CANTO TRIGESIMOTTAVO
1
Qual duro freno o qual ferrigno nodo,
qual (s’esser può) catena di diamante
farà che l’ira servi ordine e modo,
che non trascorra oltra il prescritto inante,
quando persona che con saldo chiodo
t’habbia Amor fissa al cor, ti veggi inante
per vïolentia altrui o per inganno
patire o dishonore o mortal danno?
2
E se crudele et inhumano effetto
da quell’impeto segue, par che sia
degno d’excusa, perché allhor del petto
non ha Ragione imperio né balìa.
Ad Achil, poi che sotto il falso elmetto
vide Patròclo insanguinar la via,
d’essersi vendicato non fu aviso,
se morto non trahea chi l’havea occiso.
3
Invicto Alfonso, simile ira accese
la vostra gente il dì che vi percosse
la fronte il grave sasso, e sì v’offese,
ch’ognun pensò ch’el spirto gito fosse:
la trasse a tal furor, che non difese
vostri inimici argini o mura o fosse,
che tutti fur l’un sopra l’altro morti,
senza lasciar chi la novella porti.
4
El vedervi cader causò il dolore
ch’i vostri a furor mosse e a crudeltade.
Se in piedi erate voi, forse minore
licentia havriano havute le lor spade.
Eravi assai, che la Bastìa in manche hore
v’haveste ritornata in potestade,
che tolta in giorni a voi non era stata
da gente Cordovese e di Granata.
5
Forse fu da Dio vindice permesso
che vi trovaste a quel caso impedito,
acciò ch’el crudo e scelerato excesso
che dianzi fatto havean, fosse punito;
che, poi che in lor man vinto si fu messo
il miser castellan, stanco e ferito,
senza arme fu fra cento spade occiso
dal popul la più parte circonciso.
6
Ma per venir a conclusion, vi dico
che nessun’altra quell’ira pareggia,
quando signor, parente o sotio antico
dinanzi a li occhi ingiurïar ti veggia.
Dunque è ragion che per sì caro amico
Orlando più che mai fulminar deggia;
che de l’horribil colpo che gli diede
il Re Gradasso, morto in terra il vede.
7
Qual nomade pastor, che veduto habbia
fuggir strisciando il squalido serpente
che il figliuol che giocava ne la sabbia
ucciso gli ha col venenoso dente,
stringe il baston con chòlera e con rabbia;
tal la spada, d’ogn’altra più tagliente,
stringe con ira il cavallier d’Anglante:
il primo che trovò fu il Re Agramante,
8
che sanguinoso e de la spada privo,
col scudo rotto e con l’elmo disciolto,
e ferito in più parti ch’io non scrivo,
s’era di man di Brandimarte tolto
come di piè al astor sparvier mal vivo,
a cui lasciò alla coda invido o stolto.
Orlando giunse, e messe il colpo giusto
dove il capo si termina col busto.
9
Sciolto era l’elmo e disarmato il collo,
sì che lo tagliò netto come un gionco.
Cadde, e in la sabbia diè l’ultimo crollo
del regnator di Lybia il grave tronco:
corse il spirto alla riva, onde tirollo
Charon nel legno suo col graffio adonco.
Orlando sopra lui non se ritarda,
ma truova il Serican con Balisarda.
10
Come vide Gradasso d’Agramante
cadere il busto dal capo diviso;
quel che accaduto mai non gli era inante,
tremò nel core e si smarrì nel viso;
e al arrivar del cavallier d’Anglante,
presago del suo mal, parve conquiso:
per schermo suo partito alcun non prese
quando il colpo mortal sopra gli scese.
11
Orlando lo ferì nel destro fianco
sotto l’ultima costa; e il ferro, immerso
nel ventre, un palmo uscì dal lato manco,
di sangue sino a l’elsa tutto asperso.
Mostrò ben che di man fu del più franco
e del miglior guerrier del universo
el colpo, che un signor condusse a morte
di cui non era in Paganìa il più forte.
12
Di tal vittoria non troppo gioioso,
presto di sella il paladin si getta;
e col viso turbato e lachrymoso
a Brandimarte suo corre a gran fretta.
Gli vede intorno il campo sanguinoso,
l’elmo sì aperto, che di scure o cetta
par colpo c’habbia un legno fral percosso,
e non di spada un ferrato elmo e grosso.
13
Orlando l’elmo gli levò dal viso,
e ritrovò ch’el capo sin al naso
fra l’uno e l’altro ciglio era diviso:
ma tanto spirto anchor gli era rimaso,
che de’ suoi falli al Re del paradiso
puòte sua colpa dir nanzi all’occaso;
e confortar il Conte, che le guote
spargea di pianto, a patïentia puòte;
14
e puòte dirgli: – Fa’ che ti raccordi
di me in l’oratïon tue grate a Dio;
né men ti raccomando la mia Fiordi… –
ma dir… ligi non puòte, e qui finio.
E voci e suoni in l’aria andar concordi
de l’angeli s’udîr, tosto ch’uscìo
l’alma beata del corporeo velo,
e fra dolce harmonia salire al cielo.
15
Orlando, anchor che far devea allegrezza
di sì devoto fine, e sapea certo
che Brandimarte alla suprema altezza
salito era, ch’el ciel gli vide aperto;
pur da la humana volontade, avezza
co i fragil sensi, male era sofferto
ch’un tal più che fratel gli fusse tolto,
e non haver di pianto humido il volto.
16
Sobrin che molto sangue havea perduto,
che gli piovea sul fianco e su le guote,
riverso già gran pezzo era caduto,
e haver ne devea hormai le vene vuote.
Anchor giacea Olivier, né rïhavuto
il piede havea, né rïhaver lo puote
se non debile e smosso, e del star tanto
che gli fe’ il caval sopra, mezo infranto:
17
e se ’l Cognato non venìa aiutarlo
(sì come lachrymoso era e dolente),
per se medesmo non potea ritrarlo;
e tanta doglia e tal martìr ne sente,
che ritratto che l’ha, né di mutarlo
né fermarvisi sopra era possente;
e n’ha insieme la gamba sì stordita,
che muover non si può se non s’aita.
18
De la vittoria poco rallegrosse
Orlando; e troppo eragli acerbo e duro
veder che morto Brandimarte fosse,
né del cognato molto esser sicuro.
Sobrin, che vivea anchora, ritrovosse,
ma poco chiaro havea con molto oscuro
la vita sua, che per l’uscito sangue
era vicino a rimaner exangue.
19
Lo fece tôr, che tutto era sanguigno,
il Conte, e medicar discretamente;
e confortollo con parlar benigno
come se stato gli fosse parente;
che dopo il fatto nulla di maligno
in sé tenea, ma tutto era clemente.
Fece de’ morti arme e cavalli tôrre;
del resto a’ servi lor lasciò disporre.
20
In questo tempo, alzando li occhi al mare,
vide venire a vela e remi in fretta
un naviglio liggier, che di calare
facea sembiante inverso l’isoletta:
di chi si fosse i’ non voglio hor contare,
perc’ho più d’uno altrove che m’aspetta.
Veggiàno in Francia, poi che spinto n’hanno
li Saracin, se mesti o lieti stanno.
21
Veggiàn che fa quella fedele amante
ch’i suoi contenti andar vede lontani,
dico la travagliata Bradamante,
e che trovati l’ha sì spesso vani;
e poi che quel che fu giurato, inante
che con Rinaldo venisse alle mani,
nulla le giova, hormai poco le avanza
in che ella debbia più metter speranza.
22
E ripetendo i pianti e le querele
che pur troppo domestiche le furo,
tornò a sua usanza a nominar crudele
Ruggiero, e ’l suo destin spietato e duro.
Indi sciogliendo al gran dolor le vele,
il ciel, che consentia tanto pergiuro
né fatto n’havea anchor segno evidente,
chiamava ingiusto, debile e impotente.
23
Ritornò poi de la Maga a dolerse
e de l’oracol falso de la grotta;
ch’a lor mendace suasïon s’immerse
nel mar d’amor, che l’ha a morir condotta.
Indi a Marphisa bella si converse,
e del fratel che l’ha la fede rotta
si ramarica seco, e le dimanda,
piangendo, aiuto, e se le raccomanda.
24
Marphisa se restringe ne le spalle
e, quel sol che può far, le dà conforto;
né crede che Ruggier mai così falle,
ch’a-llei non debbia ritornar di corto;
e se non torna pur, sua fede dàlle
ch’ella non patirà sì grave torto:
o che battaglia piglierà con esso,
o gli farà osservar ciò che ha promesso.
25
Così fa ch’ella un poco il duol raffrena;
c’havendo ove sfogarlo, è meno acerbo.
Havemo vista Bradamante in pena
chiamar Ruggier pergiuro, empio e superbo;
hora veggiàn se miglior vita mena
il fratel suo, che non ha polso o nerbo,
osso o medolla che non senta caldo
de le fiamme d’Amor, dico Rinaldo:
26
dico Rinaldo, che come sapete
Angelica la bella amava tanto;
né l’havea tratto all’amorosa rete
sì la beltà di lei, come l’incanto.
Haveano li altri paladin quïete,
de’ Mori essendo ogni vigore affranto:
tra’ vincitori era rimaso solo
egli captivo in amoroso duolo.
27
Cento messi a cercar che di lei fusse
havea mandato, e cerconne egli stesso;
al fine a Malagigi si ridusse,
che ne i bisogni suoi l’aiutò spesso.
A narrar il suo amor se gli condusse
col viso rosso e col ciglio demesso;
indi lo priega che gli insegni dove
la desïata Angelica si truove.
28
Gran maraviglia di sì strano caso
va rivolgendo a Malagigi il petto:
sa che sol per Rinaldo era rimaso
d’haverla cento volte e più nel letto;
et egli stesso, acciò che persuaso
fusse di questo, havea assai fatto e detto
con prieghi e con minaccie per piegarlo,
né mai havuto havea poter di farlo;
29
et tanto più, che allhor Rinaldo havrebbe
tratto fuor Malagigi di pregione.
Far hor spontaneamente lo vorrebbe,
che nulla giova, e n’ha minor cagione.
Poi prega lui che racordar pur debbe
quanto habbia offeso in questo oltra ragione;
che per negarli già, vi mancò poco
di non farlo morir in scuro luoco.
30
Ma quanto a Malagigi le dimande
di Rinaldo importune più pareano,
tanto, che l’amor suo fusse più grande,
indicio manifesto gli faceano.
Mosso a’ prieghi di lui, che non li spande
mai seco invano, immerse nel Oceano
ogni memoria de la ingiuria vecchia,
e d’aiutarlo presto s’apparecchia.
31
Termine tolse alla risposta, e spene
gli diè che favorevol gli saria,
e che gli saprà dir la via che tiene
Angelica, o sia in Francia o dove sia.
E quindi Malagigi al luoco viene
dove i demoni scongiurar solia,
ch’era fra i monti in una scura grotta;
et apre il libro, e chiama i spirti in frotta.
32
Poi ne sceglie un che de’ casi d’amore
havea notitia, e da lui saper volle
come sia che Rinaldo, che havea il core
dianzi sì duro, hor l’habbia tanto molle:
e quel gli raccontò tutto il tenore
de le due fonti, di che l’una tolle,
l’altra dà il fuoco a cui nulla soccorre,
se non l’altra acqua che contraria corre.
33
E gli narrò, che havendo già di quella
che l’amor caccia beuto Rinaldo,
a i lunghi prieghi d’Angelica bella
si dimostrò così ostinato e saldo;
e che poi giunto per sua iniqua stella
a ber ne l’altra l’amoroso caldo,
tornò ad amar, per forza di quell’acque,
lei che pur dianzi oltra il dever gli spiacque.
34
Da iniqua stella e fier destin fu giunto
a ber la fiamma in quel giacciato rivo;
perché Angelica venne quasi a un punto
a ber ne l’altro di dolcezza privo,
che d’ogni amor gli lasciò il cor sì emunto
ch’indi hebbe lui più che le serpi a schivo:
egli amò lei, e l’amor giunse al segno
in che era di lei giunto l’odio e ’l sdegno.
35
Del strano caso di Rinaldo a pieno
fu Malagigi dal demonio instrutto,
che gli narrò d’Angelica non meno,
ch’a un giovine Aphrican si donò in tutto;
e come poi lasciato havea il terreno
de li Christiani, e per l’instabil flutto
sciolto verso India havea da i liti Hispani
su l’audaci galee de’ Lusitani.
36
Poi che venne il Cugin per la risposta,
molto gli disuase Malagigi
di più Angelica amar, che s’era posta
d’un vilissimo Barbaro a i servigi;
e sì di Francia gita era discosta,
ch’aspro fôra a seguirne li vestigi:
ch’era hoggimai più là che a meza strada
per venir con Medoro in sua contrada.
37
La partita d’Angelica non molto
serebbe grave all’animoso amante;
né pur gl’havria turbato il sonno o tolto
el pensier di tornarsene in Levante:
ma udendo che gli havea del suo amor colto
un Saracino le primitie inante,
tal passïon e tal cordoglio sente,
che non fu in vita sua, mai, più dolente.
38
Non ha poter d’una risposta sola;
trema il cor dentro, e treman fuor le labbia;
non può la lingua disnodar parola;
la bocca ha amara, e par che tòsco v’habbia.
Da Malagigi subito s’invola;
e come il spinge la gelosa rabbia,
dopo gran pianto e gran ramaricarsi,
verso Levante fa pensier tornarsi.
39
Chiede licentia al figlio di Pipino;
e truova excusa ch’el destrier Baiardo,
che ne mena Gradasso saracino
contra il dever di cavallier gagliardo,
lo muove per suo honore a quel camino,
acciò che vieti al Serican bugiardo
di mai vantarsi o con spada o con lancia
haverlo tolto a un paladin di Francia.
40
Lasciollo andar con sua licentia Carlo,
ben che ne fu con tutta Francia mesto;
ma finalmente non seppe negarlo,
tanto gli parve il desiderio honesto.
Vuol Dudon, vuol Guidone accompagnarlo;
ma lo niega Rinaldo a quello e a questo.
Lascia Parigi, e se ne va via solo,
pien di sospiri e d’amoroso duolo.
41
Sempre ha in memoria, e mai non se gli tolle,
che mille volte Angelica haver puòte,
e che sprezzato havea ostinato e folle
così begli occhi et così belle guote;
et di tanto piacer c’haver non volle,
tante et tante hore eran passate vuote:
et hora eleggerebbe un giorno corto
haverne solo, et rimaner poi morto.
42
Ha sempre in mente, et mai non se ne parte,
come esser pote ch’un povero fante
habbia del cor di lei spinto da parte
merito e amor d’ogni altro primo amante.
Con tal pensier, ch’el cor gli straccia e parte,
Rinaldo se ne va verso Levante;
et dritto al Rheno e Basilea si tenne,
fin che d’Ardenna alla gran selva venne.
43
Poi che fu dentro a molte miglia andato
il Paladin pel bosco aventuroso,
da ville e da castella allontanato,
dove aspro era più il luoco e periglioso,
tutto in un tratto vide il ciel turbato,
sparito il Sol tra nuvoli nascoso,
et uscir fuor d’una caverna oscura
un strano mostro in feminil figura.
44
Mill’occhi in capo havea senza palpèbre:
non può serrarli, e non credo io che dorma;
non men che li occhi, havea l’orecchie crebre;
havea in luoco de crin serpi a gran torma.
Fuor de le dïaboliche tenèbre
nel mondo uscì la spaventevol forma.
Un fiero e maggior serpe ha per la coda,
che per il petto le erra e tutta annoda.
45
Quel ch’a Rinaldo in mille e mille imprese
più non avenne mai, quivi gli aviene;
che come vede il mostro ch’all’offese
se gli apparecchia, et ch’a trovar lo viene,
molta paura et gran tremor gli scese
per mezo l’ossa et per tutte le vene:
ma pur l’usato ardir simula et finge,
et con trepida man la spada stringe.
46
S’acconcia il mostro in guisa al fiero assalto,
che si può dir che sia mastro di guerra:
vibra il serpente venenoso in alto,
e poi contra Rinaldo se diserra;
di qua e di là gli vien sopra a gran salto.
Rinaldo contra lui vaneggia et erra:
colpi a dritto e riverso tira assai,
ma non ne tira alcun che fera mai.
47
Il mostro ’l petto ’l serpe hora gli appicca,
che sotto l’arme e sin nel cor l’aggiaccia;
hora per la visera gli lo ficca,
e fa ch’erra pel collo e per la faccia.
Rinaldo da la impresa se dispicca,
e quanto può coi sproni il caval caccia:
ma la Furia infernal già non par zoppa,
che spicca un salto, e gli è subito in groppa.
48
Vada al traverso, al dritto, ove si voglia,
sempre ha con lui la maledetta peste;
né sa modo trovar che se ne scioglia,
ben ch’el caval di calcitrar non reste.
Trema a Rinaldo il cor come una foglia:
non ch’altrimenti il serpe lo moleste;
ma tanto horror ne sente e tanto schivo,
che stride e geme, e duolsi che egli è vivo.
49
Nel più tristo sentier, nel peggior calle
scorrendo va, nel più intricato bosco,
dove ha più asprezza il balzo, ove la valle
è più spinosa, ove è l’aer più fosco,
così sperando tôrse da le spalle
l’horrida lue, l’abominevol tòsco;
et ne saria mal capitato forse,
se presto non giungea chi lo soccorse.
50
Ma lo soccorse a tempo un cavalliero
di bello armato e lucido metallo,
che porta un giuogo rotto per cimiero;
di rosse fiamme ha sparso il scudo giallo,
così trappunto ha ’l suo vestir altiero,
così la sopravesta del cavallo:
la lancia ha in pugno, e la spada al suo luoco,
e la mazza a l’arcion, che getta fuoco.
51
Piena d’un fuoco eterno è quella mazza,
che senza consumarsi ognhora avampa:
né per buon scudo o tempra di corazza
o per grossezza d’elmo se ne scampa.
Dunque si debbe il cavallier far piazza,
giri ove vuol l’inextinguibil lampa:
né manco aiuto era uopo al guerrier nostro
per levarlo di man del crudel mostro.
52
Et come cavallier d’animo saldo,
dove ha udito ’l rumor corre et galoppa,
tanto che vede il mostro che Rinaldo
col brutto serpe in mille nodi aggroppa,
et sentir falli a un tempo freddo et caldo;
che non ha via di tôrlosi di groppa.
Va il cavalliero, e fere il mostro al fianco,
et lo fa trabboccar dal lato manco.
53
Ma quello è a pena in terra che si rizza,
e ’l lungo serpe intorno aggira et vibra.
Quest’altro più con l’hasta non l’attizza,
ma di farla col fuoco si delibra:
la mazza impugna, et dove il serpe guizza,
come tempesta i spessi colpi libra;
né lascia tempo a quel brutto animale
che possa tirar colpo o bene o male:
54
et mentre a dietro il caccia o tiene a bada,
et lo percuote et vendica mill’onte,
consiglia il Paladin che se ne vada
per quella via che s’alza verso il monte.
Quel s’appiglia al consiglio et alla strada;
et senza drieto mai volger la fronte,
non cessa che di vista se gli tolle,
ben che molto aspro era salir quel colle.
55
Il cavallier, poi che in la scura buca
fece tornar il mostro dal inferno,
dove rode se stesso et si manuca,
et da mill’occhi versa il pianto eterno;
per esser di Rinaldo guida et duca,
ch’uopo n’havea, salì il giogo superno
dove egli era ito, et si misse con lui
per trarlo fuor de’ luochi oscuri et bui.
56
Come Rinaldo il vide ritornato,
gli disse che gli havea gratia infinita,
et ch’era debitor in ogni lato
di por a beneficio suo la vita.
Poi lo dimanda come sia nomato,
acciò dir sapia chi gli ha dato aita,
et tra guerrieri possa e inanzi a Carlo
de l’alta sua virtù sempre exaltarlo.
57
Rispose il cavallier: – Non te rincresca
se ’l nome mio non vuo’ scoprirti adesso;
ma ti prometto ben, che prima ch’esca
de l’hemisperio il Sol, t’el farò expresso. –
Trovaro, andando insieme, una acqua fresca
che col dolce mormorio facea spesso
pastori et vïandanti al chiaro rio
venire, e berne l’amoroso oblio.
58
Signor, queste eran quelle gelide acque,
quelle che spengon l’amoroso caldo;
di cui bevendo, ad Angelica nacque
l’odio c’hebbe da poi sempre a Rinaldo.
Et s’ella un tempo a lui prima dispiacque
e ’n l’odio suo lo ritrovò sì saldo,
non derivò, signor, la causa altronde,
se non d’haver già lui beuto in l’onde.
59
Il cavallier che con Rinaldo viene,
come si vede inanzi al chiaro rivo,
caldo per la fatica il caval tiene,
et dice: – Il posar qui non fia nocivo. –
– Non fia (disse Rinaldo) se non bene;
ch’oltra che prema il mezo giorno estivo,
m’ha così il brutto mostro travagliato,
ch’el riposar mi fia commodo e grato. –
60
L’un e l’altro smontò del suo cavallo,
e pascer lo lasciò per la foresta;
e nel fiorito verde a rosso e giallo
ambi si trasser l’elmo de la testa.
Corse Rinaldo al liquido crystallo,
spinto da caldo e da sete molesta,
e cacciò, a un sorso del freddo liquore,
del petto ardente e la sete e l’amore.
61
Come lo vide l’altro cavalliero
la bocca sollevar de l’acqua molle,
e ritrarne pentito ogni pensiero
di quel disir c’hebbe d’amor sì folle,
si levò ritto, e con sembiante altiero
gli disse quel che dianzi dir non volle:
– Sappi, Rinaldo, ch’el mio nome è il Sdegno,
venuto sol per sciorti il giuogo indegno. –
62
Così dicendo, subito gli sparve;
sparvegli insieme il suo caval con lui.
Questo a Rinaldo un gran miracol parve;
s’aggirò intorno, e disse: – Ove è costui? –
Stimar non sa se sian magiche larve,
che Malagigi un de’ ministri sui
gli habbia mandato a romper la catena
che lungamente l’ha tenuto in pena;
63
o pur che Dio da l’alta hierarchia
gli habbia per ineffabil sua bontade
mandato, come già mandò a Thobia,
un angelo a levar di cecitade.
Ma buono o rio demonio, o quel che sia
che reso gli ha la prima libertade,
ringratia e loda; e da lui sol connosce
che sano ha il cor da l’amorose angosce.
64
Gli fu nel primier odio ritornata
Angelica; et gli parve troppo indegna
d’esser, non che sì lungi seguitata,
ma che per lei pur meza lega vegna.
Per Baiardo rihaver tutta fïata
verso India in Sericana andar dissegna,
sì perché l’honor suo lo stringe a farlo,
sì per haverne già parlato a Carlo.
65
Giunse il giorno seguente a Basilea,
dove la nuova era venuta inante
ch’el conte Orlando haver pugna devea
contra Gradasso e contra il Re Agramante.
Né questo per aviso si sapea,
c’havesse dato il cavallier d’Anglante;
ma di Sicilia in fretta venuto era
chi la novella havea detta per vera.
66
Rinaldo vuol trovarsi con Orlando
alla battaglia, e se ne vede lunge.
Di diece in diece miglia va mutando
cavalli e guide, e corre e sferza e punge.
Passa il Rheno a Gostanza, e in su volando
traversa l’Alpe, et in Italia giunge.
Verona a drieto, a drieto Mantua lassa;
sul Po si truova, e con gran fretta il passa.
67
Inchinavasi il Sol molto alla sera
e già apparia nel ciel la prima stella,
quando Rinaldo in ripa alla riviera
stando in pensier s’havea da mutar sella,
o tanto soggiornar che l’aria nera
fuggissi inanzi all’altra Aurora bella,
venir si vede un cavallier inanti,
cortese ne l’aspetto e nei sembianti.
68
Costui, dopo il saluto, con bel modo
gli dimandò se giunto a moglie fosse.
Disse Rinaldo: – I’ son nel giugal nodo; –
ma di tal dimandar maravigliosse.
Suggiunse quel: – Che sia così, ne godo. –
Poi, per chiarir perché tal detto mosse,
lo priegò molto che fusse contento
che gli desse la sera alloggiamento;
69
che gli faria veder cosa che debbe
volentieri veder c’ha moglie al lato.
Rinaldo, e sì perché posar vorrebbe,
hormai di correr tanto affaticato;
e sì ch’a udire et a veder sempre hebbe
nuove aventure un desiderio innato;
accettò l’offerir del cavalliero,
e drieto lui pigliò nuovo sentiero.
70
Un tratto d’arco fuor di strada usciro,
e nanzi un gran palazzo si trovaro,
onde scudieri in gran frotta veniro
con torchi accesi, e fêro intorno chiaro.
Intrò Rinaldo, e voltò li occhi in giro,
e vide luoco il qual si vede raro,
di gran fabrica e bella e bene intesa;
né a privato huom convenia tanta spesa.
71
Di serpentino e porphydo le dure
pietre fan de la porta il ricco vòlto;
quel che chiude è di bronzo, con figure
che sembrano spirar, muovere il volto.
Sotto un arco poi s’entra, ove misture
di bel musaico ingannan l’occhio molto.
Quindi si va in un quadro ch’ogni faccia
de le sue loggie ha lunga cento braccia.
72
La sua porta ha per sé ciascuna loggia,
e tra la porta e sé ciascuna ha un arco:
d’ampiezza pari son, ma varia foggia
fe’ d’ornamenti il mastro lor non parco.
Da ciascuno arco s’entra, ove si poggia
sì facil, ch’un somier vi può gir carco.
Un altro arco di su truova ogni scala;
e s’entra per ogni arco in una sala.
73
Li archi di sopra escono fuor del segno
tanto, che fan coperchio alle gran porte;
e ciascun due colonne ha per sostegno,
altre di bronzo, altre di pietra forte.
Lungo serà, se tutti vi disegno
li ornati alloggiamenti de la corte;
et oltra quel ch’appar, quanti agi sotto
la cava terra il mastro havea ridotto.
74
L’alte colonne e’ capitelli d’oro,
da che i gemmati palchi eran suffulti,
li peregrini marmi che vi fôro
da dotta mano in varie forme sculti,
pitture e getti, e tanto altro lavoro
(ben che la notte a gli occhi il più n’occulti),
mostran che non bastaro a tanta mole
di dui Re insieme le ricchezze sole.
75
Sopra li altri ornamenti e ricchi e belli,
ch’erano molti in la gioconda stanza,
v’era una fonte che per più ruscelli
spargea freschissime acque in abondanza.
Poste le mense havean quivi i donzelli;
ch’era nel mezo per ugual distanza:
vedeva, e parimente veduta era
da quattro porte de la casa altiera.
76
Fatta da mastro diligente e dotto
la fonte era con molta e suttil opra,
di loggia a guisa o padiglion, ch’in otto
faccie distinto, intorno adombri e copra.
Un ciel d’oro, che tutto era di sotto
colorito di smalto, le sta sopra;
et otto statue son di marmo bianco,
che sostengon quel ciel col braccio manco.
77
Ne la man destra il corno de Amalthea
havea lor sculto il glorïoso mastro,
onde con grato murmure cadea
l’acqua di fuore in vaso d’alabastro.
Ridutto a forma di gran donne havea
el provido scultore ogni pilastro:
d’habito sono e faccia differente,
ma gratia hanno e beltà tutte ugualmente.
78
Fermava il piè ciascun di questi segni
sopra due belle imagini più basse,
che con la bocca aperta facean segni
ch’el canto e l’harmonia lor dilettasse;
e quel atto in che son, par che disegni
che l’opra e studio lor tutto lodasse
le belle donne che su l’homeri hanno,
se fusser quei di ch’in sembianza stanno.
79
Li simulacri inferïori in mano
havean lunghe et amplissime scritture,
dove facean con molta laude piano
li nomi de le più degne figure;
e mostravano anchor poco lontano
li propri loro in note non oscure.
Mirò Rinaldo a lume de doppieri
le donne ad una ad una e i cavallieri.
80
La prima inscrittïon ch’a gli occhi occorre,
con lungo honor Lucretia Borgia noma,
la cui bellezza et honestà preporre
debbe alla antiqua la sua patria Roma.
Li dui che voluto han sopra sé tuorre
tanto excellente et honorata soma
nomava il scritto: Antonio Thebaldeo
et Hercol Strozza; un Lino et uno Orpheo.
81
Non men gioconda statua né men bella
si vede appresso; il sottoscritto dice:
– Ecco la figlia d’Hercole, Issabella,
per cui Ferrara si terrà felice
via più, perché in lei nata serà quella,
che d’altro ben che prospera e fautrice
e benigna Fortuna dar le deve,
volgendo li anni nel suo corso lieve. –
82
Li dui che mostran disïosi affetti
che la gloria di lei sempre risuone,
Gian Iacobi ugualmente erano detti,
l’uno Calandra e l’altro Bardelone.
Nel terzo e quarto luoco, ove per stretti
rivi l’acqua esce fuor del padiglione,
due donne son, che patria, stirpe, honore
hanno di par, di par beltà e valore.
83
Helissabetta l’una, e Leonora
nominata era l’altra: e fia, per quanto
narrava il sculto marmo, d’esse anchora
sì glorïosa la terra di Manto,
che di Vergilio, che tanto l’honora,
più che di queste non si darà vanto.
Havea la prima a piè del sacro lembo
Iacobo Sadoletto e Pietro Bembo.
84
Uno elegante Castiglione e un culto
Mutio Arelio de l’altra eran sostegni.
Di questi nomi era il bel marmo sculto,
ignoti alhora, hor sì famosi e degni.
Veggion poi quella a chi dal cielo indulto
tanta virtù serà, quanta ne regni
o mai regnata in alcun tempo sia,
versata da Fortuna hor buona hor ria.
85
Il scritto d’oro esser costei dichiara
Lucretia Bentivoglia; e fra le lode
pone di lei, ch’el duca di Ferrara
d’esserle padre si rallegra e gode.
Di costei canta con suave e chiara
voce un Camil, che ’l Rheno e Felsina ode
con quella attentïon, con quel stupore,
che solea Amphryso udir già il suo pastore;
86
et un per cui la terra, ove l’Isauro
le sue dolci acque insala in maggior vase,
nominata serà da l’Indo al Mauro,
e da l’Austrine al’Hyperboree case,
via più che per pesare il Romano auro,
di che perpetuo nome le rimase:
Guido Posthumo, a cui doppia corona
Pallade quinci, e quindi Phebo dona.
87
L’altra che segue in l’ordine è Dïana.
– Non guardar – dice il marmo scritto – ch’ella
sia altiera in vista; che nel core humana
non serà perhò men ch’in viso bella. –
El dotto Celio Calcagnin lontana
farà la gloria e il bel nome di quella
nel regno di Monese e in quel di Iuba,
in India, in Spagna udir con chiara Tuba;
88
et un Marco Caval, che maggior fonte
farà di poesia nascer d’Ancona
ch’el Gorgoneo caval non fe’ del monte,
non so se di Parnasso o di Helicona.
Beatrice appresso a questa alza la fronte,
così par ch’ivi l’ordine la pona;
Beatrice che beato il suo consorte
farà, vivendo, e misero alla morte;
89
anzi tutta l’Italia, che con lei
fia triomphante, e senza lei captiva.
Un signor di Coreggio di costei
con alto stil par che cantando scriva,
e Timotheo, l’honor de’ Bendedei:
ambi faran tra l’una e l’altra riva
fermar al suon de’ lor suavi plettri
il fiume ove sudâr li antiqui elettri.
90
Tra questo luoco e quel de la colonna
che fu sculpita in Borgia, come è detto,
formata in l’alabastro una gran donna
era di tanto e sì sublime aspetto,
che sotto puro velo in nera gonna,
senza oro e gemme in un vestire schietto,
tra le più adorne non parea men bella
che sia tra l’altre la Cyprigna stella.
91
Non si potea, ben contemplando fiso,
connoscer se più gratia o più beltade,
o maggior maestà fusse nel viso,
o più indicio d’ingegno o d’honestade.
– Chi vorrà di costei (dicea l’inciso
marmo) parlar quanto parlar n’accade,
ben torrà impresa più d’ogn’altra degna;
ma non perhò ch’a fin mai se ne venga. –
92
Dolce quantunque e pien di gratia tanto
fusse il suo bello e ben formato segno,
parea sdegnarsi che con humil canto
ardisce lei lodar sì rozo ingegno,
come era quel che sol, senz’altri a canto
(non so perché), le fu fatto sostegno.
De tutto ’l resto erano i nomi sculti;
sol questi dui l’artifice havea occulti.
93
Fanno le statue in mezo un luoco tondo,
ch’el pavimento asciutto ha di corallo,
di freddo suavissimo giocondo,
reso dal puro e liquido crystallo
che di fuor cade in un canal fecondo,
che ’l prato verde, azzurro, bianco e giallo
rigando, scorre per vari ruscelli,
grato alle morbide herbe e a gli arbuscelli.
94
Col cortese hoste ragionando stava
el Paladino a mensa; e spesso spesso,
senza più differir, gli racordava
che li attendesse quanto havea promesso:
e ad hor ad hor mirandolo, osservava
c’havea di grande affanno il cor oppresso;
che non può star momento che non habbia
un cocente sospiro in su le labbia.
95
Spesso la voce dal desio cacciata
viene a Rinaldo sin presso alla bocca
per dimandarlo; e quivi, raffrenata
da gran modestia, nel uscir s’incocca.
Hora essendo la cena terminata,
ecco un donzello, a chi l’ufficio tocca,
pon su la mensa un bel nappo d’or fino,
di fuor di gemme, e drento pien di vino.
96
Il signor de la casa allhora alquanto
sorridendo, a Rinaldo levò il viso;
ma chi ben lo notava, più di pianto
parea che havesse voglia che di riso.
Disse: – Hora a quel che mi racordi tanto,
che tempo sia de sodisfar m’è aviso;
mostrarti un paragon ch’esser de’ grato
di veder a ciascun c’ha moglie allato.
97
Ciascun marito, a mio giudicio, deve
sempre spiar se la sua donna l’ama;
saper s’honor o biasmo ne riceve,
se per lei bestia, o se pur uomo se chiama.
L’incarco de le corna è lo più lieve
ch’al mondo sia, se ben l’huom tanto infama:
lo vede quasi tutta l’altra gente;
e chi l’ha in capo, mai non se lo sente.
98
Se tu sai che fedel la moglie sia,
hai di più amarla et reverir ragione,
che non ha quel che la connosce ria,
o quel che ne sta in dubbio e in passïone.
Di molte n’hanno a torto gelosia
li lor mariti, che son caste et buone;
molti di molte ancho sicuri stanno,
che con le corna in capo se ne vanno.
99
Se vuoi saper se la tua sia pudica,
com’io credo che credi, et creder déi;
ch’altrimente far credere è fatica,
se chiaro già per prova non ne sei;
tu per te stesso, senza ch’altri il dica,
te ne avedrai, s’in questo vaso béi;
che per altra cagion non è qui messo,
che per mostrarte quanto t’ho promesso.
100
Se béi con questo, vedrai grande effetto;
che se porti il cimier di Cornovaglia,
il vin te spargerai tutto su ’l petto,
né gocciola sarà che in bocca saglia;
ma s’hai moglie fedel, tu berrai netto.
Hor di veder tua sorte ti travaglia. –
Così dicendo, per mirar tien li occhi
ch’in seno il vin Rinaldo si trabbocchi.
101
Quasi Rinaldo di cercar suaso
quel che poi ritrovar non vorria forse,
messa la mano inanzi, e preso il vaso,
fu presso di volerlo a bocca porse:
poi, quanto fosse periglioso il caso
di far tal prova, col pensier discorse.
Ma lasciate, Signor, ch’io mi ripose;
poi dirò quel ch’el paladin rispose.