CANTO TRIGESIMONONO
1
O execrabile Avaritia, o ingorda
fame d’haver, io non mi maraviglio
ch’ad alma vile e d’altre macchie lorda
sì facilmente dar possi di piglio;
ma che meni legato in una chorda
e che tu impiaghi del medesmo artiglio
alcun, che per altezza era d’ingegno,
se te schivar potea, d’ogni honor degno.
2
Alcun la terra e il mare e il ciel misura,
et render sa tutte le cause a pieno
d’ogni opra, d’ogni effetto di Natura,
e poggia sì, ch’a Dio riguarda in seno:
e non può non haver la maggior cura,
morso dal tuo mortifero veneno,
d’unir thesoro; e questo sol gli preme,
e ponvi ogni salute, ogni sua speme.
3
Alcun rompere exerciti, e in le porte
per forza intrar di bellicose terre,
e por primo si vede il petto forte,
ultimo trarre, in perigliose guerre:
e non può riparar che sino a morte
tu nel tuo cieco carcere no ’l serre.
Altri, in altre arti e chiari studi industri,
son per te oscuri, che seriano illustri.
4
Che d’alcune dirò belle e gran donne
ch’a bellezza, a virtù de fidi amanti,
a lunga servitù, più che colonne
io veggio dure, immobili e constanti?
Veggio venir poi l’Avaritia, e ponne
far sì, che par che subito le incanti:
in un dì, senza amor (chi fia che ’l creda?)
a un vecchio, a un brutto, a un mostro le dà in preda.
5
Non è senza cagion s’io me ne doglio:
intendami chi può, che me intendo io.
Né perhò di proposito mi toglio,
né la materia del mio canto oblio;
ma non più a quel c’ho detto, adattar voglio,
ch’a quel ch’io v’ho da dire, il parlar mio:
hor torniamo a contar del paladino
ch’ad assaggiare il vaso fu vicino.
6
Io vi dicea ch’alquanto pensar volle,
prima che a i labri il vaso s’appressassi.
Pensò alquanto, e poi disse: – I’ serei folle
se quel ch’io non vorrei trovar, cercassi.
Mia donna è donna, et ogni donna è molle:
lasciàn star mia credenza come stassi.
Sin qui m’ha ’l creder mio giovato, e giova:
che poss’io megliorar per farne prova?
7
Potria poco giovar et nuocer molto;
ch’il tentar qualche volta Idio disdegna.
Io non so se mi sia saggio né stolto;
ma non vuo’ più saper, che mi convegna.
Hor questo vin dinanzi me sia tolto:
non ho sete, e non vuo’ che me ne venga;
che tal certezza ha Dio più prohibita,
ch’al primo padre l’arbor de la vita.
8
Che come Adam, poi che gustò del pomo
che Dio con propria bocca l’interdisse,
da la leticia al pianto fece un tomo,
onde in miseria poi sempre s’afflisse;
così, se de la moglie sua vuol l’huomo
tutto saper quanto ella fece e disse,
cade da gaudii e risi in pianti e in guai,
donde non può più rilevarsi mai. –
9
Così dicendo il buon Rinaldo, e intanto
respingendo da sé l’odiato vase,
vide abondar un gran fiume di pianto
da li occhi del signor di quelle case,
et udì, poi che racchetossi alquanto,
dir: – Maledetto sia chi mi suase
che io facessi la prova, ohimè! di sorte,
che mi levò la dolce mia consorte.
10
Perché non ti connobbi già dieci anni,
sì che io mi fossi consigliato teco,
prima che cominciassero li affanni
e il lungo pianto ond’io son quasi cieco?
Ma vuo’ levarti da la scena i panni;
ch’el mio mal veggi, e te ne dogli meco:
e te dirò il principio et l’argumento
del mio non comparabile tormento.
11
Qua su lasciasti una città vicina,
a cui fa intorno un chiaro fiume laco,
che poi si stende e in questo Po declina,
e l’origine sua vien da Bennaco.
Fu fatta la città quando a ruina
le mura andâr de l’Agenoreo draco:
quivi nacque io di stirpe assai gentile,
ma in pover tetto e facultade humìle.
12
Se Fortuna di me non hebbe cura
sì che mi desse al nascer mio ricchezza,
al diffetto di lei supplì Natura,
che sopra ogni mio ugual mi diè bellezza.
Donne e donzelle già di mia figura
arder più d’una vidi in giovanezza;
ch’io vi seppi accoppiar cortesi modi,
ben che stia mal che l’huom se stesso lodi.
13
Ne la nostra cittade era un huom saggio,
di tutte l’arti oltre ogni creder dotto,
che quando chiuse li occhi al phebeo raggio
contava li anni suoi cento et ventotto.
Visse tutta sua età solo et selvaggio,
se non l’estrema; che d’amor condotto,
con premio ottenne una matrona bella,
e n’hebbe di nascosto una citella.
14
Et per vietar che simil la figliuola
non sia alla matre, ch’a lui per mercede
vendé sua castità, che valea sola
più che quanto oro al mondo si possiede,
fuor del commercio popular l’invola;
e dove più solingo il luoco vede,
questo amplo e bel palagio e ricco tanto
fece fare a’ demonii per incanto.
15
A vecchie donne et caste fe’ nutrire
la figlia qui, ch’in gran beltà poi venne;
né che potesse altr’huom veder, né udire
pur ragionarne, in quella età sostenne.
Et perché havesse exempio da seguire,
ogni pudica donna che mai tenne
contra illicito amor chiuse le sbarre
ci fe’ d’intaglio o di color ritrarre:
16
non quelle sol che di virtude amiche
hanno i passati secoli sì adorni,
che anchor la fama per l’historie antiche
e vive et viverà per tutti i giorni;
ma molte anchor, ch’in l’avenir pudiche
faranno Italia bella et suoi contorni,
ci fe’ ritrarre in lor fattezze conte,
come le otto che vedi a questa fonte.
17
Poi che la figlia al vecchio par matura
sì, che ne possa l’huom cogliere i frutti;
o fosse mia disgratia o mia aventura,
eletto fui degno di lei fra tutti.
Li lati campi oltra le belle mura,
non men li pescarecci che li asciutti,
che ci son d’ognintorno a venti miglia,
mi consegnò per dote de la figlia.
18
Ella era bella e costumata tanto,
che più desiderar non si potea.
Di riccami e trappunti sapea quanto
già la dotta Minerva ne sapea.
Vedila andar, odine il suono e il canto:
celeste e non mortal cosa parea;
e in modo a l’arte liberali attese,
che quanto il padre, o poco men, n’intese.
19
Col grande ingegno, e non minor bellezza
ch’amabil la facea sino alli sassi,
era giunto uno amor, una dolcezza,
che par che a rimembrarla il cor mi passi.
Non havea più piacer né più vaghezza
che d’esser meco ove io mi stessi o andassi.
Senza haver lite mai stemmo gran pezzo:
l’havémo poi, per colpa mia, da sezzo.
20
Morto il suocero mio dopo cinque anni
ch’io sottoposi il collo al giugal nodo,
non stero molto a cominciar li affanni
ch’io sento anchora, e te dirò in che modo.
Mentre mi richiudea tutto co i vanni
l’amor di questa mia che sì te lodo,
una femina nobil del paese,
quanto accender si può, di me s’accese.
21
Ella sapea d’incanti e di malie
quel che saper ne possa alcuna Maga:
rendea la notte chiara, oscuro il die,
firmava il Sol, facea la terra vaga.
Non potea trar perhò le voglie mie,
che le sanassin l’amorosa piaga
col rimedio che dar non le potria
sanza alta ingiuria de la donna mia.
22
Non perché fosse assai gentile e bella,
né perché sapess’io che sì m’amassi,
né per gran don, né per promesse ch’ella
mi fêsse molte, et di continuo instassi,
ottener puòte mai ch’una fiammella,
per darla a lei, del primo amor levassi;
che adrieto ne trahea tutte mie voglie
il connoscermi fida la mia moglie.
23
La speme, la credenza, la certezza
che de la fede di mia moglie havea,
m’havria fatta sprezzar quanta bellezza
havesse mai la giovane Ledea,
o quanto offerto mai senno e ricchezza
fu al gran pastor de la montagna Idea.
Cercai con questa scusa et fece ogni opra
di levarmi tal stimulo di sopra.
24
Un dì che mi trovò fuor del palagio
la Maga, che nomata era Melissa,
et mi puoté parlare a suo grand’agio,
modo trovò da por mia pace in rissa,
e con un spron di gelosia malvagio
cacciar del cor la fé che v’era fissa.
Comincia a commendar l’intention mia,
ch’io sia fedele a chi fedel mi sia:
25
«Ma che te sia fedel, tu non pòi dire
prima che di sua fé prova non vedi:
s’ella non falle, et che potria fallire,
che sia fedel, che sia pudica credi;
ma se mai sanza te non la lasci ire,
se mai veder altr’huom non le conciedi,
ond’hai questa baldanza che tu dica
et mi vogli affermar che sia pudica?
26
Scòstati un poco, scòstati da casa;
fa’ ch’odan le cittadi et li villaggi
che tu sia andato, et ch’ella sia rimasa;
da’ commodo alli amanti e alli messaggi:
s’a prieghi, a doni non fia persuasa
di far al letto maritale oltraggi,
et che, facendol, creda che si cele,
allhora dir potrai che sia fedele».
27
Con tal parole et simili non cessa
l’incantatrice, sin che mi dispone
che de la donna mia la fede expressa
provar et veder voglia a paragone.
«Hora poniamo (le soggiungo) ch’essa
sia qual non posso haverne opinïone:
come posso di lei poi farme certo
che di punitïon sia degna o merto?».
28
Disse Melissa: «Io ti darò un vasello
fatto da ber, di virtù rara et strana;
qual già, per far accorto il suo fratello
del fallo di Genevra, fe’ Morgana.
Chi la moglie ha pudica, bee con quello:
ma non vi può già ber chi l’ha puttana;
ch’el vin, quando lo crede in bocca porre,
tutto si sparge, et fuor nel petto scorre.
29
Nanzi che parta, ne farai la prova,
et per lo creder mio tu berrai netto;
che credo che anchor netta si ritruova
la moglie tua: pur ne vedrai l’effetto.
Ma s’al ritorno experïenza nuova
poi ne farai, non t’assicuro il petto:
che se tu non lo molli, et netto béi,
d’ogni marito più felice sei».
30
L’offerta accetto; il vaso ella mi dona:
ne fo la prova, et mi succede a punto
che (come era ’l disio) pudica et buona
la chara moglie mia truovo a quel punto.
Dice Melissa: «Un poco l’abbandona;
per un mese o per dui stanne disgiunto;
poi torna; poi di nuovo il vaso tolli:
prova se bevi, o pur se ’l petto immolli».
31
A me duro parea pur di partire;
non perché di sua fé sì dubitassi,
come ch’io non possea dui dì patire,
né un’hora pur, che senza me restassi.
Disse Melissa: «Io ti farò venire
a connoscere il ver con altri passi:
vuo’ che muti ’l parlare e i vestimenti,
et sotto viso altrui te le appresenti».
32
Signor, qui presso una città difende
il Po fra minacciose et fiere corna;
la cui iuridition de qui si stende
fin dove il mar fugge dal lito et torna.
Cede d’antiquità, ma ben contende
con le vicine in esser ricca e adorna.
Le reliquie Troiane la fondaro,
che dal flagello d’Attila camparo.
33
Astringe et lenta a questa terra il morso
un cavallier giovene, ricco e bello,
che drieto un giorno a un suo falcone iscorso,
essendo capitato entro il mio hostello,
vide la donna mia nel primo occorso,
tal che nel cor gli ne restò il sugello;
né cessò molte pratice far poi,
per inchinarla a’ desiderii suoi.
34
Ella gli fece dar tante repulse,
che più tentarla al fin egli non vòlse;
ma la beltà di lei, che Amor vi sculse,
di memoria perhò non se gli tolse.
Tanto Melissa allosingommi et mulse,
ch’a tôr la forma di colui mi volse;
e mi mutò (né so ben dirte come)
di faccia, di parlar, d’occhi e di chiome.
35
Già con mia moglie havendo simulato
d’esser partito et itone in Levante,
nel giovene amator tutto formato
l’andar, la voce, l’habito, il sembiante,
me ne ritorno, et ho Melissa a lato,
che s’era trasformata, e parea un fante;
e le più ricche gemme havea con lei,
che mai mandasson l’Indi o li Erythrei.
36
Io che l’uso sapea del mio palagio,
entro sicuro, et vien Melissa meco;
et madonna ritruovo a sì grande agio,
che non ha né scudier né donna seco.
Li miei prieghi le expono, indi ’l malvagio
stimulo di mal far nanti le arreco:
li rubin, li diamanti et li smeraldi,
che mosso havrian tutti li cor più saldi.
37
Et le dico che poco è questo dono
verso quel che sperar da me devea;
e la commoditade le prepono
che, per l’absentia del marito, havea;
et le raccordo che gran tempo sono
stato amante di lei, come sapea;
et che l’amar mio lei con tanta fede
degno era havere al fin qualche mercede.
38
Turbossi nel principio ella non poco,
divenne rossa, et ascoltar non volle;
ma ’l veder fiammeggiar poi, come fuoco,
le belle gemme, il duro cor fe’ molle;
et con parlar rispose breve et fioco
quel che la vita a rimembrar mi tolle:
che mi compiaceria, quando credesse
ch’altra persona mai nol risapesse.
39
Fu tal risposta un venenato telo
di che me ne senti’ l’alma traffissa:
per l’ossa andommi e per le vene un gelo;
ne le fauci restò la voce fissa.
Levando alhora del suo incanto il velo,
ne la mia forma mi tornò Melissa.
Pensa di che color devesse farsi,
ch’in tanto error da me vide trovarsi.
40
Divenimmo ambi di color di morte,
muti ambi, ambi restiàn con li occhi bassi.
Potei la lingua a pena haver sì forte,
et tanta voce a pena, ch’io gridassi:
«Me tradiresti dunque tu, consorte,
quando tu havessi ch’el mio honor comprassi?».
Altra risposta darmi ella non puòte,
che di rigar di lachryme le guote.
41
La vergogna fu assai, ma più fu il sdegno
che hebbe, da me veder farsi quell’onta;
che sì multiplicò senza ritegno,
che in ira al fine e in crudel odio monta.
Et fuggirse da me fece dissegno;
et nel’hora ch’el Sol del cielo smonta,
al fiume corse, et in sottil barchetta
si fe’ calar tutta la notte in fretta:
42
e la matina appresentosse inante
al cavallier che l’havea un tempo amata,
sotto ’l cui viso, sotto ’l cui sembiante
fu contra l’honor mio da me tentata.
A lui che n’era stato et era amante
creder si può che fu la giunta grata.
Quindi ella mi fe’ dir ch’io non sperassi
che mai più fosse mia, né più m’amassi.
43
Ah lasso! da quel dì con lui dimora
in gran piacere, e di me prende giuoco;
et io del mal che procacciammi allhora
anchor languisco, e non ritruovo luoco.
Cresce il mal sempre, e giusto è ch’io ne mora;
e resta homai da consumarci poco.
Ben credo ch’el primo anno serei morto,
se non mi dava aiuto un sol conforto.
44
Il conforto ch’io prendo è che di quanti
per dieci anni mai fur sotto ’l mio tetto,
ch’a tutti questo vase ho messo inanti,
non ne truovo un che non s’immolli il petto.
Haver nel caso mio compagni tanti
mi dà fra tanto mal qualche diletto.
Tu tra infiniti sol sei stato saggio,
che far negasti il periglioso saggio.
45
Il mio voler cercar oltra la meta
che a l’huom cercar de la sua donna lece
mi tol d’haver mai più vita quïeta,
se ben campassi ancho otto lustri o diece.
Di ciò Melissa fu a principio lieta:
ma non durò, che poco util le fece;
ch’essendo causa del mio mal stata ella,
io l’odiai sì, che non potea vedella.
46
Ella d’essere odiata impatïente
da me che dicea amar più che sua vita,
dove donna restarne immantinente
creduto havea, che l’altra ne fosse ita;
per non haver sua doglia sì presente,
non tardò molto a far di qui partita;
e si slungò da noi tanto paese,
che dopo mai per me non se n’intese. –
47
Così narrava il mesto cavalliero;
e quando fine alla sua historia pose,
Rinaldo alquanto ste’ sopra pensiero,
da pietà vinto, e poi così rispose:
– Mal consiglio ti diè Melissa in vero,
che d’attizzar le vespe ti propose;
e tu fusti a cercar poco aveduto
quel che tu havresti non trovar voluto.
48
Se d’avaritia la tua donna vinta
a voler fede romperti fu indutta,
non è gran fatto: né prima né quinta
non è che rompa fede in sì gran lutta;
e via più salda mente anchora è spinta
per minor prezzo a far cosa più brutta.
Quanti huomini odi tu, che già per oro
han traditi patroni e amici loro?
49
Non devevi assalir con sì fiere armi,
se bramavi veder farle difesa.
Non sai che contra l’or né duri marmi
né durissimo acciar sta alla contesa?
Che più fallasti tu a-ttentarla parmi,
ch’ella d’haversi così tosto resa.
Se t’havesse altrotanto ella tentato,
non so se tu più saldo fossi stato. –
50
Qui Rinaldo fe’ fine, e da la mensa
levossi a un tempo, e dimandò dormire;
che riposare un poco, e poi si pensa
d’un’hora o due dinanzi al dì partire.
Ha poco tempo, e il poco c’ha, dispensa
con gran misura, e invan non lo lascia ire.
El signor de là dentro, a suo piacere,
disse, che si potea porre a giacere;
51
ch’apparecchiata era la stanza e il letto:
ma che se volea far per suo consiglio,
tutta notte dormir potria a diletto,
e dormendo avanzarsi qualche miglio.
– Acconciar ti farò – disse – un legnetto,
con che volando, e senza alcun periglio,
tutta notte dormendo vuo’ che vada,
e una giornata avanzi de la strada. –
52
La proferta a Rinaldo accettar piacque;
e poi che molte e molte gratie rese
al gentil cavallier, là dove in l’acque
da’ naviganti era aspettato, scese.
Quivi a grande agio riposato giacque
mentre il corso del fiume il legno prese,
che da sei remi spinto, leve e snello
pel fiume andò come per l’aria augello.
53
Così tosto come hebbe il capo chino,
el cavallier de Francia adormentosse;
imposto havendo già, come vicino
giungea a Ferrara, che svegliato fosse.
Restò Melara nel lito mancino;
nel lito destro Sermide restosse:
Figarolo e Stellata il legno passa,
dove le corna il Po iracondo abbassa.
54
De le dua corna il nocchier prese il destro,
e lasciò andar verso Vinegia il manco;
passò il Bondeno: e già il color celestro
si vedea in orïente venir manco,
che votando de fior tutto il canestro
l’Aurora vi facea vermiglio e bianco;
quando il capo alle ròcche de Tehaldo
per salutar Ferrara alzò Rinaldo.
55
– O città bene aventurosa, – disse,
– di cui già contemplando Malagigi
per tutto il ciel le stelle erranti e fisse,
e constringendo aerii spirti e stygi,
ne li futuri secoli predisse
che per virtù de’ tuoi signori ligi
saliria anchor l’immortal gloria tanto,
c’havresti in tutta Italia il pregio e il vanto. –
56
Così venìa Rinaldo raccordando
quel che già il suo Cugin detto gli havea,
de le future cose divinando,
di che con lui spesso parlar solea.
E tuttavia l’humìl città mirando:
– Come esser può che anchor (seco dicea)
debbian tanto fiorir queste paludi
di bei costumi e liberali studi?
57
e crescer habbia de sì piccol borgo
ampla cittade? e de sì gran bellezza?
e ciò ch’intorno è tutto stagno e gorgo
sien lieti e pieni campi de ricchezza?
Città, sin hora a riverire assorgo
l’amor, la cortesia, la gentilezza
de cavallieri e donne, honore e pregi
di tuoi signori e cittadini egregi.
58
L’ineffabil bontà del Redentore,
di tuoi principi il senno e la Iusticia,
sempre con pace, sempre con amore
ti tegna in abondantia et in leticia;
e ti difenda contra ogni furore
de’ tuoi nemici, e scopra lor malicia:
del tuo contento ogni vicino arrabbi,
più presto che tu invidia ad alcuno habbi. –
59
Mentre Rinaldo così parla, fende
con tanta fretta il suttil legno l’onde,
che con maggior al logoro non scende
falcon ch’al grido del patron risponde.
Del destro corno il destro ramo prende
quindi il nocchiero, e mura e tetti asconde:
San Georgio a drieto, a drieto s’allontana
la Torre e de la Fossa e de Gaibana.
60
Rinaldo, come accade ch’un pensiero
un altro drieto, e quello un altro mena,
si venne a ricordar del cavalliero
nel cui palagio fu la sera a cena;
che per questa cittade (a dir il vero)
havea giusta cagion di stare in pena:
e ricordossi del vaso da bere
che mostra altrui l’error de la mogliere;
61
e ricordossi insieme de la prova
che d’haver fatta il cavallier narrolli;
che de quanti havea experti, hom non truova
che bea del vaso e il petto non s’immolli.
Hor si pente, hor tra sé dice: – E’ mi giova
ch’a tanto paragon venir non volli:
riuscendo, accertavo il creder mio;
non riuscendo, a che partito ero io?
62
Gli è questo creder mio come io l’havessi
ben certo, e poco accrescer lo potrei:
sì che, s’al paragon mi succedessi,
poco il meglio serìa ch’io ne trarrei;
ma non già poco il mal, quando vedessi
quel de Clarice mia, ch’io non vorrei.
Serebbe por mille contra uno a giuoco;
che perder se può molto, acquistar poco. –
63
Stando in questo pensoso il cavalliero
di Chiaramonte, e non alzando il viso,
con molta attentïon fu da un nocchiero
che gli era incontro riguardato fiso:
e perché di veder tutto il pensiero
che l’occupava tanto, gli fu aviso,
come huom che ben parlava et havea ardire,
a seco ragionar lo fece uscire.
64
La summa fu del suo ragionamento
che colui mal accorto era ben stato,
che ne la moglie sua l’experimento
maggior che può far donna, havea tentato;
che quella che da l’oro e da l’argento
difende il cor di pudicitia armato,
tra mille spade via più facilmente
difenderallo, e in mezo il fuoco ardente.
65
El nocchier gli dicea: – Ben gli dicesti,
che non devea assalir con sì gran doni
la donna sua; che contrastar a questi
colpi non son tutti li petti buoni.
Non so se d’una giovane intendesti
(ch’esser pò che tra voi se ne ragioni),
che nel medesmo error vide il consorte,
di ch’esso havea lei condennata a morte.
66
Devea in memoria havere il signor mio
che l’oro e il premio ogni durezza inchina;
ma, quando bisognò, l’hebbe in oblio,
et ei sì procacciò la sua ruina.
Così sapea l’exempio egli come io,
che fu in questa città di qui vicina,
sua patria e mia, che ’l stagno e la palude
del rifrenato Mentio intorno chiude:
67
d’Adonio voglio dir, ch’el ricco dono
fe’ alla moglie del Giudice, d’un cane. –
– Di questo (disse il paladino) il suono
non passa l’Alpe, e qui tra voi rimane;
perché né in Francia, né dove ito sono
se ne ragiona in le contrade extrane:
sì che di’ pur, se non t’incresce il dire;
che volentiera io mi t’acconcio a udire. –
68
El nocchier cominciò: – Già fu di questa
terra uno Anselmo di famiglia degna,
che la sua gioventù con lunga vesta
spese in saper ciò che Ulpïano insegna;
e de nobil progenie, bella e honesta
moglie cercò, ch’al grado suo convegna;
e d’una terra quindi non lontana
n’hebbe una di bellezza soprahumana,
69
e di bei modi e tanto gratïosi,
che parea tutto amore e liggiadria;
e forse molto più, ch’alli riposi,
ch’al stato del Dottor non convenia.
Tosto che l’hebbe, quanti mai gelosi
al mondo fur, passò di gelosia:
non già ch’altra cagion gli ne desse ella,
che d’esser troppo accorta e troppo bella.
70
Ne la città medesma un cavalliero
era d’antiqua e generosa gente,
che discendea da quel lignaggio altiero
ch’uscì d’una mascella di serpente,
onde già Manto, e chi con essa fêro
la patria mia, disceser similmente.
Il cavallier, che Adonio nominosse,
di questa bella donna innamorosse.
71
E per venire a fin di questo amore,
a spender cominciò senza ritegno
in vestire, in conviti, in farsi honore,
quanto può fare un cavallier più degno.
Il thesor di Tyberio Imperatore
non serìa stato a tante spese al segno.
Io credo ben che non passâr dui verni
ch’egli uscì fuor di tutti i ben paterni.
72
La casa, ch’era dianzi frequentata
matina e sera tanto da li amici,
rimase sola, tosto che privata
fu de fagiani, starne e coturnici.
Egli, che capo fu de la brigata,
restò direto, e quasi fra mendici.
Pensò, poi ch’in miseria era venuto,
d’andar dove non fusse connosciuto.
73
Con questa intentïone una matina,
senza far motto altrui, la patria lascia;
e con suspiri e lachryme camina
lungo ’l stagno ch’intorno i muri fascia.
La donna che del cor gli era regina
già non oblia per la seconda ambascia.
Ecco un’alta aventura che lo viene
di sommo male a porre in sommo bene.
74
Vede un villan che con un gran bastone
intorno alcuni sterpi s’affatica.
Quivi Adonio si ferma, e la cagione
di tanto travagliar vuol che gli dica.
Disse il villan che dentro a quel macchione
vide intrare una serpe così antica,
che più lunga e più grossa a’ giorni suoi
non vide, né credea mai veder poi;
75
e che non si volea quindi partire
che non l’havesse ritrovata e morta.
Come Adonio lo sente così dire,
con poca patïentia lo sopporta:
sempre solea le serpi favorire;
che per insegna il sangue suo le porta
in memoria ch’uscì sua prima gente
de’ denti seminati di serpente.
76
Ed disse e fece col villano in guisa,
che suo mal grado abbandonò l’impresa;
sì che da lui non fu la serpe uccisa,
né più cercata, né altrimente offesa.
Adonio ne va poi dove s’avisa
che sua conditïon sia meno intesa;
e dura con disagio e con affanno
fuor de la patria appresso il settimo anno.
77
Né per absentia mai, né per strettezza
del viver, ch’i pensier non lascia ir vaghi,
cessa Amor, che sì gli ha la mano avezza,
ch’ognhor non gli arda il cor, ognhor impiaghi.
Gli è forza al fin che torni alla bellezza
che son di riveder sì li occhi vaghi.
Barbuto, afflitto, assai male in arnese,
là donde era venuto il camin prese.
78
In questo tempo alla mia patria accade
mandare uno oratore al Padre santo
che resti appresso alla sua Santitade
per alcun tempo, e non fu detto quanto.
Gettan la sorte, e nel giudice cade.
Oh giorno a lui cagion sempre di pianto!
Fe’ scuse, pregò assai, diede e promesse
per non partirse; al fin sforzato cesse.
79
Non gli parea crudele e duro manco
a dever supportar tanto dolore,
che se veduto aprir s’havesse il fianco
e vedutone trar con mano il core.
Di gelosia e timor pallido e bianco
per la sua donna mentre staria fuore,
lei, con quei modi che giovar più crede,
supplice priega a non mancar di fede:
80
dicendole che a donna né bellezza,
né nobiltà, né gran fortuna basta,
sì che di vero honor monti in altezza,
se per nome e per opre non è casta;
e che quella virtù via più si prezza
che di sopra riman quando contrasta,
e c’hor gran campo havria per questa absenza
a far di pudicitia experïenza.
81
Con queste cerca et altre assai parole
di suader ch’ella gli sia fedele.
De la dura partita ella si duole,
con che lachryme, oh dio! con che querele!
E giura che più presto oscuro il Sole
vedrassi, che gli sia mai sì crudele
che rompa fede; e che morir più presto
vorria, che haver solo un pensier di questo.
82
Anchor ch’a sue promesse e suoi scongiuri
desse credenza e s’achetasse alquanto,
non resta che più intender non procuri,
e che materia non procacci al pianto.
Havea uno amico suo, che de’ futuri
casi predir teneva il pregio e il vanto;
e d’ogni sortilegio e magicha arte,
o ’l tutto, o ne sapea la maggior parte.
83
Dielli, pregando, de vedere assunto
se la sua moglie, nominata Argìa,
nel tempo che da lei starà disgiunto
fedel e casta, o pel contrario fia.
Colui da’ prieghi vinto, tolle il punto,
el ciel figura come par che stia.
Anselmo il lascia in opra, e l’altro giorno
a lui per la risposta fa ritorno.
84
L’astrologo tenea le labra chiuse
per non dir al Dottor cosa che doglia,
e cerca di tacer con molte excuse.
Quando pur del suo mal vede c’ha voglia,
che gli romperà fede, al fin concluse,
tosto ch’egli habbia il piè fuor de la soglia,
non da beltà né lunghi prieghi indotta,
ma da guadagno e gran prezzo corrotta.
85
Giunto al timor, al dubio c’havea prima,
el minacciar de li superni moti,
come gli stesse il cor, tu pòi far stima,
se d’amor li accidenti ti son noti.
E sopra ogni molestia che l’opprima,
e che l’afflitta mente aggiri e arroti,
è lo saper che, vinta d’avaritia,
per prezzo habbia a lasciar sua pudicitia.
86
Hor per far quanti potea far ripari
da non lassarla in tanto error cadere;
perché il bisogno a dispogliar li altari
tra’ l’huom talvolta, che sel truova havere;
ciò che tenea di gioie et di danari,
che n’havea summa, pose in suo potere:
rendite et frutti de possessïone,
e ciò c’ha al mondo, in man tutto le pone.
87
«Con facultade (disse) che ne’ tuoi
non sol bisogni te li goda e spenda,
ma che ne possi far ciò che ne vuoi,
li consumi, li getti, doni et venda;
altro conto saper non ne vuo’ poi,
pur che, qual ti lascio hor, tu mi ti renda:
pur che tu, come hor sei, me sie rimasa,
fa’ ch’io non truovi né poder né casa».
88
Pregolla anchor, che mentre staria absente,
non fêsse mai ne la città dimora,
ma ne la villa, ove più agiatamente
viver potrà d’ogni commercio fuora.
Questo dicea, perhò che l’humil gente
che nel gregge o ne’ campi gli lavora,
non gli era aviso che le caste voglie
contaminar potessero alla moglie.
89
Tenendo tuttavia le belle braccia
al timido marito al collo Argìa,
e de lachryme empiendogli la faccia,
ch’un fiumicel da li occhi le n’uscia,
s’atrista che colpevole la faccia,
come di fé mancata già gli sia;
che questa sua suspitïon procede
perché non ha ne la sua fede fede.
90
Troppo serà se voglio ir rimembrando
ciò che al partir da tramendue fu detto.
«Il mio honor (disse al fin) ti raccomando»:
tolse licentia, e si partì in effetto;
e ben sentìssi veramente, quando
volse il cavallo, uscire il cor del petto.
Ella il seguì, quanto seguir lo puòte,
con li occhi che rigavano le guote.
91
Adonio intanto misero e tapino,
e (come io dissi) pallido e barbuto,
verso la patria havea preso il camino,
sperando di non esser connosciuto.
Sul lago giunse alla città vicino,
là dove havea dato alla biscia aiuto,
ch’era assediata entro la macchia forte
da quel villan che por la volea a morte.
92
Quivi arrivando in l’apparir del giorno,
ch’anchor splendea nel cielo alcuna stella,
si vede in peregrino habito adorno
venir pel lito incontra una donzella
in signoril sembianti, anchor che intorno
non le apparisse né scudier né ancella.
Costei con grata vista lo raccolse,
e poi la lingua a tai parole sciolse:
93
«Se ben non mi connosci, cavalliero,
son tua parente, e grande obligo t’haggio:
parente son, perché da Cadmo fiero
scende d’amendue noi l’alto lignaggio.
Io son la fata Manto, ch’el primiero
sasso messi a fondar questo villaggio;
e dal mio nome (come ben forse hai
contare odito) Mantua la nomai.
94
De le fate io son una; et il fatale
stato per farti ancho saper ch’importe,
nascemo a un punto, che d’ogn’altro male
semo capaci, fuor che de la morte.
Ma giunto è con questo essere immortale
conditïon non men del morir forte;
ch’ogni settimo giorno ognuna è certa
che la sua forma in biscia si converta.
95
El vedersi coprir del brutto scoglio,
e gir serpendo, è cosa tanto schiva,
che non è pare al mondo altro cordoglio;
tal che biastemmia ognuna d’esser viva.
E l’obligo ch’io t’ho (perché ti voglio
insiememente dire onde deriva),
tu saprai che quel dì, per esser tali,
stiàno a periglio d’infiniti mali.
96
Non è sì odiato altro animale in terra
come la serpe; e noi, che n’haven faccia,
patimo da ciascuno oltraggio e guerra;
chiunque vede noi, ne fere e caccia.
Se non troviàno ove tornar sotterra,
sentimo quanto pesa altrui le braccia:
meglio serìa poter morir, che rotte
e stroppiate restar sotto le botte.
97
L’obligo ch’i’ t’ho grande è ch’una volta
da te, passando in questa riva amena,
di mano fui d’un fier villano tolta
che gran travaglio m’havea dato e pena.
Se tu non eri, io non andavo asciolta
che non portassi rotto e capo e schiena;
e ben che morta non fussi rimasta,
so ben che ne sarei sciancata e guasta:
98
perché li giorni che per terra il petto
trahemo, avolte in serpentile schorza,
il ciel, ch’in li altri tempi è a noi suggetto,
niega obedirne, e prive siàn di forza.
In li altri tempi ad un sol nostro detto
il Sol si ferma e la sua luce ammorza;
l’immobil terra gira e muta luoco;
rovisce il giaccio, e si congela il fuoco.
99
Hor io son qui per renderti mercede
del beneficio che mi festi alhora:
nessuna gratia indarno hor mi si chiede
ch’io son del manto viperino fuora.
Tre volte più che di tuo padre herede
non rimanesti, io ti fo ricco hor hora;
né vuo’ che mai più povero diventi,
ma quanto spendi più, che più augumenti.
100
E perché so che ne l’antiquo nodo,
in che già Amor t’avinse, ancho ti truovi,
voglioti dimostrar l’ordine e il modo
ch’a disbramar tuoi desideri giovi.
Io voglio, hora che absente il marito odo,
che senza indugio il mio consiglio provi;
vadi la donna a ritrovar che adesso
sta fuor in villa, et io ti sarò appresso».
101
E seguitò narrandogli in che guisa
alla sua donna vuol che s’appresenti;
dico come vestir, come precisa-
mente habbia a dir, come la prieghi e tenti;
e che forma essa vuol pigliar, devisa;
che fuor ch’el giorno ch’erra tra serpenti,
in tutti li altri si può far, secondo
che più le pare, in quante forme ha il mondo.
102
Messee in habito lui di peregrino
il qual per Dio di porta in porta accatti;
mutosse ella in un cane, il più piccino
de quanti mai n’habbia Natura fatti,
di pel lungo e più bianco che armelino,
di grato aspetto e di mirabili atti.
Così trasfigurato, intraro in via
verso la casa de la bella Argìa.
103
De li lavoratori alle capanne,
prima ch’altrove, il giovene fermosse;
e cominciò suonar certe sue canne,
al cui suono danzando il can rizzosse.
La voce e il grido alla patrona vanne,
e fece sì, che per veder si mosse.
Fece il Romeo chiamar ne la sua corte,
sì come del Dottor trahea la sorte.
104
Et quivi Adonio a comandare al cane
incominciò, et il cane a ubedir lui,
e far danze nostral, farne de estrane,
con passi e continenze e modi sui,
e finalmente con maniere humane
far ciò che comandar sapea colui,
con tanta attentïon, che chi lo mira
non batte li occhi, e a pena il fiato spira.
105
Gran maraviglia, et indi gran disire
venne alla donna di quel can gentile;
et ne fa per la balia proferire
al cauto peregrin prezzo non vile.
«S’havesti più thesor che mai sitire
potesse cupidigia feminile
(rispose), non saria giusta mercede
per comperar di questo cane un piede».
106
E per mostrar che veri i detti fôro,
con la balia in un canto si ritrasse,
e disse al cane che una marcha d’oro
a quella donna in cortesia donasse.
Scossesi il cane, e videsi il thesoro.
Disse Adonio alla balia che pigliasse,
suggiungendo: «Ti par che prezzo sia
per cui sì bello et util cane io dia?
107
Cosa, qual vogli sia, non gli domando,
de ch’io ne torni mai con le man vuote;
e quando perle, e quando annella, e quando
liggiadra veste e di gran prezzo scuote.
Pur di’ a Madonna che fia al suo comando;
per oro non, ch’oro pagar no ’l puote:
ma se vuol ch’una notte seco io giaccia,
habbiasi il cane, e il suo voler ne faccia».
108
Così dice; e una gemma alhora nata
le dà, ch’alla patrona l’appresenti.
Pare alla balia haverne più derata
che di pagar diece ducati o venti.
Torna alla donna, e le fa l’ambasciata;
poi la conforta assai che si contenti
d’acquistare il bel can, quando acquistarlo
per prezzo può, che non si perde a darlo.
109
La bella Argìa sta ritrosetta in prima;
parte, che la sua fé romper non vuole,
parte, ch’esser possibile non stima
tutto ciò che ne suonan le parole.
La balia le ricorda, e rode e lima,
che tanto ben di raro avenir suole;
e fe’ che l’agio un altro dì si tolse,
ch’el can veder senza tanti occhi vòlse.
110
Quest’altro comparir che Adonio fece
fu la ruina e del Dottor la morte.
Facea nascer le doble a diece a diece,
filze di perle, e gemme d’ogni sorte:
sì che il superbo cor mansuefece,
che tanto meno a contrastar fu forte,
quanto poi seppe che costui che inante
gli fa partito è il cavallier suo amante.
111
De la puttana balia li conforti,
li prieghi de l’amante e la presentia,
el veder che guadagno se le apporti,
del misero Dottor la lunga absentia,
el sperar che alcun mai non lo rapporti,
fêro a i casti pensier tal vïolentia,
ch’ella accettò il bel cane, e per mercede
in braccio e in preda a l’amator si diede.
112
E tanto se gli diede, et egli tanto
de superchio ne tolse e notte e giorno,
parendogli avanzarlosi per quanto
bramarà poi se fa il Dottor ritorno,
ch’in men de quattro mesi in doglia e in pianto
volti li risi e le allegrezze fôrno:
ne cadde infermo, e fu il suo mal sì rio,
che non ne sorse mai, fin che morio.
113
Per la morte de Adonio non si tolse
da la giovane mai perhò la Fata:
le pose amore, e tanto le ne vòlse,
che sempre star con lei si fu ubligata.
Per tutti i segni il Sol prima si volse
che al giudice licentia fusse data:
al fin tornò, ma pien di gran suspetto
per quel che già l’astrologo havea detto.
114
Fa, giunto ne la patria, il primo volo
a casa de l’astrologo, e gli chiede
se la sua bella donna inganno e dolo,
o pur servato gli habbia amore e fede.
El sito figurò colui del polo,
e luoco a tutti li pianeti diede;
poi rispose che quel che havea temuto,
come predetto fu, gli era avenuto:
115
che da doni grandissimi corrotta,
s’havea ad altrui la donna messa in preda.
Questa al Dottor nel cor fu sì gran botta,
che lancia e spiedo io vuo’ che ben le ceda.
Per esserne più certo, ne va alhotta
(ben che pur troppo all’indivino creda),
et con la Balia si tira in disparte,
et per saperne il certo usa grande arte.
116
Con larghi giri circondando prova
hor qua hor là de ritrovar la traccia;
e da principio nulla ne ritruova,
con ogni diligentia che ne faccia;
ch’ella, che non havea tal cosa nuova,
stava negando con immobil faccia;
e come ben instrutta, più d’un mese
tra il dubio e ’l certo il suo patron suspese.
117
Quanto devea parerli il dubio buono,
se pensava il dolor c’havria del certo!
Poi che con gran promesse et alcun dono
si fu intorno alla Balia invano experto,
né toccar puòte ove sentisse suono
altro che falso, hebbe alcun dì sofferto,
tanto che ira e discordia intervenisse;
che ove femine son, son lite e risse.
118
E come egli aspettava, così avenne;
perché al primo coruccio che vi nacque,
senza altrui ricercar, la balia venne
il tutto a ricontargli, e nulla tacque.
Lungo a dir fôra ciò ch’el cor sostenne,
come la mente consternata giacque
del giudice mischin, che fu sì oppresso,
che stette per uscir fuor di se stesso:
119
e se dispose al fin, dal’ira vinto,
morir, ma prima uccider la sua moglie;
che d’amendue li sangui un ferro tinto
levassi lei di biasmo, e sé di doglie.
Se ne ritorna in la città, suspinto
da così furibonde e cieche voglie;
indi alla villa un suo fidato manda,
e quanto exequir debbia gli commanda.
120
Commanda al servo che alla moglie Argìa
torni alla villa, e in nome suo le dica
ch’egli è da febre oppresso così ria,
che di trovarlo vivo havrà fatica;
sì che, senza aspettar più compagnia,
venir debbia con lui, s’ella gli è amica;
verrà: sa ben che non farà parola;
e che tra via le seghi egli la gola.
121
Per obedirgli va il fedel famiglio:
parla alla donna, e seco in via si mette.
Partendo, diede al cane ella de piglio,
che senza quello una hora mai non stette.
Il can l’havea avisata del periglio,
né per questo timor ella ristette;
c’havea ben disegnato e proveduto
donde nel gran bisogno havrebbe aiuto.
122
Levato il servo del camino s’era;
e per diverse e disusate strade
a studio capitò su una riviera
che d’Apennino in questo fiume cade;
dove era bosco e selva oscura e nera,
lungi da villa e lungi da cittade:
gli parve luoco tacito e disposto
per l’effetto crudel che gli fu imposto.
123
Trasse la spada, e alla patrona disse
quanto commesso il suo signor gli havea;
sì che chiedesse, prima che morisse,
perdono a Dio d’ogni sua colpa rea.
Non ti so dir come ella si coprisse:
quando il servo ferirla si credea,
più non la vide, e molto d’ognintorno
l’andò cercando, e al fin restò con scorno.
124
Torna al patron con gran vergogna et onta,
tutto attonito in faccia e sbigottito,
e l’insolito caso gli racconta,
ch’egli non sa come si sia seguito.
Ch’a’ suoi servigi habbia la moglie pronta
la fata Manto, non sapea il marito;
che la balia, onde il resto havea saputo,
questo (non so perché) gli havea tacciuto.
125
Non sa che far; che né l’oltraggio grave
vendicato ha, né le sue pene ha sceme.
Quel ch’era una festuca, hora è una trave,
tanto gli pesa, tanto al cor gli preme.
L’error che sapean pochi, hor sì aperto have,
che presto presto si palesi, teme:
potea il primo celarsi; ma il secondo
publico in breve fia per tutto il mondo.
126
Connosce ben che, poi ch’el cor fellone
havea scoperto il misero contr’essa,
che, per non gli tornar in suggettione,
d’alcun potente in man si serà messa;
che con publica infamia e irrissïone
se la terrà per concubina expressa;
e forse ancho verrà d’alcuno in mano,
che ne fia insieme adultero e ruffiano.
127
Sì che, per proveder subito a questo,
ne va in persona, e manda altri a cercarne;
manda a Reggio, a Cremona, a Brescia presto,
per Lombardia, senza città lassarne;
cerca Romagna, ambe le Marche, e il resto
d’Italia, e fa per tutto dimandarne:
né mai può ritrovar capo né via
di venire a notitia che ne sia.
128
Al fin chiama quel servo a chi fu imposta
l’opra crudel che poi non hebbe effetto,
et fa che lo conduce ove nascosta
se gli era Argìa, sì come gli havea detto;
che forse, in qualche macchia el dì reposta,
la notte si ripara ad alcun tetto.
Lo guida il servo ove trovar si crede
la folta selva, e un gran palagio vede.
129
Fatto havea farsi alla sua Fata intanto
la bella Argìa con sùbito lavoro
d’alabastri un palagio per incanto,
drento e di fuor tutto fregiato d’oro.
Né lingua dir, né cor pensar può quanto
havea beltà di fuor, drento thesoro.
Quello che hiersera sì ti parve bello
del mio signor, serìa un tugurio a quello.
130
Di tapeti e di razzi, e di cortine
tessute e riccamate a varie foggie,
ornate eran le stalle e le cantine,
non sale pur, non pur camere e loggie;
v’erano e vasi d’oro e ne le fine
gemme cavati, azurre e verdi e roggie;
senza fin dico e piatti e coppe e nappi,
e sanza fin d’oro e di seta i drappi.
131
El giudice (sì come io ti dicea)
venne in questo palagio a dar di petto,
quando né una capanna si credea
di ritrovar, ma solo el bosco schietto.
De l’alta maraviglia che n’havea,
pareagli esser uscito d’intelletto:
non sapea se sognassi o se fusse ebro,
o se pur era a volo ito el cerèbro.
132
Nanzi alla porta vede uno Ethïòpo
con naso e labri grossi; et ègli aviso
che non vedesse mai, prima né dopo,
un così sozzo e dispiacevol viso;
poi de fattezze qual si pigne Esopo,
d’attristar, se vi fusse, il paradiso;
bisunto e sporco, e d’habito mendico:
né a mezo anchor di sua brutteza i’ dico.
133
Anselmo, che non vede altro da cui
possa saper di chi la casa sia,
a-llui s’accosta, e ne dimanda lui;
et ei risponde: «Questa casa è mia».
El giudice è ben certo che colui
lo beffi et che gli dica la bugia:
ma con scongiuri il negro ad affirmare
che sua è la casa, e ch’altri non v’ha a fare;
134
et gli offerisce, se la vuol vedere,
che drento vada, e cerchi come voglia;
et se v’ha cosa che gli sia in piacere
o per sé o per li amici, se la toglia.
El caval diede al servo suo a tenere
Anselmo, e mise el piè drento alla soglia;
e per sale e per camere condutto,
da basso e d’alto andò mirando il tutto.
135
La forma, il sito, il ricco et bel lavoro
va contemplando, e l’ornamento regio;
e spesso dice: «Non potria quanto oro
è sotto il Sol pagar el luoco egregio».
A questo gli risponde il brutto Moro,
e dice: «E questo anchor truova il suo pregio:
ben che nol possa oro pagar, non meno
pagar lo può quel che vi costa meno»;
136
e gli fa la medesima richiesta
c’havea già Adonio alla sua moglie fatta.
De la brutta dimanda e dishonesta,
persona lo stimò bestiale e matta.
Per tre repulse o quattro egli non resta;
e tanti modi a suaderlo adatta,
sempre offerendo in merito el palagio,
che fe’ inchinarlo al suo voler malvagio.
137
La moglie Argìa, che stava presso ascosa,
poi che lo vide nel suo error caduto,
saltò fuora gridando: «Ah degna cosa
ch’io veggio di Dottor saggio tenuto!».
Trovato in sì mal’opra et vitïosa,
pensa se rosso far si deve e muto.
O terra, acciò ti si gettasse dentro,
perché allhor non t’apristi sin al centro?
138
La donna in suo discarco, et in vergogna
d’Anselmo, il capo gl’intronò di gridi,
dicendo: «Come te punir bisogna
di quel che far con sì vil huom ti vidi,
se per seguir quel che natura agogna,
me, vinta a’ prieghi del mio amante, uccidi?
ch’oltra che bello fu, dono mi fece
che val di tal palagi e diece e diece.
139
S’io ti parvi esser degna d’una morte,
connosci che ne sei degno di cento;
et ben che in questo luoco io sia sì forte
ch’io possa di te fare el mio talento,
pur i’ non vuo’ pigliar di peggior sorte
altra vendetta del tuo fallimento,
ma che di par l’haver e il dar si pona;
e come io a te, tu così a me perdona:
140
e sia la pace e il puntamento fatto,
ch’ogni passato error vada in oblio;
né che in parole io possa mai né in atto
raccordarti ’l tuo error, né a me tu il mio».
Al marito ne parve haver buon patto,
né dimostrossi al perdonar restio.
Così a pace e concordia ritornaro,
e sempre poi fu l’uno all’altro caro. –
141
Così disse il nocchiero; e mosse a riso
Rinaldo al fin de la sua storia un poco;
e diventar gli fece a un tratto il viso,
pel scorno del Dottor, come di fuoco.
Rinaldo Argìa molto lodò, che aviso
hebbe d’alzare a quello augello un giuoco
che alla medesma rete fe’ cascallo,
in che ella cadde, ma con minor fallo.
142
Poi che più in alto il Sole il camin prese,
fe’ il paladino apparecchiar la mensa,
c’havea la notte il Mantuan cortese
provista con larghissima dispensa.
Fuggìa a sinistra intanto il bel paese,
et a man destra la palude immensa:
venne e fuggìsse Argenta e il suo Girone
col lito ove Santerno il capo pone.
143
Alhora la Bastìa credo non v’era,
di che non troppo si vantâr Spagnuoli
d’havervi su tenuta la bandiera;
ma più da pianger n’hanno i Romagnuoli.
Quindi a filo diritta la riviera
caccia il legnetto, e fa parer che voli;
poi lo rasegna ad una fossa morta,
ch’a mezo dì nanzi a Ravenna il porta.
144
Ben che Rinaldo con pochi denari
fusse sovente, pur n’havea sì alhora
che cortesia ne fece a’ marinari,
prima che li lasciasse alla bonhora.
Quindi mutando bestie e cavallari,
Arimino passò la sera anchora;
né in Montefiore aspetta il matutino,
e quasi a par col Sol giunge in Urbino.
145
Quivi non era Federico alhora,
né l’Issabetta, né ’l buon Guido v’era,
né Francesco Maria, né Leonora,
che con cortese forza e non altiera
havesse astretto a far seco dimora
sì famoso guerrier più d’una sera;
come fêr già molt’anni, et hoggi fanno
a donne e cavallier che di là vanno.
146
Poi che quivi alla briglia alcun no ’l prende,
smonta Rinaldo a Cagli alla via dritta;
e da la foce ch’el Metauro fende
passa Apennino, e più non l’ha a man ritta;
passa l’Ombri e l’Etrusci, e a Roma scende;
da Roma ad Ostia; e quindi si traghitta
per mar alla cittade a cui commise
el pietoso figliuol l’ossa de Anchise.
147
Muta ivi legno, e verso l’isoletta
di Lipadusa fa presto levarsi,
quella che fu da’ combattenti eletta,
et ove già stati erano a trovarsi.
Insta Rinaldo, e li nocchieri affretta,
ch’a vela e remi fan ciò che può farsi;
ma i venti aversi e per lui mal gagliardi
lo fecer (ma di poco) arrivar tardi.
148
Giunse che a punto il principe d’Anglante
fatta havea l’util opra e glorïosa:
havea Gradasso ucciso et Agramante,
ma con dura vittoria e sanguinosa.
Morto n’era il figliuol di Monodante;
e di grave percossa e perigliosa
stava Olivier languendo su l’arena,
e del piè guasto havea martìre e pena.
149
Tener non puòte il Conte asciutto il viso
quando abbracciò Rinaldo, e che narrolli
che gli era stato Brandimarte ucciso,
che tanta fede e tanto amor portolli.
Né men Rinaldo, quando sì diviso
vide ’l capo all’amico, hebbe occhi molli:
poi quindi ad abbracciar si fu condotto
Olivier che sedea col piede rotto.
150
La consolatïon che seppe, tutta
diè lor, ben che per sé tuor non la possa;
che giunto si vedea quivi alle frutta,
anzi poi che la mensa era rimossa.
Andaro i servi alla città distrutta
e vi portâr de li Re morti l’ossa,
e in le ruine ascoser di Biserta;
e quivi divulgâr la cosa certa.
151
De la vittoria c’havea havuto Orlando
s’allegrò Astolfo e Sansonetto molto;
non perhò sì, come havrian fatto, quando
non fusse a Brandimarte il spirar tolto:
sentir lui morto il gaudio va scemando
sì, che non ponno asserenare il volto.
Hor chi serà di lor ch’annontio voglia
a Fiordiligi dar di sì gran doglia?
152
La notte che precesse a questo giorno
Fiordiligi sognò che quella vesta
che, per mandarne Brandimarte adorno,
havea trappunta e di sua man contesta,
vedea per mezo sparsa e d’ognintorno
di goccie rosse, a guisa di tempesta:
parea che di sua man così l’havesse
riccamata ella, e poi se ne dogliesse.
153
E parea dir: – Pur hammi il Signor mio
commesso ch’io la faccia tutta nera:
hor perché dunque riccamata holla io
contra sua voglia in sì strana maniera? –
Di questo sogno fe’ giudicio rio;
poi la novella giunse quella sera:
ma tanto Astolfo ascosa le la tenne,
ch’a-llei con Sansonetto se ne venne.
154
Tosto ch’intraro, e che ella loro il viso,
dopo tanta vittoria, vide privo
d’ogni letitia, sa senza altro aviso
che Brandimarte suo non è più vivo.
Di ciò le resta il cor così conquiso,
e così li occhi hanno la luce a schivo,
e così ogn’altro senso se le serra,
che come morta andar si lascia in terra.
155
Al ritornar del spirto, ella alle chiome
cacciò le mani et alle belle guote,
e ripetendo indarno il caro nome,
fece onta e danno lor più che far puòte:
stracciò i capelli e sparse; e gridò come
donna talhor ch’el Demon rio percuote,
o come s’ode che già a suon di corno
Menade corse et aggirossi intorno.
156
Hor questo hor quel pregando va, che porto
le sia un coltel, sì che nel cor si fera;
hor correr vuol là dove il legno in porto
de li dui Re defunti arrivato era,
e far de l’uno e l’altro così morto
straccio crudele e vendetta acre e fiera;
hor vuol passare il mare, e cercar tanto,
che possa al suo Signor morire accanto.
157
– Deh perché, Brandimarte, ti lasciai
senza me andare a tanta impresa? – disse.
– Vedendoti partir, non fu più mai
che Fiordiligi tua non te seguisse.
T’havrei giovato, s’io venivo, assai,
c’havrei tenute in te le luci fisse;
e se Gradasso havesti drieto havuto,
con un sol grido io t’havrei dato aiuto;
158
o forse esser potrei stata sì presta,
ch’intrando in mezo, il colpo t’havrei tolto;
fatto scudo t’havrei con la mia testa;
che morendo io, non era il danno molto.
Ogni modo io morrò; né fia di questa
dolente morte alcun profitto colto;
che quando io fussi morta in tua difesa,
non potrei meglio haver la vita spesa.
159
Se pur ad aiutarti i duri fati
havessi havuti e tutto il cielo adverso,
li ultimi baci almeno io t’havrei dati,
almen t’havrei di pianto il viso asperso;
e prima che con li Angeli beati
si fussi il spirto al suo Fattor converso,
detto gli havrei: Va’ in pace, e là m’aspetta;
ch’ovunque sei, son per seguirti in fretta.
160
È questo, Brandimarte, è questo il regno
di che pigliare il scettro hora devevi?
Hor così teco a Damoggir io vegno?
così nel real seggio mi ricevi?
Ah Fortuna crudel, quanto disegno
mi rompi! oh che speranza hoggi mi lievi!
Deh, che cesso io, poi c’ho perduto questo
tanto mio ben, ch’io non perdo ancho il resto? –
161
Questo et altro dicendo, in lei risorse
il furor con tanto impeto e la rabbia,
ch’a stracciar il bel crin di nuovo corse,
come il bel crin tutta la colpa n’habbia;
le mani insieme si percosse e morse,
nel sen si cacciò l’ugne e ne le labbia.
Sfógati, donna, e grida e stride e piagni,
mentre io vuo’ dir del Conte e de’ compagni.
162
Perché il mal d’Oliviero havea non poco
di medico bisogno e di gran cura,
et altrotanto perché in degno luoco
havesse Brandimarte sepultura,
verso il monte n’andâr che fa col fuoco
chiara la notte, il dì di fumo oscura.
V’hanno propicio il vento, e a destra mano
non è quel lito lor molto lontano.
163
Con fresco vento ch’in favor veniva,
sciolser la fune al declinar del giorno,
mostrando lor la taciturna Diva
la dritta via col luminoso corno;
e sorser l’altro dì sopra la riva
ch’amena giace ad Agringento intorno.
Quivi Orlando ordinò per l’altra sera
ciò che a funeral pompa bisogno era.
164
Poi che l’ordine suo vide exequito,
essendo homai dil Sole il lume spento,
fra molta nobiltà ch’era allo ’nvito
de’ luoghi intorno corsa in Agringento,
d’accesi torchi tutto ardendo il lito
e de grida suonando e di lamento,
tornò Orlando ove il corpo havea lassato,
che vivo e morto havea con fede amato.
165
Quivi Bardin di soma d’anni grave
stava piangendo alla bara funèbre,
che pel gran pianto c’havea fatto in nave
devria li occhi haver pianti e le palpèbre.
Chiamando il ciel crudel, le stelle prave,
ruggia come un leon c’habbia la febre;
le mane erano intanto empie e ribelle
a i crin canuti, alla rugosa pelle.
166
Levossi, al ritornar del paladino,
maggior il grido, e raddoppiossi il pianto.
Orlando, fatto al corpo più vicino,
senza parlar stette a mirarlo alquanto,
pallido, come colto al matutino
è il ligustro la sera, o il molle acantho;
e dopo un gran suspir, tenendo fisse
sempre le luci in lui, così gli disse:
167
– O forte, o caro, o mio fedel compagno,
che qui sei morto, e so che vivi in cielo,
e d’una vita v’hai fatto guadagno
che non ti può mai tôr caldo né gelo,
perdonami, se ben vedi ch’io piagno;
perché d’esser rimaso mi querelo,
e ch’a tanta leticia io non sia teco;
e non perché qua giù tu non sia meco.
168
Solo senza te son; né cosa in terra
senza te posso haver più, che mi piaccia.
Se teco ero in tempesta e teco in guerra,
perché non ancho in l’otio e in la bonaccia?
Ben grande è il mio fallir, poi che mi serra
di questo fango uscir per la tua traccia.
Se de li affanni teco fui, perc’hora
non sono a parte del guadagno anchora?
169
Tu guadagnato, e perdita ho fatto io:
sol tu all’acquisto, io non son solo al danno.
Participe fatto è del dolor mio
l’Italia, il regno Franco e l’Alemanno.
Oh quanto, quanto il mio Signore e Zio,
oh quanto i paladin da doler s’hanno!
quanto l’Imperio e la christiana Chiesa,
che perduto ha la sua maggior difesa!
170
Oh quanto si torrà per la tua morte
di terrore a’ nemici e di spavento!
Oh quanto Paganìa serà più forte!
quanto animo n’havrà, quanto ardimento!
Oh come ne de’ star la tua consorte!
Sin qui ne veggio il pianto, e il grido sento.
So che m’accusa, e forse odio mi porta,
che per me teco ogni sua speme è morta.
171
Ma, Fiordiligi, almen resti un conforto
a noi che siàn di Brandimarte privi;
ch’invidiar lui con tanta gloria morto
denno tutti i guerrier c’hoggi son vivi.
Quelli tre Decii, e quel nel foro absorto,
quel sì lodato Codro da li Argivi,
non con più altrui profitto e più suo honore
a morte s’offerì, del tuo signore. –
172
Queste parole et altre dicea Orlando.
Intanto i bigi, i bianchi, i neri frati,
e tutti li altri chierci, seguitando
andavan con lungo ordine accoppiati,
per l’alma del defunto Dio pregando
che gli donasse requie tra’ beati.
Lumi intanto per mezo et ognintorno
mutata haver parean la notte in giorno.
173
Levan la bara, et a portarla fôro
messi a vicenda Conti e Cavallieri.
Purpurea seta la copria, che d’oro
e grosse perle havea compassi altieri;
di non men bello e signoril lavoro
havea gemmati e splendidi orilieri:
e giacea quivi il cavallier con vesta
di color pare, e d’un lavor contesta.
174
Trecento a tutti eran passati inanti,
de’ più poveri tolti de la terra,
che stati eran vestiti tutti quanti
di panni negri e lunghi sin a terra.
Cento paggi seguian sopra altrotanti
grossi cavalli e tutti buoni a guerra;
e li cavalli e i paggi ivano il suolo
radendo col lor habito di duolo.
175
Molte bandiere inanzi e più dirietro,
che di diversi segni eran dipinte,
portavan gentilhuomini al ferètro;
che da Infedeli in più battaglie, vinte
al Imperio di Cesare e di Pietro
havean le forze c’hor giaceano extinte.
Scudi v’erano molti, che de degni
guerrieri, a chi fur tolti, haveano i segni.
176
Venian cento e cent’altri a diversi usi
de l’exequie ordinati; et havean questi,
come ancho il resto, accesi torchi; e chiusi,
più che vestiti, eran di nere vesti.
Poi seguia Orlando, e ad hor ad hor suffusi
di lachryme havea li occhi e rossi e mesti;
né più lieto di lui Rinaldo venne:
il piè Olivier, che rotto havea, ritenne.
177
Lungo serà s’io vi vuo’ dir in versi
le cerimonie, e raccontarvi tutti
li dispensati manti oscuri e persi,
li accesi torchi che vi furon strutti.
Quindi alla chiesa cathedral conversi,
dovunque andâr, non lasciaro occhi asciutti:
sì bel, sì buon, sì giovene a pietade
mosse ogni sesso, ogni ordine, ogni etade.
178
Fu posto in chiesa; e poi che da le donne
di lachryme e di pianti inutil opra,
e da li sacerdoti hebbe il leisonne
e li altri santi detti havuto sopra,
in una arca il serbâr tra due colonne,
come Orlando ordinò, che se ricopra
di ricco drappo d’or, sin che reposto
in un sepolchro sia di maggior costo.
179
Orlando di Sicilia non si parte,
che manda a trovar porphydi e alabastri.
Fece fare il disegno, e di quella arte
inarrar con gran premio i miglior mastri.
Fe’ le lastre (venendo in questa parte)
poi drizzar Fiordiligi, e li pilastri;
che quivi (essendo Orlando già partito)
si fe’ portar da l’Aphricano lito.
180
E vedendo le lachryme indefesse,
et ostinati a uscir sempre i suspiri,
né per far sempre dire uffici e messe
mai satisfar possendo a’ suoi disiri;
di non partirsi quindi in cor si messe
fin che del corpo l’anima non spiri:
e nel sepolchro fe’ fare una cella,
e vi si chiuse; e fe’ sua vita in quella.
181
Orlando, per voler quindi levarla,
mandò poi messi, e vi tornò in persona:
se viene in Francia, vuol compagna farla
di Galerana, e pension darle buona;
e vuol sin alla Lizza accompagnarla,
quando tornare al padre suo prepona;
edificar le vuole un monastiero,
quando servire a Dio faccia pensiero.
182
Ella sta nel sepolchro; e quivi attrita
da penitentia, orando giorno e notte,
non durò lunga età, che di sua vita
da la Parca le fur le fila rotte.
Già fatto havea da l’isola partita,
dove i Cyclopi havean l’antique grotte,
li tre guerrier di Francia, afflitti e mesti
ch’el quarto lor compagno a dietro resti.
183
Non vollon senza medico levarsi
per il mal d’Olivier che era molesto,
quando a principio mal puoté curarsi
per non haver chi fusse buono a questo.
Non cessava Olivier di lamentarsi,
e facea ognun di sé pietoso e mesto;
e di ciò ragionando, al nocchier nacque
un pensiero, e lo disse; e a tutti piacque.
184
Disse che era de lor poco lontano
in un solingo scoglio uno Eremita,
a cui ricorso mai non s’era invano,
o fosse per consiglio o per aita;
e facea alcuno effetto soprahumano,
dar lume a ciechi, e tornar morti a vita,
fermare il vento ad un segno di croce,
e far tranquillo il mar quando è più atroce:
185
e che non denno dubitare, andando
a ritrovar quel huomo a Dio sì caro,
che lor non renda Olivier sano, quando
fatto ha di sua virtù segno più chiaro.
Questo consiglio sì piacque ad Orlando,
che verso il santo luoco si drizzaro;
né mai piegando dal camin la prora,
videro il scoglio al sorger de l’Aurora.
186
Scorgendo il legno huomini in l’acqua dotti,
sicuramente s’accostaro a quello.
Quivi aiutando servi e galeotti,
poser suavemente nel battello
il Marchese stroppiato: e fur condotti
nel duro scoglio, et indi al santo hostello;
al santo hostello, a quel Vecchio medesmo
per le cui mano hebbe Ruggier battesmo.
187
El servo del Signor del paradiso
raccolse Orlando e li compagni suoi,
e benedilli con giocondo viso,
e de’ lor casi dimandolli poi;
ben che de lor venuta havuto aviso
havesse già da li celesti Heroi.
Orlando gli rispose esser venuto
per ritrovare ad Oliviero aiuto;
188
ch’era, pugnando per la fé di Christo,
a periglioso termine ridutto.
Levògli il Santo ogni suspetto tristo,
e gli promise di sanarlo in tutto.
Né havendo unguento né liquor provisto,
né d’altra humana medicina instrutto,
intrò in la chiesa, et orò al Salvatore;
et indi uscì con gran baldanza fuore:
189
e in nome de le eterne tre persone,
padre e figliuolo e spirto santo, diede
ad Olivier la benedittïone.
Oh virtù che dà Christo a chi gli crede!
Cacciò dal cavallier la passïone,
e ritornolli a sanitade il piede,
più fermo e più expedito che mai fosse:
e presente Sobrino a ciò trovosse.
190
Giunto Sobrin de le sue piaghe a tanto,
che star peggio ogni giorno se ne sente,
tosto che vide del Monacho santo
il miracolo grande et evidente,
si dispose Machon poner da canto,
e Christo confessar vivo e potente:
e dimandò, con cor di fé contrito,
inicïarsi al nostro sacro rito.
191
Così l’huom giusto battizollo, et ancho
gli rese, orando, ogni vigor primiero.
Orlando e li altri cavallier non manco
di tal conversïon leticia fêro,
che di veder che liberato e franco
dil periglioso mal fusse Oliviero.
Maggior gaudio Ruggier di tutti n’hebbe;
e molto in fede e divotione accrebbe.
192
Era Ruggier, dal dì che giunse a nuoto
su questo scoglio, poi statovi ognhora.
Fra quei guerrieri il Vecchiarel devoto
sta dolcemente, e li conforta e exora
a voler, schivi di pantano e loto,
mondi passar per questa morta gora
c’ha nome vita, che sì piace a’ sciocchi;
et alla via del ciel sempre haver li occhi.
193
Orlando un suo mandò sul legno, e trarne
fece pane e buon vin, cacio e persutti;
e l’huom di Dio, ch’ogni sapor di starne
pose in oblio, poi che avezzossi a’ frutti,
per charità mangiar fecero carne
e ber del vino, e far quel che fêr tutti.
Poi che alla mensa consolati fôro,
di molte cose ragionâr tra loro.
194
E come accade nel parlar sovente
ch’una cosa vien l’altra dimostrando,
Ruggier riconnosciuto finalmente
fu da Rinaldo, da Olivier, da Orlando,
per quel Ruggiero in arme sì excellente,
el cui valor s’accorda ognun lodando:
né Rinaldo l’havea raffigurato
per quel che seco intrò già nel steccato.
195
Ben l’havea il Re Sobrin riconnosciuto
tosto ch’el vide col Vecchio apparire;
ma vòlse inanzi star tacito e muto
che porsi in aventura di fallire.
Poi che a notitia a li altri fu venuto
che questo era Ruggier, di cui l’ardire,
la cortesia, il valor alto e profondo
si facea nominar per tutto il mondo;
196
e sapendosi già che era christiano,
tutti con lieta e con serena faccia
vengono a lui: chi gli tocca la mano,
e chi lo bacia, e chi lo stringe e abbraccia.
Sopra li altri il signor di Montalbano
d’accarezzarlo e fargli honor procaccia:
perch’esso più de li altri, vi diremo
nel altro canto, che serà l’estremo.