n’ha più volte pianto;
come un giaccio nel petto gli sia messo,
sente dentro aggelarsi, e trema alquanto:
ma presto il freddo manca, et in quel luoco
tutto s’avampa d’amoroso fuoco.
65
Di non tosto abbracciarla lo ritiene
gran riverenza c’ha al signor d’Anglante;
perché si pensa e sanza dubbio tiene
ch’Orlando sia de la donzella amante.
Così cadendo va di pene in pene,
e poco dura il gaudio c’hebbe inante:
vederla hora d’altrui peggio supporta
che non fe’ quando udì ch’ella era morta.
66
E molto più gli duol che la posseda
quello alla cui virtù sua vita debbe:
a lui levarla (anchor che gli succeda)
biasmato da ciascun poi ne sarebbe.
Nessun altro che andasse con tal preda,
senza question lasciar partir vorrebbe:
ma al debito c’ha al Conte si richiede
che se lo lasci por sul collo il piede.
67
Giunsero taciturni ad una fonte,
dove smontaro e fêr qualche dimora.
Trassesi l’elmo il travagliato Conte,
et a Zerbin lo fece trarre anchora.
Vede la Donna el suo amatore in fronte
e di sùbito gaudio si scolora;
poi torna come fior humido suole
dopo gran pioggia al apparir del Sole.
68
E senza indugia e senza altro rispetto
corre al suo caro amante, e al collo abbraccia;
e non può trar parola fuor del petto,
ma di lachryme il sen bagna e la faccia.
Orlando attento al amoroso affetto,
senza che più chiarezza se gli faccia,
vide a tutti l’indicii manifesto
ch’altri esser che Zerbin non potea questo.
69
Come la voce haver poté Issabella,
non bene asciutta anchor l’humida guancia,
sol de la molta cortesia favella
che l’havea usata il paladin di Francia.
Zerbino, che tenea questa donzella
con la sua vita pare a una bilancia,
si getta a piè del Conte, e quello adora
come chi reso gli ha due vite a un’hora.
70
Molti ringraziamenti e molte offerte
erano per seguir tra i cavallieri,
se non udian suonar le vie coperte
da li arbori fronzuti, alti e proceri.
Presto alle teste lor, ch’eran scoperte,
posero li elmi, e presero e’ destrieri:
et ecco un cavallier e una donzella
lor sopravien, ch’a pena erano in sella.
71
Era questo guerrier quel Mandricardo
che drieto Orlando in fretta si condusse
per vendicare Alcirdo e Manilardo,
ch’el paladin con gran valor percusse:
quantunque poi lo seguitò più tardo,
che Doralice in suo poter ridusse;
lei tolto havea con un troncon di cerro
a ducento guerrier carchi di ferro.
72
Non sapea il Saracin perhò che questo,
ch’egli seguia, fusse il signor d’Anglante:
a prova connoscea ben manifesto
ch’esser devea gran cavallier errante.
A lui mirò più che a Zerbino, e presto
gli andò con gli occhi dal capo alle piante;
e’ dati contrasegni ritrovando,
disse: – Tu sei colui ch’io vo cercando.
73
Sono homai dieci giorni – gli soggiunse –
che di cercar non lascio i tuoi vestigi:
tanto la fama stimulommi e punse
che di te venne al campo di Parigi,
quando a fatica un vivo sol vi giunse
di mille che mandasti a i regni stygi;
e la strage contò che da te venne
sopra quei di Noricia e Tremisenne.
74
Non fui, com’io lo seppi, a seguir lento,
e per vederti e per provar tua forza:
assai t’ho connosciuto al guarnimento,
ma non guardo perhò solo alla scorza;
che s’ancho havessi altr’arme e vestimento,
l’altiera tua disposition mi sforza
a giudicar per manifeste note
che tu sei quello, e ch’altri esser non pote. –
75
Rispose Orlando: – Non si può mentire
che cavallier non sii d’alto valore;
perhò che sì magnanimo desire
non credo che albergassi in humil core.
S’el volermi veder ti fa venire,
perché mi veggi meglio io trarrò fuore
de l’elmo tutto il capo, se ti pare
a voglia tua non mi poter mirare.
76
Ma poi che ben m’havrai veduto in faccia,
al altro desiderio anchor attendi:
resta che alla cagion tu satisfaccia
che fa che drieto a me questa via prendi;
che veggi s’el valor mio si confaccia
alla disposition che sì commendi. –
– Horsù (disse il Pagano), al rimanente;
ch’al primo ho satisfatto intieramente. –
77
El Conte tuttavia dal capo al piede
va cercando il Pagan tutto con gli occhi:
mira ambi i fianchi, indi l’arcion; né vede
pender né qua né là mazze né stocchi.
Dimanda lui di che arme si provede,
se avien che con la lancia in fallo tocchi.
Rispose quel: – Non ne pigliar tu cura:
così a molt’altri ho anchor fatto paura.
78
Ho sacramento non portar mai spada
fin ch’io non toglio Durindana al Conte;
e cercando lo vo per ogni strada
acciò più d’una posta meco sconte.
Io lo giurai (se intenderlo t’aggrada)
quando mi posi questo elmo alla fronte,
il qual, con tutte l’altre arme ch’io porto,
era di Hettòr, che già mill’anni è morto.
79
La spada sola manca alle buone arme:
come rubata fu non ti so dire.
Hor che la porti il Paladino parme;
e di qui vien ch’egli ha sì grande ardire.
Ben penso, se con lui posso accozzarme,
farli il mal tolto homai restituire.
Cercolo anchor, che vendicar disio
il famoso Agrican genitor mio.
80
Orlando a tradimento gli diè morte:
ben so che non potea farlo altrimente. –
El Conte più non tacque, e gridò forte:
– E tu e qualunque il dice se ne mente.
Ma quel che cerchi t’è venuto in sorte:
io sono Orlando, e uccisil giustamente;
e questa è quella spada che tu cerchi,
che tua serà se con virtù la merchi.
81
Quantunque sia debitamente mia,
per gentilezza vuo’ che si contenda:
né perché habbi a temer vuo’ che mi stia
al fianco, anzi ad uno arbore s’appenda.
Levala tu liberamente via,
s’avien che tu m’uccida o che mi prenda. –
Così dicendo, Durindana prese
e in mezo il campo a un arbuscello impese.
82
Già l’un da l’altro è dipartito lunge
quanto sarebbe un mezo tratto d’arco;
già l’uno contro l’altro il destrier punge,
né de le lente redine gli è parco;
già l’uno e l’altro di gran colpo aggiunge
dove per l’elmo la veduta ha varco:
parveno l’haste, al rompersi, di gelo,
e in mille scheggie iron volando al cielo.
83
L’una e l’altra hasta è forza che si spezzi;
che non voglion piegarsi i cavallieri:
i cavallieri tornano coi pezzi
che son restati appresso i calci intieri.
Quelli, che sempre fur nel ferro avezzi,
hor, come dui villan per sdegno feri
in differentia d’acque, boschi e prati,
fan crudel ciuffa di dui pali armati.
84
Non stanno l’haste a quattro colpi salde,
e mancan nel furor di quella pugna:
di qua e di là si fan l’ire più calde;
né da ferir lor resta altro che pugna.
Schiodano piastre e straccian maglie e falde,
pur che la man dove s’aggraffi giugna:
non desìderi alcun, perché più vaglia,
martel più grave o più dura tenaglia.
85
Come può il Saracin ritrovar sesto
di finir con suo honore il fiero invito?
Pazzia sarebbe il perder tempo in questo,
che nuoce al feritor più ch’al ferito.
Dunque alle strette è forza venir presto;
così il Pagan Orlando hebbe ingremito:
lo stringe al petto, e crede far le prove
che sopra Anteo fece il figliuol di Giove.
86
Lo piglia con molto impeto a traverso:
quando lo spinge, e quando a sé lo tira;
et è ne la gran chòlera sì immerso,
ch’ove resti la briglia poco mira.
Sta in sé raccolto Orlando, e ne va verso
il suo vantaggio, e alla vittoria aspira:
gli pon la cauta man sopra le ciglia
del cavallo, e cader ne fa la briglia.
87
Il Saracino ogni poter vi mette
che lo soffòghi o de l’arcion lo svella:
il Conte in li urti ha le ginocchia strette,
né piega in questa parte e non in quella.
Per quel tirar che fa il Pagan, constrette
sono le cingie abbandonar la sella:
Orlando è in terra, e a pena lo connosce;
che i piedi ha in staffa, e stringe anchor le cosce.
88
Con quel rumor ch’un sacco d’arme cade,
risuona il Conte come il campo tocca.
Il caval c’ha la testa in libertade,
quello a chi Orlando ha tolto il fren di bocca,
quando ode il suon che da le ombrose strade
e cavi sassi ribombando scocca,
correndo se ne va di timor cieco;
e Mandricardo se ne porta seco.
89
Doralice, che vede la sua guida
uscir del campo e tôrlese d’appresso,
e mal restarne senza si confida,
drieto, correndo, il suo ronzin gli ha messo.
Il Pagan per orgoglio al destrier grida,
e con mani e con sproni el batte spesso;
e come habbia intelletto lo minaccia
perché si fermi, e tuttavia più il caccia.
90
La bestia, ch’era spaventosa e poltra,
sanza guardarsi a i piè, corre a traverso:
già corso havea tre miglia, e seguiva oltra
se un fosso a quel desir non era averso;
che sanza haver nel fondo o letto o coltra,
ricevé l’uno e l’altro in sé riverso.
Diè Mandricardo in terra aspra percossa;
né perhò si fiaccò né si ruppe ossa.
91
Quivi si ferma il corridore al fine;
ma non si può guidar, che non ha freno.
Il Tartaro lo tien preso nel crine,
e tutto è di furor e d’ira pieno:
pensa, e non sa quel che di far destine.
– Pongli la briglia del mio palafreno
(la Donna gli dicea); che non è molto
el mio feroce, o sia col freno o sciolto. –
92
Al Saracin parea discortesia
la proferta accettar di Doralice;
ma fren gli farà haver per altra via
Fortuna, a’ suoi disii molto fautrice.
Quivi Gabrina scelerata invia
che, poi che di Zerbin fu traditrice,
fuggìa come la lupa che lontani
oda venir li cacciatori e i cani.
93
Ella havea anchora indosso la gonnella
e li medesmi giovenili ornati
che furo alla vezzosa damigella
di Pinabel, per lei vestir, levati;
et havea il palafren ancho di quella,
dei buon del mondo e de li avantaggiati.
La vecchia sopra il Tartaro trovosse,
ch’anchor non s’era accorta che vi fosse.
94
L’habito giovenil mosse la figlia
di Stordilano e Mandricardo a riso,
vedendolo a colei che rassimiglia
a un babuino o bertuccione in viso.
Dissegna il Saracin tôrle la briglia
pel suo destriero, e riuscì l’aviso:
toltogli il morso, il palafren minaccia,
gli grida, lo spaventa, e in fuga il caccia.
95
Quel fugge per la selva, e seco porta
la quasi morta vecchia di paura
per valli e monti e per via dritta e torta,
per fossi e per pendici alla ventura.
Ma ’l parlar di costei sì non m’importa,
ch’io non debbia d’Orlando haver più cura,
ch’alla sua sella ciò ch’era di guasto
tutto ben racconciò sanza contrasto.
96
E risalito sul destrier, gran pezzo
stette a mirar ch’el Saracin tornasse;
nol vedendo apparir, vòlse da sezzo
egli esser quel ch’a ritrovar l’andasse:
da Zerbin, c’honorava et havea in prezzo,
tolse licentia, e disse che restasse
con la sua donna; e pregò Dio che amici
li volesse tener sempre e felici.
97
Zerbin di quel partir molto si dolse;
di tenerezza ne piangea Issabella:
d’ir con lui pregaro ambi, ma non vòlse
lor compagnia, ben ch’era buona e bella.
Orlando da’ lor prieghi se disciolse,
dicendo: – Non è infamia sopra quella
del huom che cerchi il suo nemico, e prenda
chi gli faccia la scorta e lo difenda. –
98
Essi pregò, che quando il Saracino,
prima ch’in lui, si riscontrassi in loro,
gli dicesser ch’Orlando havria vicino
anchor tre giorni per quel territoro;
ma dopo, che sarebbe il suo camino
verso l’insegne de i bei gigli d’oro,
per esser con lo exercito di Carlo,
acciò, volendol, sappia onde chiamarlo.
99
Quelli promisser farlo volentieri,
e questa e ogni altra cosa al suo commando.
Preser camin diverso i cavallieri,
di qua Zerbin, e di là il conte Orlando.
Prima che pigli il Conte altri sentieri,
al arbor tolse et a sé pose il brando;
e dove meglio col Pagan pensosse
di potersi incontrar, il caval mosse.
100
Il strano corso che tenne il cavallo
del Saracin pel bosco sanza via
fece ch’Orlando andò dui giorni in fallo,
né lo trovò, né puòte haverne spia.
Giunse ad un rivo che parea crystallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.
101
Faceva il mezo dì grato l’orezo
al duro armento et al pastore ignudo;
sì che né Orlando sentia alcun ribrezo,
gravato d’elmo e di corazza e scudo.
Quivi egli entrò per riposare in mezo
alle belle ombre; e travaglioso e crudo,
e più che dir si possa empio soggiorno
vi ritrovò quel infelice giorno.
102
Volgendosi egli intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva,
e fu, tosto che v’hebbe gli occhi fitti,
certo ch’era di man de la sua diva.
Questo era un de li luochi già descritti,
dove col vil garzon spesso veniva
da casa del pastor quindi vicina
la bella donna del Catai regina.
103
Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme in cento luochi vede:
quante lettere son, tanti son chiodi
de’ quali Amor il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
c’habbia scritto il suo nome in quella scorza.
104
Poi dice: – Connosco io pur queste note,
ch’io n’ho di tal tante vedute e lette.
Questo Medor finto ella haver si pote:
forse che a me questo cognome mette. –
Con tali opinïon dal ver remote,
usando fraude a se medesmo, stette
in quella speme il sfortunato Orlando
che si seppe a se stesso ir procacciando.
105
Come uccellin che cerca ne la nuova
stagion di ramo in ramo più diletto,
tanto che ne la pania si ritruova
o in qualche laccio aviluppato e stretto;
così drieto al error, che pur gli giova,
se ne va Orlando contra il ruscelletto,
tanto che vien dove si curva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.
106
Haveva in su l’entrata il luoco adorno
coi piedi storti hedere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i dui felici amanti:
v’havean li nomi lor dentro e d’intorno,
più ch’in nessun de’ luochi circonstanti,
con carbone, con lapide, con gesso
scritto, e con punte di coltelli impresso.
107
El mesto Conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai che di sua man distese
Medoro havea, che parean scritte allhotta.
Del gran piacer ch’in la spelonca prese,
questa sententia in versi havea ridotta;
che fosse culta in la sua lingua penso,
et era ne la nostra tale il senso:
108
Liete piante, verdi herbe, limpide acque,
spelonca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
sì spesso in le mie braccia nuda giacque;
per la commodità che qui me è data
io povero Medor non posso darvi
altra mercé, se non sempre lodarvi;
109
e supplicar ogni signor amante,
e cavallieri e damigelle e ognuna
persona, o paesana o vïandante,
che meni qui sua voglia o la Fortuna,
che all’herbe, al rivo, al speco et alle piante
dica: Benigne habbiate Sole e Luna
e de le nymphe il choro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia. –
110
Era scritto in Arabico, ch’el Conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte c’havea pronte,
prontissima havea quella il Paladino;
e gli schivò più volte e danni et onte
che si trovò tra ’l popul saracino:
ma non si vanti se già n’hebbe frutto;
ch’un danno hor n’ha, che può scontarli il tutto.
111
Più e più volte rilesse quel scritto
quello infelice, ricercando invano
che non vi fusse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
et ogni volta in mezo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con li occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
112
Fu alhora per uscir di sentimento,
sì tutto in preda del dolor si lassa:
credete a chi n’ha fatto experimento,
che questo è il duol che tutti li altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né puòte haver, ch’el duol l’occupò tanto,
alle querele voce, o humore al pianto.
113
L’impetüosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
c’habbi gran ventre e una via sola e stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
tanto l’humor, che vuol uscir, s’affretta,
che nel stretto camin tutto se incocca,
né spirar pote, e resta ne la bocca.
114
Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamar il nome
de la sua donna, pur desira e spera,
o gravar lui d’insupportabil some
tanto di gelosia, che se ne pèra;
e quel, qualunque sia, con studio puòte
ben finger d’essa et imitar le note.
115
In così poca, in così debil speme
rivoca i spirti e li rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il Sole alla Sorella luoco.
Non molto va, che da le vie supreme
de’ tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiar armento:
viene alla villa e piglia alloggiamento.
116
Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’habbia cura;
altri il disarma, altri li sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l’armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’hebbe alta aventura.
Colcarsi Orlando e non cenar dimanda,
di dolor satio e non d’altra vivanda.
117
Quanto più cerca ritrovar quïete,
tanto ritrova più travaglio e pena;
che del odiato scritto ogni parete,
dovunque gli occhi torca, vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena
la cosa ch’egli stesso (perché debbia
nocergli men) cerca offuscar di nebbia.
118
Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che sanza dimandarne è chi ne parla.
Il pastor, che lo vede così oppresso
di sua tristitia e che vorria levarla,
l’historia nota a sé, che dicea spesso
de li duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
incominciò senza rispetto a dire:
119
come esso a’ prieghi d’Angelica bella
portato havea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente; e che ella
curò la piaga, e in pochi dì guarilla;
ma che nel cor d’una maggior di quella
lei ferì Amor; e di poca scintilla
le accese tanto e sì cocente fuoco,
che n’ardea tutta e non trovava luoco;
120
e sanza haver rispetto ch’ella fusse
figlia del maggior Re c’habbi ’l Levante,
da troppo amor constretta si condusse
a farsi moglie d’un povero fante.
Al ultimo l’historia si ridusse
ch’el pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.
121
Questa conclusïon fu la secure
ch’el capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si sforza Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder puollo:
per lachryme e suspir da bocca e d’occhi,
voglia o non voglia, è forza al fin che scocchi.
122
Poi che allargare il freno al dolor puòte,
che restò solo e sanza altrui rispetto,
giù da gli occhi irrigando per le gote
sparse un fiume di lachryme sul petto:
suspira e geme, e va con spesse ruote
di qua e di là tutto cercando il letto;
e lo ritrova più duro che Selce,
pungente più d’un setoloso Felce.
123
In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto, in che giaceva,
l’ingrata donna col suo drudo a porre
venutase più volte esser deveva.
Non altrimenti hor quella piuma abhorre,
né con minor prestezza se ne lieva,
che de l’herba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e veggia il serpe appresso.
124
Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che sanza aspettar Luna, o che l’albóre
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e ’l destrier, et esce fuore
per mezo il bosco in la più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi et urli apre le porte al duolo.
125
Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né ’l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e in la foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si maraviglia c’habbia in testa
una fontana d’acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:
126
– Queste non son più lachryme che fuore
stillo da gli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lachryme al dolore:
finîr, ch’a mezo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto, hora il vitale humore
fugge per quella via che a gli occhi mena;
et è quel che si versa, e trarrà insieme
il dolore e la vita alle hore estreme.
127
Questi, che indicio fan del mio tormento,
suspir non sono, né i suspir son tali.
Quelli han triegua talhora; io mai non sento
ch’el petto mio men la sua pena exhali.
Amor che m’arde il cor fa questo vento,
mentre dibbatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo produci
che tegni in fuoco un core, e non lo bruci?
128
Non son, non sono io quel che paro in viso:
quel ch’era Orlando è morto et è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io sono il spirto suo da lui diviso,
che in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
exempio a chi in Amor pone speranza. –
129
Pel bosco errò tutta la notte il Conte;
e nel spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro insculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, che non rimase dramma
di lui ch’ira non fusse, odio e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.
130
Tagliò col scritto il sasso, e sino al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quel antro, et ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restâr quel dì, ch’ombra né gelo
a pastor mai non daran più, né a gregge;
e quella dianzi così chiara e pura
fonte non fu da tanta ira sicura:
131
e rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
senza fin gettò Orlando in le belle onde,
che sì contaminò, che sì turbolle,
che non furon mai più chiare né monde.
Egli, al fin stracco, travagliato e molle
di sudor tutto, poi che non risponde
la lena al sdegno ardente, al odio, al’ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.
132
Afflitto e stanco al fin si stende in l’herba
e fige gli occhi al ciel sanza far motto.
Sanza cibo o dormir così si serba
ch’el Sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’hebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si squarciò di dosso.
133
In questa parte l’elmo, in quella il scudo,
là restano li arnesi, e qua l’usbergo:
tutte sue arme, in summa vi concludo,
havean pel bosco differente albergo.
Poi si squarciò li panni, e mostrò ignudo
l’hispido ventre et tutto ’l petto e il tergo;
e cominciò la gran follia, sì horrenda
che de la più non fia che mai s’intenda.
134
In ira, in odio, in rabbia, in furor venne,
e rimase offuscato in ogni senso.
Di tôr la spada in man non gli sovenne;
che fatte havria cose mirabil, penso:
ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove excelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse;
135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fusser finocchi, ebuli o aneti;
e ’l simil fe’ di querce e d’olmi vecchi,
d’antiqui cerri, frassini et abeti.
Come uno uccellator che s’apparecchi
il campo mondo, ove locar le reti,
fa de l’herbe eminenti o stoppia o spini,
quivi Orlando facea de i maggior pini.
136
Alcun’ pastori il gran ribombo udiro,
che di quel danno havean qualche interesse;
e per vietarlo in fretta ne veniro,
né molto loro in utile successe.
Ma qui la briglia al mio cantar ritiro,
che mi par che a quel termine s’appresse,
il qual s’io passo, so ben quanto annoi
a me la voce, e l’udïenza a voi.